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Articolo 646 Codice Penale

(R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)

[Aggiornato al 02/10/2024]

Appropriazione indebita

Dispositivo dell'art. 646 Codice Penale

Chiunque(1), per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto(2), si appropria il denaro o la cosa mobile altrui(3) di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso(4), è punito, a querela della persona offesa [120], con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000(5)(6)(9).

Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario [1783-1797], la pena è aumentata(7).

[Si procede d'ufficio, se ricorre la circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate nel numero 11 dell'articolo 61.](8)

Note

(1) Tra i soggetti attivi non rientra il proprietario della cosa, stante il requisito dell'altruità, tuttavia invece posso essere considerati tali i comproprietari, i compossessori, i coeredi e i soci.
(2) Al pari del furto, anche per l'appropriazione indebita la dottrina maggioritaria ritiene che il profitto si debba considerare di natura esclusivamente patrimoniale, anche se non mancano opinioni minoritarie che lo considerano anche se extra patrimoniale.
(3) L'appropriazione consiste in una interversio possessionis ovvero in un cambiamento del comportamento del soggetto attivo che mostra in modo inequivoco di trattare la cosa come propria, atti tradizionalmente identificati nella consumazione, alienazione, ritenzione e distrazione della cosa.
(4) Il possesso rappresenta l'elemento che differenzia la fattispecie in esame dal reato di furto (v. 624) o appropriazione indebita con riferimento al c.d. possesso sprangato, cioè quello che si costituisce sopra una cosa mobile contenuta in un involucro chiuso. La prevalente giurisprudenza distingue a seconda che l'agente si sia appropriato dell'involucro (il c.d. contenente) o del suo contenuto ritenendo sussistente l'appropriazione indebita nel prima caso, il furto nel secondo, ovvero entrambi i reati qualora l'agente si impossessi sia dell'uno che dell'altro. La dottrina, invece, propende per l'individuazione, in ogni caso, del reato di appropriazione indebita in base alla considerazione che l'affidamento del contenente comporta anche l'affidamento del contenuto.
(5) Un punto controverso è rappresentato dalla c.d. appropriazione d'uso che ricorre quando la cosa sia utilizzata dall'agente in modo non conforme al titolo del possesso. La dottrina maggioritaria propende per non considerarla punibile secondo quanto prevede il delitto in esame, sulla base della considerazione che mentre il legislatore ha espressamente previsto il furto d'uso (v. 626, n. 1) non ha previsto un'analoga disposizione in tema di appropriazione indebita.
(6) Tale disposizione è stata modificata dall'art. 1 comma 1 lett. u) della L. 9 gennaio 2019 n. 3.
(7) Si tratta di una circostanza aggravante la cui ratio va ricercata nella maggiore riprovazione che suscita il fatto di aver approfittato di un possesso derivante da una situazione di necessità, che quindi ha comportato un'impossibilità di presciegliere il depositario.
(8) Comma abrogato dall'art. 10, D.Lgs. 10 maggio 2018, n. 36 con decorrenza dal 9 maggio 2018.
(9) La Corte costituzionale, con sentenza 21 febbraio 2024, n. 46 (in G.U. 27/03/2024 n. 13) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni».

Ratio Legis

La ratio giustificatrice di tale disposizione non è pacificamente individuata in dottrina. Alcuni infatti ritengono venga tutelato il diritto di proprietà, mentre altri propendono per l'infedeltà patrimoniale.

Spiegazione dell'art. 646 Codice Penale

Esso è un reato plurioffensivo, nel senso che ad essere leso dalla condotta non è solamente il diritto di proprietà, ma anche il rapporto fiduciario tra proprietario e soggetto sul quale incombe l'obbligo di restituire la cosa posseduta, realizzandosi una condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede e da cui deriva un'estromissione totale del bene dal patrimonio

In seguito a vari contrasti giurisprudenziali, sembra ormai pacifica la parificazione tra condotte di distrazione (ovvero imprimere alla cosa una destinazione differente da quella prevista) ed appropriazione, dato che quest'ultimo elemento ingloba anche la distrazione, dato che il fatto di destinare impropriamente una cosa ad un utilizzo diverso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari.

L'appropriazione è infatti quel comportamento uti dominus, destinato a materializzarsi in atti incompatibili con il titolo per cui si possiede, in modo da realizzare una vera e propria interversio possessionis, e quindi interrompere illecitamente la relazione funzionale tra la cosa e il suo legittimo proprietario.

Presupposto della condotta è innanzitutto quindi il possesso o la disponibilità della cosa, dove con tale ultimo termine si rende configurabile l'appropriazione indebita anche in casi di possesso mediato, in cui l'agente dispone della cosa per mezzo della detenzione di altri, in modo che comunque l'agente possa tornare a detenere in qualsiasi momento.

Altro presupposto è l'esistenza di una relazione funzionale tra la cosa e l'agente, con la precisazione che, nel caso in cui soggetto attivo sia un pubblico ufficiale, qualora la cosa sia a disposizione dell'ufficio e non direttamente ed esclusivamente del soggetto agente, ricorrerà l'aggravante dell'abuso di relazioni d'ufficio.

Ultimo requisito è l'altruità della cosa (denaro a altra cosa mobile altrui).

Il reato si consuma nel momento in cui ci si appropria della cosa.

Il secondo comma disciplina una circostanza aggravante specifica, qualora la cosa posseduta sia custodita a titolo di deposito necessario. L'aumento di pena si giustifica con il fatto che la persona offesa è stata costretta a ricorrere al depositario per via di situazioni contingenti, e quest'ultimo ne ha approfittato per appropriarsi indebitamente della cosa.

///SPIEGAZIONE ESTESA

La norma in esame punisce chi, trovandosi, per qualsiasi titolo, in possesso del denaro o di una cosa mobile altrui, se ne appropri al fine di ottenere, per sé o per altri un ingiusto profitto.

Il fatto che la lettera dell’art. 646 del c.p. richieda espressamente che l’agente sia già in possesso, a qualsiasi titolo, del denaro o della cosa mobile altrui su cui si esplica la condotta criminosa, fa si che il delitto di appropriazione indebita si differenzi sia dalla truffa, ex art. 640 del c.p., in cui il reo acquista il possesso della cosa mobile altrui mediante artifici o raggiri, sia dal furto, ex art. 624 del c.p., in cui l’agente acquista il possesso della cosa soltanto attraverso il compimento del delitto, sia dalla rapina, ex art. 628 del c.p., in quanto, in questo caso, l’impossessamento della cosa mobile altrui avviene mediante violenza o minaccia, sia, infine, dall’estorsione, ex art. 629 del c.p., in cui l’agente consegue un ingiusto profitto, costringendo qualcuno a fare o ad omettere qualcosa, mediante violenza o minaccia.

Il titolo a cui accenna il legislatore va inteso facendo riferimento ad un qualsiasi titolo avente carattere derivativo, e non, quindi, originario, il quale, inoltre, non sia né penalmente illecito, né traslativo della proprietà.

La condotta tipica consiste nell’appropriarsi dell’altrui denaro o cosa mobile di cui si abbia già, a qualsiasi titolo, il possesso. Ciò significa che l’agente deve porre in essere, sulla cosa mobile altrui che possiede legittimamente, degli atti che corrispondano a dei poteri superiori a quelli a lui concessi dal titolo del suo possesso, i quali possono spettare soltanto al proprietario.

Appare, quindi, chiaramente come l’elemento essenziale di tale fattispecie criminosa sia costituito dal mutamento dell’animus con cui l’agente si rapporta alla cosa altrui in suo possesso, il quale si realizza attraverso comportamenti propri del solo proprietario. Tali comportamenti possono, innanzitutto, consistere in atti di disposizione con cui l’agente, ad esempio, distrugga, deteriori, disperda, alieni o distragga il bene altrui. Si può, però, trattare anche di atti di godimento o di uso indebiti, i quali, cioè, siano posti in essere oltrepassando i limiti segnati dal titolo del possesso. Difatti, anche usare arbitrariamente una res altrui significa comportarsi verso di essa come se fosse propria.

Si esclude, tuttavia, che si possa ritenere configurata la fattispecie in esame nei confronti del soggetto che trattenga la cosa altrui con la precisa intenzione di restituirla, nemmeno se, successivamente, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, egli si venga a trovare nelle condizioni di non poterla restituire.

In ogni caso la condotta deve essere illegittima, ossia posta in essere dall’agente senza averne diritto. Si deve, pertanto, escludere la configurabilità del delitto di appropriazione indebita qualora il soggetto attivo agisca esercitando un suo diritto, nonché nel caso in cui sussista il consenso dell’avente diritto.

L’oggetto materiale del reato è costituito dal denaro o dalla cosa mobile altrui che l’agente possiede legittimamente, a qualsiasi titolo. Non occorre, quindi, che la cosa mobile sia affidata o consegnata all’agente, essendo sufficiente che questo la possieda legittimamente, per qualsiasi causa.

L’evento tipico è rappresentato dalla nascita di una nuova relazione tra la cosa mobile altrui e l’agente, il quale la fa entrare nel suo dominio, disponendone come se fosse il suo proprietario. Da ciò deriva che il delitto di appropriazione indebita si considera consumato nel momento in cui si verifica l’inversione del titolo del possesso, ossia l’appropriazione del denaro o della cosa mobile altrui da parte dell’agente che ne aveva, sin da prima, il legittimo possesso. Per la consumazione del delitto in esame non è, quindi, necessario l’effettivo conseguimento di un profitto.

Si tratta di un delitto istantaneo, il quale ammette il tentativo in relazione alle particolari modalità del fatto.

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, ai fini della sussistenza del delitto in esame, è necessario che sussista, in capo all’agente, il dolo specifico, quale coscienza e volontà di appropriarsi illegittimamente del denaro o di un’altra cosa mobile altrui posseduta, con l’intenzione di procurare, a sé o ad altri, un ingiusto profitto.

Ai sensi del secondo comma, il delitto di appropriazione indebita risulta aggravato qualora il fatto sia commesso su cose possedute dall’agente a titolo di deposito necessario. Il “deposito necessario” è quello a cui un soggetto è costretto a ricorrere a causa di un qualche avvenimento quale, ad esempio, un incendio o un saccheggio.
La ratio di tale previsione risiede, quindi, nell’impossibilità di scegliere con cautela il depositario.
Considerato che la lettera della norma fa espressamente riferimento al solo deposito necessario, si deve escludere che possa derivare un’efficacia aggravante da un’altra tipologia di deposito.

///FINE SPIEGAZIONE ESTESA

Massime relative all'art. 646 Codice Penale

Cass. pen. n. 42482/2023

In tema di appropriazione indebita, il mancato ritiro presso l'ufficio postale della raccomandata con cui l'azienda comunica la volontà di rientrare nel possesso del bene aziendale affidato al dipendente può costituire elemento di prova della consapevolezza dell'imputato dell'obbligo di restituzione, a condizione che ricorrano altri indici dimostrativi di tale conoscenza.

Cass. pen. n. 19949/2023

Integra il delitto di furto, e non quello di appropriazione indebita, la condotta di asportazione delle porte, degli infissi e di altri complementi architettonici posta in essere dal proprietario di un immobile oggetto di provvedimento definitivo di confisca, non avendo il predetto il potere di fruire e di disporre del bene in modo autonomo, al di fuori dei poteri di vigilanza e controllo dell'ente che vi esercita la signoria.

Cass. pen. n. 27884/2022

In tema di appropriazione indebita, non può essere eccepita, al fine di esonero da responsabilità, la compensazione con un credito preesistente, ove questo non sia certo, liquido ed esigibile.

Cass. pen. n. 46875/2021

Risponde del reato di appropriazione indebita l'amministratore di più condomìni che, senza autorizzazione, faccia confluire i saldi dei conti attivi dei singoli condomìni su un unico conto di gestione a lui intestato, senza che rilevi la destinazione finale del saldo cumulativo ad esigenze personali dell'amministratore o dei condomìni amministrati, in quanto tale condotta comporta di per sé la violazione del vincolo di destinazione impresso al denaro al momento del suo conferimento.

Cass. pen. n. 11323/2021

Nel caso di appropriazione indebita di somme di denaro relative ad un condominio da parte dell'amministratore, il reato si consuma all'atto della cessazione della carica, sicché la circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 7, cod. pen. deve essere valutata con riferimento all'unicità del danno subito dal condominio, a prescindere dai singoli segmenti di condotta progressivamente posti in essere.

Cass. pen. n. 15735/2020

Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l'agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione.

Cass. pen. n. 39396/2019

Integra il delitto di appropriazione indebita la condotta del "broker" assicurativo che, nella sua qualità ed autorizzato all'incasso, si sia appropriato delle somme percepite quali premi per polizze assicurative.

Cass. pen. n. 29632/2019

Non sussiste un rapporto di specialità tra la fattispecie penalmente rilevante di appropriazione di somme ricevute a titolo di imposta di soggiorno da parte di operatori commerciali che esercitano attività alberghiere e ricettive – nella specie, contestata ai sensi dell'art. 646 cod. pen. e riqualificata dalla Corte nell'ipotesi prevista dall'art. 314 cod. pen. - e quella di mancato versamento all'amministrazione comunale dei medesimi importi, sanzionata in via amministrativa – nella specie, da un regolamento comunale -, poiché l'illecito amministrativo concerne il solo dato dell'omesso versamento di tali somme, onde non trova applicazione il principio di cui all'art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 681, in mancanza del presupposto costituito dall'identità del fatto. (In motivazione la Corte ha, altresì, precisato che il sistema delle sanzioni amministrative non consente a fonti regolamentari di rendere penalmente irrilevanti fatti sanzionati da norme di rango superiore).

Cass. pen. n. 21700/2019

A seguito della modifica del regime di procedibilità per i delitti di cui agli artt. 640 e 646 cod. pen., introdotta dal d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, nei procedimenti in corso per il delitto di appropriazione indebita aggravata ex art. 61, n. 11 cod. pen., l'intervenuta remissione della querela comporta l'obbligo di dichiarare la non procedibilità ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., ove non ricorrano altre circostanze aggravanti ad effetto speciale. (In motivazione la Corte ha richiamato la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, da cui discende la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti).

Cass. pen. n. 19846/2019

Integra un unico reato di appropriazione indebita la mancata restituzione alla persona offesa di due mezzi presi a noleggio con un unico contratto, che preveda per entrambi la stessa data di scadenza. (In motivazione, la Corte ha evidenziato l'irrilevanza dei differenti momenti nei quali l'imputato aveva asportato i mezzi dal fondo sul quale erano detenuti, atteso che la condotta tipica del reato si era consumata con la mancata restituzione dei beni alla scadenza e la conseguente interversione del possesso di quanto in precedenza legittimamente detenuto).

Cass. pen. n. 7568/2019

Integra il delitto di appropriazione indebita e non la fattispecie - ora depenalizzata - di sottrazione di cose comuni, la condotta di colui che faccia propria la cosa mobile di cui sia già possessore, pur se a titolo di compossesso "pro indiviso", non essendo possibile configurare una "sottrazione" da parte di chi si trovi, anche se solo "pro quota", in possesso del bene. (In attuazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che l'impossessamento, da parte dell'imputato, di un supporto DAT contenente il "back-up" dei dati relativi, in parte, alla propria attività professionale ed, in parte, a quella di terzi, integrasse il delitto di cui all'art. 646 cod. pen., salvo che non risultasse provato un diverso accordo, espresso o tacito, con gli altri titolari dei dati).

Cass. pen. n. 6998/2019

Nel caso di noleggio di breve durata, allo scadere del termine si configura un obbligo di restituzione tempestiva che, ove non adempiuto in assenza di giustificazioni, si configurata quale "interversio possessionis" ai sensi dell'art. 646 cod. pen., anche in assenza di una richiesta di restituzione del noleggiatore.

Cass. pen. n. 56344/2018

Il reato di appropriazione indebita si consuma nel luogo e nel tempo in cui la manifestazione della volontà dell'agente di fare proprio il bene posseduto giunge a conoscenza della persona offesa, e non nel tempo e nel luogo in cui si compie l'azione. (Fattispecie in tema di obbligo di restituzione derivante da contratto di deposito di somme di denaro, nella quale la Corte ha ritenuto esattamente determinata la competenza territoriale del tribunale del luogo ove le somme avrebbero dovuto essere restituite, coincidente nella specie con il domicilio del depositante, anziché presso il luogo in cui l'agente aveva ricevuto la richiesta di restituzione e si era determinato a mutare il titolo del possesso).

Cass. pen. n. 53373/2018

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'intestatario fiduciario di quote societarie che non ottemperi all'obbligo di ritrasferirle al fiduciante alla scadenza convenuta, in quanto il fiduciario ha la proprietà effettiva dei beni e non la mera detenzione ed inoltre le quote societarie, in quanto beni immateriali, non rientrano nella nozione penalistica di cosa mobile, così come definita dall'art. 624, comma secondo, cod. pen.

Cass. pen. n. 44244/2018

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta del "tour operator" che, avendo concluso con il proprietario di strutture ricettive un contratto atipico di "allotment" - con cui gli è stato conferito il mandato di gestire i rapporti con clienti, incassare il corrispettivo dei servizi forniti e trasferirlo alla proprietà, detraendo la commissione pattuita - trattenga per intero le somme riscosse.

Cass. pen. n. 54945/2017

Integra il delitto di appropriazione indebita la condotta del promissario venditore che, in esecuzione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, si impossessa dell'importo corrisposto a titolo di "deposito cauzionale infruttifero" e non come acconto sul prezzo o come caparra confirmatoria. (In applicazione del principio la S.C. ha ritenuto immune da vizi la sentenza impugnata con la quale i giudici di merito avevano configurato il reato in questione, valorizzando il fatto che il contratto preliminare prevedeva che l'importo versato all'alienante sarebbe stato imputato a titolo di corrispettivo della vendita solo in sede di rogito, per cui, fino a quel momento, il denaro non era entrato nel patrimonio dell'"accipiens").

Cass. pen. n. 49489/2017

Integra il reato di appropriazione indebita, ai sensi dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., la condotta dell'amministratore di società di capitali che non abbia impedito la distrazione di somme del patrimonio sociale a favore di terzi che non risultino titolari di diritti di credito ovvero che non abbiano effettuato alcuna prestazione a vantaggio della società.

Cass. pen. n. 40870/2017

Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, e cioè nel momento in cui l'agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria. (Nella specie, la Corte ha ritenuto consumato il delitto di appropriazione indebita delle somme relative al condominio, introitate a seguito di rendiconti, da parte di colui che ne era stato amministratore, all'atto della cessazione della carica, momento in cui, in mancanza di restituzione dell'importo delle somme ricevute nel corso della gestione, si verifica con certezza l'interversione del possesso).

Cass. pen. n. 36113/2017

Non è configurabile la circostanza aggravante dell'abuso di prestazione d'opera in relazione all'appropriazione indebita di un bene noleggiato, in quanto a tal fine deve sussistere un rapporto negoziale che sia caratterizzato dall'attività prestata da un soggetto a favore dell'altro e in ragione del quale si crei fra le parti un rapporto di fiducia che abbia facilitato la commissione del reato.

Cass. pen. n. 15815/2017

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta del promissario venditore che a seguito della risoluzione del contratto preliminare per l'acquisto di un immobile, non restituisca al promissario acquirente la somma ricevuta a titolo di acconto sul prezzo pattuito. (In motivazione, la S.C. ha precisato che a seguito della dazione, la somma di denaro è entrata definitivamente a far parte del patrimonio dell'"accipiens" senza alcun vincolo di impiego, con la conseguenza che nel caso di in cui il contratto venga meno tra le parti matura solo un obbligo di restituzione che, ove non adempiuto, integra esclusivamente un inadempimento di natura civilistica).

Cass. pen. n. 15788/2017

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta di colui che trattenga un bene altrui legittimamente detenuto in ragione di un pregresso rapporto obbligatorio, a meno che egli non compia sulla cosa atti di disposizione che rivelino l'intenzione di convertire il possesso in proprietà. (Nella fattispecie, la S.C. ha censurato la sentenza di condanna per appropriazione indebita in relazione alla condotta dell'imputata che all'atto delle dimissioni non aveva restituito le chiavi dei condomini presso cui aveva eseguito i lavori di pulizia, osservando come la Corte territoriale non avesse motivato in merito alla sussistenza dell'intenzione dell'imputata di fare proprie le chiavi).

Cass. pen. n. 44650/2015

Il reato di appropriazione indebita può sussistere sia nel caso in cui l'agente dia alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e con le ragioni del suo possesso sia nel caso in cui egli ometta deliberatamente di restituire la cosa, giacchè in entrambe le ipotesi è manifesta la sua volontà di affermare un dominio sulla cosa posseduta (Nella fattispecie il titolare di una officina meccanica aveva utilizzato una vettura consegnatagli per la riparazione quale auto di cortesia per i propri clienti).

Cass. pen. n. 18457/2015

Il dipendente di Poste Italiane S.p.A. che svolga attività di tipo bancario (cosiddetto "bancoposta") non riveste la qualità di persona incaricata di pubblico servizio; con la conseguenza che l'appropriazione di somme dei risparmiatori commessa con abuso del ruolo integra il reato di appropriazione indebita e non quello di peculato. (In motivazione, la Corte ha osservato che la natura privatistica dell'attività di raccolta del risparmio non è esclusa per il fatto che Poste S.p.A. operi per conto della Cassa Depositi e Prestiti, essendo quest'ultima equiparabile ad un comune azionista che non interviene personalmente nei rapporti con la clientela, regolati esclusivamente dal diritto civile).

Cass. pen. n. 12077/2015

In tema di appropriazione indebita, la omessa restituzione della cosa alla controparte che ne ha fatto richiesta in pendenza di un rapporto contrattuale non integra, di per sé, il reato di cui all'art. 646 cod. pen. in quanto non modifica il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione "uti dominus" e l'intenzione soggettiva di interversione del possesso, ma si riflette in un inadempimento di esclusiva rilevanza civilistica. (Fattispecie relativa ad un meccanico, che, ricevuto in consegna un ciclomotore per procedere alle necessarie riparazioni, non vi provvedeva, nonostante le sollecitazioni del proprietario, rendendosi irreperibile e lasciando il mezzo quasi completamente smontato nell'officina).

Cass. pen. n. 5362/2015

Risponde del delitto di appropriazione indebita il socio che, una volta iscritti gli utili al bilancio e che questo sia stato approvato, prelevi, appropriandosene, le somme spettanti, sulla base del rapporto societario, ad altro socio sia esso di diritto o di fatto.

Cass. pen. n. 1670/2015

Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l'agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione.

Cass. pen. n. 47105/2014

Commette il delitto di appropriazione indebita colui che, accedendo abusivamente in un sistema informatico, si procura i dati bancari di una società riproducendoli su un supporto cartaceo, in quanto, se "il dato bancario" costituisce bene immateriale insuscettibile di detenzione fisica, l'entità materiale su cui tali dati sono trasfusi ed incorporati attraverso la stampa del contenuto del sito di "home banking" acquisisce il valore di questi, assumendo la natura di documento originale e non di mera copia.

Cass. pen. n. 46062/2014

La mancata restituzione di "warranty bond", di cui si è acquisita la disponibilità a titolo di garanzia della corretta esecuzione del contratto, in ordine alla quale vi sia contestazione tra le parti, non integra il reato di appropriazione indebita, per difetto dell'altruità dei supporti cartacei rappresentativi della garanzia. (La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla ricorrenza del "fumus commissi delicti" per l'emissione del decreto di sequestro preventivo, ha rilevato che nella specie il possesso dei warranty bond non condizionava il diritto alla riscossione della somma garantita, che poteva essere escussa anche in assenza della materiale disponibilità dei supporti cartacei).

Cass. pen. n. 36030/2014

Non integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore di una società che dispone in bilancio accantonamenti a titolo di compenso, ancora non determinato, nel suo ammontare, per l'attività svolta in tale qualità, in quanto l'atto compiuto non è volto al conseguimento di un ingiusto profitto o di un vantaggio che si ponga come "danno patrimoniale" cagionato alla società, bensì ad assicurare il soddisfacimento di un diritto soggettivo perfetto.

Cass. pen. n. 6603/2014

Risponde di appropriazione indebita e non di truffa il direttore di un istituto bancario, che, in collusione con un cliente ed omettendo i doverosi controlli interni, metta a disposizione dello stesso somme di denaro, accreditando sul di lui conto o pagando direttamente assegni privi di provvista. (In motivazione la Corte ha evidenziato che la qualità di direttore consente all'agente un'ampia e materiale disponibilità delle somme depositate in banca, rispetto alle quali, con l'attribuzione diretta o l'accreditamento al terzo, egli si comporta "uti dominus").

Cass. pen. n. 5809/2014

Nell'ambito di un contratto di locazione finanziaria o di vendita con riserva di proprietà, fino a quando non si verifica il totale pagamento del prezzo, il locatario o il compratore hanno soltanto il possesso delle cose locate o acquistate, delle quali non possono disporre "uti dominus", senza una illecita inversione del titolo del possesso e la conseguente responsabilità per il reato di appropriazione indebita.

Cass. pen. n. 5643/2014

Integra il delitto di cui all'art. 646 cod. pen. la condotta del prenditore che ponga all'incasso un assegno bancario ricevuto in garanzia, appropriandosi della somma riscossa, in violazione dell'accordo concluso con l'emittente. (Fattispecie, nella quale la Corte ha escluso sotto il profilo dell'elemento soggettivo la sussistenza del reato di appropriazione indebita nella condotta dell'imputato che poneva all'incasso l'assegno ricevuto in garanzia, dopo che la contraente era venuta meno alla stipula del contratto definitivo che si era obbligata a stipulare).

Cass. pen. n. 50087/2013

Integra il delitto di appropriazione indebita aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio la condotta dell'amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro preventivo del denaro, oggetto dell'appropriazione, trattandosi di bene collegato all'attività delittuosa dell'indagato, ritenendo sussistente il "periculum in mora" consistito nella possibilità che se il denaro fosse stato restituito avrebbe potuto essere oggetto di nuove e definitive appropriazioni).

Cass. pen. n. 10991/2013

È configurabile la circostanza aggravante dell'abuso di prestazione d'opera in relazione all'appropriazione indebita di un bene noleggiato, in quanto il contratto di noleggio, siccome disciplinato dalla normativa sulla locazione, implica l'obbligazione, caratterizzante e non meramente accessoria o eventuale, di restituire la cosa locata in buono stato di manutenzione

Cass. pen. n. 9750/2013

Si applica l'aggravante del deposito necessario ex art. 646, secondo comma, cod. pen. in caso di deposito cui taluno è costretto da un evento eccezionale come un incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio o altro avvenimento non prevedibile. (Nella specie la Corte ha escluso che possa configurarsi l'aggravante e, quindi, la procedibilità d'ufficio del reato, nell'ipotesi di appropriazione da parte dell'imputato di autovetture custodite nell'autosalone di sua proprietà a seguito dell'arresto del gestore, il quale era stato costretto a riconsegnargli le chiavi, non essendo intercorso tra i due alcun contratto di deposito).

Cass. pen. n. 3332/2013

È configurabile il reato di appropriazione indebita nel caso in cui il dipendente di un istituto bancario, assumendo arbitrariamente i poteri dell'organo di amministrazione competente ad autorizzare il superamento dei limiti del fido o della provvista del conto corrente di corrispondenza, abbia concesso un fido ad un cliente violando, in collusione con lo stesso, le norme sugli affidamenti stabilite dagli istituti in modo da realizzare sostanzialmente un'arbitraria disposizione di beni della banca a profitto di terzi.

Cass. pen. n. 16362/2012

In tema di appropriazione indebita in danno di una società, il dolo specifico consistente nella finalità di procurarsi un ingiusto profitto attraverso condotte dispositive "uti dominus" del patrimonio sociale è incompatibile con il perseguimento (in via diretta o indiretta, o anche solo putativa) di un interesse societario da parte dell'agente.

Cass. pen. n. 11570/2012

Commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, in violazione del mandato a vendere, trattenga per sé definitivamente le cose affidategli per la vendita. (Fattispecie nella quale la Corte Suprema ha ritenuto sussistente anche la circostanza aggravante di cui all'art. 61, comma primo, n. 11, c.p., osservando che il mandato a vendere una cosa mobile fa nascere un rapporto di prestazione d'opera tra le parti, ed il mandatario approfitta della particolare fiducia in lui riposta dal mandante per appropriarsi del bene affidatogli con maggiore facilità).

Cass. pen. n. 4958/2012

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta del conduttore di un appartamento che asporti dall'immobile oggetto di locazione i relativi arredi, senza che, ai fini della sussistenza dell'illecito, sia necessaria la formale richiesta di restituzione da parte del locatore ma essendo sufficiente che a detti beni sia stata data dall'agente una diversa destinazione rispetto a quella originaria.

Cass. pen. n. 44942/2011

Integra il delitto di appropriazione indebita aggravato ai sensi dell'art. 61, comma primo, n. 11 c.p. - e non quello di furto - il dipendente di una banca che si impossessi dei beni contenuti in una cassetta di sicurezza, avendone ottenuto dal cliente la chiave, in quanto detta "traditio", a meno che non sia diversamente convenuto, riveste il significato di autorizzazione ad aprire la cassetta e, salvo prova contraria, a disporre, beninteso nell'interesse del titolare, del suo contenuto, di guisa che l'agente ha il possesso della cassetta e dei beni in essa custoditi.

Cass. pen. n. 37954/2011

Non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che, in caso di cessione di quota della retribuzione da parte del lavoratore, ometta di versarla al cessionario. (In motivazione, la Suprema Corte ha precisato che la regola dell'acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell'art. 646 c.p. Non potrà, pertanto, ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo).

Cass. pen. n. 29424/2011

Non integra il delitto di appropriazione indebita, ma un mero inadempimento di natura civilistica, la condotta di colui che ponga all'incasso un assegno datogli come anticipo del corrispettivo per la vendita di un bene, senza poi procedere alla consegna del bene medesimo all'acquirente.

Cass. pen. n. 25344/2011

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta della parte vincitrice di una causa civile che trattenga la somma liquidata in proprio favore dal giudice civile a titolo di refusione delle spese legali, rifiutando di consegnarla al proprio avvocato che la reclami come propria.

Cass. pen. n. 17295/2011

Non integra il delitto di appropriazione indebita il creditore che, a fronte dell'inadempimento del debitore, eserciti a fini di garanzia del credito il diritto di ritenzione sulla cosa di proprietà di quest'ultimo legittimamente detenuta in ragione del rapporto obbligatorio, a meno che egli non compia sul bene atti di disposizione che rivelino l'intenzione di convertire il possesso in proprietà.

Cass. pen. n. 13347/2011

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta consistente nella mera interversione del possesso, che sussiste anche nel caso di una detenzione qualificata, conseguente all'esercizio di un potere di fatto sulla cosa, al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ravvisato la condotta appropriativa nella ritenzione di un autoveicolo, utilizzato "uti dominus" nonostante la risoluzione del contratto di "leasing" e la richiesta di restituzione del bene).

Cass. pen. n. 42099/2010

Integra il delitto di appropriazione indebita la condotta del "broker" assicurativo che, nella sua qualità, si sia appropriato delle somme percepite quali premi per polizze assicurative.

Cass. pen. n. 41462/2010

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore condominiale che, ricevute le somme di denaro necessarie dai condomini, ometta di versare i contributi previdenziali per il servizio di portierato.

Cass. pen. n. 40119/2010

L'ingiusto profitto, per conseguire il quale è posta in essere la condotta di appropriazione indebita, non deve connotarsi necessariamente in senso patrimoniale, ben potendo essere di diversa natura.

Cass. pen. n. 37298/2010

Non sussiste il concorso formale dei reati di bancarotta fraudolenta ed appropriazione indebita (nella specie con riferimento a beni oggetto di locazione finanziaria), quando oltre ad esservi perfetta identità della cosa su cui si sono concentrate le rispettive attività criminose e simultaneità delle attività stesse, unica risulti la destinazione data dal soggetto attivo ai beni da lui appresi indebitamente, in quanto la condotta dell'apprensione di beni di cui il fallito abbia la disponibilità, pur essendo astrattamente riconducibile alle due distinte ipotesi delittuose in questione, ricade sotto la previsione dell'art. 84 c.p., con la conseguenza che il reato meno grave di appropriazione indebita è assorbito da quello di bancarotta fraudolenta.

Cass. pen. n. 15115/2010

Non integra il reato di appropriazione indebita, risolvendosi in un mero inadempimento civilistico, la condotta del datore di lavoro che omette di versare al terzo creditore del suo dipendente, somme all'uopo trattenute sulle retribuzioni spettanti al lavoratore (Nella specie, si trattava di quote associative spettanti al sindacato di categoria al quale erano iscritti i dipendenti dell'imputata).

Cass. pen. n. 47665/2009

Il reato di appropriazione indebita è integrato anche dal mero uso indebito di una "res", quando esso sia avvenuto eccedendo completamente i limiti del titolo in virtù del quale l'agente deteneva in custodia la stessa, di modo che l'atto compiuto comporti un impossessamento, sia pur temporaneo, del bene. (Nella specie è stato ravvisato il reato nella condotta di un gommista che - avendo ricevuto in custodia una autovettura Ferrari per la sostituzione dei pneumatici - la aveva in più occasioni usata per ragioni personali, fino a provocare un incidente stradale che aveva danneggiato gravemente l'autovettura).

Cass. pen. n. 41663/2009

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'esercente la professione forense che trattenga somme riscosse a nome e per conto del cliente ancorché egli sia, a sua volta, creditore di quest'ultimo per spese e competenze relative ad incarichi professionali espletati, salva la dimostrazione non solo dell'esistenza del credito, ma anche della sua esigibilità e del suo preciso ammontare.

Cass. pen. n. 40674/2009

Integra il reato di appropriazione indebita il compratore di una compravendita con patto di riservato dominio che, prima d'avere interamente pagato il corrispettivo, alieni la cosa acquistata.

Cass. pen. n. 27540/2009

Non sussiste il delitto di appropriazione indebita allorchè il titolo del possesso è tale da trasferire nel possessore la proprietà del bene. (Nella fattispecie, relativa a somma versata da benefattori su un conto bancario intestato ad un'associazione per la cura di un malato, la Corte ha ritenuto che il denaro - anche se in parte utilizzato per scopi diversi da quelli di destinazione - non fosse più di proprietà nè dei donatori nè del malato, nei cui confronti l'associazione rispondeva solo a titolo obbligatorio).

Cass. pen. n. 26820/2008

Integra il reato di appropriazione indebita il rifiuto del professionista (nella specie: patrocinante ) di restituire al cliente la documentazione ricevuta, in quanto costituisce un comportamento che eccede i limiti del titolo del possesso.

Cass. pen. n. 15879/2008

Le norme incriminatrici dell'infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.) e dell'appropriazione indebita (art. 646 c.p.) sono in rapporto di specialità reciproca. L'infedeltà patrimoniale tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell'attualità e dell'obiettiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto. L'appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (denaro o cosa mobile), che solo ne può essere oggetto, e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice vantaggio in luogo del profitto. L'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della « deminutio patrimonii» e dell'ingiusto profitto, ma esse differiscono per l'assenza nell'appropriazione indebita di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che invece connota l'infedeltà patrimoniale.

Cass. pen. n. 43029/2007

Integra la condotta del reato di appropriazione indebita il sottufficiale dell'Arma dei Carabinieri che ometta di restituire, al momento in cui è posto in forza assente per motivi di salute, i proiettili costituenti il munizionamento della pistola d'ordinanza.

Cass. pen. n. 36592/2007

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'intestatario fiduciario di quote di una società a responsabilità limitata che non ottemperi all'obbligo di ritrasferirle al fiduciante alla scadenza convenuta, in quanto il fiduciario ha la titolarità reale dei beni e le quote di una società, data la loro natura di bene immateriale, non rientrano nella nozione tipica di « cosa mobile» .

Cass. pen. n. 27595/2007

In tema di appropriazione indebita, la legittimazione alla proposizione della querela non presuppone l'accertamento della potestà dominicale sulle cose di cui si denuncia l'altrui impossessamento, essendo sufficiente la deduzione di un diritto di godimento. (Fattispecie in cui il locatore di un immobile, eseguita la sentenza di sfratto per morosità, aveva proposto querela nei confronti del conduttore per appropriazione indebita della mobilia di arredo).

Cass. pen. n. 26501/2007

Il delitto di appropriazione indebita, commesso dal funzionario di banca con la concessione di un credito extra-fido, non integra una fattispecie necessariamente plurisoggettiva perché i comportamenti del soggetto beneficiato, quali l'accensione del conto e la richiesta di fido, pur necessari per la consumazione del reato sono penalmente irrilevanti. (La Corte ha altresì osservato che il soggetto beneficiato, ordinariamente ignaro del preciso contenuto della discrezionalità del funzionario, non è di regola nelle condizioni di discernere il momento in cui la condotta di quest'ultimo abbandona l'interesse della banca e diviene condotta appropriativa).

Cass. pen. n. 15118/2007

Integra il delitto di appropriazione indebita la condotta del mediatore in una compravendita immobiliare che trattenga, a titolo di provvigione, prima che l'affare possa dirsi concluso con la stipulazione, necessariamente nella forma scritta, del contratto — anche preliminare — di compravendita, parte della somma di denaro datagli dal potenziale acquirente per la consegna, a titolo di caparra confirmatoria, al potenziale venditore.

Cass. pen. n. 17239/2006

È configurabile il reato di appropriazione indebita a carico del cointestatario di un conto corrente bancario il quale, pur se facoltizzato a compiere operazioni separatamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma in deposito in misura eccedente la quota parte da considerarsi di sua pertinenza, in base al criterio stabilito dagli artt. 1298 e 1854 c.c., secondo cui le parti di ciascun concreditore solidale si presumono, fino a prova contraria, uguali.

Cass. pen. n. 40921/2005

Le norme incriminatrici dell'infedeltà patrimoniale (2634 c.c.) e dell'appropriazione indebita (646 c.p.) sono in rapporto di specialità reciproca. L'infedeltà patrimoniale tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell'attualità e dell'obiettiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto. L'appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (denaro o cosa mobile), che solo ne può essere oggetto, e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice «vantaggio» in luogo del «profitto». L'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della deminutio patrimonii e dell'ingiusto profitto, ma esse differiscono per l'assenza nell'appropriazione indebita di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che invece connota l'infedeltà patrimoniale.

Cass. pen. n. 34327/2005

Avuto riguardo alla nozione oggettivistica della qualità di pubblico ufficiale, quale risultante dall'attuale formulazione dell'art. 357 c.p., introdotta dall'art. 17, legge 26 aprile 1990 n. 86, è da escludere che possa ritenersi investito di detta qualità il presidente del Consiglio di un Ordine forense con riguardo ad attività non istituzionale, quale deve ritenersi quella costituita, nella specie, dalla organizzazione, senza previa deliberazione dei competenti organi dell'ordine forense, di convegni di studio finanziati con accrediti degli interessati su conti correnti non iscritti in bilancio, pur se intestati al consiglio dell'ordine e gestiti, per la carica, dal solo presidente, nulla rilevando in contrario che detta attività apparisse svolta sotto l'egida del summenzionato Consiglio e con il consenso, di fatto, dei componenti del medesimo. (In applicazione di tale principio la Corte ha quindi escluso che, nel caso in esame, potesse costituire il reato di peculato la condotta consistita nell'essersi il presidente del Consiglio dell'Ordine appropriato della somme versate sui suddetti conti correnti, ravvisandosi invece il reato di appropriazione indebita aggravata in danno dello stesso consiglio dell'ordine, cui le somme dovevano comunque ritenersi appartenenti).

Cass. pen. n. 8764/2005

Non concretizza il reato di appropriazione indebita, nè, eventualmente quello di furto, la violazione dell'obbligo di custodia dei beni da parte dell'obbligato, in assenza della prova di comportamenti dolosamente preordinati a favorirne l'occultamento, l'appropriazione o l'impossessamento da parte di altri soggetti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la mera violazione dell'obbligo di custodia da parte dell'obbligato e dalla conseguente dispersione dei beni non discende la commissione del delitto di appropriazione indebita, ma, al più, una responsabilità contrattuale in capo al contravventore dell'obbligo convenzionalmente assunto, anche nell'ipotesi in cui terzi cagionino, a causa della negligenza dello stesso custode, la dispersione dei beni che dovrebbero essere conservati).

Cass. pen. n. 1327/2005

Il mancato versamento alla Cassa edile delle somme «trattenute» dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente per ferie, gratifiche natalizie e festività non integra il reato di appropriazione indebita, ma solo l'illecito amministrativo previsto dall'art. 13 del D.L.vo 19 dicembre 1994, n. 758.

Cass. pen. n. 49301/2004

L'art. 137, comma secondo, del D.L.vo 1 settembre 1993, n. 385, nel prevedere come illecito penale il falso interno del dipendente di una banca, funzionale alla concessione di un credito ad un terzo, configura un reato di pericolo, per la cui sussistenza non è necessario che il credito sia effettivamente concesso o che il patrimonio della banca sia depauperato. Ne deriva che, ove si verifichi quest'ultima ipotesi, deve ritenersi configurabile la diversa e più grave ipotesi dell'appropriazione indebita.

Cass. pen. n. 3924/2004

In tema di appropriazione indebita, ai fini della ricorrenza della circostanza aggravante comune della prestazione d'opera è sufficiente l'esistenza di qualsiasi rapporto, anche di mero fatto, da cui sia derivato, in capo all'agente, il possesso della cosa e che ne abbia consentito una più facile appropriazione, in virtù della particolare fiducia in lui riposta. (Fattispecie relativa al rapporto tra una associazione non riconosciuta e il suo Presidente il quale, appropriatosi di somme versate su un libretto di deposito bancario al portatore di pertinenza dell'associazione medesima, aveva lamentato con il ricorso per cassazione l'impropria configurazione del rapporto con l'ente rappresentata dal giudice di merito).

La sottrazione di somme di pertinenza di un'associazione da un libretto di deposito bancario ad opera del suo Presidente che occulti poi gli ammanchi mediante false annotazioni di versamenti per pari importi non integra il reato di truffa, bensì quello di appropriazione indebita, in quanto gli artifici e raggiri sono posti in essere dall'agente dopo l'appropriazione del danaro e al solo fine di mascherarla.

Cass. pen. n. 39114/2003

Non sussistono gli estremi del reato di truffa, bensì quelli del reato di cui all'art. 646 c.p., nel rilascio da parte di un promotore finanziario di falsi rendiconti relativi a fondi di investimento da lui gestiti, così da sottrarre ai rispettivi intestatari parte delle somme confluite sui fondi, in quanto il possesso del denaro è già stato conseguito dall'agente al momento della realizzazione degli artifici e raggiri.

Cass. pen. n. 38110/2003

Il reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., introdotto dal D.L.vo 11 aprile 2002, n. 61, ha carattere speciale rispetto al reato di appropriazione indebita previsto dall'art. 646 c.p., che, proprio per la sua natura generica, è inidoneo a tutelare il patrimonio societario dagli abusi degli amministratori, ed oggi anche dei direttori generali e dei liquidatori. Ne consegue che, per effetto dell'entrata in vigore della nuova disciplina sui reati societari, non possono ritenersi depenalizzati i fatti appropriativi commessi in precedenza (nella specie per finanziare illecitamente partiti politici) sulla base della mera aspettativa che quegli stessi fatti fossero finalizzati a procurare un vantaggio per la società. Ed infatti, la disposizione del terzo comma del menzionato art. 2634 c.c. (secondo cui non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo) trova applicazione in presenza di vantaggi compensativi - effettivamente conseguiti o «fondatamente» prevedibili, sulla base di elementi certi e non meramente aleatori - dell'appropriazione e del conseguente danno provocato alle singole società, non essendo sufficiente la mera speranza o l'aspettativa di benefici futuri. (Nel caso di specie, la S.C. ha rigettato il ricorso delle parti private avverso la sentenza del giudice dell'esecuzione che aveva rigettato la richiesta di revoca delle sentenze di condanna per appropriazione indebita sul rilievo che il profitto ingiusto, per il quale i fatti già giudicati erano stati commessi, sarebbe stato compensato da vantaggi derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo di società).

Cass. pen. n. 37567/2003

La bancarotta fraudolenta per distrazione in ambito societario (artt. 216 comma 1 e 223 comma primo del R.D. 16 marzo 1942, n. 267) è figura di reato complessa, che comprende tra i propri elementi costitutivi una condotta di appropriazione indebita del bene distratto, per se stessa punibile ai sensi dell'art. 646 c.p. Ne consegue che, per il caso di identità del bene appropriato e distratto, l'agente non risponde di entrambi i reati, ma solo di quello complesso, come stabilito dall'art. 84 comma primo c.p. Qualora il delitto di appropriazione indebita sia stato oggetto di sentenza di condanna prima della dichiarazione di fallimento, non è preclusa nel successivo procedimento per bancarotta la contestazione del reato fallimentare, ma in tal caso il giudice deve, in sede di eventuale condanna per tale ultimo reato, considerare assorbito quello sanzionato ai sensi dell'art. 646 c.p., secondo un principio di equità che trova espressione anche nello scioglimento del giudicato sulle pene in caso di riconoscimento della continuazione in fase esecutiva. (In applicazione di tale principio la Corte, preso atto che il giudice di merito aveva posto in continuazione il reato fallimentare perseguito con quello di appropriazione indebita già giudicato in altra sede, ha direttamente eliminato la quota di pena pertinente al reato meno grave).

Cass. pen. n. 30075/2003

Le somme «trattenute» dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente e destinate a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto o fatto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore) fanno parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore come corrispettivo per la prestazione già resa; tali somme non appartengono più al datore di lavoro, che ne ha solo una disponibilità precaria, posto che esse hanno una destinazione precisa, non modificabile unilateralmente in maniera lecita ma vincolata ad un versamento da effettuare entro un termine previsto a garanzia del terzo e del lavoratore. Ne consegue che commette il reato di appropriazione indebita il datore che scientemente lascia trascorrere il termine per il versamento, manifestando così la volontà di appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente dispone. (Fattispecie relativa ad omesso versamento di contributi in favore della Nuova Cassa Edile).

Cass. pen. n. 17642/2003

In tema di millantato credito, la ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 346 c.p. - contenente la previsione di un titolo autonomo di reato rispetto alla fattispecie descritta nel primo comma della medesima disposizione - si differenzia dal delitto di truffa, per la diversità della condotta, non essendo necessaria né la millanteria né una generica mediazione, nonché dell'oggetto della tutela penale, che nella truffa è il patrimonio e nel millantato credito è esclusivamente il prestigio della pubblica amministrazione, con la conseguenza che unica parte offesa è quest'ultima e non colui che abbia versato somme al millantatore, che è semplice soggetto danneggiato.

Cass. pen. n. 12965/2003

Il reato di appropriazione indebita si consuma con l'interversione oggettiva del possesso e non può avere rilievo la pretesa confusione di res fungibili nel contratto di deposito, in applicazione di nozioni civilistiche. (Nella fattispecie, il reato è stato ritenuto configurabile in capo all'agente assicurativo che, avendo la facoltà di riscuotere i premi dagli assicurati e di versarli alla società preponente secondo modalità e termini definiti, profittando della disponibilità delle somme nel conto corrente, se ne era appropriato, come emergeva anche da una serie di omissioni contabili).

Cass. pen. n. 9933/2003

Presupposto del delitto di peculato è il possesso o la disponibilità della cosa o del denaro altrui da parte del pubblico ufficiale, per una ragione di ufficio, ossia in conseguenza delle specifiche competenze e funzioni svolte, derivanti sia da norme che da prassi e consuetudini. Al contrario, non rientra nella nozione di “ragione di ufficio” il possesso o l'affidamento, meramente occasionale, del denaro o bene altrui al pubblico ufficiale. Ne consegue che non integra il delitto di peculato, bensì quello di appropriazione indebita, aggravata ex art. 61 n. 11 c.p., la condotta di un sindaco che abbia distratto somme di denaro, che gli erano state consegnate, in via fiduciaria, dalla ragioneria comunale, per provvedere al versamento dei corrispettivi trimestrali dell'IVA dovuti dall'Ente.

Cass. pen. n. 32963/2002

Non è configurabile il reato di appropriazione indebita aggravata nel caso di omesso, tempestivo pagamento dei canoni c.d. “di fognatura” dovuti, ai sensi dell'art. 17, comma 7, dell'abrogata legge 10 maggio 1976 n. 319, da parte dell'ente gestore del servizio di acquedotto a quello che gestisce il servizio di raccolta, trattamento e scarico delle acque di rifiuto, trattandosi di condotta che costituisce soltanto inadempimento di obbligazione propria del soggetto tenuto al suddetto pagamento, nulla rilevando che l'ente gestore dell'acquedotto, esercitando un diritto proprio riconosciutogli dalla legge, abbia riscosso dagli utenti, nei confronti dei quali è legittimato a rivalersi, l'importo corrispondente ai suddetti canoni. (Mass. redaz.).

Cass. pen. n. 26440/2002

Il delitto di appropriazione indebita si consuma nel momento e nel luogo in cui l'agente tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto del proprietario, in quanto significativo dell'immutazione del mero possesso in dominio (come ad esempio l'atto di disposizione del bene riservato al proprietario o l'esplicito rifiuto di restituzione della cosa posseduta). Ne consegue che il momento consumativo non è necessariamente integrato dalla mancata restituzione della cosa nel termine pattuito, potendo ad essa attribuirsi valore sintomatico di una condotta appropriativa pregressa. (Nella specie la Corte ha ritenuto che sussistesse la competenza dell'A.G. ove aveva sede la società locataria dei beni, ivi essendo esercitato il possesso dei medesimi ed ivi dovendosi, pertanto, ritenere consumata la pretesa condotta appropriativa, con inversione del titolo del possesso, stante la valenza meramente sintomatica di un pregresso comportamento illecito attribuibile alla mancata restituzione dei beni nel termine prescritto e nel luogo a ciò deputato).

Cass. pen. n. 13551/2002

Integra il reato di appropriazione indebita e non quello di sottrazione di cose comuni la condotta del condomino il quale, mediante allaccio abusivo a valle del contatore condominiale, si impossessi di energia elettrica destinata all'alimentazione di apparecchi ed impianti di proprietà comune. Il reato di appropriazione indebita, da parte di un condomino, di energia elettrica destinata ad uso comune del condominio non può essere ritenuto aggravato, ai sensi dell'art. 61 n. 11 c.p., da abuso di relazioni di coabitazione, non essendo configurabile un tal genere di relazioni tra inquilini di uno stesso stabile condominiale, ma soltanto tra quelli che essi che vivono nella stessa abitazione.

Cass. pen. n. 10774/2002

L'omessa restituzione della cosa e la ritenzione a titolo precario, a garanzia di un preteso diritto di credito, non integra il reato di appropriazione indebita ai sensi dell'art. 646 c.p., in quanto non modifica il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione uti dominus e l'intenzione soggettiva di interversione del possesso.

Cass. pen. n. 43704/2001

All'autista giudiziario non può essere riconosciuto il requisito di incaricato di pubblico servizio, secondo la formulazione dell'art. 358 c.p., dettata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, che esclude tale qualifica per le attività caratterizzate dallo svolgimento di semplici mansioni d'ordine e dalla prestazione di opera meramente materiale. Ne consegue che non è configurabile il delitto di peculato, ma quello di appropriazione indebita, aggravato dal rapporto di prestazione d'opera (artt. 646, 61 n. 11 c.p.), nella condotta dell'autista che abbia utilizzato i buoni per l'acquisto di benzina per fini diversi da quelli di ufficio.

Cass. pen. n. 21810/2001

Ai fini della configurabilità del reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.), la nozione di «possesso» non va individuata facendo riferimento alle regole proprie del diritto civile, bensì in via autonoma, avendo riguardo ad un concetto più ampio che include ogni detenzione del bene, a qualsiasi titolo, tale da consentire una signoria immediata sulla cosa al di fuori della diretta sorveglianza e disponibilità della stessa da parte del proprietario o di altri che vi abbiano un maggiore potere giuridico. (Nella specie, la S.C., in applicazione di tale principio, ha ritenuto che integrasse il reato di cui all'art. 646 c.p. e non invece quello di furto la condotta appropriativa posta in essere dal depositario della res altrui).

Cass. pen. n. 8727/2000

Le Federazioni sportive nonché i relativi Comitati regionali sono di norma soggetti di diritto privato, legati al C.O.N.I. da un rapporto intersoggettivo esterno, nel senso che gli enti restano autonomi l'uno dall'altro e non vi è confluenza degli interessi e delle funzioni. La Federazione sportiva assume connotazione pubblicistica solo allorché agisce come organo del C.O.N.I., e il rapporto intersoggettivo lascia spazio a quello di compenetrazione organica, il che si verifica, a norma dell'art. 2 del D.P.R. n. 530 del 1974, solo in relazione «all'esercizio delle attività sportive ricadenti nell'ambito della rispettiva competenza». Non integra, pertanto, il reato peculato, ma quello di appropriazione indebita aggravata, a norma degli artt. 646 e 61 n. 11 c.p., il fatto dell'amministratore di un Comitato regionale di una Federazione sportiva (nella specie, la Federazione Motociclistica Italiana) che si appropria del denaro versato dai tesserati, difettando una formale e specifica destinazione di tali fondi all'esercizio della pratica sportiva.

Cass. pen. n. 1151/2000

Integra il delitto di cui all'art. 646 c.p. la condotta del prenditore che ponga all'incasso un assegno bancario, appropriandosi della somma riscossa, in violazione del patto di garanzia concluso con l'emittente. (Nell'occasione la Corte ha precisato, così disattendendo l'eccezione di nullità del patto di garanzia, che il normale regime di circolazione dell'assegno bancario, cui inerisce la regola del pagamento a vista e dell'invalidità di ogni contraria disposizione riportata per iscritto sul titolo stesso, non esclude che le parti di un rapporto giuridico, nella loro autonomia negoziale, possano utilizzare l'assegno bancario, anziché nella sua funzione tipica di titolo di credito, come strumento di garanzia per le obbligazioni pattuite).

Cass. pen. n. 4018/2000

Il fatto che taluno, essendo cointestatario a firma disgiunta di un conto corrente bancario, possa prelevare, con il consenso espresso o tacito degli altri intestatari, somme eccedenti la propria quota, non è di ostacolo alla configurabilità a suo carico del reato di appropriazione indebita, qualora tali prelievi siano effettuati in assenza di detto consenso.

Cass. pen. n. 11655/1999

In tema di appropriazione indebita, ai fini della ricorrenza dell'aggravante della prestazione d'opera, è sufficiente la esistenza di un rapporto, anche di natura meramente fattuale, che abbia rappresentato, quantomeno, occasione (se non anche ragione giuridica) del possesso da parte dell'imputato e che abbia quindi consentito a quest'ultimo di commettere con maggiore facilità il reato, approfittando della particolare fiducia in lui riposta. (Fattispecie nella quale il ricorrente aveva rappresentato che impropriamente gli era stato attribuito dal giudice di merito il ruolo di agente finanziario, mentre egli era un semplice intermediario finanziario).

Cass. pen. n. 10460/1999

In tema di circostanze del reato, per la sussistenza della aggravante di abuso di relazioni di prestazioni d'opera, non è necessario che il rapporto intercorra direttamente tra l'autore del fatto e la persona offesa, essendo sufficiente che l'agente si sia avvalso della esistenza di tale relazione, nel senso che la esistenza del rapporto di prestazione d'opera gli abbia dato l'occasione di commettere il reato in danno di altri soggetti, agevolandone la esecuzione. (Fattispecie in tema di appropriazione indebita nella quale l'imputato, abusando della sua qualità di amministratore di una sas, si era appropriato di una ingente somma di denaro, occultandone le tracce con false appostazioni contabili. La Cassazione, nell'enunciare il principio sopra riportato, ha ritenuto che, pur essendo tenuto a prestazioni d'opera nei confronti della società e non dei soci uti singuli, l'aggravante fosse stata correttamente contestata).

Cass. pen. n. 6917/1999

Integra il delitto di appropriazione indebita e non quello di furto la condotta di chi, avendo il possesso di energia elettrica sulla base di regolare contratto, la destina ad uso diverso rispetto a quello previsto nello stesso contratto, per procurarsi un ingiusto profitto, rappresentato nella specie dall'illuminazione di un fabbricato costruito in difetto di concessione edilizia.

Cass. pen. n. 5785/1999

Le somme «trattenute» dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente e destinate a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo o per ogni altro atto o fatto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore) fanno parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore come corrispettivo per la prestazione già resa; tali somme dunque non appartengono più al datore di lavoro, che ne ha solo una disponibilità precaria posto che esse hanno una destinazione precisa, non modificabile unilateralmente in maniera lecita ma vincolata ad un versamento da effettuare entro un termine previsto a garanzia del terzo e del lavoratore. Ne deriva che commette il reato di appropriazione indebita il datore che scientemente lascia trascorrere il termine per il versamento, manifestando così la volontà di appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente dispone. (Fattispecie relativa ad omesso versamento di contributi in favore della «Nuova Cassa Edile»).

Cass. pen. n. 1119/1999

In tema di appropriazione indebita, l'evento del reato si realizza nel luogo e nel tempo in cui la manifestazione della volontà dell'agente di fare proprio il bene posseduto giunge a conoscenza della persona offesa, e non nel luogo e nel tempo in cui si compie l'azione. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che, in un'ipotesi in cui l'agente aveva posto all'incasso alcuni assegni ricevuti a titolo di garanzia, informandone telefonicamente il debitore, il reato si fosse perfezionato non nel luogo della negoziazione dei titoli bensì in quello in cui si trovava la persona offesa al momento della ricezione della predetta comunicazione).

Cass. pen. n. 1824/1998

Il delitto di appropriazione indebita si consuma nel momento in cui insieme all'elemento soggettivo concorre obiettivamente un atto di disposizione del bene, non essendo sufficiente per la configurabilità del reato la sola intenzione di convertire il possesso in dominio, ove essa non si sia concretamente realizzata; pertanto, nel caso di appropriazione di titoli di credito, tale condizione si realizza con il porre in circolazione i titoli stessi, perché solo in tal modo ed in quel momento si manifesta la volontà del possessore di invertire il titolo del possesso per trarre dalla cosa un ingiusto profitto. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto tempestiva la querela proposta entro i novanta giorni dalla presentazione dei titoli per l'incasso, ritenendo irrilevante, al fine della decorrenza del termine, il rifiuto di restituzione opposto dall'imputato alla richiesta della persona offesa).

Cass. pen. n. 1245/1998

La creazione di riserve occulte e l'utilizzazione extrabilancio di fondi sociali non sono di per sè sufficienti ad integrare il delitto di appropriazione indebita; deve infatti escludersi che possa essere qualificata come distrattiva, e tantomeno come appropriativa, un'erogazione di danaro che, pur compiuta in violazione delle norme organizzative della società, risponda a un interesse riconducibile anche indirettamente all'oggetto sociale; è da ritenersi, infatti, che per aversi appropriazione sia necessaria una condotta che non risulti giustificata o giustificabile come pertinente all'azione o all'interesse della società, in quanto può accadere che una persona giuridica, attraverso i suoi organi, persegua i propri scopi con mezzi illeciti, senza che ciò comporti di per sè l'interruzione del rapporto organico. Da ciò consegue che né il versamento dei fondi extrabilancio su conti non formalmente riconducibili alla società né la destinazione di tali fondi al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali integrano gli estremi dell'appropriazione indebita, fermo restando comunque che il gestore di tali occulte riserve deve ritenersi gravato da un rigoroso onere di provarne l'effettiva destinazione allo scopo predetto. (Fattispecie in tema di finanziamenti illeciti a partiti politici; nell'occasione la Corte ha precisato che l'appropriazione indebita è invece configurabile, e concorre pertanto con il delitto di cui all'art. 7 L. 2 maggio 1974, n. 195, allorché l'illecito finanziamento di partiti politici con fondi occulti sia erogato nell'interesse personale ed esclusivo dell'amministratore).

Cass. pen. n. 8621/1997

Non sono qualificabili come res nullius e neppure come res derelictae gli oggetti rinvenuti sulle salme inumate nei cimiteri ovvero durante le operazioni di bonifica dei campi cimiteriali, trattandosi di oggetti da ritenere, quanto meno presuntivamente, appartenuti ai defunti o a coloro che hanno inteso testimoniare a questi ultimi il loro affetto ed onorare la memoria, ed ai quali, quindi, in tal modo, è stata data da chi poteva disporne, sia jure successionis, sia a titolo di mero possesso, una specifica destinazione, la quale può dirsi venuta meno solo in presenza di rinuncia, come nel caso in cui la persona legittimata, pur posta in condizioni di intervenire alle operazioni di riesumazione o informata del rinvenimento di cose che potrebbero appartenerle, non si presenti ovvero ponga in essere altro comportamento manifestante inequivoco disinteresse verso gli oggetti rinvenuti o rinvenibili. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la S.C. ha ritenuto che correttamente fosse stata ritenuta la penale responsabilità, a titolo di appropriazione indebita aggravata, di taluni dipendenti comunali, addetti al settore cimiteriale, i quali si erano impossessati di oggetti preziosi rinvenuti su salme delle quali era stata disposta la riesumazione, ovvero nel terreno del cimitero, nel corso di operazioni di bonifica).

Cass. pen. n. 5499/1997

Si configura il delitto di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) nell'ipotesi in cui il soggetto incassi un assegno datogli a garanzia di accordo negoziale successivamente non perfezionatosi: ciò in quanto la condotta realizza una inversione del possesso in dominio in ordine alla somma relativa al titolo di credito posto all'incasso.

Cass. pen. n. 5136/1997

Sussiste il delitto di appropriazione indebita nel fatto dell'amministratore di società che, costituendo riserve di danaro extrabilancio, con gestione occulta, le distragga in favore di terzi per scopi illeciti ed estranei all'oggetto sociale ed alle finalità aziendali, così procurando ad essi un ingiusto profitto: la condotta di appropriazione, che caratterizza il delitto di cui all'art. 646 c.p., consiste infatti non solo nell'annettere al proprio patrimonio il danaro o la cosa mobile altrui, bensì anche nel disporne arbitrariamente, uti dominus, sotto qualsiasi forma, in modo tale che ne derivi per il proprietario la perdita irreversibile. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto sussistente il delitto di appropriazione indebita nel caso di un amministratore di società di capitali il quale, omettendo l'annotazione, la fatturazione e l'iscrizione a bilancio di una quota dei ricavi d'impresa, aveva creato riserve occulte utilizzate per pagare, tra l'altro, politici ed amministratori che gestivano appalti pubblici ed ufficiali della Guardia di finanza corrotti o concussori).

Cass. pen. n. 2032/1997

In tema di distinzione tra furto e appropriazione indebita, è decisiva l'indagine circa il potere di disponibilità sul bene da parte dell'agente. Se questo sussiste, il mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità del bene integra il reato di appropriazione indebita; in caso contrario, è configurabile il reato di furto. Conformemente a tale principio, deve ritenersi sussistere il reato di furto a carico del dipendente di una società operante nel settore della vigilanza privata e del trasporto valori che sottragga il denaro a lui affidato esclusivamente per l'espletamento di una attività di ordine materiale, quale il trasporto, il deposito, la conservazione e la consegna di tale bene, con le connesse operazioni burocratiche. In tale ipotesi, infatti, l'agente non disponendo autonomamente del denaro, nel senso giuridico sopra evidenziato, con la sottrazione di esso se ne «impossessa», così realizzando la fattispecie criminosa di cui all'art. 624 c.p.

Cass. pen. n. 705/1997

Poiché, ai sensi degli artt. 1705 e 1706 c.c., il mandato senza rappresentanza ha un'efficacia reale, oltre che obbligatoria, tanto che il mandante può agire come proprietario delle cose mobili acquistate per suo conto sia nei confronti del terzo che dello stesso mandatario, sicché il bene oggetto del contratto si considera come acquisito fin dal momento dell'esecuzione del mandato al suo patrimonio, è configurabile il delitto di appropriazione indebita nell'ipotesi in cui il mandatario disponga uti dominus di titoli obbligazionari acquistati per conto del mandante. (Nell'affermare detto principio la Corte ha altresì precisato che nella specie la proprietà dei titoli di credito doveva ritenersi trasmessa al mandante in virtù del contratto, il cui effetto traslativo non richiede la consegna dei relativi documenti, necessaria esclusivamente, ai sensi dell'art. 2003 c.c., per l'esercizio dei diritti che vi sono incorporati).

Cass. pen. n. 4316/1996

Ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 c.p., la relazione di coabitazione (al cui abuso si ricollega l'aumento di pena) è data dalla circostanza oggettiva della convivenza più o meno protratta nel tempo - e, comunque, per un periodo apprezzabile - non solo nel medesimo appartamento, ma anche, secondo un concetto più lato del termine «coabitazione», nel medesimo immobile. (In applicazione di detto principio la Corte ha ritenuto la sussistenza dell'aggravante de qua nell'ipotesi di appropriazione indebita di energia elettrica destinata ai servizi comuni da parte di un condomino che aveva effettuato un allaccio abusivo a valle del contatore condominiale).

Integra il delitto di appropriazione indebita, e non quello di sottrazione di cose comuni previsto dall'art. 627 c.p., la condotta di colui che faccia propria la cosa mobile di cui sia già possessore, pur se a titolo di compossesso pro indiviso: non è possibile, infatti, configurare una «sottrazione» da parte di chi si trovi attualmente, anche se solo pro quota, in possesso del bene. (In attuazione di detto principio la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di cui all'art. 646 c.p. nell'impossessamento da parte di un condomino, attuato mediante allaccio abusivo a valle del contatore condominiale, dell'energia elettrica destinata all'alimentazione dell'impianto di illuminazione e degli altri apparecchi di proprietà comune, argomentando sul presupposto che tutti i partecipanti al condominio, compreso l'agente, dovevano reputarsi compossessori dell'energia elettrica somministrata dall'ente erogatore).

Cass. pen. n. 2717/1996

Nel reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.), per la configurabilità della circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 11 c.p., l'espressione «abuso di relazioni di prestazione di opera» abbraccia, oltre all'ipotesi di un contratto di lavoro, tutti i rapporti giuridici che comportino l'obbligo di un facere e che instaurino, comunque, tra le parti un rapporto di fiducia dal quale possa essere agevolata la commissione del fatto. In ogni caso, all'origine del possesso della cosa, deve esservi un rapporto giuridico apprezzabile, che non si risolva in un rapporto meramente occasionale ed estemporaneo, connesso a ragioni di semplice amicizia.

Cass. pen. n. 6526/1995

Commette furto e non appropriazione indebita di cosa smarrita chi si impossessa, dopo un diverbio avuto con un'altra persona, del portafogli inavvertitamente sfuggito di tasca a quest'ultima nel corso del litigio.

Cass. pen. n. 3445/1995

È configurabile il reato di appropriazione indebita aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 11 c.p., e non di appropriazione indebita di uso, nel caso in cui l'amministratore e i soci di maggioranza, avvalendosi della loro posizione di ingerenza e di direzione di una società, abbiano rimosso, dal luogo ove erano custoditi, documenti contenenti disegni industriali-tecnici della società medesima (destinati a rimanere segreti o, quanto meno, riservati) li abbiano fotocopiati, li abbiano rimessi al loro posto ed abbiano passato le fotocopie ad una società concorrente, che abbia usufruito della tecnologia così indebitamente acquisita. (Nella specie, la S.C. ha osservato che l'appropriazione del documento era solo una modalità per acquisire le notizie tecniche ivi contenute e il conseguire la fotocopia era, per il fine degli agenti, equipollente al possesso dell'originale, che una volta riprodotto, veniva ricollocato al suo posto privo di ogni valore intrinseco e finanziabile se non quello, irrisorio del supporto cartaceo: l'uso fattone, assolutamente non legittimo, pur non deteriorando materialmente il documento, ne aveva approvato il valore costituendo un totale svuotamento della utilizzazione dell'oggetto; sicché, dal momento che con l'impossessamento, pur momentaneo, e con la conseguente fotocopiatura gli agenti hanno tratto ogni possibile godimento dell'oggetto — sì che la restituzione del documento privo di valore si potrebbe ritenere un post factum penalmente irrilevante —, si esula dalla configurabilità di un'appropriazione indebita di uso).

Cass. pen. n. 374/1995

Chi è adibito, all'interno di un supermercato, a compiti di cassiere presso uno dei registratori di cassa, con l'ulteriore incarico di effettuare le operazioni di chiusura contabile e di consegnare il denaro dell'incasso alla direzione, ha valido titolo per detenere le somme per il periodo di tempo necessario allo svolgimento dei detti compiti. Qualora risulti da comportamenti esteriori univoci e concludenti la volontà del soggetto di tenere il denaro per sé come proprio, è ravvisabile a carico dello stesso il reato di appropriazione indebita, e non già quello di furto.

Cass. pen. n. 12367/1994

Non sussiste l'aggravante dell'abuso di relazioni di prestazione d'opera (art. 61, n. 11, c.p.) nell'ipotesi di appropriazione indebita di un bene detenuto in locazione finanziaria; nel contratto di locazione finanziaria, infatti, non è ravvisabile l'esistenza di un obbligo di facere, implicante un rapporto di fiducia che agevoli la commissione del reato: oggetto del negozio è infatti l'utilizzazione del bene concesso verso un canone, e l'obbligo dell'accipiens di conservarlo in buono stato in vista della futura restituzione costituisce una prestazione del tutto accessoria che non può caratterizzare o modificare l'essenza del contratto.

Cass. pen. n. 2337/1994

Nella condotta del dirigente di una banca che, travalicando i suoi poteri, ha messo a disposizione del cliente somme di denaro, delle quali aveva la disponibilità, accreditando sul conto dello stesso o pagando direttamente un numero rilevantissimo di assegni privi di provvista, appaiono configurabili tutti i requisiti dell'appropriazione indebita: il possesso da parte del dirigente, incontestabile dato che egli ha potuto disporre concretamente del denaro; l'abuso dei suoi poteri; l'esercizio di un potere di dominio dal quale è derivata la cessione del danaro (l'interversione del possesso può ben essere realizzata mediante la cessione del bene ad un terzo).

Cass. pen. n. 10683/1993

Commette il reato di appropriazione indebita aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 11 c.p. il datore di lavoro che, anziché accantonare presso un istituto di credito le percentuali da lui trattenute sulle somme spettanti ai lavoratori edili per ferie, gratifica natalizia e festività soppresse, mantenga le stesse, di proprietà dei dipendenti, nella sua materiale disponibilità esclusiva e infatti, l'ulteriore permanere di tali percentuali nel possesso del datore di lavoro costituisce un fatto successivo, distinto ed autonomo rispetto all'omesso accantonamento mediante deposito presso un istituto bancario.

Cass. pen. n. 5228/1993

Ovunque vige il sistema di prelievo diretto degli oggetti esposti sui banchi di vendita o sugli appositi scaffali, risponde di furto e non di appropriazione indebita o di insolvenza fraudolenta chi, dopo aver prelevata direttamente la merce, la porti via senza pagarla.

Cass. pen. n. 5081/1993

In tema di appropriazione indebita, non sussiste il profitto ingiusto, richiesto per l'integrazione del reato, quando l'appropriazione sia realizzata in accordo con la volontà del titolare dei beni che sono oggetto della condotta. (Fattispecie nella quale la Suprema Corte ha statuito che l'omessa adozione dell'atto pubblico rende nulla la donazione di un certificato di deposito nominativo, di un libretto al portatore e di un assegno bancario ai fini civilistici, ma esclude l'ingiustizia del profitto, poiché l'agente si è appropriato dei beni nella consapevolezza di agire secondo la volontà della benefattrice).

Cass. pen. n. 383/1993

È configurabile il delitto di cui all'art. 646 c.p. nell'ipotesi di indebita appropriazione di somme di denaro di una società quando il furto è addebitabile a tutti i soci che abbiano agito in concorso materiale o previo accordo tra loro, non riflettendo in tale evenienza la «altruità» della cosa rispetto a coloro che di essa dispongono quali proprietari. Ricorre in tale caso anche l'aggravante di cui all'art. 61, n. 11, c.p. (Fattispecie di socio di società di assicurazione che disponga per sé di somme di denaro destinate alla società e, come tali, appartenenti al patrimonio sociale).

Cass. pen. n. 9530/1990

È colpevole del delitto di appropriazione indebita colui che, sulla base di un rapporto societario, dopo aver venduto merce da altri affidatagli per la vendita e dopo averne riscosso il prezzo, non provvede a versare al consocio, sulle somme riscosse, la quota percentuale di esse e nemmeno sul ricavato, al netto di eventuali detrazioni del denaro occorrente per la fornitura di altre merci da commerciare, non contabilizza i corrispettivi delle merci piazzate e non ne rende conto. In tal modo infatti il socio opera una vietata inversione del titolo del possesso.

Cass. pen. n. 7649/1990

Sussiste il delitto di appropriazione indebita nel caso in cui un soggetto utilizzi un assegno da altri firmato in bianco, per scopi diversi rispetto a quelli concordati (nel caso di specie per estinguere un proprio debito privato anziché per conseguire un finanziamento).

Cass. pen. n. 1867/1990

Non tutta l'attività di una banca può rientrare sotto la qualificazione pubblicistica, e tanto meno quella preposta alla raccolta e distribuzione di risparmi e di crediti. Agendo in tale settore, il dipendente della banca non opera come incaricato di pubblico servizio e, pertanto, l'attività svolta dal preposto dell'agenzia di una banca, mirata all'appropriazione di assegni emessi da clienti dell'agenzia medesima, va inquadrata sotto la fattispecie di appropriazione indebita, aggravata dal rapporto di prestazione d'opera, e non sotto quella di peculato.

Cass. pen. n. 13662/1989

L'appropriazione, da parte del dipendente di banca, di somma appartenente all'azienda di credito, della quale egli abbia il possesso per ragione del suo ufficio, integra l'ipotesi criminosa prevista dagli artt. 61, n. 11 e 646 c.p.

Cass. pen. n. 11628/1989

Il riferimento al concetto civilistico di altruità non può trovare applicazione nell'ambito penalistico della appropriazione indebita, sussistendo gli elementi costitutivi dell'ipotesi di cui all'art. 646 c.p., in presenza dell'animus proprio del delitto in esame, anche, allorché la res sia, come il danaro, fungibile. Infatti, la ratio di tale norma deve essere individuata nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l'autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa, altresì nel caso in cui si tratti di una somma di danaro. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorsi, è stata ritenuta la sussistenza del reato a carico di esercente attività di promozioni immobiliari il quale aveva omesso di consegnare le somme incassate ai venditori destinatari delle somme predette. La S.C. ha affermato che il possesso da parte dell'agente delle somme, tenuto conto dei limiti dell'incarico conferitogli, non poteva comportare, in mancanza di una espressa facoltà di utilizzazione del denaro, che un implicito divieto di utilizzazione, senza acquisizione, pertanto, della proprietà del danaro stesso da parte dell'agente, che tale acquisizione aveva sostenuto nei motivi di ricorso per escludere la configurabilità del reato di appropriazione indebita).

Cass. pen. n. 9225/1989

Nel reato di appropriazione indebita non può essere fatto valere il principio della compensazione con credito preesistente, allorché si tratti di crediti non certi nel loro ammontare, né liquidi.

Cass. pen. n. 377/1989

L'appropriazione indebita aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 9 c.p., a differenza del peculato e della malversazione che richiedono nel soggetto il possesso del denaro o della cosa mobile per ragioni di ufficio o di servizio, postula che il possesso della cosa sia stato devoluto all'agente intuitu personae, mentre l'abuso dei propri poteri o l'inosservanza dei propri doveri gli servono non già a procurarsi quel possesso, bensì ad agevolarlo nella realizzazione della condotta tipica del reato che è quello di far propria la cosa stessa.

Cass. pen. n. 10180/1988

In tema di appropriazione indebita, ai fini della integrazione dell'aggravante di abuso di relazione di prestazione d'opera, o altri similari rapporti, di cui all'art. 61, n. 11, c.p., occorre che all'origine del possesso della cosa vi sia comunque un rapporto di prestazione d'opera, che non si risolva in un semplice rapporto fiduciario.

Cass. pen. n. 8179/1988

In virtù della normativa vigente le operazioni bancarie strettamente attinenti alla gestione del credito e del risparmio hanno natura privatistica senza che ciò escluda che il comportamento del dipendente di un istituto bancario il quale fraudolentemente o indebitamente eroghi somme di danaro a favore di un terzo, al fine di procurargli un ingiusto profitto, debba essere penalmente sanzionato, in maniera alternativa o meno, come truffa, appropriazione indebita e/o falso. Ne consegue che qualora il direttore di un istituto bancario, in collusione con un cliente ed omettendo i doverosi controlli interni, metta a disposizione dello stesso somme di danaro, accreditando sul di lui conto o pagando direttamente assegni privi di provvista, si deve ritenere consumato il delitto di appropriazione indebita e non quello di truffa, in quanto la qualità di direttore consente all'agente un'ampia e materiale disponibilità delle somme depositate in banca, rispetto alle quali, con l'attribuzione diretta o l'accreditamento al terzo egli si comporta uti dominus.

Cass. pen. n. 7079/1988

Il presupposto del delitto di appropriazione indebita è costituito da un preesistente possesso della cosa altrui da parte dell'agente, cioè da una situazione di fatto che si concretizzi nell'esercizio di un potere autonomo sulla cosa, al di fuori dei poteri di vigilanza e di custodia che spettano giuridicamente al proprietario. Laddove, invece, sussiste un semplice rapporto materiale con la cosa, determinato da un affidamento condizionato e conseguente ad un preciso rapporto di lavoro, soggetto ad una specifica regolamentazione, che non attribuisca all'agente alcun potere di autonoma disponibilità sulla cosa medesima, si versa nell'ipotesi di furto e non in quella di appropriazione indebita. (Nella specie, relativa a ritenuta sussistenza di furto, i giudici avevano rilevato che sulle cose sottratte — denaro ed autofurgone — l'autista non aveva un potere analogo a quello del proprietario, ma una detenzione nomine alieno resa ancor più precaria dall'indispensabile presenza a bordo dell'autofurgone, durante il trasporto, di due guardie giurate, che avevano il dovere professionale di non scendere mai dal mezzo e della cui presenza l'imputato medesimo si era liberato fraudolentemente).

Cass. pen. n. 6791/1988

Negli atti di gestione di un'impresa bancaria non è ravvisabile l'esercizio di una pubblica funzione o di un pubblico servizio con la conseguenza che, venuta meno la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio in capo ai dipendenti, l'appropriazione di alcuni blocchetti di assegni compiuta da uno di essi, con approfittamento di tale qualità, integra gli estremi del reato di appropriazione indebita aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 11 c.p., non quella del reato di peculato di cui all'art. 314 c.p.

Cass. pen. n. 2936/1988

Il funzionario di banca che, al di fuori di un contratto bancario o al di fuori della provvista di un semplice contratto di c/c, disponga in favore del cliente per somme delle quali abbia il possesso e la disponibilità per ragioni del suo ufficio, risponde sempre del delitto di appropriazione indebita aggravata; anche nel secondo dei casi suddetti, quando l'erogazione di denaro superi la provvista, dato che opera egualmente con danaro della banca, non disponibile per il cliente e con indebita arbitraria assunzione dei poteri propri ed esclusivi del consiglio di amministrazione.

Cass. pen. n. 2896/1988

Gli amministratori e i dipendenti degli istituti bancari non svolgono, nell'esercizio dei compiti dell'impresa, una attività di pubblico servizio, ma una attività imprenditoriale di natura privata sicché non rivestono la qualità di incaricati di un pubblico servizio. Ne consegue che l'impiegato di banca, il quale distragga a proprio profitto somme di danaro addebitando su conti correnti di clienti della filiale assegni propri e formi varie scritture contabili false per addebitare le somme distratte sulle schede dei c/c commette appropriazione indebita aggravata a norma dell'art. 61 n. 11 c.p. e falsità in scrittura privata.

Cass. pen. n. 10339/1987

Il mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro, oltre il decimo giorno di scadenza del termine previsto entro cui deve essere effettuato a favore dell'Inps, integra il reato di appropriazione indebita. Infatti, titolare del diritto di proprietà di tale somma è il dipendente dal momento del pagamento del salario o dello stipendio fino a quello del versamento all'istituto previdenziale.

Cass. pen. n. 8342/1987

La concessione abusiva di fido commessa da un dipendente bancario che non riveste la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio non integra gli estremi dell'appropriazione indebita poiché tale reato prevede come condotta punibile solo l'appropriazione e non la distrazione.

Cass. pen. n. 1231/1987

Il semplice possesso di un libretto di deposito al portatore, mentre legittima la riscossione del denaro depositato, con esonero di responsabilità dell'istituto bancario, non fa però acquistare al portatore la proprietà del denaro, a meno che questi non dimostri di averne titolo. (Pertanto è ravvisabile il delitto di cui all'art. 646 c.p. l'appropriazione da parte del mero possessore del libretto di risparmio della somma di danaro riscossa a seguito di presentazione all'istituto bancario del libretto medesimo).

Cass. pen. n. 657/1987

Commette furto, e non appropriazione indebita, il detenuto che evade indossando indumenti dell'amministrazione penitenziaria, poiché egli ha la mera detenzione, e non il possesso, degli indumenti che indossa e di cui gli è consentito l'uso nell'ambito dell'istituto carcerario, o anche altrove in caso di ammissione al regime di semilibertà, sotto il controllo degli organi preposti alla sua vigilanza.

Cass. pen. n. 1472/1986

Nel sistema delle partecipazioni statali deve essere attribuita natura privatistica al rapporto intercorrente tra gli enti pubblici di gestione e le società per azioni di cui tali enti si avvalgano per la realizzazione completa dei relativi fini. Infatti, il principio secondo cui, in relazione all'attività imprenditoriale degli enti pubblici economici, non è configurabile, in difetto di specifica previsione legislativa, un assoggettamento degli amministratori degli enti medesimi che con riguardo agli enti di gestione delle partecipazioni statali (Iri, Eni, Egam, Ente Cinema, ecc.), né valgono ad escludere la natura privatistica dell'attività stessa il carattere vincolante delle direttive e dei programmi politici e ministeriali nel settore delle partecipazioni statali e la conseguente strumentalità degli enti di gestione rispetto ai fini dello Stato. Sicché a carico degli amministratori delle società per azioni, quali legali rappresentanti di società di natura privata, deve escludersi la configurabilità di reati propri del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, quale il peculato, ma deve ravvisarsi, ove risultino accertati gli elementi costitutivi, la diversa figura dell'appropriazione indebita. (Nella specie è stato affermato il carattere privatistico dei rapporti intercorrenti tra l'ente minerario siciliano — Ems — quale ente pubblico economico di gestione, e l'Emsas e l'Italkali, appartenenti le ultime due, ai sensi dell'art. 25 L. Reg. Sicilia 22 dicembre 1973, n. 50, alla categoria delle società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria, delle quali l'Ems si è avvalso per il perseguimento dei propri fini istituzionali).

Cass. pen. n. 12841/1986

Nel delitto di appropriazione indebita il titolare del diritto di querela si identifica nella persona nei confronti ed in danno della quale sia intervenuta l'inversione del titolo del possesso del denaro o delle cose mobili altrui. Ne consegue che qualora il debitore consegni un titolo di credito a persona diversa dal creditore, non autorizzata a riscuoterlo in nome e per conto di questo egli non intende trasferire la proprietà della somma ivi indicata all'incaricato del creditore stesso ma soltanto il possesso temporaneo strettamente legato all'assolvimento dell'incarico, per cui nel caso di mancato assolvimento dello stesso, con contestuale appropriazione della somma contenuta nel titolo, la persona offesa non è da identificarsi nell'originario destinatario del titolo, ma nel soggetto che lo aveva emesso.

Cass. pen. n. 5630/1986

In tema di reati contro il patrimonio, nel caso di convivenza more uxorio non viene meno il carattere personale di alcuni beni che per loro natura, come è per i preziosi (sottratti nella specie dal convivente), non possono essere oggetto di detenzione comune, ma conservano il connotato di disponibilità autonoma, la cui lesione, pertanto, integra il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita.

Cass. pen. n. 2329/1986

Ai fini della configurabilità del reato di furto, è necessario che l'agente abbia la mera detenzione della cosa oppure eserciti il possesso (inteso quale potere di fatto) sulla cosa, senza il concorso di analogo potere da parte del proprietario o del possessore consistente nella vigilanza sulla cosa stessa. È invece configurabile il delitto di appropriazione indebita quando la signoria di fatto sulla cosa venga attuata al di fuori della detta sfera di custodia e vigilanza. Ne deriva che è ravvisabile quest'ultimo reato qualora l'affittuario si appropri gli alberi che insistono sul fondo, poiché egli esercita il suo potere senza controllo da parte del concedente.

Cass. pen. n. 1942/1986

Commette il delitto di furto, e non quello di appropriazione indebita, l'autista, dipendente di un'impresa di trasporti, che si impossessi, sottraendole all'avente diritto, di cose trasportate per conto del suo datore di lavoro.

Cass. pen. n. 1746/1986

La ritenzione, in compensazione o in garanzia, di merce non costituisce appropriazione indebita ex art. 646 c.p. solo quando il credito vantato dall'agente nei confronti del proprietario della merce medesima è certo, liquido ed esigibile, ossia determinato nel suo ammontare e non controverso nel titolo.

Cass. pen. n. 11766/1985

Pur essendo ipotizzabile il concorso formale tra il reato di appropriazione indebita di un documento e il reato di soppressione od occultamento del medesimo, essendo diversi i beni giuridici protetti, il concorso medesimo non è ravvisabile per detti reati quando entrambi gli eventi dagli stessi prodotti si esauriscono in un'unica condotta criminosa diretta al fine di eliminare l'efficacia probatoria del documento. In tal caso il delitto di appropriazione indebita rimane assorbito in quello di falso per soppressione.

Cass. pen. n. 11218/1985

La diversità, in materia penale, del concetto di possesso rispetto a quello civilistico e cioè come situazione di fatto in cui rientrano tutti i casi nei quali il soggetto ha la signoria autonoma sulla cosa, importa che l'affittuario e, indubbiamente, il possessore di un fondo rustico, qualora vendano degli alberi del fondo tenuto in affitto e ne facciano proprio il ricavato commettono il reato di appropriazione indebita e non già quello di furto.

Cass. pen. n. 8633/1985

La specifica indicazione del danaro, contenuta nell'art. 646 c.p., rende evidente che esso può costituire oggetto del reato di appropriazione indebita in quanto può trasferirsi, nonostante la sua fungibilità, senza che al trasferimento del possesso si unisca anche quello della proprietà. Il danaro, infatti, va considerato di altri quando sia affidato per un uso determinato o per una specifica indicazione nell'interesse del proprietario. In tal caso il possesso (inteso secondo i principi penalistici) non conferisce il potere di compiere atti di disposizione non autorizzati o, comunque, incompatibili con il diritto prevalente del proprietario e, ove ciò avvenga, l'agente commette appropriazione indebita. (Fattispecie in cui l'acquirente di un veicolo aveva versato il prezzo a mezzo cambiali cedendo nel contempo al venditore un mutuo di cui era beneficiario incaricando costui per la riscossione e con l'espressa intesa che, dopo l'incasso, avrebbe provveduto a ritirare le cambiali. Ad incasso avvenuto, però, il venditore non aveva né ritirato né pagato le cambiali, fatto che è stato ritenuto configurante il delitto di appropriazione indebita).

Cass. pen. n. 6553/1985

In virtù del contratto di trasporto, il committente trasferisce al vettore il possesso della cosa, intesa, quanto agli effetti penali, come signoria di fatto che venga, in concreto, esercitata in piena autonomia. Identica si presenta la situazione del sub-vettore, sempre che questi agisca nelle su accennate condizioni, anche nei confronti del vettore dal quale riceve il possesso dell'oggetto allo stesso titolo del suo autore. Ne consegue che, se uno dei soggetti indicati, agendo autonomamente, faccia propria la cosa, assegnandole una destinazione diversa da quelle per la quale gli era stata affidata commette il reato di appropriazione indebita.

Cass. pen. n. 7409/1983

Il reato di appropriazione indebita può sussistere sia nel caso in cui l'agente dia alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e con le ragioni del suo possesso, sia nel caso in cui egli ometta deliberatamente di restituire la cosa, giacché in entrambe le ipotesi è manifesta la sua volontà di affermare un dominio sulla cosa stessa.

Cass. pen. n. 205/1982

Chi trattiene una cosa appartenente a un suo debitore e la converte in uso proprio per compensare il credito non commette appropriazione indebita solo se il credito è esistente, determinato nell'ammontare e non controverso nel titolo.

Cass. pen. n. 9416/1981

L'intenzione di restituire il maltolto non fa venir meno il dolo nel delitto di appropriazione, sempre che non risulti in modo certo, nel momento dell'abuso di possesso, la detta intenzione e questa sia accompagnata dalla certezza della possibilità di restituzione.

Cass. pen. n. 9410/1981

La semplice ritenzione precaria, attuata a garanzia di un preteso diritto di credito, conservando la cosa a disposizione del proprietario a condizione dell'adempimento della prestazione cui lo si ritiene obbligato, non costituisce appropriazione poiché non modifica la natura del rapporto giuridico tra l'agente e la cosa.

Cass. pen. n. 4245/1981

Per la sussistenza della procedibilità d'ufficio del delitto di appropriazione indebita aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 11 c.p., non ha influenza la dichiarazione di equivalenza tra quella aggravante e le attenuanti generiche; a maggior ragione, la remissione di querela non spiega alcuna influenza sull'esercizio dell'azione penale.

Cass. pen. n. 1835/1973

Anche le cose mobili soggette a «registrazione» (nella specie, autovettura) possono costituire oggetto del delitto di appropriazione indebita, giacché l'art. 646 c.p. richiede soltanto, ai fini della sussistenza del predetto reato, che si tratti di cose mobili, senza ulteriori limitazioni.

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Consulenze legali
relative all'articolo 646 Codice Penale

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

S. S. chiede
venerdì 01/03/2024
“Desidero sapere quale reato un amministratore compie nel presentare il consuntivo con poste differenti da quelle presenti nel conto-corrente condominiale.Inoltre nella voce riscaldamento inserisce le fatture ricevute ma non pagate alla scadenza per mancanza di fondi.”
Consulenza legale i 04/03/2024
La risposta dipende dai dettagli della vicenda fattuale, non noti a questa redazione.

In via generale, però, può dirsi quanto segue.

Di certo l’amministratore di condominio non risponde di falso in bilancio, atteso che il reato previsto e punito dall’ art. 2621 del c.c. si applica solo alle persone giuridiche, cosa che il condominio non è (almeno secondo la giurisprudenza maggioritaria).

Ora, è chiaro comunque che se l’amministratore di condominio altera il bilancio, nella maggior parte dei casi lo fa per nascondere eventuali ammanchi di cassa che lo stesso si è intascato e/o per ottenere altri denari di cui lo stesso si approprierà.

Possiamo quindi affermare che:
- Se l’amministratore di condominio falsifica i bilanci per nascondere ammanchi di somme di cui si è appropriato, di certo l’ipotesi di reato è l’appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p.;
- Se invece l’amministratore di condominio ha alterato i bilanci per fingere un ammanco e dunque per spingere i condomini alla dazione di somme extra che verranno poi intascate dall’amministratore medesimo, allora è possibile che siamo difronte a una ipotesi di truffa di cui all’ art. 640 del c.p..

V. G. chiede
lunedì 05/02/2024
“Premessa
Il quesito si pone in merito all’art. 646, 649 bis e 61 cp. Si chiede una consulenza tecnica specifica solo esclusivamente al quesito che si pone; si specifica ciò perché si sono avute alcune vs risposte generiche e non inerenti alla domanda specifica posta.
In una società in cui si contesta il prelievo dal conto corrente della società di un socio che non ha potere esecutivo ma ha la disponibilità del conto corrente e che, nonostante fosse stato intimato più volte, ha reiterato l’appropriazione indebita, si chiede, nonostante siano terminati i tre mesi di procedibilità, se si possa fare una denuncia alla persona, tenendo conto l’aggravante di cui l’art. 61 co1 n11. Gli articoli interessati sono 646 cp (appropriazione indebita) il 649 bis/61 cp (aggravanti per procedibilità d’ufficio).
Sono pienamente a conoscenza delle basi della materia e quindi chiedo solo chiarimenti sulla specifica di quel caso, essendo tra l’altro a conoscenza delle modifiche dell’art. 646 del 2018; la richiesta si rivolge sul 649 bis cp.
Quindi si chiede chiarimenti solo ed esclusivamente su questa questione ossia se questa aggravante (tenendo conto che la persona sta prestando un’opera alla società e quindi ha commesso il reato con abuso di relazione d’ufficio e di prestazione d’opera) sia procedibile d’ufficio.
Chiedo un chiarimento, visto che anche nel vs sito non è stata chiarita questa questione; pregherei di non rispondermi con dei copia incolla di spiegazioni già pubbliche.”
Consulenza legale i 06/02/2024
La questione di cui al parere è molto complessa e le “basi” di cui si parla – che sembrano essere conosciute dal richiedente – non sono affatto sufficienti.

In primo luogo va detto che per i reati procedibili a querela di parte il dies a quo di tre mesi per la proposizione della querela comincia a decorrere, secondo giurisprudenza costante, dal momento in cui la persona offesa dal reato ha contezza del fatto costituente reato.

In secondo luogo nel caso di specie si pone il problema della riforma operata dal d. lgs. 36 del 2018 che ha, come noto:
- reso l’appropriazione indebita procedibile a querela di parte abrogando il comma 3 dell’art. 646 c.p. che prevedeva la procedibilità d’ufficio;
- aggiunto l’ art. 649 bis del c.p. stando al quale la procedibilità è d’ufficio per l’appropriazione indebita solo in caso di comma 2 o di aggravante ai sensi dell’ art. 61 del c.p. n. 11 se vi è una ulteriore aggravante a effetto speciale.

Tornando al caso di specie, da quanto narrato nella richiesta di parere ci troviamo difronte a una appropriazione indebita aggravata solo ai sensi dell’articolo 61 n. 11 e che, pertanto, non è più procedibile d’ufficio ma solo a querela di parte.

Inoltre va detto che la riforma operata dal d. lgs. 36 del 2018, con l’articolo 12, ha disposto che “per i reati perseguibili a querela in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato”.

Applicando le coordinate di cui sopra è possibile affermare che:

- l’appropriazione indebita di cui si discute è procedibile a querela di parte, non ricorrendo alcuna fattispecie aggravante a effetto speciale che faccia scattare il regime della procedibilità d’ufficio di cui all’art. 649 bis c.p.;
- se l’appropriazione indebita è stata commessa dopo la modifica del decreto del 2018, i termini per proporre la querela sono e restano di 3 mesi dalla notizia del fatto costituente reato;
- allo stesso risultato si giunge anche laddove la appropriazione sia stata compiuta antecedentemente al 2018 giacché la norma transitoria dell’articolo 12 stabilisce un regime transitorio specifico che fa decorrere in modo fittizio il dies a quo dall’entrata in vigore del decreto. Ciò, naturalmente, sempre ammesso e non concesso che in quella data la persona offesa avesse conoscenza del fatto; diversamente il dies a quo scorrerà in avanti per radicarsi, come detto, in quello della conoscenza del fatto.

F. T. chiede
giovedì 01/02/2024
“Appropiazione indebita art. 646 aggravanti art. 81 e art. 61 iniziata 3/5/2017 protrattasi fino al 6/7/2019<br />
Prima interruzione 3/3/2023 interrogatorio<br />
Seconda interruzione 21/10/2924 fissata udienza predibattimentale<br />
Quando si prescrive il reato?”
Consulenza legale i 02/02/2024
Quando noi parliamo di termini di prescrizione ci riferiamo a quelli intermedi e a quelli massimi.

I termini intermedi sono quelli che decorrono dalla consumazione del reato senza che vi siano attività di sospensione o interruzione.

I termini massimi, invece, sono quelli che decorrono dalla consumazione del reato a nulla rilevando eventuali termini interruttivi e a cui andranno aggiunti però eventuali periodi di sospensione

In osservanza al combinato risposto degli artt. 157 c.p. e 161 c.p. possiamo quindi dire che:
- il termine intermedio di prescrizione è quello previsto dal limite massimo edittale di pena stabilita per il reato (se si tratta di delitto si parte, però, sempre e comunque da una pena minima di anni 6);
- il termine massimo è quello intermedio aumentato di un quarto.

Non si considerano le aggravanti, a meno che non si tratti di aggravanti a effetto speciale o a efficacia speciale.

Nel caso dell’appropriazione indebita, dunque, essendo prevista per il reato in parola la pena massima di 3 anni, la prescrizione intermedia sarà di 6 anni mentre quella complessiva sarà di 7 anni e mezzo dal momento della consumazione (ovvero 6 + ¼).

Nel caso di specie, quindi, il reato si prescriverà una volta decorsi 7 anni e mezzo dalla consumazione, cui andranno aggiunti eventuali periodi di sospensione (da noi non conosciuti nel caso di specie).

Va fatta però una precisazione.

Dalla richiesta di parere sembra che la contestazione venga mossa come se l’appropriazione indebita fosse una sorta di reato permanente, cosa che non è.
Dunque la contestazione in parola va interpretata nel senso che tra il 3 maggio 2017 e il 6 luglio 2019 vi sono state diverse condotte appropriative che sono in concorso formale ex art. 81 del c.p. tra loro.

Quindi i 7 anni e mezzo di cui si è detto prima andranno calcolati in riferimento a ogni episodio appropriativo.

Rispetto alle date che abbiamo a disposizione possiamo dire che:

- per l’episodio del 3 maggio 2017 la prescrizione decorrerà nel novembre 2014;
- per l’episodio del 6 luglio 2019 la prescrizione decorrerà nel gennaio del 2027.

R. D. chiede
martedì 14/02/2023 - Puglia
“Salve, ieri sono andato nella sede della Banca XXX di XXX dove ho un rapporto di c/c ed una cassetta di sicurezza per accedere a quest'ultima e mi sento dire che dal 1° gennaio 2022 non ho più una cassetta di sicurezza. Preciso che ne ho avuto la disponibilità dal 2016 ed ho verificato che mi sono stati addebitati i canoni fino al 2021!!! Ma io non ho mai fatto una richiesta di disdetta nè mi è stata notificata una disdetta dalla Banca. L'impiegato della Banca addetto alla cassetta ha anche tentato di aprile con la mia chiave e con lo sportellino contenente la cassetta non si è aperta. Inoltre sono ancora in possesso della mia chiave e sulla cassetta fisica avevo posizionato un piccolo lucchetto personale di cui solo io avevo la chiave. A questo punto un funzionario della Banca si è preso il mio recapito telefonico e mi ha detto che a breve mi avrebbero fatto sapere. Questi i fatti. Ripeto in Banca mi dicono che la cassetta è stata assegnata ad altra persona e che mi faranno sapere. Ma allora ne hanno forzato l'apertura? Per quale motivo e perchè? Nella cassetta vi era un rolex acquistato oltre 35 anni fa e di cui non ho fattura perchè a distanza di tanto tempo è andata smarrita ma solo una foto, un vecchio orologio Omega da taschino appartenente a mio padre, n. 2 Sterline d'oro e 10.000,00 Euro in contanti messi da parte per ogni evenienza. Dovrei fare una denuncia? E a chi e dicendo cosa? Un legale del posto a cui mi sono rivolto mi consiglia di approfittare dell'occasione e dichiarare che vi erano 50.000,00 Euro in contanti, tutti tracciabili in quanto provenienti dalla mia liquidazione accreditatami su c/c postale e dal quale prima del 2016 ho fatto un prelevamento per l'intera cifra tenendoli a disposizione in contanti. Cosa rischio affermando una dichiarazione del genere? Io ho molti dubbi in proposito e vorrei sapere il Vs punto di vista in merito a tutta la faccenda.
Oltre a fare una denuncia come mi posso tutelare?”
Consulenza legale i 17/02/2023
Il parere in esame va affrontato tanto sul fronte civile che su quello penale.

In primo luogo occorre capire se la condotta della banca presenta profili di inadempimento oppure no.
E’ noto infatti che la cassetta di sicurezza può essere utilizzata da un soggetto previa stipulazione di apposito contratto con la banca di riferimento. Si tratta evidentemente di un contratto a prestazioni sinallagmatiche nell’ambito del quale la banca si impegna a tutelare il contenuto dichiarato della cassetta previa corresponsione di un canone mensile da parte dell’utente.
Ora, va detto che la banca è responsabile di quanto accade al contenuto della cassetta e che la stessa non può procedere all’apertura forzata della cassetta medesima se non nei casi in cui vi sia la morosità dell’utente sul pagamento dei canoni e previa autorizzazione del Tribunale.

Nel caso di specie, dunque, andrebbe prima di tutto accertato se la condotta della banca (che ha evidentemente proceduto all’apertura della cassetta) sia legittima oppure no.
Nel caso in cui vi fossero dei profili di illegittimità, sarebbe più che comprensibile chiedere alla banca il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.


Va da sé, in ogni caso, che il contenuto della cassetta deve essere restituito e/o oggetto di risarcimento per equivalente.
Anche laddove, per ipotesi, il correntista non avesse pagato i canoni e, pertanto, la banca avesse aperto forzosamente la cassetta, ciò comunque non giustificherebbe la sottrazione del contenuto della cassetta e tale condotta potrebbe tranquillamente integrare il reato di appropriazione indebita, di cui all’ art. 646 del c.p..

Nel caso di specie, dunque, sarebbe opportuno:
- Verificare in prima istanza la legittimità, sul fronte strettamente contrattuale, della condotta della banca;
- In caso di condotta illegittima della banca si potrebbe agire sul fronte risarcitorio da inadempimento contrattuale;
- A prescindere da tale ipotesi è necessario intimare l’immediata restituzione di quanto contenuto nella cassetta e, in caso di inerzia della banca, proporre denuncia - querela per il reato di appropriazione indebita.

Si sconsiglia categoricamente di dichiarare circostanze false sul contenuto della cassetta in quanto tale condotta potrebbe configurare innumerevoli ipotesi di reato (dalla truffa alla calunnia fino al falso ideologico) e sarebbe peraltro inutile atteso che il contenuto della cassetta dovrebbe essere stato preventivamente registrato dalla banca previa dichiarazione del depositante medesimo.

E. B. chiede
lunedì 07/02/2022 - Lombardia
“Buongiorno, la mia questione: a giugno dello scorso anno affidavo del materiale fotografico ad un negozio di XXX da proporre in conto-vendita. Nel frattempo presso quel negozio acquistavo una nuova fotocamera (che arrivava nel mese gi agosto). Per l'acquisto e vendita ho trattato esclusivamente con due soggetti F. e M.. Apprendevo da M. nel mese di settembre scorso che la mia attrezzatura (una reflex) era stata venduta ad un cliente per 800 euro. Ad ogni non mai ho avuto il mio compenso e soprattutto, del negozio non si sa nulla se non che le serrande sono abbassate dall'autunno scorso e la cassetta postale è piena zeppa. Grazie a Facebook ho scoperto che molte altre persone sono nella mia stessa situazione. Con tale M. ho avuto pochi scambi di messaggi nonché telefonate. Dall'autunno scorso si era di fatto "dato alla macchia" senza avere mai darmi una spiegazione se non ripetendo che "avrebbe sollecitato in amministrazione la mia questione". Come è opportuno che io proceda? Grazie”
Consulenza legale i 10/02/2022
La questione può essere valutata sia sotto il profilo civile che penale.

Sotto il primo aspetto emerge che il negozio sarebbe debitore nei Suoi confronti dell’importo percepito a seguito della vendita della macchina fotografica.
In linea teorica, per tutelare questo diritto si potrebbe azionare una procedura giudiziale di recupero credito o in via ordinaria (mediante atto di citazione) oppure -laddove il credito sia certo, liquido ed esigibile, con procedura speciale (mediante decreto ingiuntivo).

Sotto il profilo penale, per come si sono svolti i fatti, parrebbe ipotizzabile anche il reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) che si ha quando “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”.
Nella presente vicenda, in effetti, il negozio ha avuto il possesso del compenso successivamente alla vendita della macchina fotografica senza corrispondere alcunché ma anzi sfuggendo alle Sue legittime richieste.
Come aveva evidenziato la Cassazione con la sentenza n.40870/2017: “Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, e cioè nel momento in cui l'agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria.”.

Ciò brevemente premesso in linea teorica, passando al concreto della presente vicenda si osserva quanto segue.

Sotto il profilo civile, non avendo alcun contratto/scrittura privata che stabilisca termini e condizioni di vendita sicuramente non è possibile azionare la procedura speciale del decreto ingiuntivo.
Si potrebbe allora ipotizzare una azione ordinaria di recupero credito.
Sotto il profilo probatorio, si potrebbe utilizzare la ricevuta del corriere BRT (seppur in foto) per provare la consegna della macchina fotografica al negozio; mentre per quanto riguarda l’importo di euro 800,00 dovremmo fare riferimento ai messaggi sul telefono a condizione che:
1) riportino in modo chiaro detto importo;
2) siano stati inviati da soggetto che abbia una qualche qualifica/mansione/legale rappresentanza rispetto al negozio medesimo.
In mancanza delle predette condizioni, non sarebbe azionabile nemmeno una causa ordinaria tenuto conto del principio fondamentale “onus probandi incumbit ei qui dicit” consacrato nell’art. 2697 c.c. secondo cui: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Dal punto di vista penale, come dicevamo, potrebbe ipotizzarsi il reato di appropriazione indebita. In questo caso, entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto, si potrebbe sporgere denuncia allegando tutto quanto si ha a disposizione sotto il profilo probatorio.

Come prima mossa, in ogni caso, suggeriamo di inviare una diffida scritta (tramite pec o raccomandata a/r) con cui si intima l’adempimento (meglio ancora se ad inviare detta lettera sia un avvocato).
In caso di mancata risposta, si potranno valutare una ( o entrambe) delle predette ipotesi tenendo però presente che, sul piano strettamente pratico, se il soggetto debitore non è solvibile qualsiasi azione (penale o civile che sia) sarà un inutile spreco di tempo e denaro.

A.R. chiede
martedì 14/09/2021 - Piemonte
“Buongiorno. Ho due fratelli nati dal primo matrimonio di mia mamma. Io sono nato dal suo secondo matrimonio quindi con loro condivido solo la madre e non il padre. Per tutta la vita abbiamo avuto, tra fratelli, discreti rapporti. Tra i miei fratelli e mio padre non corre buon sangue.
In gioventù mia mamma mi raccontava che i miei fratelli avevano ricevuto aiuti economici non indifferenti, mio fratello ha anche avuto problemi con la legge. Mia sorella è più vecchia di me di 11 anni, mio fratello di 8.
I miei fratelli all'epoca dei fatti (2016) erano spostati con figli, mentre io (classe 1983) mi ero sposato da pochi mesi e, insieme a mia moglie, vivevamo a casa dei miei genitori, in attesa di trovare casa, che stavamo cercando.
A gennaio 2016 i miei genitori entrano in crisi matrimoniale e mio papà (che scoprimmo avere una relazione segreta) si trasferisce in campagna, a casa della sorella. In casa rimaniamo io, mia moglie e mia mamma che non lavorava da qualche mese.
Ad aprile 2016, nonostante le mie offerte di aiuto economico (modesto perchè non avevo risparmi), e vista la carenza di disponibilità sul conto corrente intestato ancora con mio papà, mia mamma decise di andare a chiedere aiuto economico ad un anziano zio nel paese natìo dei genitori, ormai scomparsi. Lo zio decise di disinvestire dei buoni postali (cointestati allo zio e alla mamma) e donare alla mamma 46.000 euro. Al ritorno a casa non volle dirlo a nessuno e mi chiese di mantenere il segreto (di me nutriva una profonda fiducia), per decidere con calma cosa fare dei soldi. Così feci. Chiedemmo anche il parere del direttore della banca sul da farsi che ci diede alcune opzioni. Le consigliai di parlare dei soldi con mio papà, per correttezza, e così decise di accreditare la cifra sul conto famigliare (dove io avevo potere di firma). Dei soldi non ne parlò mai con nessun altro, neanche con i miei fratelli (immagino non voleva che lo sapessero).
A fine maggio 2016, impaurita che il capitale potesse essere prelevato da mio papà (paura che reputo infondata), decise di bonificare 36.000 euro sul mio conto corrente personale, a titolo di "custodia temporanea". Io conservai la cifra ma non ne parlai con nessuno, come lei mi aveva richiesto.
A luglio 2016 mia mamma è venuta a mancare (nel dettaglio si è tolta la vita, anche a causa dell'evolversi in negativo della crisi matrimoniale).
Io sono rimasto in possesso dei 36.000 euro e continuai a non parlarne con i miei fratelli.
La successione l'ho redatta e sottoscritta io, senza i 36.000 euro.
Nel tempo ho sempre pensato di rifare la successione e rimettere nell'asse ereditario i 36.000 euro, ma non l'ho mai fatto. In eredità sono caduti anche 3 immobili di cui il più grande ora è in diritto di abitazione a mio papà su cui grava anche il mutuo prima casa. Gli altri 2 immobili sono fuori città e sono in condizioni quasi fatiscenti.
A fine 2016 sono iniziate tra le parti confuse pretese sulle case e sulla divisione degli immobili, in particolare tra i miei fratelli e mio padre. Ho cercato di starne sempre fuori.
A inizio 2021 mia sorella ha dato mandato ad un avvocato al fine di gestire la fase di vendita delle sue quote della comunione e l'avvocato tra le altre cose "ha scoperto", grazie ad una richiesta di estratto conto alla banca, dei bonifici che 5 anni prima mia mamma fece sul mio conto corrente.
Preciso che un bonifico da 10.000 aveva come causale bancaria "investimento", mentre l'altro da 26.000 nulla.
L'avvocato di mia sorella contesta anche un bonifico che i miei genitori mi hanno fatto al fine di coprire le spese sostenute per una festa di matrimonio da 3.000 senza causale bancaria.
Infatti in totale mi chiede di restituire 39.000 euro.
Mia sorella mi ha chiesto spiegazioni, mentre mio fratello non mi parla più.
Ovviamente ho dovuto spiegare la mia versione dei fatti.
Chiedo consulenza per sapere se devo restituire la cifra, oppure se posso legalmente restituirne una cifra diversa e più bassa (eredità necessaria) o più alta e se addirittura posso considerare il valore dei soli immobili a soddisfacimento della quota di eredità necessaria. In sostanza se sono obbligato a restituire tutto e se ho commesso dei reati o degli illeciti.
Mio fratello mi vuole denunciare per appropriazione indebita.
Spero di essere stato chiaro.
Ringrazio in anticipo

Consulenza legale i 23/09/2021
La situazione che si sottopone all’esame riguarda un problema in realtà molto diffuso nel trapasso del patrimonio dai genitori ai figli, in quanto richiede di prendere in considerazione il caso del genitore che in vita abbia elargito somme di denaro ad uno solo dei figli a titolo meramente gratuito.
Nel quesito si precisa che il conto da cui la madre ha effettuato i bonifici era un conto familiare, precisandosi che su tale conto il figlio aveva il solo potere di firma.
Esaminando, invece, l’estratto conto inviato a questa Redazione, si legge che le somme in contestazione sono state accreditate al figlio per effetto di un “giroconto”.
Ora, sebbene non possa sussistere alcun dubbio sul fatto che anche il giroconto non è altro che un bonifico (si realizza pur sempre un passaggio di denaro da un conto corrente a un altro), non può non evidenziarsi che in genere si parla di giroconto quando si intende trasferire denaro da un conto corrente a un conto deposito del quale si è ugualmente titolare, oppure quando si vuole spostare una somma di denaro da un conto del quale si è titolare esclusivo verso un conto cointestato e viceversa.

Con ciò vuol dirsi che l’uso della dicitura “giroconto”, risultante dall’estratto di conto corrente inviato, fa sorgere il dubbio che il trasferimento sia avvenuto da un conto corrente nel quale il beneficiario era anche cointestatario e non soltanto delegatario con potere di firma.
Se così fosse, dunque, occorrerebbe conoscere se, oltre al beneficiario ed alla madre vi erano altri cointestatari (ad esempio gli altri fratelli nati dal primo matrimonio della de cuius) oppure se erano tali soltanto la madre ed il figlio che ha effettuato il giroconto.
Se vi erano altri cointestatari, allora sembra evidente che si pone un problema di appropriazione indebita di somme altrui, in quanto in caso di rapporti di conto corrente cointestato, le somme che si trovano depositate sul conto, secondo quanto chiaramente desumibile dall’art. 1854 del c.c., si presumono appartenere ai cointestatari in egual misura, salvo diverso accordo tra le parti (ovviamente l’appropriazione indebita potrebbe configurarsi nella misura in cui il prelievo fosse stato effettuato per una somma eccedente la propria quota).

Se, al contrario, cointestatari erano soltanto la madre ed il figlio, allora il problema della appropriazione indebita sarebbe meno marcato e più giustificabile, in quanto il bonifico in favore del figlio, a prescindere dalla dicitura utilizzata per effettuare lo stesso, potrebbe configurarsi contestualmente come giroconto per la quota facente capo al figlio e come donazione diretta per la somma eccedente detta quota.
In questo secondo caso, tuttavia, possono insorgere altri problemi, e precisamente:
  1. quello relativo alla validità di tale donazione;
  2. quello di una eventuale lesione della quota di riserva degli altri eredi.

Sul tema della validità della donazione effettuata a mezzo bonifico bancario si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, con sentenza n. 18725 del 27.07.2017, nella quale la S.C. ha affermato che le liberalità effettuate con trasferimento di danaro a mezzo bonifico bancario, così come il trasferimento di valori mobiliari, devono essere qualificate come donazione "diretta" di denaro, con la conseguenza che sono da considerare nulle se non vengono effettuate con atto pubblico.
Ovviamente per far valere la nullità occorre che l’atto sia impugnato da coloro che hanno interesse al suo annullamento, mentre finchè nessuno agisce, la donazione resta ferma e lo spostamento di denaro produce i suoi effetti, pur se privo dei requisiti legali.
Qualora, a seguito del positivo esperimento dell’azione di annullamento, la donazione dovesse essere dichiarata nulla, gli eredi del donante avrebbero diritto a farsi restituire dal donatario la somma ricevuta, a prescindere dal fatto che la donazione sia o meno lesiva dei diritti di legittima, in quanto il denaro deve considerarsi come mai uscito dalla sfera giuridica del donante stesso.
Occorre precisare che, secondo quanto espressamente disposto dall’art. 783 del c.c., non occorre il rispetto della forma dell’atto pubblico nel solo caso di c.d. donazione di modico valore, per la cui configurabilità occorre tenere conto prevalentemente delle condizioni economiche del donante.

L’altro problema che ci si potrebbe trovare a dover affrontare è quello della configurabilità di una lesione della quota di riserva spettante agli altri due fratelli coeredi per effetto dei contestati trasferimenti di denaro.
Per valutare in concreto se questi abbiano subito o meno una lesione occorre fare riferimento a quanto espressamente disposto dall’art. 556 del c.c., norma che, ai fini della determinazione della quota disponibile (e per converso della quota riservata agli eredi legittimari), impone di formare una massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al momento dell’apertura della successione, detraendone i debiti e riunendovi fittiziamente i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione.
Sulla massa ereditaria così calcolata (composta da relictum + donatum) si potrà andare a stabilire qual è la quota di riserva destinata a ciascuno degli eredi legittimari, tenendosi conto che nel caso di specie, avendo la defunta lasciato il coniuge e tre figli (come risulta dalla dichiarazione di successione inviata), norma applicabile sarà il comma 2 dell’art. 542 del c.c., per effetto del quale ai figli va riservata complessivamente la metà del patrimonio ereditario (da dividere in parti eguali tra loro), mentre al coniuge superstite un quarto, oltre ai diritti di uso e di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare.

Quindi, una volta stabilito il valore complessivo della massa ereditaria, dovranno rispettarsi le seguenti quote frazionarie:
coniuge: 6/24
figli: 4/24 ciascuno
disponibile: 6/24.
Se, come prima accennato, il conto corrente dal quale sono stati prelevati i soldi era cointestato tra madre e figlio, il trasferimento delle somme di denaro potrà essere considerato come donazione in ragione della metà (quindi, su 39.000 euro, solo per 19.500 euro si ha donazione); se, al contrario, si trattava di conto intestato solo alla madre, allora quel trasferimento dovrà computarsi come donazione per l’intero ammontare della somma trasferita (ovvero per 39.000 euro).


Per quanto attiene ai profili spiccatamente penali, in primo luogo va detto che il reato di appropriazione indebita punisce la condotta di chiunque, avendo il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, se ne appropria col fine di trarne profitto.

Si tratta di un delitto molto particolare che sussiste in presenza di due situazioni molto specifiche:

  • il possesso del denaro o della cosa mobile, con ciò intendendosi una situazione di dominio qualificato della cosa/denaro, conosciuta e tollerata dal legittimo proprietario;
  • un atto di “interversione” del predetto possesso, che sia idoneo a mutare quel dominio di cui si è detto. Verificatasi questa interversione, in poche parole, il possessore comincerà a utilizzare il denaro/bene, come ne fosse il proprietario.

Naturalmente, tutti questi elementi (presupposti dall’art. 646 c.p. dovranno essere sorretti dal dolo (diritto penale) del reato. Nello specifico, quindi, il soggetto agente, conscio della sua situazione di possesso, dovrà volontariamente compiere l’interversione di cui si è detto essendo, al contempo, cosciente che la stessa lede diritti altrui e, in particolare, i diritti del legittimo proprietario.

Tornando al caso di specie, valga quanto segue.

Indubbiamente possiamo affermare che la situazione del figlio ricevente la somma di 36.000 euro costituisca titolo idoneo a configurare quel possesso presupposto dell’appropriazione indebita.

Occorre, quindi, capire se una interversione del possesso c’è stata.

Ora, nel caso di specie, in realtà, una vera e propria interversione del possesso potrebbe essere inquadrabile nella condotta del figlio il quale, al momento della redazione della successione, ha appositamente omesso qualsivoglia informazione sull’esistenza – e sulla dazione – di quel denaro.

Si tratta, in effetti, di una condotta che è chiaramente indicativa della volontà, da parte del figlio, di servirsi del denaro come fosse proprio, pur essendo ben consapevole che quello stesso denaro avrebbe dovuto essere menzionato in sede successoria, quantomeno nell’ottica dell’affermazione di una ipotetica donazione di cui, comunque, si dovrebbe tenere conto nella formazione delle quote ereditarie. Parimenti, pochi dubbi possono sussistere in merito al fatto che, attraverso quella medesima condotta, sarebbero stati violati i diritti dei coeredi, chiaramente “espropriati” di una somma di denaro che avrebbe dovuto comporre la loro quota ideale di eredità.

Vero è che il figlio potrebbe sempre affermare – quantomeno al fine di ritenere insussistente il dolo di cui si è detto prima – che il denaro in questione era, per lui, una legittima donazione, ma tale circostanza comunque non avrebbe giustificato il nascondimento della cifra in questione al momento della successione.

Insomma, stando così le cose, il pericolo di ritenere sussistente il reato di appropriazione indebita risulta concretamente sussistente.


Anonimo chiede
mercoledì 07/07/2021 - Campania
“buongiorno, il Pubblico ufficiale ( appartenente alle forze armate o forze dell’ordine) che omette per dimenticanza di redigere il foglio di servizio o foglio di viaggio, è punibile ovvero si tratta di mera negligenza?”
Consulenza legale i 19/07/2021
Il foglio di servizio (o foglio di via, o diaria, che dir si voglia) è quel documento attraverso il quale il componente delle forze dell’ordine dichiara le spese sostenute per le più svariate missioni lavorative. Si tratta di un documento molto rilevante perché è proprio attraverso lo stesso che si legittima il successivo rimborso economico erogato dall’ordine di appartenenza.

Ora, l’omessa presentazione del foglio di via può essere causata da svariati fattori e, ai fini che interessano, due possono essere i casi: l’omissione trae origine da una mera dimenticanza, oppure da un concreto intento delinquenziale.

Nel primo caso, è molto difficile che la condotta possa essere sussunta nell’alveo di qualsivoglia reato stante il fatto che, come noto, per porre in essere qualsiasi fattispecie di rilevanza penale occorre non solo la condotta criminosa in senso oggettivo e fattuale, ma anche che la stessa sia sorretta da un elemento psicologico (il cd. dolo (diritto penale)) che è incompatibile con qualsiasi forma di “sbadataggine”.

Senza entrare in inutili tecnicismi sul dolo, lo stesso presuppone che il soggetto agente abbia commesso un fatto di reato con l’intento specifico di commetterlo, essendo altresì consapevole che si tratti di un comportamento illegittimo e assoggettato a sanzione penale.

Se, invece, il componente delle forze dell’ordine abbia appositamente dimenticato di redigere e consegnare la diaria con lo specifico fine di conseguire un rimborso (o parte di rimborso) cui non avrebbe avuto diritto (in tutto o in parte), allora tale condotta potrebbe avere una connotazione penale e, a seconda di come si svolge il comportamento nello specifico, potrebbero sussistere i reati di truffa (art. 640 c.p.) o di appropriazione indebita ( 646 c.p.).

Si noti, comunque, che la coloritura penale dell’eventuale condotta del pubblico ufficiale (357 c.p.) o persona incaricata di un pubblico servizio (358 c.p.) dipende anche dal concreto diritto al rimborso.

Quand’anche, infatti, il soggetto non abbia appositamente consegnato il foglio di via pur avendo diritto al rimborso, allora la condotta non avrà comunque una connotazione penale stante il fatto che si tratta di un caso del tutto inoffensivo nell’ambito del quale alcun nocumento patrimoniale verrebbe cagionato alla pubblica amministrazione di riferimento.

Giovanni D. B. chiede
venerdì 20/03/2020 - Veneto
“La mia società ha dato in affitto un capannone ad una start up per € 1.500 mese + iva. Dal settembre 2018 non paga più il canone di affitto. Noi, su consiglio del ns. legale abbiamo fatturato fino al gennaio 2019 e poi smesso di fatturare per non dover versare l'iva inutilmente. Abbiamo fatto richiesta di fallimento per € 33.000 comprendendo canoni non pagati e spese.
il tribunale, ieri, ha rigettato la richiesta, adducendo che i documenti ufficiali portano la somma di €23.000 e quindi inferiore ai € 30.000 e quindi rigetto. Noi abbiamo due problemi: il primo è il pagamento dei canoni scaduti (ora con il ns. commercialista avremmo concordato di emettere tutte le fatture mancanti e quindi andrebbe a superare abbondantemente il limite posto dal tribunale) questo è un problema per noi secondario; quello che a noi interessa è di avere la disponibilità del capannone in quanto l'affittuario ha all'interno un impianto pilota per la produzione di energia alternativa che non funziona e che occupa 1/3 del capannone. A loro non interessa rimuovere questo impianto sia per la spesa di rimozione che per il mancato interesse da parte dei soci all'attività. L'unico che portava avanti il progetto se me andato a lavorare per una impresa edile a Cuba. Ora sicuramente vorremmo procedere con una ulteriore richiesta di fallimento ma quello che chiediamo a voi se c'è un modo di denunciare questo cliente anche penalmente per il fatto che occupa il ns. capannone, non ci permette di venirne a possesso ed avviare altre attività lavorative.resto in attesa grazie”
Consulenza legale i 25/03/2020
La risposta al quesito è, purtroppo, negativa.

In effetti, facendo una rapida rassegna delle fattispecie di reato esistenti nel nostro codice penale, non ve n'è una che possa essere adattata al caso di specie. La maggior parte dei delitti contro il patrimonio (si pensi, ad esempio, all’appropriazione indebita di cui all’art. 646, al furto di cui all’art. 624 o alla truffa ex art. 640 del codice penale), invero, sono specificamente rivolti alla tutela della proprietà (e del possesso) soltanto dei beni mobili e non già dei beni immobili.

Prescindendo da tale circostanza, il caso di specie, in ogni caso, non presenta alcun aspetto di rilevanza penale atteso che i fatti descritti rappresentano un mero contenzioso di natura civilistica relativa all’omessa liberazione del bene immobile, regolarmente locato.

In conclusione, più che esperire una denuncia penale, si suggerisce di esperire tutte la azioni civilistiche volte allo sfratto del conduttore per ritornare in possesso del bene immobile.

Luigi B. chiede
lunedì 20/01/2020 - Lombardia
“Buongiorno, Vi ho già contattato il 21/07/2018 per un problema di allagamento e grazie alla Vs. risposta sono riuscito a far fare i lavori di manutenzione al Comune e ho risolto il mio problema.
Ora vorrei sottoporvi questo quesito. Mia moglie ha prelevato dal conto corrente bancario con me cointestato 8.000 euro e li ha versati su un libretto postale cointestato a lei e a un suo parente. Probabilmente non è la prima volta in quanto io non ho mai controllato gli estratti conto della Banca. Mia moglie ha inoltre prelevato solo per uso personale nel corso del 2019 il 75% della cifra disponibile ( saldo iniziale più versamenti ). Siamo in procinto di avviare le pratiche di separazione.
Si tratta quindi di appropriazione indebita perché il prelievo è superiore al 50% , e quindi deve restituire la differenza ?
Il parente cointestatario del libretto postale su cui sono stati depositati gli 8.000 euro è punibile per reato di appropriazione indebita con multa e reclusione ?
Cordiali saluti
Luigi Baruffaldi”
Consulenza legale i 05/02/2020
Il delitto di appropriazione indebita, previsto e punito dall’art. 646 del codice penale, necessita, per la sua commissione, che venga posta in essere una condotta molto articolata che consiste, essenzialmente, nell’impossessarsi di un bene (suscettibile di una valutazione economica, dunque anche denaro) di cui si ha la disponibilità ma non l’autorizzazione a che lo stesso venga usato come fosse il proprio.

Si pensi, ad esempio, all’autovettura che viene lasciata in deposito al parcheggiatore, il quale se ne appropri definitivamente portandola via e rendendo impossibile l’utilizzo al proprietario.

Si tratta di un reato la cui particolarità risiede proprio nel fatto che l’ipotetico reo, pur avendo a disposizione quel bene, non può utilizzarlo come fosse il proprio (in tale ottica, il reato in esame si distingue dal furto, in cui il bene, invece, è nel possesso del legittimo proprietario e gli viene improvvisamente sottratto).

Nel caso di specie, dunque, non sembra configurarsi il reato in questione.
L’esistenza del conto cointestato, invero, farebbe presupporre che la – quasi – ex moglie avesse tutti i titoli a disporre di quel denaro, elemento che farebbe venir meno la sussistenza del reato.

In ogni caso, il reato in esame sarebbe non punibile alla stregua del dettato dell’art. 649 del codice penale, stando al quale i fatti di appropriazione indebita sono scevri di rilevanza penale se commessi a danno del coniuge non separato.

Il fatto che, successivamente, sia intervenuta – o comunque interverrà – una sentenza di separazione non può determinare l’insorgenza del reato per fatti commessi anteriormente, e non punibili.

Non va dimenticato, infatti, che i principi cardine del diritto penale impongono che la condotta del soggetto agente vada valutata alla stregua della situazione di fatto al momento esistente e conosciuta, a nulla rilevando eventi futuri e/o incerti, come appunto una ipotetica separazione.

Quanto detto assorbe l’ulteriore quesito, volto a comprendere eventuali profili di responsabilità in concorso del cointestatario del libretto dove sono confluite le somme di cui vi sarebbe stata appropriazione: non essendoci il reato, è impossibile ipotizzare una qualsiasi ipotesi di concorso.

Si noti, in ogni caso, che per il reato di appropriazione indebita sarebbero spirati i termini per proporre la querela.

Giuseppe C. chiede
martedì 12/11/2019 - Calabria
“Buongiorno. Ho avuto notificato da oltre 4 mesi una chiusura di indagine con la contestazione dell'appropriazione indebita consumata nel 2010, 2011, 2012, 2013, 2014 (non ho ancora ricevuto richiesta di Rinvio a Giudizio).
Contestano artt. 61 n. 11, 81 co.2 110, 646 co.1, c.p. e 649 bis ult. parte c.p. (in relazione all'art. 61 n. 7 c.p.) con l'aggravante dell'aver commesso il fatto con abuso di relazioni d'ufficio. Con l'aggravante di aver cagionato alla p.o. (INPS) un danno patrimoniale di rilevante gravità. In Roma fino al 2014 (procedibilità ex artt. 649 bis ult. parte c.p. in relazione all'art. 61 n. 7 c.p.)
Domanda:
- Possono contestare l'appropriazione indebita se non c'è nessuna querela da parte della P.O. che non è l'INPS ma una Associazione Sindacale la quale in Congresso ha deliberato che non si sente P.O. in quanto nessuna contestazione mi è stata fatta. L'Artr. 61 n. 11 non è stato abolito? E l'art. 649 bis ult. parte non decorre dal 31 gennaio 2019?
Grazie”
Consulenza legale i 13/11/2019
Rispondiamo ai quesiti singolarmente.

In primo luogo, va detto che il diritto di querela spetta solo alla persona offesa dal reato e/o danneggiata dal reato. Vero è che, generalmente, le due parti coincidono ma, in alcuni casi, può non accadere. Prescindendo, comunque, dai tecnicismi teorici e giuridici (che in questa sede non rilevano), di certo vi sarebbe un difetto di procedibilità qualora l’Associazione Sindacale non fosse né persona offesa né avesse riportato un qualsivoglia danno dalla presunta condotta criminosa.

Quanto alla procedibilità del nuovo reato di appropriazione indebita (come modificato dal D. Lgs. 10 aprile 2018 n. 36 e entrato in vigore in data 9 maggio 2018) va chiarito quanto segue.
Non è vero che l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11) del codice penale è stata abrogata. Ciò che è stato abrogato è la procedibilità d’ufficio dell’appropriazione indebita qualora sussista soltanto la predetta aggravante.
Ne consegue, dunque, che la sussistenza della stessa è idonea a far “scattare” la procedibilità d’ufficio anche per il nuovo reato di appropriazione indebita – esattamente come previsto dall’art. 649 bis del codice penale - soltanto ove la stessa sia “accompagnata” da altre circostanze e, nello specifico:

- quelle ad effetto speciale (ovvero quelle che prevedono un aumento di pena di oltre 1/3);
- la persona offesa sia incapace;
- la persona offesa abbia riportato un danno di rilevante entità.

Tornando al caso di specie, leggendo la contestazione emerge proprio che la procedibilità d’ufficio dell’appropriazione indebita contestata viene giustificata per la sussistenza di entrambe le aggravanti di cui ai punti 11) e 7) dell’art. 61 del codice penale.

Ovviamente, quella del capo d’imputazione è la contestazione del pubblico ministero e, dunque, in caso di mancanza di querela, una buona strategia difensiva potrebbe essere quella di far cadere le aggravanti e, in tal modo, ottenere il proscioglimento per difetto della condizione di procedibilità.

LUIGI B. chiede
giovedì 06/12/2018 - Campania
“Padre e figlia sono vittime di circonvenzione di incapaci da parte di un terzo, il quale oltre a farsi dare parecchio denaro, grazie alla compiacenza di un direttore di banca e di un notaio è anche beneficiario di un mutuo di € 250.000,00, ottenuto dietro garanzia ipotecaria fornita dagli stessi con concessione di ipoteca volontaria di € 500.000 sull'appartamento di loro proprietà. Morto il padre, la figlia, dopo aver realizzato di essere stata vittima di un malfattore, lo denuncia e con lui anche il direttore di banca ed il suo vice, che avevano reso possibile, anche grazie ad un dubbio e sospetto comportamento notarile, tale circonvenzione. Il terzo, pagate poche rate, non paga più il mutuo, lasciando un debito residuo di € 226.000,00. La banca, poi, assumendo che i garanti de quo avevano anche garantito in favore del medesimo uno scoperto sul suo conto corrente fino alla concorrenza di € 30.000,00 e la mancata restituzione di tale importo a seguito della revoca del fido, proponevano decreto ingiuntivo nei confronti della sola figlia, risultando il padre ormai deceduto. Quest'ultima, temporaneamente lontana dalla sua residenza, opponeva in ritardo tale decreto, che diventava provvisoriamente esecutivo e, poi, definitivo a seguito della relativa sentenza di inammissibilità dell'opposizione. Successivamente, al fine di evitare che la banca, malgrado avesse una solida e capiente garanzia di € 500.000 sulla sua casa d'abitazione, potesse espropriargli anche un altro suo immobile (la sua casa vacanze) del valore di circa € 60.000,00, incaricava un suo cugino di secondo grado di provvedere alla vendita dello stesso anche perché non aveva più soldi ed era disoccupata, ma nel timore che durante il tempo occorrente per operare tale vendita la banca potesse iscrivere un'ipoteca giudiziale su tale immobile, rimasto l'unica sua risorsa di vita, ricercava una persona di fiducia al fine di simulare, nel frattempo, una vendita fittizia e venderlo, poi, effettivamente, avendo così più tempo a disposizione. Non trovando tale persona di fiducia, malgrado il cugino fosse, comunque, un suo parente di secondo grado, non avendo il suo stesso cognome e non avendo di meglio sotto mano, pensò infine, vista anche la richiesta dello stesso, che si proponeva disposto a farlo, di intestarlo allo stesso, dietro sottoscrizione di una sintetica dichiarazione dissimulatoria, operata anche in presenza di altri parenti/testimoni. Seguì, pertanto, un atto di vendita simulato nel quale dichiarava falsamente di avere un grosso debito con l'acquirente e di pagarlo con la vendita del suo immobile. Purtroppo, dopo aver fatto ciò, in seguito, scopriva che il cugino di secondo grado non provvedeva a vendere l'immobile e la convocava innanzi ad un centro di mediazione col motivo incomprensibile della vendita dell'immobile de quo e di altro immobile appartenente effettivamente al proponente. Decideva di accettare l'invito di mediazione per capire le intenzioni del cugino, ma questi, dopo averle proposto di acquistare i due immobili ad un prezzo che, praticamente, era riferibile ad uno solo di essi, seppure maggiorato, rinviava la mediazione al fine di produrre documentazione, ma negli incontri successivi, assumendo di avere in corso lavori urgenti per la relativa manutenzione di tali immobili non compariva, proponendo via via ulteriori incontri fino a quando è stato messo un punto a tale inutile perdita di tempo e la successiva ed immediata nuova proposta di mediazione riferita, questa volta, unicamente alla compravendita dell'immobile, di cui era fittiziamente proprietario, veniva riscontrata mediante una comunicazione al centro di mediazione, con la quale si faceva presente la fittizia intestazione di tale immobile, nonché l'assenza di lavori urgenti, atteso che l'immobile era nel possesso di fatto della legittima proprietaria, rifiutando ogni ulteriore incontro, se non preceduto da una maggiore chiarezza d'intento. Prima ancora di tale comunicazione, era stata inviata al cugino una email ed una pec, con la quale si chiedeva di consentire la vendita dell'immobile de quo ad un compratore interessato anche dietro un compenso economico, ma rimaste senza riscontro. Ora, considerato che il cugino si è di fatto appropriato di tale immobile, non consentendole neanche di venderlo, si è decisa a denunciarlo per appropriazione indebita.
I quesiti, che si pongono sono i seguenti: 1) atteso che è decorso il termine per la querela, è pacifica l'ammissibilità della denuncia, considerato la relazione di parentela e l'incarico di vendita conferito, seppure verbalmente, ma in presenza di testimoni; 2) è pacifica la ricorrenza del reato di appropriazione indebita nel caso esposto e quali sviluppi potrebbero esserci, ivi compresi quelli attinenti la costituzione di parte civile per il risarcimento dei danni, conseguenti anche alla perdita della possibile vendita al compratore seriamente interessato.”
Consulenza legale i 09/01/2019
Cominciando con la procedibilità del reato, va detto quanto segue.

Se, come affermato, i termini per proporre la querela erano effettivamente scaduti e i fatti sono avvenuti dopo il mese di aprile 2018, la querela predetta non sarà ammissibile e il procedimento penale verrà archiviato. Il D. Lvo. N. 36 del 10 aprile 2018 ha infatti abrogato il comma 3 dell’articolo 646 c.p. che consentiva la procedibilità d’ufficio in alcune ipotesi specificamente indicate nel comma stesso.

Qualora invece i fatti siano accaduti prima dell’aprile 2018, va allora compreso se la dinamica dei fatti sia idonea a integrare la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 11) del codice penale che farebbe scattare la procedibilità d’ufficio dell’appropriazione indebita.

Ora, considerato il tenore interpretativo del n. 11 dell’art. 61 e la giurisprudenza sul tema, sembra possibile concludere per la sussistenza dell’aggravante in questione che trova il suo fondamento nella necessità di fornire particolare tutela a situazioni che, essendo caratterizzate dall'affidamento di un soggetto verso un altro, pongono chi ne abusi in una posizione di arbitrario vantaggio nella commissione del reato.
L'abuso in particolare consiste nello sviamento della situazione di volta in volta contemplata dai limiti e dalle finalità che le sono proprie e deve essere volontario.
Alla luce di quanto su detto, ben potrebbe sostenersi che il rapporto parentale e l’incarico di vendita conferito fossero alla base di un affidamento della persona offesa che è stato violato in modo volontario.

Quanto invece al reato, lo stesso sembra difficilmente sussistente. L’appropriazione indebita infatti si configura solo allorché il soggetto sia in “possesso” del bene e non ne abbia la proprietà, per quanto fittizia. In tal senso depone il testo dell’articolo 646 c.p. quando parla di “altrui”.

V’è poi una ragione ulteriore che inequivocabilmente depone in senso opposto alla sussistenza del reato: per il codice penale oggetto di appropriazione indebita può essere solo il “denaro” o la “cosa mobile” e non già le cose immobili (come le abitazioni) che, di base, sono insuscettibili di “appropriazione” come intesa dall’articolo 646 c.p.

Continuando col rispondere al quesito, nella remota ipotesi in cui il processo dovesse andare avanti, sarà possibile per il soggetto offeso costituirsi parte civile e chiedere il risarcimento del danno da reato che potrebbe essere declinato non solo in un danno “morale” connesso al turbamento susseguente alla condotta posta in essere, ma anche il danno susseguente alla perdita del valore dell’immobile e alla perdita di “chance” ovvero il danno susseguente all’impossibilità di vendere l’immobile predetto a soggetti seriamente interessati.
Danni che, tuttavia, dovranno essere dimostrati e provati in modo molto specifico e puntuale nel corso del processo.

G. C. chiede
martedì 11/09/2018 - Calabria
“Buonasera.
Mi trovo indagato per il reato di cui all'art. 646 co 1 e 3, 61 n. 11 cp. per aver utilizzato delle somme di denaro di una associazione sindacale nella quale prima ne ero il segretario generale e successivamente autorizzato ad operare in modo diretto ed incondizionato.
Preciso che l'Organizzazione ne era a conoscenza e non ha presentato querela!
In base al D. lgs 10/4/2018 n. 36 ritengo che l'art. 10 ha abrogato il terzo comma e quindi serviva la querela di parte.
Non è il caso del comma due per la procedibilità d'ufficio in quanto non è stato causa di circostanze imprevedibili.
Potrei avere un parere? Grazie
G. C.”
Consulenza legale i 11/09/2018
L’art. 10 del D. lgs 10/4/2018 n. 36 ha effettivamente riscritto in modo notevole la procedibilità del reato di appropriazione indebita che, di fatto, ad oggi è perseguibile nella fattispecie base di cui all’art. 646 c.p. solo su querela di parte.

Va tuttavia rilevato quanto segue.

L’art. 11 del medesimo decreto ha altresì stabilito che «Per i fatti perseguibili a querela preveduti dagli articoli 640, terzo comma, 640 ter, quarto comma, e per i fatti di cui all'articolo 646, secondo comma, o aggravati dalle circostanze di cui all'articolo 61, primo comma, numero 11, si procede d'ufficio qualora ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale ».

Allo stesso modo, il successivo articolo 12 ha stabilito che «Per i reati perseguibili a querela in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa dal reato ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. Se è pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l'esercizio dell' azione penale, anche, se necessario, previa ricerca anagrafica, informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa e' stata informata».

La strategia processuale che si intende percorrere è in astratto corretta purché non sussista alcun elemento ostativo di cui all’art. 11 del medesimo decreto e a patto che non sia stata presentata querela dai soggetti legittimati, cose che non sembrano essere nel caso di specie.
Sembra infatti che il reato contestato non sia aggravato da alcuna circostanza ad effetto speciale; quanto invece alla querela, tenuto conto che l’Organizzazione (che avrebbe dovuto procedere) era già informata del fatto nel mese di aprile, avrebbe dovuto presentare querela entro e non oltre la fine di luglio. Dunque ad oggi è spirato il relativo termine.

Sembra dunque possibile che il procedimento possa chiudersi con un provvedimento di estinzione del reato per mancanza della condizione di procedibilità.

Stefano P. chiede
domenica 29/10/2017 - Umbria
“Possiedo una lavanderia,
Nel caso che si rovini un capo, e il cliente venga risarcito dalla lavanderia direttamente, ha diritto a riavere indietro il suo capo danneggiato?
Dico questo perché il cliente ci ha fatto notare, passandoci al telefono anche il suo legale, che se non restituivo il capo danneggiato, oltre al valore a nuovo dello stesso, la cliente sarebbe andata dai carabinieri e mi avrebbe esposto denuncia per appropriazione indebita.
Non potrebbe essere vero l'inverso e cioè che se io risarcisco il capo in più le restituisco il capo danneggiato (aveva un piccolo strappo di 1 cm. nella parte inferiore e ancora tranquillamente utilizzabile) sarebbe un illecito arricchimento per il cliente?
Grazie

Consulenza legale i 06/11/2017
La lavanderia, quando prende in consegna un capo, si assume rispetto a quest’ultimo un preciso obbligo di custodia.
Indipendentemente dal danno e dall’obbligo risarcitorio, il bene è solo in “possesso” della lavanderia, la quale dunque non può disporne a proprio piacimento.

Ad eccezione, in effetti, di casi particolari - come quello in cui il sinistro (danneggiamento del capo) sia stato denunciato ad una Compagnia Assicurativa e dunque occorra trattenere il bene al fine di farlo esaminare dal perito per una valutazione – la lavanderia è tenuta alla restituzione, perché esso rimane comunque di proprietà del cliente.

Sull’appropriazione indebita, non è in realtà così scontato né automatico che il reato si configuri in un caso come quello di specie.
La fattispecie tipica di cui all’art. 646 c.p., infatti, è così descritta “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”.
Ora, non c’è alcun dubbio sul fatto che la lavanderia abbia il possesso del capo che gli è stato consegnato dal cliente per il lavaggio.
Nel caso di ritenzione della cosa precedentemente ricevuta in custodia, il reato sussiste quando il possessore oppone un rifiuto immotivato o pretestuoso, quando nega di averla ricevuta o comunque si comporti dimostrando di voler tenere la cosa medesima per un tempo indefinito.

Il bene giuridico protetto è il diritto di proprietà, perché l’essenza del reato consiste nell'abuso del possessore, il quale, ad un certo punto, dispone della cosa come se ne fosse proprietario.
Tuttavia, la ritenzione della cosa, per assumere rilevanza penale, va valutata caso per caso: in particolare la norma richiede il “dolo specifico”, ovvero il fine di procurare a sé o ad altri un "ingiusto" profitto (economico, morale o di altro genere): il reato, di conseguenza, è escluso ogniqualvolta manchi l'ingiustizia del profitto.

Nel caso di specie, ad avviso di chi scrive, parrebbe mancare l’elemento psicologico del dolo specifico, perché non si vede in che modo la ritenzione – seppur indebita – del capo da parte della lavanderia possa consentire a quest’ultima di conseguire un ingiusto profitto. Ciò a maggior ragione, poi, in un caso come quello in esame in cui il capo in questione non è nuovo (per cui, per ipotesi, potrebbe essere rivenduto a qualche altro cliente oppure utilizzato dal titolare della lavanderia per indossarlo in una determinata circostanza) ma danneggiato.

La giurisprudenza però, si noti bene, afferma che: “Il delitto di appropriazione indebita è integrato dalla interversione del possesso che si manifesta nel momento in cui l'autore si comporti "uti dominus" - (come se ne fosse il proprietario, n.d.r.) -non restituendo il bene di cui aveva la disponibilità senza darne una giustificazione (…)” (Cassazione penale, sez. II, 21/04/2017, n. 25444); ed ancora (qui si parla di denaro ma il ragionamento vale anche per il caso in esame): “Il delitto di appropriazione indebita si consuma non nel momento in cui si riceve il denaro ma in quello in cui si assume consapevolmente un comportamento eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del relativo possesso ed incompatibile con il diritto del titolare.” (Cassazione penale, sez. II, 25/11/2016, n. 54281)

Alla luce di quanto sopra, si ritiene che il rischio della commissione del reato ipotizzato dal legale del cliente sia reale e concreto.

Diverso sarebbe il caso in cui la lavanderia avesse trattenuto il capo lavato (ma non danneggiato) in attesa che il cliente saldasse il proprio debito.
Il creditore infatti che, per varie ragioni detiene la merce altrui può trattenerla presso di sé e non restituirla al proprietario fino a quando questi non paga il corrispettivo dovuto. In questi casi si parla di “diritto di ritenzione”, che costituisce una forma di autotutela per i creditori e che non sconfina nel reato di cui si è parlato.
Tuttavia, lo si ripete, nel caso in esame non rientriamo in questa fattispecie.

Per quanto riguarda, infine, l’illecito arricchimento (art. 2041 cod. civ.) , non ne sussistono i presupposti.
Non sussiste infatti l’elemento, essenziale e necessario, dell’”altrui danno”, nel senso che la restituzione del bene al legittimo proprietario non comporterebbe per la lavanderia alcun pregiudizio, nel senso specifico di una diminuzione patrimoniale.

Laura V. C. chiede
venerdì 02/09/2016 - Piemonte
“Spett.le redazione, il primo maggio 2013 è mancata mia madre, la quale ha sempre convissuto con mia sorella nubile presso la residenza di famiglia. Mia madre era cointestataria di un conto corrente con mia sorella la quale il primo giorno lavorativo dopo la morte della mamma ha ritirato l'intera somma depositata, senza inserirla nell'atto di successione.
Vorrei sapere quale reato si configura e come posso agire.
Ho appreso anche qualche giorno fa che un'icona d'argento di proprietà di mia madre facente parte dell'arredamento di famiglia è stata da mia sorella regalata a terzi senza che io ne fossi interpellata.”
Consulenza legale i 06/09/2016
Per quanto concerne il conto cointestato, è ormai prassi consolidata che a cadere in successione sia solo la percentuale del conto di cui il titolare era il decuius. Si applica poi l’art. 1298, comma secondo c.c. e non l’art. 1854 c.c.: le quote del conto cointestato si presumono uguali.

Nel caso di specie è pertanto configurabile il delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., che è punibile a querela della persona offesa.

Anche la Corte di Cassazione ha più volte ribadito il concetto: “è, pertanto, configurabile il reato di appropriazione indebita a carico del coerede, cointestatario con il de cuius di un libretto di deposito bancario, il quale, pur se facoltizzato a compiere operazioni separatamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma in deposito in misura eccedente la propria quota parte” (cfr. C. Cass., sez. II, 25/10/2011 n. 38527).

Pertanto, lei, in quanto coerede lesa, ben può formalmente sporgere denuncia querela all’autorità giudiziaria per la condotta di sua sorella, tanto per ciò che concerne la somma del conto corrente da questa prelevata interamente tanto per ciò che concerne l’icona d’argento, magari facendosi aiutare nella stesura da un legale, per dare una contezza completa dei fatti.

Moreno M. chiede
domenica 07/08/2016 - Toscana
“Buongiorno
Sono stato condannato a dicembre 2016 a 4 mesi pena sospesa per appropriazione indebita per un reato (non) commesso nel gennaio 2008 di cui ho già presentato appello.
Il prossimo anno a luglio devo rinnovare il porto d'armi per uso di caccia. Ho il porto d'armi e licenza di caccia da 35 anni e non ho mai avuto problemi con la giustizia.
Il prossimo anno quando dovrò rinnovare il PDA possono negarmelo nonostante che questo reato non faccia riferimento ai casi previsti dal TULPS e/o ai reati contro la sfera personale, abuso di armi, alcol, stupefacenti ecc”
Consulenza legale i 09/08/2016
Per rispondere al quesito occorre leggere gli artt. 43 e 11 T.U.L.P.S., i quali regolano le condizioni ostative al rilascio del porto d’armi. In particolare, l’art. 11 prevede che “salve le condizioni particolari stabilite dalla legge nei singoli casi, le autorizzazioni di polizia debbono essere negate:

1) a chi ha riportato una condanna a pena restrittiva della libertà personale superiore a tre anni per delitto non colposo e non ha ottenuto la riabilitazione;

2) a chi è sottoposto all'ammonizione o a misura di sicurezza personale o è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza.

Le autorizzazioni di polizia possono essere negate a chi ha riportato condanna per delitti contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico, ovvero per delitti contro le persone commessi con violenza, o per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, o per violenza o resistenza all'autorità, e a chi non può provare la sua buona condotta.

Le autorizzazioni devono essere revocate quando nella persona autorizzata vengono a mancare, in tutto o in parte, le condizioni alle quali sono subordinate, e possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono a risultare circostanze che avrebbero imposto o consentito il diniego della autorizzazione.

L’art. 43 T.U.L.P.S. prevede che “Oltre a quanto è stabilito dall'art. 11 non può essere concessa la licenza di portare armi:
a) a chi ha riportato condanna alla reclusione per delitti non colposi contro le persone commessi con violenza, ovvero per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione;

b) a chi ha riportato condanna a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all'autorità o per delitti contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico;

c) a chi ha riportato condanna per diserzione in tempo di guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi.

La licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi”.
L’appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p. non pare essere annoverabile tra le condizioni ostative previste dalla legge, anche se il Consiglio di Stato ha più volte ribadito che “è nella discrezione della pubblica amministrazione vietare armi a soggetti che possono abusarne” (ex multis, Cons. Stato, sent. 14/11/2014 n. 5595). Non sembrerebbero però esserci motivi particolari per il diniego del porto d’armi al caso di specie.

Preme ancora ricordare come, attraverso la sospensione condizionale della pena il soggetto possa poi ottenere la pronuncia sull’estinzione del reato, la riabilitazione e, di conseguenza, la cancellazione del precedente penale dal casellario giudiziale.

Anonimo chiede
giovedì 04/08/2016 - Lazio
“Buonasera,
vi pongo il mio quesito:
sono Amministratore e socio unico di una S.r.l. immobiliare.
nel 2012 ho ricevuto una proposta e successivamente venduto una villetta di nuova costruzione al valore di €130.000. Il pomeriggio dello stesso giorno del rogito (stipulato in mattinata) venivano riscontrate delle mancanze concordate tra le parti in €20.000.
in qualità di amministratore consegnavo un assegno bancario di tale importo che, secondo gli accordi presi con l' acquirente sarebbe dovuto essere restituito al momento della consegna del mio assegno circolare entro la fine della settimana sempre pari allo stesso importo. Contrariamente agli accordi l' acquirente decise di bancare immediatamente l'assegno bancario e, vista l'indisponibilità dei fondi per coprire quell' assegno, mi apprestavo a fare un circolare di €20.000 per consegnarlo il giorno stesso (come in effetti feci).
Decidemmo di vederci in banca per versare il circolare e ritirare il bancario.
In banca ci comunicarono che per riavere l' ass. bancario nella filiale servivano alcuni giorni cosi che io e l' acquirente ci lasciammo con la nuova promessa di vedermi consegnato l' ass. bancario il prima possibile(promessa fatta tramite scrittura privata scritta di suo pugno);
Successivamente mi fece causa per altre motivazioni civili (classe energetica difforme dall' ape).

e penali (truffa perché "tramite artifici e raggiri consegnava un ape con risultanze diverse da quelle dimostrate dal CTU otteneva un ingiusto profitto pari alla spesa di riqualificazione energetica mai realmente sostenuta''. ndr l' attestato che ha determinato l' ape è stato redatto da un architetto con il quale non ho legami).

in sostanza la sentenza civile, oramai passata in giudicato - solo quella civile -, dichiara un suo credito pari ad €6.000 circa senza nulla dire riguardo la riconsegna del bancario.
posso io, arrivati a questo punto fare una denuncia-querela per appropriazione indebita richiedendo cautelativamente il sequestro dell' ass. bancario anche se sono passati ben più di 90 giorni da ogni accadimento? oppure è possibile affermare che i 90 giorni non sono terminati perché è tutt'ora in possesso dell' assegno bancario?
intravedete qualche altro reato nel suo comportamento?
in riferimento alla sua denuncia penale per truffa secondo voi ho qualche responsabilità per aver ricevuto il documento ed averlo rigirato al cliente al rogito visto anche che il compromesso è stato stipulato senza nulla dire dell' ape o della classe energetica se non che il relativo certificato sarebbe stato consegnato al rogito a sua volta stipulato poi allo stesso prezzo del compromesso?

grazie


Consulenza legale i 10/08/2016
Per quanto riguarda la prima domanda, va detto che il reato di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.) si consuma con il compimento della condotta appropriativa, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, ovvero nel momento in cui il soggetto si appropria della cosa altrui con l’intenzione di utilizzarla “uti dominus”, vale a dire come se ne fosse il proprietario (e quindi di farne l’uso che crede, indebitamente).
Nel caso concreto in esame pare difettare, tuttavia, l’elemento soggettivo del reato: il possessore si è impegnato, infatti, a restituire l’assegno “il prima possibile”; dunque, ad avviso di chi scrive, si potrebbe sostenere che manchi, allo stato, la prova della coscienza e volontà di appropriarsi della cosa altrui al fine di disporne, pur sapendo di non averne diritto, ed allo scopo di trarne una qualche utilità.
Anzi, esiste un accordo scritto nel quale il possessore manifesta una volontà del tutto contraria, ovvero riconosce di dover restituire il titolo perché non suo.

In forza di tali considerazioni, non è privo di fondamento né di logica ritenere che il reato non sia stato ancora consumato: nel momento in cui si avrà la certezza o anche il solo ragionevole sospetto (desumibile da elementi anche indiziari) che il possessore intende trattenere l’assegno in sue mani senza volontà di restituirlo ma anzi con l’intento di trarne beneficio, inizieranno allora a decorrere i 90 giorni per sporgere denuncia-querela per appropriazione indebita.
Nella condotta dell’attuale possessore dell’assegno – per il solo fatto di averlo ancora con sé e tardare a restituirlo, o comunque di aver promesso di farlo e rimanere inadempiente all’obbligo – non si ravvisano altre fattispecie di reato, ma solamente eventuali responsabilità di natura civile (inadempimento e conseguente risarcimento del danno).

Per quanto riguarda, invece, la consegna di un Attestato di Prestazione Energetica (APE) non veritiero nel contenuto, si ritiene poco percorribile la strada di una denuncia per truffa (art. 640 cod. pen.).

Quest’ultima, infatti, richiede – ai fini della configurazione concreta del reato – che il soggetto abbia posto in essere “artifizi e raggiri” idonei ad indurre in errore l’altra parte.
Secondo la giurisprudenza: gli “artifizi” sono da intendersi “quale simulazione o dissimulazione che operi sulla realtà esterna, creando nella vittima una falsa rappresentazione della realtà medesima” mentre i “raggiri” sono “ravvisabili in ogni attività diretta senza vie intermedie sull'altrui psiche, sì da creare nel destinatario un motivo all'agire fondato su una falsa convinzione o su analogo fatto motivante” (per tutte, Tribunale Milano, sez. II, 18 aprile 2007).

Nella fattispecie concreta, tuttavia, nel semplice impegno scritto di consegna del documento in questione all’atto del rogito e/o nella successiva consegna del documento stesso come da accordi, non si ravvisa alcun “artifizio” o “raggiro” specificamente volto ad ingannare ed indurre in errore (nessuna preordinata "simulazione" che operi sulle circostanze di fatto, né l'induzione ad una falsa convinzione).

Si tratta, ad avviso di chi scrive, di un semplice inadempimento di natura e rilevanza meramente civilistica (per legge, purtroppo, chi vende il bene è tenuto a consegnare l’attestato in questione all’acquirente e risponde del suo contenuto, salva ovviamente la prova della buona fede e dell’addebitabilità del fatto a diverso soggetto, come, per esempio, il tecnico che lo ha redatto), per cui il venditore aveva l’obbligo di presentare un documento veritiero e conforme allo stato reale dell’immobile e non l’ha fatto (se per sua responsabilità diretta o del tecnico imperito e/o negligente andrà accertato, o è già stato accertato, in sede civile).

In definitiva la semplice promessa o, più correttamente, il semplice obbligo disattesi non possono certo costituire, ad avviso di chi scrive, un inganno artificioso e preordinato al profitto, tanto da ravvisarsi nel caso in esame una fattispecie di truffa (peraltro, seguendo il ragionamento contrario, si finirebbe per punire indiscriminatamente e in maniera generalizzata sotto il profilo penale pressoché tutti i casi di inadempimento ad obbligazione civile).

Giorgio C. chiede
lunedì 16/05/2016 - Sardegna
“L'utilizzo del cellulare dell'Associazione UNPLI Unione Nazionale Pro Loco d'Italia solo e quasi esclusivamente per scopi personali è individuato come reato e nel caso di quale reato si tratta e come va denunciato? Grazie”
Consulenza legale i 25/05/2016
L’Unione Nazionale Pro Loco d’Italia (UNPLI), costituita da circa 6.000 Pro Loco iscritte, è un'associazione di promozione sociale.
In sostanza, l'UNPLI è un'associazione di tipo privatistico, tuttavia, a causa degli scopi meritevoli di tutela che si prepone da Statuto, riceve (o meglio, potrebbe ricevere) dei contributi dallo Stato, da altri Enti pubblici, e anche dall'Unione Europea, come previsto dall'art. 20.1 dello Statuto della UNPLI:
"Le risorse economiche, con le quali l'UNPLI provvede al funzionamento ed allo svolgimento della propria attività, sono:
a) quote e contributi dei soci;
b) eredità, donazioni e legati;
c) contributi dell'Unione Europea e di organismi internazionali;
d) contributi dello Stato, delle regioni, delle province, di enti locali, di istituzioni o di enti pubblici, anche finalizzati al sostegno di specifici e documentati programmi realizzati nell'ambito dei fini statutari";
(...)
Con riferimento al quesito posto, in primo luogo, occorre rilevare che andrebbe comunque approfondita preliminarmente l'entità degli importi contestati per l'acquisto e l'utilizzo del cellulare.
Si pensi all'ipotesi in cui, con riferimento al contratto di telefonia, sia stato sottoscritto un abbonamento che preveda dei costi fissi a fronte di chiamate o traffico internet illimitato; in questo caso, difficilmente potrebbe sostenersi il concretizzarsi di un danno patrimoniale - rilevante anche ai fini penali - per l'Associazione oppure per lo Stato.
In secondo luogo, non sembra banale l'individuazione dell'eventuale responsabilità penale ascrivibile in capo al soggetto in questione, poiché tale comportamento potrebbe rilevare diversamente in relazione al ruolo, alla qualifica e all'inquadramento del soggetto all'interno dell'UNPLI.
In terzo luogo, proprio in virtù dell'art. 20.1 dello Statuto della UNPLI, occorrerebbe altresì indagare se l'acquisto e le spese sostenute per il cellulare in questione sono stati coperti con stanziamenti "propri" dell'Associazione, oppure, al contrario, tale acquisto e utilizzo del cellulare sia stato consentito da finanziamenti pubblici.
Ciò premesso, all'esito di una prima analisi preliminare, che tuttavia non può prescindere da un ulteriore approfondimento volto a chiarire almeno le problematiche già evidenziate, per quanto attiene agli eventuali profili di responsabilità penale, si potrebbe indagare l'ascrivibilità del reato di appropriazione indebita di cui all'art. 646 del c.p., il quale prevede che: "Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 1.032 euro".
Si potrebbe valutare la possibilità di depositare una denuncia presso la Procura della Repubblica, nella quale si ricostruisca (e si documenti) il comportamento ritenuto penalmente rilevante.
In questo modo si potrebbe dare avvio all'azione penale volta ad accertare la sussistenza, sia del reato eventualmente individuato nella denuncia, sia di ulteriori fattispecie eventualmente riscontrate.

Si ribadisce però che, in base alle informazioni fornite, non risulta possibile affermare con certezza che il comportamento descritto nel quesito assuma rilevanza penale.

Bruno F. chiede
martedì 12/05/2015 - Piemonte
“Premetto che il condominio per conto del quale invio questa mail partecipa necessariamente ad un consorzio acqua per la fornitura dell'acqua e ad un consorzio strada per la strada privata di servizio.
Partecipano al consorzio acqua 6 case (noi inclusi), al consorzio strada 14 case (sempre noi inclusi) Sia il ns. condominio che i due consorzi sono amministrati dalla stessa persona.
Tenendo ben presente la premessa, sottopongo al Vs. giudizio tre punti sui quali desidero vivamente sentire il Vs.parere.

1. Nel rendiconto e nel consuntivo 2013 del condominio in cui abito risulta una spesa per acqua di Eu 2960,56, che si riscontra anche nel consuntivo 2013 del consorzio acqua come ns.acconto versato.
Tale importo doveva essere ovviamente addebitato sul c/c bancario del condominio e trasferito sul c/c bancario del consorzio acqua. Invece non c'è alcuna traccia dell'accredito negli e/c bancari 2013 e 2014 del consorzio acqua che sono a mie mani. Mi mancano però gli e/c bancari del ns. condominio su cui deve risultare l'addebito.
Insomma, il condominio ha pagato una somma che il consorzio acqua non ha mai ricevuto!
L'amministratore non dà alcuna spiegazione convincente in merito. Da notare che il consorzio acqua non ha mai sollecitato i pagamento al condominio. Questo perché - come detto sopra - l'amministratore del primo è anche l'amministratore del secondo, per cui avrebbe dovuto sollecitare se stesso!
A noi del condominio pare che si possa formulare un'ipotesi di appropriazione indebita perseguibile penalmente.

2. In data 6 maggio 2014 risulta, negli e/c bancari dei due consorzi, un bonifico di Eu 3293,05 del consorzio strada al consorzio acqua. L'operazione non ha riscontro nel rendiconto e nel consuntivo 2014 dei due consorzi. L'amministratore non dà spiegazione di tale bonifico. A noi pare che avvenga un illecito impoverimento del consorzio strada ed un illecito arricchimento del consorzio acqua e che l'amministratore sia perseguibile legalmente. Ricordo ancora che entrambi i consorzi sono amministrati dalla stessa persona.

3. L'e/c bancario del consorzio acqua riporta i seguenti assegni a debito:
25/07/14 Eu 1006
04/11/14 " 976
17/12/14 " 1671,40
Essi non appaiono nel rendiconto e nel consuntivo 2014 del consorzio acqua. Gli importi risultano però nel rendiconto e nel consuntivo 2014 del consorzio strada come spese (pulizia strada II trimestre Eu 1006, III trimestre Eu 976 e sgombero neve Eu 1671,40). Trattasi chiaramente di spese riguardanti il consorzio strada, pagate in data 25/7, 4/11, 17/12, con assegni a carico del consorzio acqua.
Tali importi vengono poi rimborsati il 17/12/2014 con bonifici dal consorzio strada al consorzio acqua, come risulta dagli e/c bancari dei due consorzi a mie mani.
A noi pare che l'amministratore abbia fatto un illecito uso delle disponibilità del consorzio acqua e che quindi sia perseguibile legalmente.
Grazie per la risposta e cordiali saluti.”
Consulenza legale i 18/05/2015
L'art.1129, comma 7, c.c., nella nuova formulazione a seguito della novella del 2012, prevede l'obbligo per l’amministratore di far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini e dai terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente postale o bancario, intestato al condominio.

La gestione del conto condominiale in maniera irregolare da parte dell'amministratore può configurare diversi tipi di illeciti, sia civili che penali, con sanzioni diverse.
Nel caso di specie, in particolare, possono ravvisarsi due ipotesi:
1) illecito civile, consistente nell'inadempimento ai doveri di mandatario dell'amministratore, in tutte le ipotesi in cui vi sono spostamenti di denaro non giustificabili tra i tre diversi conti, ma non risultino tuttavia sottratte delle somme;
2) illecito penale, nel caso descritto al punto 1., laddove l'amministratore abbia sottratto al conto condominiale degli importi senza alcuna giustificazione, presumibilmente a suo vantaggio.

1)
Dal punto di vista civilistico, il rapporto tra condominio e amministratore viene generalmente ricondotto nell'ambito del contratto di mandato (artt. art. 1703 del c.c. ss. c.c.), in forza del quale quest'ultimo acquista il potere di rappresentare il condominio e di dare esecuzione alle deliberazioni dell'organo assembleare. Nell'esecuzione del contratto, il mandatario-amministratore, deve agire con la diligenza del buon padre di famiglia, ai sensi dell'art. 1176 del c.c.: la violazione di tale obbligo di diligenza comporta la responsabilità dell'amministratore e la sua condanna al risarcimento del danno.

Inoltre, ai sensi del rinnovato art. 1129, comma 12, la gestione del conto corrente con modalità che possono ingenerare confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell’amministratore o di altri condomini, è motivo di revoca dell’amministratore, anche su disposizione dell’autorità giudiziaria.

La revoca dell'amministratore può essere deliberata in ogni tempo dall'assemblea, con la maggioranza prevista per la sua nomina oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio. Può altresì essere disposta dall'autorità giudiziaria, su ricorso di ciascun condomino, nel caso previsto dal quarto comma dell'articolo 1131, se non rende il conto della gestione, ovvero in caso di gravi irregolarità.

La responsabilità civile dell'amministratore ci sembra configurabile in tutti e tre i casi descritti nel quesito.
Va, però, precisato, che l'irregolarità della gestione che non abbia cagionato danno ai condomini potrà essere solo motivo di revoca dell'amministratore, atteso il venir meno del rapporto di fiducia con tale persona, mentre non potrà esservi risarcimento del danno se un pregiudizio non sia concretamente riscontrabile (e dimostrabile da parte dei condomini).

2)
Sotto il profilo penale, il comportamento dell'amministratore che sottrae somme al condominio può essere configurato come appropriazione indebita, reato che punisce chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso (art. 646 del c.p.).
Il dolo è specifico, vale a dire il reo deve agire consapevolmente, anche con l’intenzione di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto.
La giurisprudenza ha riscontrato in più occasioni il reato in esame in capo ad amministratori condominiali, quando questi abbiano direttamente distratto somme dal conto condominiale. Il reato è stato configurato anche in caso di omesso utilizzo delle somme ricevute dai condomini per gli scopi prefissati dall'assemblea condominiale ("Integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore condominiale che, ricevute le somme di denaro necessarie dai condomini, ometta di versare i contributi previdenziali per il servizio di portierato", Cass. pen., sez. II, 11.11.2010 n. 41462).
Quanto al momento di consumazione del reato, secondo la giurisprudenza, l’amministratore del condominio configura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza, con la conseguente applicabilità, nei rapporti tra l’amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul mandato (v. Cass. civ., sez. II, 12.2.1997, n. 1286; Cass. civ., sez. II, 14.12.1993, n. 12304): di conseguenza, considerato che, ai sensi dell’art. 1713 del c.c., il mandatario deve rendere al mandante il conto e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato, l’obbligo di restituzione sorge a seguito della conclusione dell’attività gestoria, salvo che l’estinzione avvenga prima di tale conclusione, e deve essere adempiuta non appena tale attività si è realizzata (Cass. pen., sez. II, 17.5.2012, n. 18864).
Di regola le somme vanno rimesse al mandante-condominio in seguito al rendiconto annuale (momento di chiusura della gestione annuale) ma, ove ciò non avvenga, la restituzione va comunque effettuata una volta che la gestione si conclude definitivamente, con revoca dell'incarico e nomina di nuovo amministratore.

Naturalmente, nel caso specifico indicato nel quesito al n. 1, si dovrà verificare se la somma presuntivamente mancante è stata illegittimamente "intascata" o distratta dall'amministratore. Se, invece, questi ha pagato le spese del consorzio acqua utilizzando le somme del conto condominio, semplicemente omettendo il passaggio formale degli importi da un conto all'altro, si rientra nell'ipotesi di irregolarità della gestione, sanzionabile con la revoca dell'incarico di amministratore e con il risarcimento dell'eventuale danno.

Mario D. F. chiede
domenica 01/02/2015 - Campania
“Nel 1999, dalla banca, mi viene pignorato il V° stipendiale, presso il mio datore di lavoro dell'epoca (terzo pignorato). Nel 2014 il giudice ordina lo svincolo della somma pignorata (su libretto postale fruttifero e vincolato a mio favore); nel Novembre u.s.chiedo all'ex mio datore di lavoro (mi sono pensionato nel 2005) la somma accantonata ma non ho mai ricevuto risposta scritta in merito; verbalmente mi offrono la metà dell'importo e senza interessi.
Preciso che le somme accantonate dal datore di lavoro non sono mai state consegnate al mio creditore. Il datore ha accantonato il quinto fino alle mie dimissioni nel gennaio 2005. La vertenza è finita nel 2014.
Ulteriore chiarimento: il creditore nelle more della vertenza, cede il suo credito ad una consociata,la quale continua il giudizio e lo perde,in primo grado e in appello non si costituisce. Da qui la mia richiesta al giudice di liberare la somma trattenuta dal primo creditore.
In merito all'art. 646 C.P. "appropriazione indebita", da parte del terzo pignorato, aggravata dal fatto che la somma sia stata vincolata, è perseguibile d'ufficio su semplice mia querela, esponendo per iscritto il diritto in tribunale, oppure debbo affidarmi ad un avvocato? Grazie e per l'occasione, gradite i migliori distinti saluti.”
Consulenza legale i 05/02/2015
Nel caso di specie, due sono le strade ipotizzabili: quella penale e quella civile.

Partendo da questa seconda, sembra consigliabile agire con ricorso per decreto ingiuntivo. Si tratta di un procedimento civile speciale, caratterizzato dal fatto che il titolare di un diritto di credito (deve trattarsi di una somma liquida - cioè determinata - di denaro), in possesso dei requisiti prescritti dalla legge, può ottenere un decreto di condanna (decreto ingiuntivo, appunto) nei confronti del debitore, in forme più celeri ed agevoli rispetto a quelle tipiche del processo ordinario di cognizione.

Nel nostro caso, esiste una sentenza che ordina lo svincolo della somma pignorata, che può costituire la prova scritta del diritto dell'ex debitore ad ottenere la restituzione della somma accantonata dal datore di lavoro, come richiesto dall'art. 633 del c.p.c.. Inoltre, la restituzione è giustificata dal fatto che il credito in relazione al quale venne effettuato il pignoramento si è estinto (visto che - supponiamo - la sentenza di primo grado che ha dato ragione al debitore è passata in giudicato, per non essere stata appellata ritualmente).

Come già detto, si tratta di un procedimento speciale, molto veloce (il decreto viene emesso solitamente entro poche settimane dal deposito del ricorso), ma che richiede l'assistenza di un avvocato. Se non vi è opposizione da parte dell'ingiunto - cioè il datore di lavoro - il decreto diviene definitivo trascorsi 40 giorni dalla sua notifica (art. 647 del c.p.c.), il che significa che poi può essere posto in esecuzione; in altre parole, sarà possibile chiedere un pignoramento contro il datore di lavoro ingiunto.

Potendo esaminare il provvedimento con cui il giudice ha disposto lo svincolo della somma pignorata, si potrà valutare se esso stesso non costituisca già un titolo esecutivo contro il datore di lavoro: in questo caso, non servirebbe nemmeno ottenere prima un decreto ingiuntivo, ma si potrebbe già notificargli il precetto e quindi procedere a pignoramento laddove non paghi spontaneamente.

Quanto al reato di appropriazione indebita, si è molto discusso circa l'"altruità" del denaro che il datore di lavoro accantona per doverlo dare al creditore pignorante.

In un caso simile a questo - simile perché qui che il terzo pignorato doveva versare al creditore il quinto dello stipendio a seguito di cessione volontaria e non di pignoramento - le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 37954 del 20.10.2011, hanno statuito: "Non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo"; "non potrà ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo". I giudici di legittimità hanno sottolineano che nella fattispecie concreta faceva difetto l'elemento costitutivo della fattispecie di appropriazione indebita dato dell'altruità del bene: il datore di lavoro, infatti, non si era "appropriato" di denaro di pertinenza della dipendente, ma si limitava a "trattenere" somme che di fatto a questa non erano mai state trasferite in proprietà. Quindi, il datore di lavoro veniva certamente meno ad un suo obbligo civile, ma non tratteneva per sé denaro altrui ("... non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili, non essendo prevista – ad opera dei datori di lavoro, di alcun tipo – la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini dell’assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall’art. 36 Cost. Sicché non v’è modo di configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita").
Vista la similitudine dei casi, si ritiene che la configurazione del reato di appropriazione indebita, anche nel nostro caso, non sia così automatica.

Si consiglia quindi di valutare con priorità la strada civilistica di recupero del credito e solo in un secondo momento di analizzare la via di una denuncia penale.

Per completezza, va rilevato che il reato di appropriazione indebita, se aggravato, è procedibile d’ufficio: pertanto, chi venga a conoscenza del fatto non ha termini per poter proporre la propria denuncia.
In assenza di aggravanti, è procedibile a querela con presentazione della medesima entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato.
Nel caso di specie si potrebbe ipotizzare l'aggravante di cui al n. 11 dell'art. 61 del c.p. ("l'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, o di ospitalità").
La querela può essere presentata personalmente dalla persona offesa, anche se è sempre consigliabile farsi assistere da un avvocato anche in questa fase.
Ricordiamo inoltre che il reato di appropriazione indebita si prescrive normalmente in 6 anni.

Cliente chiede
martedì 04/06/2024
“Può il proprietario, su espressa richiesta dell'inquilino, rifiutarsi di mostrare le bollette quando questi domanda di visualizzarle? Può il comportamento del proprietario rilevare in termini di responsabilità qualora, al termine del contratto di affitto, pretenda che gli vengano pagate tutte le bollette, senza che l'inquilino abbia potuto, volta per volta, constatarne l'effettivo ammontare? Può ritenersi negligente il comportamento di quel proprietario che, rimanendo intestatario delle utenze, poco prima della stipula del contratto, non provvede all'
"aggiornamento" delle medesime (luce nello specifico, nel caso di specie l'inquilino pagava delle bollette pari ad un importo di almeno tre volte superiore a quello che, se il proprietario avesse
"aggiornato" i costi, avrebbe pagato)? Può il proprietario decidere, al termine del contratto, di non restituire la somma versata a titolo di deposito cauzionale, subordinando la restituzione della stessa al pagamento delle bollette ancora non pagate? Che valore ha quella clausola contrattuale che consente al proprietario di provvedere alla restituzione del deposito cauzionale entro e non oltre quindici giorni dal termine del contratto di locazione? vi sono per caso gli estremi del reato di appropriazione indebita?”
Consulenza legale i 17/06/2024
Il comportamento del locatore che - stando a quanto viene riferito - durante il rapporto di locazione impedisce al conduttore di esaminare le bollette relative alle utenze, per poi pretenderne il totale pagamento a fine locazione e rifiutarsi, così, di restituire il deposito cauzionale finché non avvenga il rimborso, appare sicuramente contrario a quei principi di correttezza e buona fede cui deve essere improntato il comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.).
Quanto al deposito cauzionale, il punto 10) del contratto di locazione concluso tra le parti prevede espressamente l’obbligo di restituzione della relativa somma al termine della locazione, entro e non oltre quindici giorni dalla riconsegna dell’immobile, con la precisazione “previa verifica dello stato dell’unità immobiliare e dell’osservanza di ogni obbligazione contrattuale”.

Ora, la giurisprudenza ha affermato più volte che “al termine del contratto di locazione, il locatore può sottrarsi all'obbligo di restituzione del deposito cauzionale, a condizione che proponga domanda giudiziale per l'attribuzione dello stesso, in tutto o in parte, a copertura di importi rimasti impagati, ovvero di specifici danni subiti, di qualsiasi natura” (così ad. es. Cass. Civ., Sez. VI - 3, ordinanza 05/01/2023, n. 194).
Ancora, secondo Cass. Civ., Sez. III, sentenza 05/07/2019, n. 18069: “nel contratto di locazione, l'obbligo di restituzione del deposito cauzionale sorge in capo al locatore al termine del rapporto, non appena avvenuto il rilascio dell'immobile locato, con la conseguenza che, ove il locatore trattenga la somma dopo tale evento, senza proporre domanda giudiziale per l'attribuzione, in tutto o in parte, della stessa a copertura di specifici danni subiti o di importi rimasti impagati, il conduttore può esigerne la restituzione”.

Riassumendo, per poter legittimamente trattenere il deposito cauzionale oltre la riconsegna dell’immobile oppure oltre il diverso termine stabilito nel contratto stesso, il locatore deve proporre apposita domanda giudiziale. Se non lo fa, non può rifiutarsi di restituire il deposito.
Quando alla voltura delle utenze, la stessa non è prevista come obbligatoria dalla legge: tuttavia il conduttore - che lamenta di dover subire il pagamento di importi maggiori, non avendo potuto beneficiare delle tariffe più basse riservate ai clienti residenziali - ben avrebbe potuto pretendere di effettuare la voltura medesima al momento della conclusione del contratto.


Sul fronte penale, invece, valga quanto segue.
Come noto, l’appropriazione indebita è un reato previsto dall’ art. 646 del c.p. che punisce la condotta di colui il quale, avendone il possesso, si appropri del denaro o della cosa mobile altrui per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto.
Ora, ragionando in modo asettico, nel caso di specie è possibile supporre la sussistenza del reato in questione, di cui sembrano essere integrati tutti gli elementi:
  • il possesso, determinato dal semplice fatto che il deposito viene effettivamente immesso nelle mani del locatore, che ha la possibilità di esercitare un dominio autonomo su quella somma di denaro;
  • il fine di profitto, chiaramente individuabile nell’intenzione di lucrare su presunte spese mai sostenute dal locatore;
  • l’appropriazione vera e propria, che si può anche sostanziare in un mero rifiuto di restituzione del denaro o della cosa mobile.
In ogni caso, è indispensabile rilevare che la sussistenza del reato dipende dalla legittimità o illegittimità della pretesa del locatore, potendo ipotizzarsi l’appropriazione solo se dovesse accertarsi – e provarsi - che il locatore fosse perfettamente a conoscenza dell’illegittimità delle sue richieste in merito alla questione del pagamento delle utenze.
In caso contrario la ritenzione del denaro da parte del locatore sarebbe del tutto legittima e non avrebbe alcun profilo di rilevanza penale.

Va comunque specificato quanto segue.
Nel caso delle vicende contrattuali, il confine tra appropriazione indebita e inadempimento contrattuale/violazione contrattuale è estremamente labile. Accade spessissimo che le due cose vengano confuse e/o che la questione penale passi in secondo piano, anche in considerazione del fatto che, giustamente, il penale non può sconfinare in ambiti che non gli sono propri, di matrice spiccatamente civilistica.
È per questa ragione che si consiglia di procedere per vie penali solo laddove, in un’ipotetica denuncia - querela, il soggetto leso sia in grado di fornire diversi indizi molto pregnanti sulla sussistenza del reato, partendo proprio dalla prova attinente all’illegittimità delle richieste di pagamento delle bollette.

R. P. chiede
mercoledì 11/10/2023
“Aprile 2023 – 11 condomini su 24, per vari motivi, chiedono ad amministratore condominio convocazione assemblea straordinaria. Amministratore anziché convocare assemblea richiesta si dimette e nella circostanza invita i condomini a procedere alla convocazione di una assemblea per la elezione di un suo sostituto. Amministratore si riservava invio conto consuntivo 2022.
Giugno 2023 – Assemblea condominio nomina nuovo amministratore al quale viene trasmesso il verbale assembleare della sua nomina. Nuovo amministratore convoca assemblea con ad ordine del giorno tra le altre cose - approvazione bilancio consuntivo 2022 (redatto da amministratore dimissionario)
06/07/2023 - assemblea delibera:
I condomini approvano il bilancio salvo rettifiche che dovrà effettuare il geometra ZZZZZ (il dimissionario) e piu' precisamente
"Tutte le fatture inerenti la gestione 2023 devono essere decurtate dalla
Contabilità 2022 ed inserite nel consuntivo 2023 dal geometra XXXXX(nuovo amm.re)"

I condomini segnalano perplessità circa la cifra relativa all'onorario del Geometra ZZZZZ sia per competenza di mesi di amministrazione che di
Tariffario.
Verificare i movimenti bancari dalla data di raccomandata del 07 aprile 2023 del Geometra ZZZZZ fino al momento del subentro del geometra XXXXX con la Firma sul conto corrente.
Il nuovo amministratore decide di non tenere conto del contenuto del citato consuntivo 2022 e procede con un preventivo 2023.
Luglio 2023 - accesso agli atti condominio (amministratore uscente ha consegnato registro verbali, datti catastali condominiali e fatture. Manca la maggiori parte dei documenti).
Nel controllo conto corrente relative alla gestione del 2022 si evidenzia che l'amministratore si è liquidato (28.12,22) una fattura di € 797,08.
Di tale fattura non vi è alcuna indicazione nel consuntivo 2022 (ne' quale unica fattura ne' quali singole voci di spesa) e non era nemmeno allegata alla documentazione trasmessa al nuovo amm.re.

Ottobre 2023 – verosimilmente a richiesta del amm.re in carica il vecchio le fa pervenire la fattura mancante della quale si riporta il contenuto

Le voci di spesa fatturate risultano già approvate (per somme superiori) nel consuntivo 2021 (consuntivo fattosi approvare all’unanimità dal medesimo amm.re)

Di seguito riporto voci e cifre approvate nel consuntivo 2021 approvato ad unanimità in assemblea del 16/11/2022.
Alla voce "proprietà tutti" sono riportate:
- modello 770 e certificazione unica fornitori 2020 .......ditta......448.35
- parcella ritenuta acconto ...........ditta....... 256.20
- fotocopie, cancelleria, telefoniche.......ditta.......... 240.00

In tutti i consuntivi fatti da ex amministratore solo il corrispettivo per il 770 è riportato nell'anno successivo a quello interessato. Le altre fatture sono tutte relative al periodo cui il consuntivo fa riferimento.
Le voci della fattura sono identiche alle voci della delibera assembleare mentre cambiano i compensi.
Tutto ciò premesso si chiede:
La fattura in questione potrebbe essere falsa?
È regolare che per emolumenti pagati e già approvati da assemblea condominiale perchè inserite nel consuntivo 2021 venga emessa e liquidata una nuova fattura?
È regolare che la fattura di cui al punto precedente non sia inserita nel consuntivo 2022?
È regolare che a tutt’oggi l’amministratore dimissionario non abbia ancora consegnato tutta la documentazione del condominio?
E’ regolare che il nuovo Amm.re non informi i condomini della esistenza della fattura (importo già liquidato, mancato inserimento nel consuntivo ecc…). Qualora vi fossero aspetti di rilevanza penali e/o civili a chi compete adire la autorità competente? Qualora a causa mancata informazione decadessero termini per procedere a querela ecc..?”
Consulenza legale i 18/10/2023
Purtroppo non è possibile fornire alle domande rivolte una risposta esauriente.
Quello che si può dire in questa sede è che se si hanno dei sospetti in merito alla regolarità dei bilanci condominiali, è necessario farli esaminare da un revisore dei conti: solo tale figura professionale ha le necessarie competenze per dire se vi sono gli estremi per contestare vuoi in sede penale, vuoi in sede civile eventuali responsabilità.

Affinché si possa giungere a ciò è necessario ovviamente fornire a tale figura professionale tutta la documentazione che è possibile reperire inerente alla amministrazione dello stabile e alle annualità che destano i nostri sospetti, documentazione che ovviamente deve essere reperita e fornita dall’amministratore del palazzo. Se vi sono delle possibili irregolarità di bilancio è molto probabile che tale figura professionale sia reticente e poco collaborativa.
Sotto questo aspetto intervengono due norme fondamentali: il co. 8° dell’ art. 1129 del c.c., il quale impone all’amministratore dimissionario di consegnare al suo sostituto tutta la documentazione in suo possesso inerente lo stabile; l’art. 1130 bis del c.c., il quale prevede il diritto soggettivo esercitabile da ciascun condomino in qualsiasi momento di prendere visione e estrarre copia a proprie spese dei documenti giustificativi di spesa inerenti l’amministrazione del condominio.
In caso, quindi, di reticenza o di difficoltà nel reperire la documentazione di gestione, facendo proprio leva sulla normativa citata sarebbe ben possibile adire l’autorità giudiziaria al fine di ottenere un provvedimento di urgenza con il quale costringere l’ex amministratore (o anche l’attuale, se del caso) a fornire tutto il materiale necessario per un esame approfondito dei bilanci da parte di un revisore contabile. Sulla base poi del responso che darà tale figura professionale il legale successivamente potrà valutare la strategia più idonea da seguire, per la tutela degli interessi del condominio e dei proprietari che lo compongono, strategia che potrebbe esplicitarsi sia in denunce in sede penale, se si ravvisassero dei comportamenti che integrano ipotesi di reato, sia richieste risarcitorie in sede civile.
La condotta tenuta dall’amministratore infatti potrebbe anche avere dei risvolti penali, i quali però, come si è già detto devono essere prima verificati in maniera attenta e scrupolosa.

E’ possibile infatti che la condotta tenuta dall’amministratore uscente negli anni in cui ha ricoperto l’ufficio possa aver integrato il reato di appropriazione indebita, previsto e punito dall’ art. 646 del c.p..

Il reato in parola è di configurazione piuttosto semplice, atteso che lo stesso punisce la condotta del soggetto il quale si appropria, utilizzandola uti dominus, la cosa mobile altrui o il denaro.
Ai fini della sussistenza dello stesso è comunque necessario che il soggetto agente:
- sia ben consapevole dell’altruità della cosa;
- decida di utilizzarla come se fosse il proprietario della cosa medesima (e, dunque, anche di non restituirla).

Sono, questi, elementi chiaramente sussistenti nell’ipotesi di specie, in cui l’amministratore di condominio, ben consapevole dell’altruità della documentazione contabile, ha effettivamente omesso di restituirla.

Questo principio, peraltro, è stato sancito anche dalla Cassazione, con la sentenza n. 38660 del 2016.

Quanto alla questione della fattura, lo scenario è più complesso.

In questo caso, prescindendo da questioni “tecniche” afferenti alla correttezza dell’inclusione della fattura nel consuntivo etc., la questione penale potrebbe rilevare solo nell’ipotesi in cui la fattura predetta sia stata utilizzata per nascondere quello che potrebbe essere un indebito drenaggio di denaro da parte dell’amministratore a danno del condominio.

In questo caso i reati ipotizzabili potrebbero essere due:

- la precedentemente nominata appropriazione indebita, laddove la fattura sia stata utilizzata ex postper “giustificare” l’esborso di denaro del condominio;
- la truffa ex art. 640 del c.p. nella diversa ipotesi in cui la fattura sia stata emessa a monte e quindi sia servita da artificio per l’erogazione della somma sottostante, del tutto ingiustificata.

Quanto ai tempi per proporre querela, il nostro ordinamento afferma che il querelante ha a disposizione 3 mesi dal momento in cui ha l’esatta percezione del fatto costituente reato.
Nel caso di specie, dunque, possiamo ipotizzare due scenari:
- per quanto attiene all’appropriazione indebita della documentazione condominiale, i termini per proporre querela decorreranno dal momento in cui i condomini saranno perfettamente coscienti dell’intenzione dell’ex amministratore di non restituire la documentazione predetta;
- quanto, invece, alla diversa appropriazione indebita (o truffa) riguardante la fattura oggetto di sospetto, i termini cominceranno a decorrere allorché saranno compiuti i relativi accertamenti funzionali a comprendere cosa effettivamente si celi sotto quell’emissione della fattura.

L. P. chiede
lunedì 14/11/2022 - Abruzzo
“Spett.le Brocardi
Lo scorso anno vi scrissi per chiedere una consulenza (quesito n. Q202128867 del 11/08/2021 con vostra risposta del 24/08/2021) relativamente ad una grave situazione che, assieme a mia madre, stavamo e stiamo vivendo, a causa dell’appartenenza, nostro malgrado, ad un gruppo di comunioni di beni, due ereditarie e due ordinarie, assieme ai fratelli di mio padre deceduto nel 2012. Questi ultimi, come detto lo scorso anno, si comportano in maniera estremamente scorretta e disonesta. In particolare colui che amministra. Riassumendo velocemente il mio quesito, chiedevo come sbloccare una situazione di stallo gestionale messa in atto da parte dell’amministratore delle comunioni (chiamato così solo per modo di dire) che, assieme ai fratelli, stava (e sta) facendo di tutto per danneggiare la minoranza costituita da me e mia madre. Lo stallo consiste nella totale mancanza di rispetto del Regolamento di gestione redatto dallo stesso “amministratore” e quindi dal mancato invio dei rendiconti di gestione in tempo utile per la redazione della dichiarazione dei redditi, e, naturalmente, degli utili risultanti dalle locazioni dei locali in oggetto, oltre che dalla totale assenza di rapporti con noi (anche quando vengono sollecitati in forma scritta) e altre cose che sarebbe troppo lungo spiegare in questa sede e a cui avevo fatto riferimento nel precedente quesito. La soluzione prospettata da voi per risolvere lo stallo gestionale è stata identificata nel ricorso agli art. 1723 – 1725 c.c. oltre che al 1710 c.c. per ottenere la revoca del mandato del mandatario. Ovviamente, la vostra risposta è impeccabile dal punto di vista giuridico, ma, purtroppo, si scontra con il fatto che, assieme a mia madre, possiedo la minoranza delle quote delle comunioni suddette. Pertanto, ammesso di riuscire a convincere i giudici a revocare il mandato dell’attuale mandatario, dopo poco tempo ci ritroveremmo nella stessa situazione di prima, a causa della nomina da parte dell’assemblea di un nuovo amministratore dotato delle stesse caratteristiche di quello precedente: disonestà assoluta, prepotenza, cialtroneria, infantilismo e altre “delizie” dello stesso tipo di cui ho ampiamente parlato nel quesito dello scorso anno. Successivamente alla vostra risposta dell’anno scorso, la questione si sbloccò con una diffida del mio avvocato, che portò alla liquidazione di parte degli utili dell’anno precedente, decurtati di spese mai giustificate e, certamente inventate ad arte per sottrarre buona parte degli utili.
Quest’anno non è bastata neanche la diffida. Alla luce di quanto esposto, si è deciso di non perseguire la strada da voi consigliata nella risposta al precedente quesito, e, invece, di provare con la nomina dell’amministratore giudiziario del complesso delle comunioni, in base a quanto previsto dall’art. 1105 c.c., limitatamente alle operazioni non svolte dal soggetto che formalmente svolge il ruolo di amministratore. Tuttavia, l’attuale situazione appare ancora più complessa di quella dell’anno precedente, poiché chi amministra nella maniera indicata, ha complicato ulteriormente la situazione rispetto allo scorso anno, inviando con un ritardo di circa dieci mesi il rendiconto di gestione (siamo così arrivati ad Ottobre 2022), giustificandosi con non meglio precisati “problemi di salute”, dei quali non mi risulta l’esistenza, peraltro, come sempre, inventando di sana pianta le cifre in esso riportate e, quindi, privo di qualsiasi collegamento con i dati riscontrati all’Agenzia delle Entrate, e nello stesso tempo, ha convocato l’assemblea dei comproprietari per farsi rinnovare l’incarico e approvare il bilancio di gestione per l’anno precedente. A queste assemblee farsa partecipa solo lui e qualche suo familiare che lo appoggia a spada tratta. Tutto questo, inoltre, senza liquidare gli utili relativi all’anno 2021, che, come detto nel quesito dello scorso anno, in base al regolamento di gestione, devono essere liquidati entro il 31 Gennaio dell’anno successivo, quindi nel caso specifico, entro il 31 Gennaio 2022 (così come, entro la stessa data, deve essere inviato il rendiconto). Fermo restando che il complesso di comunioni è attualmente in fase di scioglimento presso il Tribunale competente e che, purtroppo, questa operazione richiederà probabilmente ancora molto tempo, la situazione di stallo gestionale nella quale ci si trova quest’anno è ulteriormente aggravata dal fatto che, dopo la convocazione dell’assemblea, ormai, a distanza di un mese, non è stato inviato il verbale contenente il deliberato della stessa. Il mancato invio del verbale comporta anche l’impossibilità di impugnarlo. Quindi, in caso di richiesta al Tribunale di nomina dell’amministratore giudiziario, verrebbe senz’altro opposto dalla difesa di chi amministra, qualche certificato medico fittizio e, naturalmente, il verbale di assemblea mai inviato ai comunisti e indicante sicuramente il rinnovo dell’incarico all’attuale “amministratore”. E’ facile immaginare che di fronte a questo verbale il Tribunale non provvederebbe alla nomina dell’amministratore giudiziario e, per di più, la difesa di controparte, potrebbe obiettare che il verbale stesso non sia stato mai impugnato (a quel punto probabilmente, poco importerebbe al giudice che non sia stato mai spedito, o spedito con enorme ritardo e solo a causa già avviata). Tutto questo imporrebbe una riflessione su quanto sia disastrosa la normativa italiana relativa alla gestione delle comunioni dei beni, che ammette questo tipo di amministrazioni catastrofiche. Basti solo dire che in questi casi la nomina dell’amministratore è attribuita sempre all’assemblea e che non esiste un tempo limite entro il quale chi amministra debba inviare i verbali contenenti i deliberati della stessa. Quindi, tenendo conto che, a questo punto, il verbale dell’assemblea di Ottobre 2022 e gli utili da liquidare a me e mia madre per l’anno 2021 (e, in seguito, per tutti gli anni successivi fino a definitiva divisione delle proprietà) non arriveranno mai, con questo nuovo quesito vi chiedo qualche informazione per tentare di sbloccare nuovamente la grave situazione in cui ci troviamo e che sembrerebbe destinata a risolversi solo con lo scioglimento delle comunioni non in tempi brevi. E’ ipotizzabile da parte vostra la richiesta di nomina di un amministratore giudiziario per le operazioni non svolte dall’amministratore nominato in sede di assemblea, nonostante tutti i problemi indicati (in particolare il rinnovo della nomina con verbale di assemblea mai inviato ai comunisti)? E qualora fosse possibile, sarebbe ipotizzabile a vostro avviso una richiesta di nomina dello stesso anche per le operazioni ricorrenti nel corso degli anni (in particolare corretta rendicontazione e liquidazione degli utili) o è da escludersi una nomina di un amministratore esterno per più anni? Infine, secondo voi, sussistono i presupposti per una denuncia per truffa e appropriazione indebita e per un’eventuale richiesta di custodia giudiziaria dei beni immobili?
Come la volta scorsa mi scuso per la lunghezza, vi ringrazio anticipatamente per la risposta e resto a disposizione per qualsiasi chiarimento.
Cordialmente”
Consulenza legale i 21/11/2022

La questione sottoposta nel quesito riguarda una asserita mala gestione da parte dell’amministratore della comunione, che pare essere anche un compartecipe della comunione ereditaria unitamente ai fratelli.
È già stata intrapresa un’azione giudiziaria per sciogliere la comunione ma ci si interroga su quali altri strumenti giuridici si possano utilizzare per indurre o ordinare all’amministratore di eseguire il suo ruolo correttamente garantendo a tutti i compartecipi di godere, allo stesso modo, dei frutti dei beni in comunione.

L’art. 1105 c.c. comma 4 c.c. prevede che in caso di inerzia nella gestione dei beni comuni da parte dell’assemblea, dell’amministratore o di mancata esecuzione della delibera, ciascun partecipante possa adire l’autorità giudiziaria eventualmente anche chiedendo la nomina di un amministratore.
I decreti emessi dal Tribunale in camera di consiglio hanno natura di volontaria giurisdizione e possono essere revocati o modificati in ogni tempo o reclamati davanti alla Corte d’Appello.

L’amministratore giudiziario assume il ruolo di mandatario a cui vengono assegnati i poteri e i compiti da parte del giudice di amministrare i beni oggetto di comunione.

In caso di assoluta mancanza di un amministratore, questo può essere nominato ad interim finché l’assemblea non deliberi scegliendo un proprio amministratore.
Qualora invece un amministratore ci sia ma non abbia adottato i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune, verrà nominato un amministratore giudiziario con mandato speciale limitato al compito da svolgere.

Si rammenta che i provvedimenti giudiziari vengono adottati sulla base di esigenze specifiche concrete e provate, non essendo sufficiente al fine di ritenere soddisfatto l’onere della prova, la semplice asserzione di aver eseguito un determinato compito o dovere derivante dal proprio ruolo o dalla delibera dell’assemblea dei compartecipi.

Nel caso di specie, quindi, il mancato rispetto delle disposizioni del regolamento di gestione (mancata liquidazione degli utili della comunione) costituisce un’inerzia dell’amministratore e può a parere dello scrivente essere proposto come motivo per la nomina di un amministratore giudiziario ai sensi dell’art. 1105 comma 4 c.c.

È chiaro che non è possibile sapere a priori se, al momento della ricezione del ricorso, l’amministratore e compartecipe attuale non esegua correttamente il proprio compito vanificando il deposito dell’atto.
È pur sempre vero che se l’obiettivo è avere la liquidazione degli utili e un maggior rispetto dei diritti della minoranza, adire l’autorità giudiziaria come extrema ratio diventa strumento utile per difendere i propri interessi.

Rimane sempre possibile, per il compartecipe, impugnare la delibera dell’assemblea ai sensi dell’art. 1109 del c.c. con un procedimento contenzioso davanti al Tribunale competente.

Fermo restando le considerazioni di ordine civilistico esposte, passiamo al fronte penale.

Prima, però, occorre fare una premessa.

Agire sul fronte penale può di certo essere utile (spesso, infatti, il timore dell’azione induce la controparte a osservare un comportamento corretto pur di non incorrere in un processo e nell’ipotetica condanna) ma è altrettanto certo che l’azione medesima non produrrà alcun effetto sul fronte strettamente giuridico e funzionale a rimediare alle scorrettezze gestionali emarginate nella richiesta di parere.
Come noto, infatti, il procedimento penale si occupa solo della sussistenza del reato e della punibilità del reo e i casi in cui a ciò si aggiungono altri rimedi sono rarissimi.

Ciò detto, di certo nella questione all’attenzione non ricorre il reato di truffa.
L’ art. 640 del c.p. è un reato estremamente particolare nell’ambito del quale il danno patrimoniale in capo alla persona offesa dal reato deve essere susseguente ad un atto di disposizione compiuto dalla persona offesa medesima, soggiogata dagli artifizi e/o dai raggiri.
Tale scenario non è quello che si prospetta nel caso di specie.

Stando a quanto narrato, invero, l’amministratore ha osservato – e continua a osservare – una condotta sostanzialmente omissiva tramite la quale è possibile che questi si sia appropriato degli utili che avrebbe dovuto liquidare entro il gennaio 2022.
Tale condotta sembra essere sussumibile nell’alveo del reato di appropriazione indebita, previsto e punito dall’ art. 646 del c.p..
In effetti, nella fattispecie in questione incorre qualsiasi soggetto il quale, essendo in possesso (con ciò intendendosi una disponibilità liberà ed esclusa dalla sfera di sorveglianza immediata del proprietario) del denaro o del bene altrui, se ne appropri, comportandosi come fosse il reale titolare del bene o del denaro predetto.
Tutte le circostanze sopra emarginate potrebbero ricorrere nel caso di specie.
L’amministratore, infatti, di certo può vantare una sfera di possesso autonoma degli utili non ancora convogliati ai legittimi proprietari sensibile per l’appropriazione indebita; a ciò va aggiunto che l’inerzia dallo stesso tenuta soprattutto sul fronte della spartizione degli utili in questione potrebbe essere indice dell’impossessamento di cui si è detto.

Il problema è di ordine probatorio.

Vero è che, almeno in astratto, i presupposti dell’appropriazione indebita potrebbero ricorrere, ma è anche vero che, in un caso del genere, i confini tra il penale e una condotta scorretta sotto il fronte strettamente civilistico sono labili.
Questo per dire che, prima di ricorrere allo strumento penale, bisogna essere certi che la condotta dell’amministratore abbia raggiunto dei profili di patologia non altrimenti spiegabili e difficilmente inquadrabili in una condotta infedele dal punto di vista civilistico.
Occorrerebbe, in altre parole, che l’inerzia dell’amministratore, assieme ad altri elementi e circostanze, possa lasciare supporre che questi abbia agito col dolo (diritto penale) tipico dell’appropriazione indebita.

Conseguentemente, pur essendo in astratto corretta la strada dell’appropriazione indebita, si sconsiglia di procedere in autonomia essendo piuttosto necessario rivolgersi a un buon professionista che, analizzata la complessiva dinamica dei fatti nel dettaglio, sia in grado di calare adeguatamente il fatto nell’archetipo previsto dall’articolo 646 del codice penale.
Ciò anche per escludere la sussistenza di eventuali casi di non punibilità dovuti alla parentela espressamente previsti dall’ art. 649 del c.p..


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