Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di L’Aquila aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato due imputati per il reato di “appropriazione indebita di due automezzi da loro detenuti in custodia”.
Secondo la Corte, infatti, il reato doveva dirsi perfezionato, “nonostante la esistenza di preteso esercizio di diritto di ritenzione fondato su di una controversia civilistica inerente le pretese del depositante rispetto al corrispettivo dovuto”.
Ritenendo la sentenza ingiusta, gli imputati proponevano ricorso per Cassazione, evidenziando la violazione dell’art. 646 del c.p., in quanto nella fattispecie dell’appropriazione indebita “sussiste la scriminante dell’esercizio del diritto” e, nel caso di specie, mancava anche l’elemento intenzionale del reato, in quanto gli imputati avevano “sin da tempo comunicato la propria intenzione di avvalersi del vantato diritto di ritenzione”.
Mancava, peraltro, secondo i ricorrenti, anche lo stesso elemento oggettivo del reato, in quanto non erano stati compiuti “atti di disposizione sul bene diversi dalla semplice ritenzione”.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover aderire alle argomentazioni svolte dai ricorrenti.
In particolare, osservava come “nel caso di specie, il diritto sul quale appare essere stata fondata la ritenzione del bene da parte degli imputati non è costituito dalla sola pretesa compensazione del credito asseritamente vantato dagli stessi (…), quanto piuttosto dal diritto di ritenzione riconosciuto dal codice civile in favore del depositario per effetto del combinato disposto dell'art. 2756 del c.c. comma 3 e art. 2761 del c.c.”.
Ebbene, la Corte evidenziava, in proposito, che non integra il reato di appropriazione indebita (art. 646 del c.p.), “il creditore che, a fronte dell’inadempimento del debitore, eserciti a fini di garanzia del credito il diritto di ritenzione sulla cosa di proprietà di quest’ultimo legittimamente detenuta in ragione del rapporto obbligatorio, a meno che egli non compia sul bene atti di disposizione che rivelino l’intenzione di convertire il possesso in proprietà”.
In particolare, secondo i giudici di terzo grado, “la omessa restituzione della cosa alla controparte che ne ha fatto richiesta in pendenza di un rapporto contrattuale non integra, di per sé, il reato di cui all’art. 646 del c.p.”, in quanto il detentore del bene non intende comportarsi quale proprietario del medesimo, riconoscendo l’esistenza dell’altrui diritto di proprietà e tenendo tale condotta solo in vista dell’inadempimento della controparte.
Dunque, è evidente che per integrare il reato non è sufficiente il “semplice rifiuto di restituire il bene oggetto di un rapporto contrattuale ancora vigente” ma è necessario che, ad esempio, vengano compiuti “atti di disposizione o di distrazione che, nel caso di specie, non sono emersi”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione annullava la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.