La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 48251 del 15 novembre 2016, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di L’Aquila aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Teramo aveva condannato due meccanici per il reato di “appropriazione indebita di due automezzi da loro detenuti in custodia”.
Nello specifico, i due meccanici erano stati accusati di tale reato, nonostante gli stessi avessero evidenziato di aver semplicemente esercitato il “diritto di ritenzione” a seguito del mancato pagamento del corrispettivo dovuto per le riparazioni effettuati sui mezzi in questione.
Ritenendo la decisione ingiusta, gli imputati avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza loro sfavorevole.
Osservavano i ricorrenti, in particolare, che la Corte d’appello non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 646 c.p., in quanto, nel caso in esame, il reato non poteva ritenersi sussistente, sussistendo la causa di esclusione della punibilità “dell’esercizio del diritto”.
Precisavano i ricorrenti, infatti, che gli stessi avevano “sin da tempo comunicato la propria intenzione di avvalersi del vantato diritto di ritenzione” e, comunque, che non erano stati compiuti “atti di disposizione sul bene diversi dalla semplice ritenzione”.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione ai due meccanici, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che gli imputati avevano trattenuto i due automezzi nell’esercizio del “diritto di ritenzione riconosciuto dal codice civile in favore del depositario per effetto del combinato disposto degli artt. 2756 comma 3 e 2761 cod.civ.”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, il reato di appropriazione indebita non poteva dirsi sussistente.
A riprova di ciò, la Cassazione rilevava che la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17295 del 23 marzo 2011, aveva precisato che non commette tale reato “il creditore che, a fronte dell’inadempimento del debitore, eserciti a fini di garanzia del credito il diritto di ritenzione sulla cosa di proprietà di quest’ultimo legittimamente detenuta in ragione del rapporto obbligatorio, a meno che egli non compia sul bene atti di disposizione che rivelino l’intenzione di convertire il possesso in proprietà”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dagli imputati, annullando la sentenza impugnata “perché il fatto non sussiste”.