Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello aveva condannato l’imputata per il reato di appropriazione indebita aggravata (artt. 646 e 61 codice penale), commesso nei confronti della società sua datrice di lavoro, dalla quale avanzava delle somme a titolo di retribuzione.
Contro tale sentenza, l’imputata proponeva ricorso in Cassazione, deducendo l'erronea applicazione dell’art. 646 codice penale, in quanto il giudice di secondo gravo avrebbe errato nel non assolverla: la donna sosteneva a propria difesa di non aver percepito alcun “ingiusto profitto”, dal momento che “la medesima, appropriandosi di denaro di proprietà della società presso la quale svolgeva le mansioni di cassiera, aveva inteso solo appropriarsi di somme che la proprietaria le doveva per omessi pagamenti degli stipendi”.
Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte d’appello avrebbe dovuto ritenere configurabile lo “stato di necessità”, di cui all’art. 54 codice penale e avrebbe dovuto escludere la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, codice penale (aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità), poiché “il datore di lavoro aveva fatto installare delle telecamere”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Osservava la Corte, infatti, come il giudice di secondo grado avesse evidenziato che “l'omesso pagamento delle retribuzioni da parte del datore di lavoro” era stata solo affermato dall'imputata “in assenza di riscontri convincenti ed in presenza di elementi contrari”.
In proposito, peraltro, la Cassazione precisava che “l'ordinamento giuridico non prevede (al di fuori dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni: nella fattispecie non configurabile sotto il profilo dell'elemento materiale del reato) l'appropriazione, all'insaputa e contro la volontà del datore, di denaro di costui, per soddisfare una propria asserita pretesa”.
Quanto all’asserita sussistenza dello “stato di necessità”, di cui all’art. 54 codice penale, la Corte di Cassazione riteneva infondata tale doglianza, in quanto lo stesso non risultava provato e, inoltre, lo stesso “postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile, non può applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di indigenza connesso alla situazione socio-economica qualora ad essa possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti”.
Infine, per quanto riguardava l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, codice penale, la quale, secondo la ricorrente, avrebbe dovuto essere esclusa, la Cassazione precisava che “per la legge, ciò che rileva è l'esistenza di una particolare fiducia che venga riposta nell'agente, circostanza questa che la Corte ha ampiamente motivato alla stregua di puntuali elementi fattuali”.
Di conseguenza, appariva “del tutto irrilevante che il datore di lavoro avesse fatto installare delle telecamere”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla ricorrente, condannando la medesima al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.