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Articolo 2041 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Azione generale di arricchimento

Dispositivo dell'art. 2041 Codice Civile

Chi, senza una giusta causa, si è arricchito(1) a danno di un'altra persona(2) è tenuto, nei limiti dell'arricchimento(3), a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale(4).

Qualora l'arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l'ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda.

Note

(1) L'arricchimento può derivare, ad esempio, dall'uso di un bene altrui fatto senza versare un corrispettivo.
(2) E' necessario anche che vi sia un danno per un altro soggetto: ad esempio per il proprietario di un bene che, a causa dell'uso altrui, non ha potuto fruirne. Tra arricchimento e danno deve esserci, poi, un nesso di causalità.
(3) Ciò significa che l'indennizzo non deve essere maggiore nè dell'arricchimento nè del depauperamento.
(4) Oltre a tale previsione generale il codice riproduce la regola anche in singole disposizioni, come, ad esempio, quella di cui all'art. 821, comma 2 c.c., secondo la quale chi ha diritto ai frutti del bene deve rimborsare le spese fatte per la loro produzione ed il loro raccolto.

Ratio Legis

Il principio accolto dalla norma è quello per cui non è ammesso un vantaggio a favore di un soggetto a danno di altri senza che ciò sia sorretto da una causa di giustificazione.

Brocardi

Actio de in rem verso
Aequum est neminem cum alterius detrimento et iniuria locupletiorem fieri
Ea quae per errorem omissa vel soluta sunt, condici possunt
Iniusta locupletatio
Nemo debet lucrari cum alieno damno
Nemo locupletari potest cum aliena iactura

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

650 Nonostante le critiche rivolte al progetto del 1036 ho mantenuto il suo art. 73 che introduce definitivamente una azione generale di arricchimento: la dottrina e la giurisprudenza si sono ormai decisamente orientate verso il riconoscimento di questa azione, che vuole ovviare all'indebita locupletazione, quando non sia possibile altrimenti impedirla.
La disciplina del progetto preliminare era, però, incompleta: l'ho integrata anzitutto determinando il momento al quale si deve risalire per stabilire se vi sia arricchimento (art. 766), in secondo luogo fissando la regola del carattere sussidiario dell'azione (art. 767).
Mentre non ha bisogno di essere illustrato questo ultimo principio, credo utile ricordare che non sarebbe stato possibile far retroagire oltre al giorno della domanda la determinazione dell'esistenza e della quantità dell'arricchimento, senza dare all'azione stessa la caratteristica di azione di risarcimento di danni: non si può, cioè, trattare l'arricchito come colui che ha volontariamente commesso un atto illecito, sempre in via indiretta. Una sola eccezione può farsi, ed è fatta dall'art. 767; può, cioè, eccettuarsi l'ipotesi in cui l'arricchimento è venuto meno per l'effetto della mala fede dell'arricchito, essendo ovvio che, allora, vi è una situazione da questi volontariamente provocata in danno dell'interessato, ed è una situazione di cui l'arricchito deve rispondere.

Massime relative all'art. 2041 Codice Civile

Cass. civ. n. 4909/2023

L'azione generale di arricchimento, che presuppone la locupletazione, senza giusta causa, di un soggetto a danno di un altro, non è invocabile per ottenere il rimborso delle spese sostenute da uno dei coniugi per il miglioramento della casa coniugale, poiché sussiste la causa dello spostamento patrimoniale ed è possibile agire ai sensi degli artt. 1150 e 192 c.c., anche in caso di sopravvenuto decesso del coniuge arricchito, dovendosi in tal caso agire nei confronti degli eredi.

Cass. civ. n. 35480/2022

Il credito indennitario ex art. 2041 c.c., per l'espletamento di prestazioni professionali in favore della pubblica amministrazione in assenza di un valido contratto scritto, va liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia, dovendo il giudice tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo, producendo, inoltre la somma così liquidata interessi da liquidarsi al tasso legale, e non ai sensi dell'art. 9 della legge 2 marzo 1949, n. 143, decorrenti dalla data dell'arricchimento della pubblica amministrazione, ovvero dal momento del completo espletamento della prestazione in suo favore.

Cass. civ. n. 28930/2022

L'indennizzo ex art. 2041 c.c., in quanto credito di valore, va liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia ed il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo. La somma così liquidata produce interessi compensativi, i quali sono diretti a coprire l'ulteriore pregiudizio subito dal creditore per il mancato e diverso godimento dei beni e dei servizi impiegati nell'opera, o per le erogazioni o gli esborsi che ha dovuto effettuare, e decorrono dalla data della perdita del godimento del bene o degli effettuati esborsi, coincidente con quella dell'arricchimento.

Cass. civ. n. 14944/2022

L'azione di arricchimento può essere valutata, se proposta in via subordinata rispetto all'azione contrattuale articolata in via principale, soltanto qualora quest'ultima sia rigettata per un difetto del titolo posto a suo fondamento, ma non anche nel caso in cui sia stata proposta una domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti al relativo accoglimento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l'ammissibilità dell'azione di arricchimento sul presupposto che la stessa fosse stata esercitata in via subordinata rispetto ad un'azione contrattuale respinta per carenza di prova, mentre invece nessuna azione contrattuale era stata esercitata nei riguardi delle parti destinatarie dell'azione ex art. 2041 c.c.).

Cass. civ. n. 5086/2022

In favore del convivente "more uxorio" che abbia realizzato a sue spese opere sull'immobile di proprietà del partner e che, cessata la convivenza, pretenda di essere indennizzato per le spese sostenute ed il lavoro compiuto, trova applicazione non l'art. 936 c.c., che ha riguardo solo all'autore delle opere che non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo, bensì la disposizione di cui all'art. 2041 c.c. sull'arricchimento senza causa, purché si accerti, tenuto conto dell'entità delle opere in base alle condizioni personali e patrimoniali dei partners, che le spese erano state sostenute ed il lavoro era stato compiuto senza spirito di liberalità, in vista di un progetto di vita comune, e che, realizzando quelle opere, il convivente non aveva intenzione di adempiere ad alcuna obbligazione naturale.

Cass. civ. n. 29672/2021

L'azione di ingiustificato arricchimento di cui all'art. 2041 c.c., per la sua natura complementare e sussidiaria, può essere proposta solo quando ricorrano due presupposti: a) la mancanza di un titolo specifico idoneo a far valere il diritto di credito; b) l'unicità del fatto causativo dell'impoverimento sussistente quando la prestazione resa dall'impoverito sia andata a vantaggio dell'arricchito e lo spostamento patrimoniale non risulti determinato da fatti distinti, incidenti su due situazioni diverse e in modo indipendente l'uno dall'altro, con conseguente esclusione dei casi di arricchimento cd. "indiretto", nei quali l'arricchimento è realizzato da persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell'impoverito. Tuttavia, avendo l'azione di ingiustificato arricchimento uno scopo di equità, il suo esercizio deve ammettersi anche nel caso di arricchimento indiretto nei soli casi in cui lo stesso sia stato realizzato dalla P.A., in conseguenza della prestazione resa dall'impoverito ad un ente pubblico, ovvero sia stato conseguito dal terzo a titolo gratuito.

In ipotesi di arricchimento cd. "indiretto", l'azione ex art. 2041 c.c. è esperibile soltanto contro il terzo che abbia conseguito l'indebita locupletazione nei confronti dell'istante in forza di rapporto gratuito (ovvero di fatto) con il soggetto obbligato verso il depauperato, resosi insolvente nei riguardi di quest'ultimo.

Cass. civ. n. 6827/2021

La sussistenza del requisito del depauperamento, richiesto dall'art. 2041 c.c. come presupposto per l'esercizio dell'azione generale di arricchimento, richiede la dimostrazione che il convenuto non ha alcun titolo per giovarsi di quanto corrisponde alla perdita patrimoniale, subita dall'istante senza la propria volontà e senza un'adeguata esplicita causa giuridica; pertanto, il diritto all'indennizzo non può essere riconosciuto se il depauperamento è giustificato da una ragione giuridica, come quando sia avvenuto per una spesa fatta dall'istante nel proprio esclusivo interesse, sia pure con indiretta utilità altrui. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che, in riforma di quella di primo grado, aveva negato il diritto all'indennizzo preteso da una società per i lavori di adeguamento compiuti su un immobile, requisitole dal Comune, per consentirvi la continuazione dell'attività didattica, avuto riguardo alla circostanza che, pur non risultando formalizzato tra le parti alcun rapporto contrattuale, tuttavia era stata accertata, all'esito di CTU, la congruità del canone di locazione corrisposto dall'ente con riferimento alla nuova destinazione). (Rigetta, CORTE D'APPELLO MESSINA, 29/09/2017).

Cass. civ. n. 12405/2020

L'azione generale di arricchimento postula che la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro sia avvenuta senza giusta causa, sicché quando essa sia la conseguenza di un contratto o comunque di un altro rapporto non può dirsi che la causa manchi o sia ingiusta, almeno fino a quando il contratto o il diverso rapporto conservino rispetto alle parti e ai loro aventi causa la propria efficacia obbligatoria. (Fattispecie in tema di accordo transattivo su indennità per la perdita dell'avviamento). (Rigetta, CORTE D'APPELLO TRENTO, 05/06/2018).

Cass. civ. n. 11303/2020

Nell'ambito del rapporto di convivenza "more uxorio", il termine di prescrizione dell'azione di ingiustificato arricchimento decorre non dai singoli esborsi, bensì dalla cessazione della convivenza. (Rigetta, CORTE D'APPELLO TORINO, 07/02/2018).

Cass. civ. n. 843/2020

Presupposto per proporre l'azione di ingiustificato arricchimento è la mancanza, accertabile anche di ufficio, di un'azione tipica, tale dovendo intendersi non ogni iniziativa processuale ipoteticamente esperibile, ma esclusivamente quella derivante da un contratto o prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata, pur se proponibile contro soggetti diversi dall'arricchito. Ne consegue che è ammissibile l'azione di arricchimento quando l'azione, teoricamente spettante all'impoverito, sia prevista da clausole generali, come quella risarcitoria per responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO SEZ.DIST. DI TARANTO, 23/05/2017).

Cass. civ. n. 9809/2019

In tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all'assenza di un valido contratto d'opera professionale, ai fini della determinazione dell'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. non può essere assunta, quale valido parametro di riferimento, la parcella del professionista, ancorché vistata dall'ordine professionale, trattandosi di individuare non già il corrispettivo contrattuale per l'esecuzione di prestazioni professionali, ma un importo che deve essere liquidato, alla stregua delle risultanze processuali, se ed in quanto si sia verificato un vantaggio patrimoniale a favore della P.A., con correlativa perdita patrimoniale della controparte. (Rigetta, CORTE D'APPELLO LECCE, 23/03/2017).

Cass. civ. n. 25044/2018

In caso di nullità del contratto preliminare di compravendita immobiliare, l'indennità dovuta dal promissario acquirente per l'occupazione, "ab origine" priva di giustificazione, dell'immobile deve essere determinata in base alle norme sull'ingiustificato arricchimento - e, quindi, senza riconoscimento del lucro cessante - e a partire dal momento in cui, avendo il proprietario richiesto la restituzione del bene, il promissario acquirente, da possessore di buona fede, si trasforma in possessore di mala fede. Ne deriva che, considerata la diversità, per natura ed effetti, tra l'azione di ingiustificato arricchimento e quella risarcitoria, integra domanda nuova la richiesta di indennità di occupazione avanzata dal promittente venditore in appello, in sostituzione della domanda di risarcimento del danno conseguente alla risoluzione del contratto proposta in primo grado. (Dichiara inammissibile, CORTE D'APPELLO BARI, 12/06/2014).

Cass. civ. n. 16305/2018

L'azione generale di arricchimento, di cui all'art. 2041 c.c., presuppone che l'arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di altro soggetto siano provocati da un unico fatto costitutivo e siano entrambi mancanti di causa giustificatrice, potendo il medesimo arricchimento consistere anche in un risparmio di spesa, purché si tratti sempre di risparmio ingiustificato, nel senso che la spesa risparmiata dall'arricchito debba essere da altri sostenuta senza ragione giuridica. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inoperanti i presupposti dell'ingiustificato arricchimento in relazione al pagamento delle spese per la progettazione ed il collaudo delle opere di urbanizzazione primaria effettuate dal proprietario di un immobile ricompreso in area P.E.E.P ed in favore del proprietario di immobile adiacente al primo, atteso che, nella specie, l'arricchimento e l'impoverimento invece non trovavano giustificazione nei contratti conclusi con il comune e l'impoverito era contrattualmente tenuto al pagamento delle dette spese solo limitatamente alla quota inerente l'immobile di proprietà).

Cass. civ. n. 15415/2018

In tema di spese comunali fuori bilancio, qualora il funzionario pubblico attivi un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dell'ente, si determina una frattura "ope legis" del rapporto di immedesimazione organica, sicché il rapporto obbligatorio, non perfezionatosi nei confronti della P.A., si costituisce tra il privato e l'amministratore. Quest'ultimo peraltro può agire nei confronti della P.A. ai sensi dell'art. 2041 c.c., avendo solo l'onere di provare il fatto oggettivo dell'arricchimento senza che sia necessario alcun riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte dell'ente e salva la possibilità, per quest'ultimo, di dimostrare che l'arricchimento sia stato non voluto, non consapevole ovvero imposto.

Cass. civ. n. 15243/2018

L'azione generale di arricchimento presuppone che la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro avvenga in assenza di giusta causa, la quale non può essere invocata quando l'arricchimento sia conseguenza di un contratto o di altro rapporto compiutamente regolato.

Cass. civ. n. 14732/2018

L'azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della causa qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell'adempimento di un'obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente "more uxorio" nei confronti dell'altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto operante il principio dell'indebito arricchimento in relazione ai conferimenti di denaro e del proprio tempo libero, impegnato in ore di lavoro per la costruzione della casa che doveva essere la dimora comune, effettuati da uno dei due partner in vista della instaurazione della futura convivenza, atteso che la volontarietà del conferimento non era indirizzata a vantaggio esclusivo dell'altro partner - che se ne è giovato dopo scioglimento del rapporto sentimentale in ragione della proprietà del terreno e del principio dell'accessione - e pertanto non costituiva né una donazione né un'attribuzione spontanea).

Cass. civ. n. 29114/2017

L'arricchimento senza causa, alle condizioni previste dagli artt. 2041 e 2042 cod. civ., può essere fatto valere sia in via d'azione che di eccezione riconvenzionale, proposta al solo scopo di paralizzare la domanda dell'attore. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia di merito che, nell'accogliere la domanda di ammissione al passivo di un comune per un credito restitutorio, aveva escluso il diritto del curatore del fallimento di dedurre in via d'eccezione l'ingiustificato arricchimento dell'ente).

Cass. civ. n. 12608/2017

L'incarico di prestazione professionale che sia stato svolto, in favore di un ente locale, in mancanza di una formale delibera di assunzione di impegno contabile ex art. 191 del d.lgs. n. 267 del 2000 comporta l’instaurazione del rapporto obbligatorio direttamente con l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, non risultando esperibile nei confronti dell’ente l’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., per difetto del requisito della sussidiarietà, salvo che esso non riconosca "a posteriori" il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. predetto.

Cass. civ. n. 80/2017

Il funzionario pubblico che abbia attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso (ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme cd. di evidenza pubblica), risponde – ai sensi dell'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989, conv., con modif., dalla l. n. 144 del 1989 – degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad agire direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in danno dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di ingiustificato arricchimento per carenza del necessario requisito della sussidiarietà, che è esclusa quando esista altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche verso persona diversa. Né può ipotizzarsi una responsabilità dell’ente ex art. 28 Cost., in quanto tale norma presuppone che l’attività del funzionario sia riferibile all’ente medesimo, mentre la violazione delle regole contabili determina una frattura del rapporto di immedesimazione organica con la pubblica amministrazione

Cass. civ. n. 7331/2016

In tema di azione generale di arricchimento, che presuppone la locupletazione, senza giusta causa, di un soggetto a danno di un altro, non è invocabile la mancanza ovvero l'ingiustizia della causa, allorché l'arricchimento (nella specie, l'assegnazione di un alloggio realizzato da una cooperativa edilizia) dipenda da un atto di disposizione volontaria (nella specie, la cessione, in favore dell'assegnatario, delle quote della società cooperativa), finché questo conservi la propria efficacia obbligatoria.

Cass. civ. n. 24860/2015

In tema di assunzione di obbligazioni da parte degli enti locali, agli effetti di quanto disposto dall'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989 (convertito, con modificazioni nella l. n. 144 del 1989), qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, per difetto del requisito della sussidiarietà, sicché resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente, il quale può, comunque, riconoscere "a posteriori" il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.l.vo n. 267 del 2000, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso. Peraltro, tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell'organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative compiute.

Cass. civ. n. 19886/2015

L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività a favore della P.A., ma in difetto di un contratto scritto, non può essere determinato in base alla tariffa professionale che avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore di un privato, né in base all'onorario che la P.A. avrebbe dovuto pagare se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto d'un contratto valido.

Cass. civ. n. 18804/2015

In materia di arricchimento senza causa, ai fini della determinazione giudiziale dell'indennizzo previsto dall'art. 2041 c.c. trovano applicazione i principi sanciti dagli artt. 1226 e 2056 c.c. in relazione alla liquidazione del danno in via equitativa, a mente dei quali, affinché il giudice possa provvedere discrezionalmente alla liquidazione, è necessario che il soggetto interessato provi che sia obiettivamente impossibile o particolarmente difficile dimostrare il danno nel suo preciso ammontare.

Cass. civ. n. 10798/2015

Il riconoscimento dell'utilità da parte dell'arricchito non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l'onere di provare il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che l'ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di "arricchimento imposto".

Cass. civ. n. 5397/2014

In tema di azione per indebito arricchimento nei confronti della P.A., il riconoscimento dell'utilità dell'opera e la configurabilità stessa di un arricchimento restano affidati a una valutazione discrezionale della sola P.A. beneficiaria, unica legittimata - mediante i suoi organi amministrativi o tramite quelli cui è istituzionalmente devoluta la formazione della sua volontà - ad esprimere il relativo giudizio, che presuppone il ponderato apprezzamento circa la rispondenza, diretta o indiretta, dell'opera al pubblico interesse, senza che possa operare in via sostitutiva la valutazione di amministrazioni terze, pur se interessate alla prestazione, né di un qualsiasi altro soggetto dell'amministrazione beneficiaria. Tale riconoscimento può essere esplicito o implicito, occorrendo, in quest'ultimo caso, che l'utilizzazione dell'opera sia consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'ente, in quanto la differenza tra le due forme di riconoscimento sta solo nel fatto che la prima è contenuta in una dichiarazione espressa, mentre la seconda si ricava da un comportamento di fatto, tale da far concludere che il suo autore abbia inteso conseguire uno specifico risultato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso l'ammissibilità dell'azione di arricchimento nei confronti di una USL sul presupposto dell'insussistenza del riconoscimento, sia pure implicito, dell'"utilitas" da parte degli organi dell'ente pubblico effettivamente deputati a disporre la spesa sanitaria).

Cass. civ. n. 20226/2013

L'azione generale di arricchimento, di cui all'art. 2041 c.c., presuppone che l'arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di altro soggetto siano provocati da un unico fatto costitutivo e siano entrambi mancanti di causa giustificatrice, potendo il medesimo arricchimento consistere anche in un risparmio di spesa, purché si tratti sempre di risparmio ingiustificato, nel senso che la spesa risparmiata dall'arricchito debba essere da altri sostenuta senza ragione giuridica. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha ritenuto inoperanti i presupposti dell'ingiustificato arricchimento in relazione al pagamento, eseguito da una banca, titolare del servizio di tesoreria comunale, in favore di terzi creditori del comune, atteso che il risparmio di spesa ottenuto dall'ente trovava autonoma giustificazione in una sentenza della Corte dei conti, che aveva condannato l'istituto tesoriere a reintegrare il fondo-cassa comunale, depauperato per effetto di delibere annullate o prive di esecutorietà).

Cass. civ. n. 1889/2013

L'indennizzo ex art. 2041 c.c., in quanto credito di valore, va liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia ed il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo. La somma così liquidata produce interessi compensativi, i quali sono diretti a coprire l'ulteriore pregiudizio subito dal creditore per il mancato e diverso godimento dei beni e dei servizi impiegati nell'opera, o per le erogazioni o gli esborsi che ha dovuto effettuare, e decorrono dalla data della perdita del godimento del bene o degli effettuati esborsi, coincidente con quella dell'arricchimento.

Cass. civ. n. 22313/2011

In tema d'indebito arricchimento della P.A., il professionista che abbia eseguito un progetto per un'opera pubblica condizionata alla concessione di un finanziamento da parte di un ente terzo, con accettazione della condizione della rinuncia al compenso in caso di mancato conferimento del finanziamento, in ipotesi di nullità del contratto, non ha diritto all'indennità, ai sensi dell'art. 2041 c.c., solo perché il suo progetto sia stato allegato alla richiesta di finanziamento, in quanto, nel vigore della più rigorosa disciplina normativa introdotta dalla legge n. 64 del 1986 – che ha previsto uno specifico procedimento che l'Amministrazione richiedente deve seguire per ottenere l'approvazione dei progetti delle opere che intende realizzare e per conseguire i necessari finanziamenti – il mero invio del progetto, cui la P.A. non può sottrarsi senza violare l'art. 1357 c.c., non costituisce riconoscimento implicito dell'utilità della prestazione professionale eseguita.

Cass. civ. n. 21227/2011

Nel caso di nullità del contratto di prestazione d'opera professionale stipulato da un ente locale per difetto di forma scritta, il professionista ha diritto all'indennizzo previsto dall'art. 2041 c.c., corrispondente alla minor somma tra l'arricchimento dell'ente e la diminuzione patrimoniale del professionista stesso. Pertanto, in mancanza di prova di un'ulteriore perdita patrimoniale derivante dalla natura di "somma urgenza" delle opere progettate, l'indennizzo deve essere determinato sulla base delle tariffe professionali, con esclusione della maggiorazione del quindici per cento, che sarebbe spettata solo se fosse stato stipulato un contratto valido.

Cass. civ. n. 19942/2011

Qualora, per lo svolgimento di un'attività professionale, debba essere riconosciuto un indennizzo per arricchimento senza causa ai sensi dell'art. 2041 c.c., la quantificazione dell'indennizzo medesimo può essere effettuata utilizzando la tariffa professionale come parametro di valutazione, per desumere il risparmio conseguito dalla P.A. committente rispetto alla spesa cui essa sarebbe andata incontro nel caso di incarico professionale contrattualmente valido.

Nella liquidazione dell'indennizzo di cui all'art. 2041 c.c. non trova applicazione l'art. 6 della legge 1°luglio 1977 n. 404, sull'onere del professionista di documentare le spese forfettarie effettivamente sostenute e delle quali si chiede il rimborso, tenuto conto del carattere indennitario della somma dovuta, dovendo il giudice del merito procedere alla liquidazione di un compenso globale che tenga conto delle spese richieste valutandone la presumibilità in ragione dell'entità del lavoro svolto.

Cass. civ. n. 9441/2011

L'azione di arricchimento ex art. 2041 c.c. può essere esercitata anche nei confronti della P.A. che abbia tratto profitto dall'attività lavorativa di un privato non formalmente legato da un rapporto di lavoro subordinato o autonomo, ma che tuttavia abbia colmato, con la sua opera, una lacuna organizzativa, fermo restando, da un lato, che l'indennizzo che da tale azione può derivare deve corrispondere all'effettivo arricchimento, provato o almeno probabile, e, dall'altro, che tale azione,, stante il suo carattere sussidiario, deve ritenersi esclusa in ogni caso in cui il danneggiato, secondo una valutazione da compiersi in astratto, possa esercitare un'altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito; tale azione è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, né rileva, per escludere l'anzidetta qualificazione, il fatto che il privato, allo scopo di quantificare la portata dell'arricchimento, abbia fatto riferimento ad importi in qualche modo correlati alla retribuzione spettante ai dipendenti pubblici.

Cass. civ. n. 8537/2011

Con riguardo all'azione di indebito arricchimento nei confronti di una P.A., in relazione al vantaggio che essa abbia ricevuto da un'opera realizzata in suo favore, il riconoscimento da parte della stessa P.A., anche in modo implicito, dell'utilità dell'opera realizzata in suo favore ne costituisce il presupposto e, quindi, segna il "dies a quo" del termine decennale di prescrizione.

Cass. civ. n. 12880/2010

In tema di contratti degli enti pubblici territoriali, l'art. 23, comma 3, del d.l. 28 aprile 1989, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, subordinando la validità del contratto all'esistenza di una deliberazione autorizzativa assunta nelle forme previste dalla legge e del relativo impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ha sostanzialmente riprodotto il contenuto della normativa precedente, di cui al combinato disposto degli artt. 284 e 288 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, mentre il successivo comma 4 ha innovato tale disciplina, prevedendo la responsabilità dell'amministratore dell'ente territoriale nell'ipotesi di acquisizione di opere, beni o servizi in violazione del predetto divieto; pertanto, mentre prima dell'entrata in vigore del menzionato comma 4, il soggetto che aveva effettuato la prestazione poteva esperire nei confronti della P.A., che ne avesse riconosciuto l"'utilitas", l'azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c., nella vigenza del citato comma 4 tale azione non è più proponibile, in quanto, avendo carattere sussidiario, essa resta esclusa dalla proponibilità dell'azione nei confronti dell'amministratore o del funzionario che ha consentito l'acquisizione della prestazione. Ne consegue che, nel caso in cui il contratto invalido sia stato stipulato sotto la vigenza del cd. n. 383 del 1934, ma la prestazione sia stata eseguita dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 66 del 1989, deve escludersi la esperibilità dell'azione ex art. 2041 nei confronti dell'ente territoriale, in quanto, avendo avuto luogo l'acquisizione della prestazione sotto la vigenza della nuova disciplina, il contraente dispone dell'azione diretta nei confronti degli amministratori.

Cass. civ. n. 9447/2010

Il funzionario o l'amministratore pubblici che abbiano attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione degli enti medesimi, rispondono - in base alla disciplina recata dai commi 3 e 4 dell'art. 23 del d.l. 3 marzo 1989, n. 66 (convertito, con modificazioni, nella legge 29 aprile 1989, n. 144) - degli effetti di detta attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è pertanto legittimato ad agire direttamente e personalmente nei loro confronti. Ne consegue che, ove, a loro volta, il funzionario o l'amministratori anzidetti abbiano proposto contro l'ente locale l'azione di indebito arricchimento (art. 2041 c.c.), per l'accoglimento di tale domanda è necessario che la P.A. abbia espresso, tramite i suoi organi rappresentativi e deputati alla deliberazione della spesa, un giudizio positivo circa il vantaggio o l'utilità della prestazione ricevuta, non potendo detto giudizio provenire, però, dallo stesso funzionario o amministratore che si è reso inosservante della procedura prescritta, avendo costui, in ragione della sua consapevole condotta illegittima, interrotto il rapporto di immedesimazione organica con l'ente.

Cass. civ. n. 3322/2010

L'azione generale di arricchimento senza causa nei confronti della P.A. presuppone, oltre al fatto materiale dell'esecuzione di una prestazione economicamente vantaggiosa per l'ente pubblico, anche il riconoscimento dell'utilità della stessa da parte dell'ente, il quale può avvenire anche in modo implicito, cioè mediante l'utilizzazione dell'opera o della prestazione secondo una destinazione oggettivamente rilevabile ed equivalente nel risultato ad un esplicito riconoscimento di utilità, posta in essere senza il rispetto delle prescritte formalità da parte di detto organo, ovvero in comportamenti di quest'ultimo dai quali si desuma inequivocabilmente un giudizio positivo circa il vantaggio dell'opera o della prestazione ricevuta dall'ente rappresentato. (Fattispecie relativa alla realizzazione di opere di urbanizzazione in eccedenza rispetto ad un piano di lottizzazione, in cui la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva rigettato la domanda d'indennizzo per l'assenza del riconoscimento della pubblica utilità, ritenendo che a tal fine la P.A. avrebbe dovuto certificare la rispondenza diretta o indiretta di dette opere ai programmi o ai servizi pubblici, anche in termini di vantaggio economico, essendo, invece, emerso che esse erano state effettuate nello specifico ed esclusivo interesse dell'attore).

Cass. civ. n. 1707/2010

Esperita un'azione contrattuale e passata in giudicato la sentenza di rigetto sulla stessa pronunciata, la prescrizione dell'azione di ingiustificato arricchimento successivamente esercitata non può farsi correttamente decorrere dal momento in cui la pronuncia giudiziale sull'azione contrattuale è divenuta irrevocabile, atteso che la richiesta di adempimento contrattuale e quella di indennizzo per l'ingiustificato arricchimento si pongono in una relazione di reciproca non fungibilità e non costituiscono articolazioni di una matrice fattuale sostanzialmente unitaria, ma derivano da diritti cosiddetti "eterodeterminati", per la identificazione dei quali, cioè, occorre far riferimento ai relativi fatti costitutivi, tra loro sensibilmente divergenti sul piano genetico e funzionale.

Cass. civ. n. 8020/2009

L'azione generale di arricchimento, presupponendo che la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro sia avvenuta senza giusta causa, ha carattere sussidiario e, pertanto, è inammissibile nel caso in cui sia stata proposta domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti all'accoglimento, oppure quando la domanda ordinaria, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall'interessato. (Nella specie, il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda fondata sul titolo contrattuale, accogliendo quella ex art. 2041 c.c., proposta in via alternativa; avendo il convenuto proposto appello, e non avendo l'attore riproposto la prima domanda ai sensi dell'art. 346 c.p.c., la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha confermato la sentenza di appello, che aveva rigettato anche la seconda domanda).

Cass. civ. n. 25156/2008

L'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per l'Amministrazione stessa, ma anche il riconoscimento, da parte di questa, dell'utilità dell'opera o della prestazione. Tale riconoscimento, che sostituisce il requisito dell'arricchimento previsto dall'art. 2041 c.c. nei rapporti tra privati, può avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale, oppure può risultare in modo implicito da atti o comportamenti della P.A.; dai quali si desuma inequivocabilmente un effettuato giudizio positivo circa il vantaggio o l'utilità della prestazione promanante da organi rappresentativi dell'amministrazione interessata, mentre non può essere desunta dalla mera acquisizione e successiva utilizzazione della prestazione stessa; siffatto giudizio positivo, in ragione dei limiti posti dall'art. 4 della legge n. 2248 all. E del 1865, è riservato esclusivamente alla P.A. e non può essere effettuato dal giudice ordinario, che può solo accertare se e in quale misura l'opera o la prestazione del terzo siano state effettivamente utilizzate.

Cass. civ. n. 24772/2008

L'azione di ingiustificato arricchimento di cui all'art. 2041 cod. civ può essere proposta solo quando ricorrano due presupposti: (a) la mancanza di qualsiasi altro rimedio giudiziale in favore dell'impoverito; (b) la unicità del fatto causativo dell'impoverimento sussistente quando la prestazione resa dall'impoverito sia andata a vantaggio dell'arricchito, con conseguente esclusione dei casi di cosiddetto arricchimento indiretto, nei quali l'arricchimento è realizzato da persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell'impoverito. Tuttavia, avendo l'azione di ingiustificato arricchimento uno scopo di equità, il suo esercizio deve ammettersi anche nel caso di arricchimento indiretto nei soli casi in cui lo stesso sia stato realizzato dalla P.A., in conseguenza della prestazione resa dall'impoverito ad un ente pubblico, ovvero sia stato conseguito dal terzo a titolo gratuito.

Cass. civ. n. 23385/2008

In tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all'assenza di un valido contratto di appalto di opere (nella specie perché annullato dal Giudice Amministrativo), tra la P.A. (nella specie un Comune) ed un privato (nella specie un consorzio di cooperative), l'indennità prevista dall'art. 2041 cod. civ. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace; pertanto, ai fini della determinazione dell'indennizzo dovuto, non può farsi ricorso alla revisione prezzi, tendente ad assicurare al richiedente quanto si riprometteva di ricavare dall'esecuzione del contratto, la quale, non può costituire neppure un mero parametro di riferimento, trattandosi di meccanismo sottoposto dalla legge a precisi limiti e condizioni, pur sempre a fronte di un valido contratto di appalto (Principio enunciato dalle Sezioni Unite, in fattispecie antecedente alla legge 24 aprile 1989, n. 144, risolvendo un contrasto in riferimento ai criteri di calcolo dell'indennizzo ex art. 2041 cod. civ.).

Cass. civ. n. 10966/2008

La domanda giudiziale volta ad ottenere l'adempimento di un'obbligazione derivante da un contratto non vale ad interrompere la prescrizione dell'azione, successivamente esperita, di arricchimento senza causa, difettando il requisito della pertinenza dell'atto interruttivo all'azione proposta (identificata in base al petitum ed alla causa petendi), in quanto la richiesta di adempimento contrattuale e quella di indennizzo per l'ingiustificato arricchimento si pongono in una relazione di reciproca non fungibilità e non costituiscono articolazioni di una matrice fattuale sostanzialmente unitaria, ma derivano da diritti cosiddetti «eterodeterminati» per la identificazione dei quali, cioè, occorre far riferimento ai relativi fatti costitutivi, tra loro sensibilmente divergenti sul piano genetico e funzionale.

Cass. civ. n. 25439/2007

In tema di azione di arricchimento senza causa, proposta nei confronti di un ente pubblico territoriale, l'esistenza di una delibera di spesa giustificativa del contratto di fornitura di servizi (rilevabile d'ufficio dal giudice) determina, nel caso in cui la stipulazione sia avvenuta in violazione dell'art. 23 D.L. n. 66 del 1989 convertito nella legge n. 144 del 1989, applicabile ratione temporis il sorgere di un vincolo negoziale diretto con l'amministratore o funzionario che l'ha consentito e l'inammissibilità dell'azione proposta per difetto del requisito della sussidiarietà.

Cass. civ. n. 21292/2007

In caso di arricchimento senza causa, l'indennizzo, avendo la funzione di reintegrare il patrimonio del destinatario, di un valore perduto, è suscettibile di rivalutazione, ancorché il soggetto tenuto al suo pagamento sia un ente pubblico, in quanto integra un debito di valore, e non di valuta, e ciò anche quando sia correlativo ad attività che abbiano comportato un risparmio di spesa per l'obbligato.

Cass. civ. n. 19572/2007

In tema di azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. (per prestazioni eseguite prima dell'entrata in vigore del decreto legge n. 66 del 1989) il riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione, presupposto per l'esercizio dell'azione verso la P.A., può essere fatto da quest'ultima formalmente od in modo implicito, cioè utilizzando l'opera o la prestazione del privato; in questo secondo caso il giudizio di utilità può essere compiuto anche dal giudice che ha il potere di accertare se e in che misura l'opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla P.A. ai fini del riconoscimento del diritto all'indennizzo dell'impoverimento subito.

Cass. civ. n. 15296/2007

In tema di spese degli enti locali effettuate senza il rispetto delle condizioni di cui all'art. 23, commi 3 e 4, D.L. 2 marzo 1989, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, applicabile ratione temporis e riprodotto, senza sostanziali modifiche, prima dall'art. 35 D.L.vo n. 77 .del 1995 e poi dall'art. 191 D.L.vo n. 267 del 2000, l'insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del corrispettivo, direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, determina l'impossibilità di esperire nei confronti del Comune l'azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà. Qualora detta azione sia stata formalmente proposta, se è vero (sentenza della Corte costituzionale n. 295 del 1997), che il contraente privato è legittimato, utendo iuribus del funzionario (o amministratore) suo debitore, ad agire contro la P.A. in via surrogatoria ex art. 2900 c.c., non è però consentito al Giudice sostituire d'ufficio (e pronunciarsi su) questa azione, che è diversa da quella di arricchimento senza causa, in quanto ha petitum e causa petendi autonomi e specifici, altrimenti incorrendosi nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all'art. 112 c.p.c.

Cass. civ. n. 11854/2007

In tema di assunzione di impegni e di effettuazione di spese da parte degli enti locali, l'art. 23 del decreto legge 3 marzo 1989, n. 66 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144 ) ha introdotto un innovativo sistema di imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell'amministratore o funzionario degli effetti dell'attività contrattuale dallo stesso condotta in violazione delle regole contabili in merito alla gestione degli enti locali, comportante, relativamente ai beni o servizi acquisiti, una frattura o scissione ope legis del rapporto di immedesimazione organica tra i suddetti agenti e la P.A., escludente la riferibilità a quest'ultima delle iniziative adottate al di fuori della schema procedimentale delle norme ad evidenza pubblica. In tali casi, sorgono obbligazioni a carico non dell'ente, bensì in virtù di una sorta di novazione soggettiva di fonte normativa dell'amministratore o del funzionario, i quali rispondono con il proprio patrimonio, senza che sia esperibile l'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A., atteso che difetta il requisito della sussidiarietà (art. 2042 c.c. ), che va escluso quando esista altra azione esperibile non solo nei confronti dell'arricchito, ma anche nei confronti di persona diverso da esso.

Cass. civ. n. 11461/2007

Sussistono i presupposti dell'azione per indebito arricchimento nel caso di prestazione professionale eseguita sulla base di un contratto invalidato a seguito dell'annullamento, da parte dell'ente di controllo, delle delibere consortili precedenti e condizionanti la validità della stipulazione del contratto. Una delle situazioni tipiche riconducibili alla funzione dell'azione per indebito arricchimento (eliminazione dello squilibrio determinatosi a seguito dei conseguimento di una utilità economica da parte di un soggetto con correlativa diminuzione patrimoniale di un altro soggetto) è, infatti, quella del contratto nullo nel caso in cui una delle parti abbia eseguito la sua prestazione. Né il carattere sussidiario dell'azione di indebito arricchimento ostacola la sua proponibilità nel caso in cui sia esperibile un'azione di responsabilità precontrattuale nei confronti di un terzo (nella specie, l'organo del consorzio che ne aveva espresso la volontà di utilizzare la prestazione professionale) di cui è esclusa la solvibilità.

Cass. civ. n. 10884/2007

Non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del D.L. n. 66 del 1989 (convertito in legge n. 144 del 1989 e riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 D.L.vo n. 77 del 1995), deve ritenersi l'esperibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente all'entrata in vigore di tale normativa, non difettando il requisito della sussidiarietà per il fatto che il privato può agire direttamente contro chi - amministratore o funzionario - abbia invalidamente commissionato le opere o i servizi, atteso che la responsabilità diretta di funzionari e dipendenti pubblici è posta dall'art. 28 Cost. su di un piano alternativo e paritetico.

Cass. civ. n. 10640/2007

In tema di spese dei Comuni (e, più in generale, degli enti locali ) in difetto dei necessari presupposti, agli effetti di quanto disposto dall'art. 23, quarto comma, del decreto legge 2 marzo 1989, n. 66 (convertito, con modificazioni, in legge 24 aprile 1989, n. 144 ), l'insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del corrispettivo, direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione con conseguente impossibilità di esperire nei confronti del Comune l'azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà si ha in tutti i casi in cui manchi una valida ed impegnativa obbligazione dell'ente locale, e quindi anche quando, approvata dal Comune la proposta di conferimento dell'incarico professionale con lo schema di disciplinare, questa non sia seguita dalla stipulazione del contratto nelle forme di legge per il rifiuto del professionista di accettare alcune delle clausole della predisposta convenzione, e, in mancanza del prescritto impegno contabile, l'esecuzione di fatto del rapporto sia stata tuttavia consentita dall'amministratore o dal funzionario.

Cass. civ. n. 6292/2007

Allorquando trovi applicazione l'art. 23 del D.L. n. 66 del 1989, che disciplina la procedura d'impegno di spesa per le amministrazioni locali, deve escludersi la proponibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A., salvo che questa, ai sensi dell'art. 5 del D.L.vo n. 342 del 1997, riconosca con esplicita deliberazione consiliare il debito sorto per effetto della condotta del proprio funzionario o amministratore; tale riconoscimento può riguardare anche una parte soltanto della prestazione, nei limiti della utilità e dell'arricchimento che vengano accertati e dimostrati.

Cass. civ. n. 11368/2006

Nell'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A., ai fini dell'utilità della prestazione non è richiesto che il riconoscimento, quando non sia esplicito, provenga formalmente da organi qualificati della P.A., restando altrimenti privo di contenuto il potere del giudice di verificare l'utilità della prestazione, la quale deve essere vagliata sulla base della valutazione in fatto dell'arricchimento, da accertare con la regola paritaria di diritto comune, sia quando riguarda il privato che quando si riferisce alla pubblica amministrazione.

Cass. civ. n. 7508/2006

Ai sensi dell'art. 23, terzo e quarto comma D.L. 2 marzo 1989 n. 66 (conv. in legge 24 aprile 1989 n. 144), applicabile ratione temporis al quale si uniforma la legge reg. Sicilia n. 21 del 1985, nelle ipotesi di fornitura di beni o servizi priva della deliberazione autorizzativa di spesa nelle forme previste, il rapporto obbligatorio si stabilisce tra il privato fornitore e l'amministratore o funzionario che abbia consentito la fornitura, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge, con la conseguente scissione del rapporto di immedesimazione organica tra l'agente e l'ente locale che resta estraneo agli impegni di spesa assunti, mentre il funzionario e/o l'amministratore può esperire nei confronti della P.A. l'azione sussidiaria di arricchimento senza causa ai sensi dell'art. 2041 c.c.

Cass. civ. n. 21079/2005

L'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per l'ente pubblico, ma anche il riconoscimento, da parte di questo, dell'utilità dell'opera o della prestazione. Tale riconoscimento pub avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale, oppure in modo implicito, cioè mediante l'utilizzazione dell'opera o della prestazione consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'ente; l'adozione, in particolare, da parte del competente organo dell'Amministrazione, di un progetto di rilevanza pubblica elaborato da un professionista per conto della stessa amministrazione ed il relativo invio di tale progetto, da parte dell'Ente, all'Autorità di controllo per l'approvazione, configura un implicito riconoscimento dell'utilità dell'attività svolta dal professionista medesimo, senza che rilevi, una volta intervenuto l'atto, che questo manchi delle prescritte formalità o delle approvazioni e dei controlli necessari per farne un atto amministrativo valido ed efficace (come nel caso di specie, in cui l'organo di controllo regionale negava la propria approvazione al piano regolatore comunale redatto dai professionisti che, in mancanza di un valido contratto, agivano nei confronti dell'amministrazione chiedendo l'indennizzo per indebito arricchimento, a causa della mancata trasmissione, da parte dello stesso Comune, degli elaborati grafici ed amministrativi relativi ai piani in oggetto), poiché tali requisiti possono condizionare l'efficacia dell'atto amministrativo sul piano negoziale, ma non inficiano l'efficacia della dichiarazione di scienza dell'atto di accertamento.

Cass. civ. n. 6570/2005

L'azione di arricchimento senza causa è ammissibile soltanto limitatamente a quanto un soggetto abbia fatto proprio e non oltre l'effettiva entità della diminuzione patrimoniale correlativamente subita dall'altro soggetto. Pertanto, nel caso dell'elaborazione, a favore di un ente pubblico, che poi ne abbia riconosciuto l'utilità, di un progetto di opera pubblica non preceduta da un valido incarico professionale conferito contrattualmente, l'indennizzo dovuto ex art. 2041 c.c. al professionista va liquidato, nei limiti dell'arricchimento dell'ente, con riguardo alla entità dell'effettiva perdita patrimoniale subita dal professionista, da accertarsi tenendo conto delle spese anticipate per l'esecuzione dell'opera e del mancato guadagno, da determinarsi eventualmente anche ex art. 1226 c.c., che lo stesso avrebbe ricavato dal normale svolgimento della sua attività professionale nel periodo di tempo dedicato invece all'esecuzione dell'opera utilizzata dall'ente pubblico, senza la possibilità di far ricorso a parametri contrattuali, stante la carenza di un valido vincolo contrattuale, o di commisurare, sic et simpliciter la perdita patrimoniale alla utilitas derivatane all'ente sotto il profilo della spesa risparmiata.

Cass. civ. n. 6201/2004

L'azione di arricchimento ex art. 2041 c.c. ben può essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini, al cui perseguimento la prestazione era diretta, siano stati realizzati da soggetto diverso da quello cui la medesima era destinata, giacché il vantaggio goduto dall'arricchito non deve necessariamente risolversi in un diretto ed immediato incremento patrimoniale ma può consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata.

Cass. civ. n. 3811/2004

L'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per l'Amministrazione stessa, ma anche il riconoscimento, da parte di questa, della utilità dell'opera o della prestazione. Tale riconoscimento può avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale, oppure risultare in modo implicito da qualsiasi forma di utilizzazione dell'attività o dell'opera ricevuta (nel caso, un progetto commissionato dall'amministrazione e realizzato da un professionista) consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi della P.A., secondo valutazione discrezionale riservata esclusivamente a quest'ultima, il giudice ordinario potendo solo accertare se e in che misura l'opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate, con apprezzamento non sindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato (In applicazione del suindicato principio, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che ha, nel caso, negato significato di riconoscimento dell'utilità dell'opera svolta dal professionista alla mera deliberazione dell'organo collegiale dell'ente pubblico di conferimento di incarico professionale, in mancanza della successiva stipula di un contratto scritto, e ciò nonostante l'avvenuta corresponsione acconti, in considerazione della ravvisata equivocità di tale pagamento verosimilmente compiuto prima dell'inizio dell'attività).

Cass. civ. n. 11835/2003

L'azione generale di arricchimento non può essere proposta quando il soggetto che si è arricchito è diverso da quello con il quale chi compie la prestazione ha un rapporto diretto, in quanto in questo caso l'eventuale arricchimento costituisce solo un effetto indiretto o riflesso della prestazione eseguita, essendo altresì carente anche il requisito della sussidiarietà (art. 2042, c.c.), che non sussiste qualora il danneggiato possa esperire un'azione tipica nei confronti dell'arricchito o di altri soggetti, che siano obbligati nei suoi confronti ex lege o in virtù di un contratto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso l'esperibilità dell'azione di arricchimento nei confronti del proprietario del suolo da parte di un soggetto che aveva realizzato su di esso delle opere su incarico conferitogli da un terzo).

Cass. civ. n. 11454/2003

In tema di azione di arricchimento senza causa proposta nei confronti della Pubblica Amministrazione, relativamente a lavori effettuati da un imprenditore in favore di un ente pubblico in difetto di un valido contratto, il vantaggio conseguito dalla P.A. non deve necessariamente avere per contenuto un diretto incremento patrimoniale, ma pub consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata dalla P.A., e quindi anche in un semplice risparmio di spesa, mentre per quanto concerne l'imprenditore la diminuzione patrimoniale da questo subita deve essere commisurata alle spese sostenute per realizzare le opere richieste.

Cass. civ. n. 10409/2003

In tema di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., la sentenza di condanna al pagamento dell'indennizzo non ha natura costitutiva, in
quanto il diritto del depauperato sorge per effetto e dal momento dell'arricchimento altrui; con la conseguenza che per interrompere la prescrizione del diritto non è necessaria la proposizione della domanda giudiziale.

Cass. civ. n. 7373/2003

La locupletazione ingiustificata che, ai sensi dell'art. 2041 c.c., dà luogo all'azione generale di arricchimento ai fini dell'indennizzo della diminuzione patrimoniale correlata alla locupletazione medesima non sussiste allorché lo squilibrio economico a favore di una parte e in pregiudizio dell'altra sia stato giustificato dal consenso della parte che assume di essere stata danneggiata.

Cass. civ. n. 14215/2002

L'azione generale di arricchimento ha come presupposto che la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro sia avvenuta senza giusta causa, per cui, quando questa sia invece la conseguenza di un contratto o comunque di un altro rapporto, non può dirsi che la causa manchi o sia ingiusta, almeno fino a quando il contratto o l'altro rapporto conservino la propria efficacia obbligatoria. (Sulla base del principio di cui in massima, le S.U., investite di questione di giurisdizione, hanno escluso che potesse essere configurata come di indebito arricchimento la domanda proposta da un ente pubblico contro il proprio dipendente per conseguire la ripetizione di somme pagate per interessi su miglioramenti economici già giudizialmente riconosciuti, traendo tale vantaggio origine da un'obbligazione la cui fonte è il contratto o rapporto d'impiego).

Cass. civ. n. 11656/2002

In tema di «arricchimento indiretto», l'azione ex art. 2041 c.c. è esperibile contro il terzo che abbia conseguito l'indebita locupletazione in danno dell'istante, quando l'arricchimento sia stato conseguito dal terzo in via meramente di fatto (e perciò gratuita) nei rapporti con il soggetto obbligato per legge o per contratto nei confronti del «depauperato», e resesi insolvente nei riguardi di quest'ultimo. La predetta azione è invece inammissibile ove la prestazione sia stata conseguita dal terzo in virtù di un atto a titolo oneroso.

Cass. civ. n. 9348/2002

L'azione di indebito arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione differisce da quella ordinaria in quanto non è sufficiente il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per l'ente pubblico, che deve essere provato dall'attore; ma è necessario che l'ente abbia riconosciuto l'utilità dell'opera o della prestazione in maniera esplicita, con atto formale, ovvero in modo implicito; il riconoscimento implicito, a differenza di questo esplicito, che deve essere adottato dagli organi deliberativi dell'ente (nel caso del Comune, dal consiglio e dalla giunta comunale), può promanare anche dagli organi rappresentativi dell'ente pubblico (nel caso del Comune, dal sindaco nella sua qualità di legale rappresentante del Comune ex art. 36 legge 8 giugno 1990, n. 142); esso tuttavia presuppone pur sempre o atti formali degli organi deliberativi ovvero comportamenti, quali la consapevole utilizzazione della prestazione o dell'opera, posti in essere, senza il rispetto delle prescritte formalità, dagli organi rappresentativi, dai quali si possa desumere inequivocabilmente e con certezza un effettivo giudizio positivo circa il vantaggio o l'utilità dell'opera o della prestazione eseguita dal privato. Ai fimi del riconoscimento implicito sono invece ininfluenti la semplice conoscenza dell'esecuzione dell'opera o della prestazione, acquisita dalla pubblica amministrazione in un momento successivo, ovvero la consapevole tolleranza dell'altrui apporto vantaggioso, trattandosi di elementi non casualmente collegati ad un comportamento del sindaco idoneo a mettere a disposizione dell'ente la prestazione o l'opera e a manifestare con fatti concludenti e univoci il riconoscimento della loro utilità.

Cass. civ. n. 1884/2002

Ai fini dell'utile versum dell'azione di arricchimento senza causa, proposta, ai sensi dell'art. 2041 c.c., nei confronti della pubblica amministrazione, non rileva l'utilità che l'ente confidava di realizzare, bensì quella che ha in effetti conseguito e che, quando la prestazione eseguita in favore della P.A. sia di carattere professionale, può consistere anche nell'avere evitato un esborso o una diversa diminuzione patrimoniale cui, invece, sarebbe stato necessario far fronte ove fosse mancata la possibilità di disporre del risultato della prestazione medesima. Pertanto, qualora il progetto di un'opera pubblica, fornito da un professionista a un ente pubblico senza un valido conferimento di incarico, sia stato utilizzato per chiedere il finanziamento dell'opera progettata, l'ente medesimo è tenuto a indennizzare l'autore dell'elaborato nei limiti del vantaggio conseguito attraverso l'utilizzazione concretamente fatta dello stesso, e resta poi irrilevante il fatto che il finanziamento non sia stato accordato e l'opera pubblica da sovvenzionare non sia stata realizzata.

Cass. civ. n. 8752/2001

Ai sensi dell'art. 2041 c.c., l'indennità per indebito arricchimento deve essere liquidata nella minor somma tra l'arricchimento ricevuto da chi si sia avvantaggiato della prestazione senza causa, e la diminuzione patrimoniale subita da chi ne sia stato impoverito; qualora l'indennizzo debba essere attribuito in relazione ad una prestazione priva di un prezzo di mercato, come l'insegnamento, la valutazione della diminuzione patrimoniale può essere commisurata al compenso previsto in analogo contratto di diritto privato di insegnamento a tempo determinato, il quale viene assunto come parametro di quantificazione e non quale effetto di un obbligo contrattuale.

Cass. civ. n. 15096/2000

Ai fini della esperibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti di un ente pubblico locale, se per la somma urgenza dei lavori occorrenti al medesimo non è stato possibile autorizzarli prima della loro esecuzione, e la delibera autorizzativa adottata successivamente è stata annullata dall'organo di controllo, è comunque necessario, a pena di decadenza, ai sensi dell'art. 23, terzo comma, del D.L. 2 marzo 1989, n. 66, convertito in legge 24 aprile 1989, n. 144 - norma sostanzialmente trasfusa nell'art. 35 del D.L.vo 25 febbraio 1995, n. 77 - che detta delibera sia intervenuta entro trenta giorni dall'ordinazione ed in ogni caso entro la fine dell'esercizio finanziario, altrimenti, per effetto del quarto comma del predetto articolo, il rapporto obbligatorio intercorre tra fornitore e amministratore o funzionario che ha consentito la fornitura. Invece, per l'esperibilità sia dell'azione ai sensi dell'art. 2041 c.c., sia di quella contrattuale nei confronti dell'ente, non rileva che entro il termine stabilito dalla suddetta norma l'organo di controllo approvi tale regolarizzazione, perché non è logico far dipendere la mancata costituzione del rapporto contrattuale con la P.A. da un soggetto diverso da quello che ha ricevuto la prestazione e perché la brevità del termine è incompatibile con un'interpretazione della norma in tal senso, tanto più che essendo la medesima derogatoria al principio della immedesimazione organica tra amministratore o funzionario pubblico e P.A., non può essere applicata ad ipotesi non espressamente e specificamente contemplate.

Cass. civ. n. 13296/2000

Se un contratto di fornitura tra un privato e un comune viola le disposizioni contenute nell'art. 23, terzo comma, della legge 24 aprile 1989, n. 144, secondo l'interpretazione avallata dalla Corte costituzionale con le sentenze 24 ottobre 1995, n. 446 e 30 luglio 1997, n. 295, il rapporto negoziale intercorre direttamente con l'amministratore o il funzionario che ha consentito l'instaurazione di tale rapporto: pertanto, il privato non può esperire nei confronti del comune neppure l'azione di indebito arricchimento (ex art. 2041 c.c.) per difetto del necessario requisito della sussidiarietà (art. 2042 c.c.) che è escluso nel caso in cui esista altra azione esperibile nei confronti della parte contrattualmente inadempiente. Detto principio non è derogabile — come chiarito con le sopra citate decisioni della Corte costituzionale — nel caso di acquisizione da parte degli enti locali di beni e servizi per effetto di lavori di «somma urgenza» non regolarizzati successivamente nei termini prescritti.

Cass. civ. n. 10199/2000

L'azione di responsabilità che, a norma dell'art. 23, D.L. n. 66 del 1989 (conv. in legge n. 144 del 1989 e riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35, D.L.vo n. 77 del 1995), è esperibile dai privati contro gli amministratori e i funzionari di province, comuni, e comunità montane per prestazioni e servizi resi senza il rispetto delle prescritte formalità, comporta che, limitatamente ai suddetti enti ed alle indicate situazioni, il privato, disponendo di un'azione diretta, non può esperire nei confronti della P.A. fazione sussidiaria di arricchimento senza causa; tuttavia, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del citato D.L. n. 66, deve ritenersi l'esperibilità dell'azione di indebito arricchimento per tutte le prestazioni ed i servizi resi alla P.A. anteriormente all'entrata in vigore di tale normativa, non difettando il requisito della sussidiarietà per il fatto che il privato può agire direttamente contro chi abbia invalidamente commissionato le opere o i servizi, atteso che la responsabilità diretta di funzionari e dipendenti pubblici è posta dall'art. 28 Cost. su di un piano alternativo e paritetico.

Cass. civ. n. 8481/2000

L'azione generale di arricchimento postula ai sensi dell'art. 2041 c.c. il carattere indebito dell'arricchimento di un soggetto a danno di un altro, sicché non è proponibile nel caso di attribuzione patrimoniale avvenuta in base ad una specifica disposizione di legge sia pure con indiretta utilità altrui (fattispecie concernente la domanda di rimborso delle spese sostenute per la registrazione di una scrittura privata prodotta in giudizio dalla parte come prova documentale).

Cass. civ. n. 8285/2000

In tema di indebito arricchimento della P.A., il riconoscimento, da parte di enti pubblici, dell'utilità di una prestazione professionale (nella specie, attività di consulenza legale da parte di un avvocato nei confronti di una Usl, concretatasi, tra l'altro, nella predisposizione e redazione di un contratto preliminare di compravendita) postula, da un canto, la consapevole utilizzazione dell'opera del privato da parte dell'ente, e, dall'altro, il verificarsi di un vantaggio per l'ente stesso in conseguenza di tale utilizzazione, vantaggio che non deve necessariamente risolversi in un diretto ed immediato incremento patrimoniale.

Cass. civ. n. 3222/1999

L'azione di indebito arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione presuppone non solo il fatto materiale dell'esecuzione dell'opera o della prestazione vantaggiosa per l'ente pubblico, ma anche il riconoscimento da parte di questo dell'utilità dell'opera realizzata o del servizio prestato. Tale riconoscimento può anche essere implicito purché sia desumibile dalla prova specifica di comportamenti imputabili non a qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura dell'ente, bensì . solo agli organi rappresentativi dell'amministrazione interessata o a coloro cui è rimessa la formazione della volontà dell'ente stesso. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso che una delibera della giunta comunale annullata dal Coreco potesse avere una qualsiasi rilevanza giuridica e che quindi potesse fornire la prova dell'avvenuto gradimento, da parte della P.A., dell'utilità della prestazione effettuata da un terzo in suo favore).

Cass. civ. n. 10576/1997

Il riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione eseguita dal terzo, che costituisce requisito per l'esperibilità dell'azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione (e che, in ragione dei limiti posti dall'art. 4, della legge n. 2248 del 1865, all. E, non può essere sopperito da una valutazione dell'utilità compiuta dal giudice ordinario) può anche risultare in modo implicito da atti o comportamenti della P.A. dai quali si possa desumere inequivocabilmente un effettuato giudizio positivo circa il vantaggio o l'utilità della prestazione o dell'opera. In una tale prospettiva, esso può desumersi — quanto ad un comune — non solo da deliberazioni prese dal consiglio comunale o dalla giunta — quali organi deliberanti nell'ambito delle rispettive competenze — e non solo da atti formali del sindaco quale organo che rappresenta il comune, ai sensi dell'art. 151, R.D. n. 148 del 1915 (ed ora dall'art. 36 della legge n. 142 del 1990), ma anche da atti formali compiuti da un assessore componente la giunta comunale e resi nell'esercizio di competenze ad esso specificamente delegate dal sindaco (come già previsto dall'art. 67 del R.D. n. 297 del 1911, e, per gli enti locali della Regione siciliana, dall'art. 72, comma terzo, del decreto legislativo P. n. 6 del 1955).

Cass. civ. n. 5021/1997

Fermo il profilo per cui l'art. 2041 c.c. prevede che l'indennità per indebito arricchimento sia liquidata nella minor somma tra l'arricchimento ricevuto da chi si sia avvantaggiato della prestazione senza causa, e la diminuzione patrimoniale subita da chi ne sia stato impoverito, deve rilevarsi che, nel caso di forniture di merci effettuate da un imprenditore in favore di un ente pubblico in assenza di un valido contratto, la diminuzione patrimoniale subita dall'imprenditore non è costituita dal solo costo d'acquisto delle merci fornite. L'impoverimento dell'imprenditore, infatti, è costituito, innanzitutto, da ogni genere di spese affrontate per effettuare le forniture, senza che possa distinguersi tra costo di acquisto delle merci, quota parte delle spese generali destinate ad essere ammortizzate con la loro vendita, imposte corrisposte in relazione alle forniture effettuate, e costi di consegna. Trattasi, infatti, di esborsi sicuramente effettivi, destinati ad esser recuperati attraverso il prezzo della vendita delle merci, prezzo che essi concorrono a determinare, cosicché, ove le merci medesime finiscano per essere state trasferite in proprietà in assenza di un valido contratto che consenta di percepire un detto prezzo, l'imprenditore subisce una diminuzione patrimoniale che ricomprende singolarmente e complessivamente tutti tali costi. E deve ritenersi che anche il mancato guadagno per utile d'impresa connesso a prestazioni erogate — come quelle in questione — sine causa, costituisca perdita patrimoniale che deve entrare in conto della «diminuzione patrimoniale» subita dall'imprenditore. Ne consegue che, ove l'imprenditore abbia emesso fatture, la diminuzione patrimoniale da lui subita possa presumersi coincidente con il prezzo fatturato, ma non riscosso, e che, essendo — per converso — il vantaggio patrimoniale conseguito, in questi casi, dall'ente pubblico accipiens, rappresentato dal valore di mercato delle merci ricevute (e cioè, dal prezzo normalmente praticato nella stessa zona per merci e contrattazioni dello stesso tipo coincidenti per quantità, qualità e contenuto accessorio), ove il prezzo fatturato dall'imprenditore sia quello di mercato, l'importo della diminuzione patrimoniale risentita da quest'ultimo e quello dell'arricchimento conosciuto dall'ente accipiens coincidano, e rappresentino l'importo dovuto a titolo di indebito arricchimento.

Cass. civ. n. 1025/1996

In tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti della P.A., il riconoscimento, da parte di enti pubblici, dell'utilità di una prestazione professionale (nella specie, redazione di un progetto di massima, da parte di un ingegnere e di un architetto per la realizzazione di una strada), si realizza con la mera utilizzazione della stessa, indipendentemente dal fatto che i fini, al cui perseguimento la prestazione era diretta, siano stati realizzati da un ente diverso da quello al quale il progetto era destinato (nell'ipotesi, dall'Anas, anziché dalla provincia e dalla comunità montana, che avevano ,affidato l'incarico di progettazione), in quanto il vantaggio goduto dall'arricchito non deve avere necessariamente un contenuto di diretto incremento patrimoniale, ma può consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata dalla. P.A., e, quindi, anche in un semplice risparmio di spesa (ravvisabile, nella circostanza, nel mancato esborso per procurarsi altro progetto idoneo a convincere l'Anas ad assumere il peso dell'esecuzione dell'opera viaria).

Cass. civ. n. 517/1994

In tema di arricchimento senza causa (art. 2041 c.c.), la sentenza di condanna al pagamento dell'indennizzo non ha natura costitutiva, in quanto il diritto del depauperato sorge per effetto e dal momento dell'arricchimento altrui, con la conseguenza che a partire da detto momento va operata la rivalutazione del credito e devono decorrere gli interessi legali.

Cass. civ. n. 11439/1993

Anche per l'azione di arricchimento senza causa, come per ogni altra, la prescrizione inizia a decorrere dal giorno nel quale può essere fatto valere il diritto all'indennizzo e cioè dal momento in cui detto diritto si matura, che coincide con quello in cui si verifica l'arricchimento del beneficiario e la correlativa diminuzione patrimoniale dell'altra parte.

Cass. civ. n. 11061/1993

L'indennizzo dovuto per arricchimento senza causa (art. 2041 c.c.), in quanto diretto a reintegrare una diminuzione patrimoniale, costituisce un debito di valore, anche qualora l'arricchimento si ricolleghi ad un'attività o erogazione del creditore che abbia comportato un risparmio di spesa per l'obbligato, e, pertanto, va liquidato tenendo conto della sopravvenuta svalutazione monetaria, sulla base di criteri oggettivi (quale, nell'ipotesi, il coefficiente Istat), senza che assuma rilievo, al predetto fine, il saggio bancario dell'interesse sulla somma erogata dal depauperato, non trattandosi di debito di valuta e non potendosi, quindi, liquidare, rispetto ad esso, il maggior danno previsto per le obbligazioni pecuniarie dall'art. 1224 c.c. Sulla somma liquidata sono dovuti gli interessi legali, con decorrenza dalla proposizione della domanda, in quanto il dovere giuridico d'indennizzo sorge soltanto quando il titolare dell'azione di arricchimento faccia valere la sua pretesa.

Nell'azione di arricchimento senza causa, l'ordinario termine decennale di prescrizione decorre dal momento in cui il diritto all'indennizzo può essere fatto valere, il quale, se normalmente coincide con quello in cui si verifica l'arricchimento del beneficiario e la correlativa diminuzione patrimoniale dell'altra parte, può essere successivo al perfezionamento dell'arricchimento, qualora, a detta epoca, nell'ipotesi di arricchimento per risparmio di spesa, l'esborso non sia ancora interamente avvenuto (nella specie, perché regolato secondo gli stati di avanzamento dei lavori, in forza del contratto con un terzo appaltatore), verificandosi soltanto con il completamento dell'esborso lo spostamento di ricchezza da un patrimonio all'altro.

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Consulenze legali
relative all'articolo 2041 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

G. G. chiede
venerdì 16/02/2024
“Buongiorno,
La mia compagna vive un un appartamento con suo figlio.
Questo appartamento é stato comprato 6 anni fa assieme al suo ex compagno e per comprarlo hanno creato un mutuo assieme.
Ora la mia compagna fa l'accollo del mutuo in accordo con l'ex compagno per pagare tutto lei la rata del muto e quindi far uscire dal mutuo il suo ex compagno.
Ora però vorremmo sapere se lei é obbligata a versare all'ex compagno tutte le quote del mutuo che ha versato l'ex compagno quando vivevano assieme.
Tengo a precisare che non erano sposati.
Lei non vorrebbe vendere la casa perché ci vive dentro questo appartamento.
Spero di essermi spiegato bene.”
Consulenza legale i 27/02/2024
Bisogna premettere che la convivenza more uxorio, ossia tra persone che non sono sposate tra loro, ma che si comportano come se lo fossero, trova tutela sia nella nostra Costituzione - e, in primis, nell’art. 2 che riconosce le “formazioni sociali” in cui si svolge la personalità - sia nella legge (la n. 76/2016, cosiddetta legge Cirinnà).
Anche se non esiste, riguardo alle convivenze, una norma quale quella dell’art. 143 c.c., che sancisce quali reciproci diritti/doveri di marito e moglie, tra gli altri, quello all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia, alla contribuzione ai bisogni della famiglia, è innegabile che anche nella convivenza di fatto - cioè non formalizzata neppure ai sensi della citata legge Cirinnà - sorgano rapporti di reciproca solidarietà e assistenza, del tutto simili a quelli che caratterizzano il vincolo matrimoniale.

In quest’ottica il contributo, anche economico, dato da un convivente alla vita familiare può essere considerato come effettuato in adempimento di doveri morali o sociali e, quindi, non soggetto a “ripetizione” (cioè a richiesta di restituzione) neppure quando la relazione finisce.
Ad esempio, proprio recentemente la Cassazione (Sez. III Civile, Ordinanza, 21/02/2023, n. 5385), sia pur riferendosi alla separazione in senso stretto - dunque di una coppia sposata - ha affermato quanto segue: “in materia di separazione e con riferimento al mutuo cointestato ad entrambi i coniugi, salvo l'esistenza di un differente accordo inter partes, che va provato, non sono ripetibili le somme pagate da uno solo dei coniugi in costanza di matrimonio, a titolo di rate del mutuo contratto da entrambi in solido per l'acquisto della casa coniuqale, anche se cointestata. In caso di interruzione del rapporto coniugale per effetto di separazione, entrambi i coniugi possono decidere di continuare a pagare normalmente le rate del mutuo. Ma se uno dei due coniugi non vuole più pagare le rate del mutuo, così rinunciando al diritto di proprietà sulla casa, l'altro coniuge può accollarsi interamente il mutuo, versando le rate mancanti fino all'estinzione dello stesso. La ripetibilità potrà essere fatta valere solo dalla data della separazione e per le somme successivamente pagate, purché l'accollo del mutuo da parte di uno solo dei coniugi non sia imposto dai Giudice quale contributo al mantenimento del coniuge o dei figli, o non sia previsto negli accordi delle parti”.

Ora, se quanto deciso dalla Cassazione può risultare confortante per chi pone il quesito, occorre anche dire che in questo genere di situazioni non esistono risposte che valgano per tutti, ma la soluzione va ricercata caso per caso. In particolare, proprio con riferimento agli esborsi sostenuti dai conviventi occorre considerare anche fattori come la condizione economica delle parti coinvolte: le somme versate potrebbero infatti risultare sproporzionate e travalicare, dunque, i limiti dei doveri di solidarietà nascenti dalla convivenza more uxorio. In alcuni casi, infatti, il giudice potrebbe ritenere ripetibili le spese fatte alla luce della norma sull’ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.).
Si consiglia, pertanto, di ricercare un accordo con la controparte, preferibilmente con l’assistenza di un legale, in modo da evitare successive spiacevoli “sorprese”.

A. D. B. chiede
martedì 12/12/2023
“buongiorno,
devo proporre azione di ingiusto arricchimento (ex art. 2041 c.c.) nei confronti della mia ex convivente per dazioni che esulano dalle obbligazioni naturali (ex art. 2034 c.c.) da me effettuate nel corso della convivenza.


Per quanto riguarda la prescrizione ho conoscenza di due sentenze di Cassazione -Cass. n. 11330 del 15/05/2009- e -Cass. n. 11303 del 12/06/2020-, che stabiliscono che la prescrizione decorre NON dai singoli versamenti
ma dalla "cessazione della convivenza".

Avrei interesse a conoscere il vostro parere e, soprattutto, a conoscere altre fonti del Diritto (altre sentenze o massime della S.C., ma anche altre norme giuridiche che vadano in questa direzione.

Mi pare per esempio che nella c.d. legge Cirinnà ci potrebbero essere principi utili. Anche pronunciamenti di Corti di livello inferiore potrebbero essere utili.

resto in attesa
grazie”
Consulenza legale i 18/12/2023
I due precedenti giurisprudenziali citati nel quesito sono effettivamente pertinenti rispetto alla tesi che si intende sostenere (ovvero, decorrenza della prescrizione dell’azione di indebito arricchimento nei confronti del convivente more uxorio dalla cessazione della convivenza).
In particolare, in Cass. Civ., Sez. III, 15/05/2009, n. 11330 si specifica che “il diritto a richiedere l'indennizzo per l'altrui ingiustificato arricchimento si prescrive in dieci anni dal momento in cui l'arricchimento si è verificato. Nel caso in cui un convivente "more uxorio" presti nei confronti dell'altro rilevanti contributi economico-patrimoniali in maniera continuativa, la prescrizione dell'azione di arricchimento decorre dalla cessazione del rapporto di convivenza”.
In tale pronuncia la Suprema Corte spiega che, proprio in “considerazione della continuità dei rilevanti contributi economico- patrimoniali resi [...] in tutto il corso del rapporto di convivenza”, il corrispondente arricchimento dell’altro convivente poteva considerarsi definitivo “solo alla cessazione di siffatto rapporto”.

Anche Cass. Civ., Sez. III, 12/06/2020, n. 11303 afferma che “nell'ambito del rapporto di convivenza "more uxorio", il termine di prescrizione dell'azione di ingiustificato arricchimento decorre non dai singoli esborsi, bensì dalla cessazione della convivenza”.

Purtroppo la ricerca giurisprudenziale effettuata non ha rilevato, allo stato, altre pronunce conformi, ma neppure pronunce di segno contrario.

Quanto alla c.d. legge Cirinnà (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), il comma 18 dell’art. 1 stabilisce espressamente che “la prescrizione rimane sospesa tra le parti dell'unione civile”. Si tratta, tuttavia, di una disposizione limitata alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, che sia stata formalizzata nei modi previsti dalla legge stessa; la previsione non viene invece estesa alle convivenze di fatto.

L. A. chiede
lunedì 20/11/2023
“Buongiorno
In una palazzina composta da 4 appartamenti in classe energetica A dotati ciascuno di singolo impianto fotovoltaico con il contatore enel intestato al proprietario, nei regolari contratti di affitto, che si sono succeduti dal 2017, viene indicata con una formula l'energia consumata e da pagare .
Solo ora ci accorgiamo che, per un errore, fin dal primo contratto di affitto, la formula immessa per il pagamento e regolarmente pagata dai conduttori ha addebitato anche l'energia prodotta ma non utilizzata dal conduttore bensì immessa nella rete.
Il proprietario deve restituire tutti i maggiori introiti derivanti dall'errore, senza tenere conto degli oneri derivanti dall'ammortamento, dalla manutenzione e dalla assicurazione grandine dei pannelli che non sono di proprietà del conduttore?”
Consulenza legale i 21/11/2023
La risposta al quesito deve essere sostanzialmente affermativa.
La restituzione delle somme pagate dal conduttore e riconducibili al consumo di energia elettrica in realtà immessa in rete trova la sua giustificazione nell’art. 2041 del c.c. Se tali incassi non venissero restituiti il proprietario infatti si troverebbe a beneficiare di un ingiusto arricchimento a suo favore e a danno dell’inquilino che deriva dall’aver incassato due volte il costo dell’energia non utilizzata: una prima volta dalla autorità GSE con la sua immissione in rete e una seconda volta dal suo inquilino.

L’art. 2041 del c.c. racchiude, infatti, un principio molto importante per il nostro ordinamento, secondo il quale ogni arricchimento di cui un soggetto si trova a beneficiare deve essere sorretto da una causa giustificativa, la quale nel caso specifico manca proprio perché il proprietario si trova a godere di un doppio rimborso.

Nella determinazione del rimborso non si deve tener conto di altre voci di spesa né a titolo di assicurazione né a titolo di ammortamento.
Con il contratto di locazione infatti il proprietario si è obbligato a mettere a disposizione del suo inquilino, dietro pagamento del canone di affitto, non solo l’unità abitativa principale ma anche tutti i suoi accessori, di cui l’impianto fotovoltaico costituisce un evidente esempio: l’ammortamento del bene è quindi una voce di spesa che deve essere ricompresa nel canone di locazione annuale.

Inoltre, nelle prassi delle locazioni, il pagamento di premi assicurativi aventi ad oggetto il bene locato e i suoi accessori sono sovente poste a carico del proprietario: nulla vieta però che un accordo tra le parti possa accollare il pagamento di tutto o di una parte del premio a carico dell’inquilino. Tale ultimo aspetto tuttavia attiene non tanto alla restituzione di un ingiustificato arricchimento goduto impropriamente dal proprietario, quanto piuttosto alle norme del contratto di locazione che disciplinano il pagamento degli oneri accessori riconducibili al bene locato.

O. D. chiede
martedì 25/10/2022 - Friuli-Venezia
“Sono convivente con altra persona madre di 2 figli provenienti dal precedente matrimonio, di cui uno residente con noi. Dopo oltre 3 anni di convivenza presso la casa di lei e nella mia, abbiamo acquistato un immobile nel 2020, con caparra confirmatoria ed anticipo versati dal sottoscritto. 2 anni dopo, per questioni legate a varie necessità tra cui la considerazione di non avere figli e/o eredi diretti, decido in accordo con la compagna di cedere la mia quota di proprietà ad un prezzo concordato ma simbolico in quanto non comprendente le rate di mutuo fino ad allora versate e altri pagamenti al costruttore "in nero". Arriviamo ad un rogito in cui mi viene versato per la cessione della quota l'importo di 25000€ pari all'anticipo più spese (contro i 39000 DOVUTI). Di comune accordo e come risulta dal rogito mantengo la mia residenza nella stessa casa. Nulla faceva presagire ad un inasprimento dei rapporti. Al culmine di una serie di litigi (non dovuti a tradimenti o abbandono di tetto coniugale ma a diversità di vedute), decidiamo la separazione ma la "ex" compagna vuole che lo faccia entro 20 giorni. Faccio presente che l'80% dei mobili è stato acquistato dal sottoscritto con pagamento tracciabile e che è impossibile trovare un posto in affitto non ammobiliato con così scarso preavviso. Vorrei sapere se esiste un termine legale TASSATIVO entro il quale devo uscire dalla casa della ex e cosa posso pretendere a livello economico riguardo alle quote di mutuo versate e i pagamenti fatti al costruttore. E' mio interesse trovare un accordo stragiudiziale che comporti un termine ragionevole di uscita ed una quota in denaro commisurata ai mobili presenti che sono disposto a lasciare per un contributo in denaro.”
Consulenza legale i 04/11/2022
Con riferimento al primo dei quesiti formulati, la legge non prevede alcun termine entro cui il convivente more uxorio, in conseguenza della fine della relazione di coppia, debba allontanarsi dall’abitazione del, o della, partner.
Tuttavia la Cassazione (Sez. I Civ., 11/09/2015, n. 17971) ha precisato che “la convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare” e che il convivente “in virtù dell'affectio che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto (ex art. 2 Cost.) della relazione di convivenza è comunque detentore qualificato dell'immobile ed esercita il diritto di godimento su di esso in posizione del tutto assimilabile al comodatario, anche quando proprietario esclusivo sia l'altro convivente”.
Ora, se è vero che tale detenzione qualificata dipende comunque dall'esistenza di un programma di vita in comune, ciò non significa che il convivente non proprietario possa essere “buttato fuori di casa” in seguito alla rottura della relazione, ad esempio cambiando la serratura: afferma infatti la giurisprudenza citata che “l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio” (prevista dall'art. 1168 del c.c.).
È dunque ragionevole che venga concesso all’ex partner un congruo termine per reperire altro alloggio, fermo restando che, laddove la presenza nell’immobile si protragga, il convivente proprietario potrà agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile. Naturalmente, la soluzione migliore rimane quella prospettata nel quesito, di un accordo tra le parti inteso a consentire il trasloco dell’ex in tempi ragionevoli.
Quanto al secondo quesito oggetto di consulenza, il rimborso delle spese sostenute durante la convivenza è questione assai frequente e dibattuta.
Ora, la giurisprudenza recente (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 14/07/2021, n. 20062) ha affermato che “la sussistenza della convivenza more uxorio non attribuisce automaticamente alle operazioni aventi contenuto economico-patrimoniale lo status di donazioni o atti di liberalità” (in quanto tali non rimborsabili).
Aggiungiamo che la situazione va valutata caso per caso, avuto riguardo all’entità delle spese sostenute dal convivente, alle sue condizioni economiche, ecc.
Si è fatto anche ricorso, a tal fine, alla figura dell’obbligazione naturale, ex art. 2034 del c.c., ovvero a quella avente ad oggetto una prestazione eseguita spontaneamente in esecuzione di doveri morali o sociali, quali sono appunto i doveri collegati alla convivenza di fatto, quale formazione sociale tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost.
Così, ad esempio, Cass. Civ., Sez. VI - 3, ordinanza 01/07/2021, n. 18721: “nell'ambito di una convivenza di fatto, il pagamento di una somma per la ristrutturazione dell'immobile adibito a casa familiare di proprietà dell'ex convivente, si configura come adempimento di un'obbligazione naturale quando la prestazione è contenuta nei limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali di chi ha effettuato il pagamento. In tal caso dette somme non sono rimborsabili alla cessazione della convivenza”.
Ancora, Cass. Civ., Sez. III, ordinanza 12/06/2020, n. 11303 ha ribadito che “un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" configura l'adempimento di un'obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all'entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens”.
Occorrerà dunque verificare il rispetto di tali parametri anche nel caso oggetto del quesito.
Laddove le spese sostenute dal convivente non rientrino nella “normalità”, sarà possibile esperire nei confronti dell’altro l’azione di arricchimento senza causa, ex art. 2041 del c.c.: “in tema di convivenza more uxorio l'azione di arricchimento senza causa è inammissibile quando le prestazioni rese dai conviventi trovano la loro giustificazione nel rapporto di convivenza, mentre è configurabile un indebito arricchimento, ed è pertanto possibile proporre il relativo rimedio giudiziale, nel caso in cui le prestazioni rese da un convivente e convertite a vantaggio dell'altro esorbitano dai limiti di proporzionalità e adeguatezza” (Cass. Civ., Sez. III, 15/05/2009, n. 11330).
Ancora più esaustiva sul punto Cass. Civ., Sez. III, 22/09/2015, n. 18632, secondo cui “l'azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro, avvenuta senza giusta causa. In particolare, l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell'altro è configurabile in presenza di prestazioni a vantaggio del primo, che esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali della famiglia di fatto, e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. La mancanza o la ingiustizia della causa non è, invece, invocabile qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità, ovvero dell'adempimento di una obbligazione naturale”.

Anonimo chiede
giovedì 27/06/2019 - Toscana
“Nel 1988, con apposito rogito, mia suocera ha donato alla figlia, mia moglie, l’intera sua proprietà (abitazione, annessi agricolo e artigianale, terreno) riservandosi l’usufrutto di una parte di essa, che ha utilizzato fino alla morte, avvenuta qualche anno fa. Nell’ambito di detta donazione venivano liquidati, per la loro quota parte, secondo l’allora valore di mercato della proprietà, gli altri due figli, utilizzando a tal fine e per intero i soldi miei e di mia moglie in ragione del 50% ciascuno. Per effetto di questo indennizzo, pertanto, veniva a crearsi, di fatto, una comproprietà del bene, in misura pari ad un terzo a me e due terzi a lei (di cui un terzo utilizzato dalla madre per oltre 20 anni). Successivamente, sempre in ragione del 50% ciascuno, abbiamo effettuato vari interventi di manutenzione e ristrutturazione, anche di un certo rilievo, tali da determinare un incremento di valore del bene che, con perizia di un geometra di fiducia, veniva stimato, in euro 447.000 (quattrocentoquarantasettemila). La stessa perizia individuava le “quote di fatto” di entrambi in misura del 60% circa a mia moglie e del 40% circa a me.
A causa della nota crisi del settore immobiliare, ad oggi, il valore degli immobili si è sensibilmente ridotto, restano tuttavia immutate le predette quote percentuali di comproprietà.
Vorrei sapere con quale tipo di atto la situazione di fatto che ho appena sintetizzato può essere oggi fatta valere, cioè trasposta in una situazione di diritto? Se mia moglie non dovesse acconsentire quale tipo di iniziativa giudiziaria dovrei porre in essere, con quale probabilità di successo e con quali mezzi di prova (documentali o anche solo testimoniali)? C’è un termine di prescrizione ?
Grazie.”
Consulenza legale i 04/07/2019
Nell’affrontare questo caso occorre partire dall’unico dato di cui si ha certezza giuridica: tutto ciò che la moglie ha ricevuto per effetto di donazione della propria madre costituisce bene personale ex art. 177 del c.c. lett. b).
La medesima norma avrebbe in realtà consentito di far sì che i beni donati potessero confluire nel patrimonio comune di entrambi i coniugi allorché fosse stato specificato nell’atto di liberalità che gli stessi dovevano essere attribuiti alla comunione dei coniugi (sia essa ordinaria che legale).
Si sarebbe trattato, peraltro, di una richiesta pienamente legittima e rispettosa di quanto realmente accaduto, considerato che, al fine di evitare che gli altri fratelli e/o sorelle della donataria potessero agire in riduzione, è stato utilizzato anche denaro del coniuge non beneficiario della donazione per soddisfare i loro futuri diritti di legittimari.

Inoltre, come se ciò non bastasse, si è continuato ad investire sul patrimonio dell’altro coniuge utilizzando denaro personale, senza precostituirsi alcuna garanzia specifica o documento scritto atto ad attestare le elargizioni che nel corso degli anni sono state effettuate.
E così si è giunti ad una situazione di fatto che contrasta radicalmente con quella di diritto e che difficilmente si ritiene possa essere provata.

La giurisprudenza in diverse occasioni è stata chiamata ad affrontare fattispecie di questo tipo e l’orientamento che si può trarre dalle sentenze emesse nel corso degli anni è quello secondo cui l’unico strumento giuridico di cui ci si può avvalere è l’esercizio dell’azione di indebito arricchimento, prevista dall’art. 2041 del c.c. ed esperibile in tutti quei casi in cui non si abbia un’azione specifica a disposizione.
Si tratta, infatti, di un’azione di carattere generale, con la quale si mira a recuperare ciò che senza alcuna giusta causa è uscito dal patrimonio dell’attore (il marito) per accrescere quello della controparte (la moglie).

Ovviamente, la stessa S.C. richiede la sussistenza di presupposti ben precisi per poter esercitare tale azione, e precisamente che l’arricchimento altrui che si assume ingiustificato non sia conseguenza di un contratto, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale.
In particolare, con riferimento a quest’ultimo concetto, si afferma che l’arricchimento è da ritenere ingiusto in presenza di prestazioni effettuate da un coniuge a vantaggio dell’altro che esulano del tutto dal mero adempimento delle obbligazioni che possono nascere da rapporto di coniugio o di convivenza, dovendosi tali prestazioni parametrare alle condizioni sociali e patrimoniali della famiglia (in tal senso si è espressa di recente Cass. n. 14732/2018 e ancor prima Cass. n. 11330/2009).

Su un piano prettamente pratico, dunque, qualora ci si trovasse costretti ad agire in giudizio contro l’altro coniuge per tentare di recuperare ciò di cui lo stesso si è arricchito a proprio danno, occorrerebbe innanzitutto essere in possesso di prove concrete atte a dimostrare l’impiego di denaro personale, ed in secondo luogo occorrerebbe riuscire a convincere il giudice che quel conferimento di denaro non è stato frutto di un puro atto di liberalità, ma della volontà di contribuire ad accrescere, nel superiore interesse della famiglia, il patrimonio di cui è titolare solo il proprio coniuge.
Sul piano probatorio gli spostamenti patrimoniali potrebbero ricavarsi dalle movimentazioni bancarie, così come un utile strumento potrebbe essere quello di fare ricorso alle prove testimoniali, come prospettato nel quesito.
Tutto ciò vale per l’ipotesi in cui si renda necessario ricorrere ad un’azione giudiziaria per far valere i propri diritti su un patrimonio accresciuto con il sacrificio personale, azione a cui, onestamente, ci si augura di non dover arrivare, in quanto, come può ben immaginarsi, abbastanza complessa da portare avanti, anche per la difficoltà con cui riuscire a raccogliere prove certe in proprio favore.

L’ideale, invece, sarebbe che, con un atto di pura e semplice onestà, il proprio coniuge dimostrasse ampia e piena disponibilità a far sì che, anche sul piano giuridico, quella quota di fatto venisse formalmente intestata a chi ha concretamente contribuito al suo acquisto e miglioramento.
A tal fine, sul presupposto che vi sia ampia disponibilità a prestare il consenso da parte del proprio coniuge, una soluzione che può suggerirsi è la seguente:
recarsi presso un notaio e stipulare un atto contenente:
  1. un riconoscimento di debito da parte della moglie nei confronti del marito per una somma pari al valore della quota di fatto (40%);
  2. il trasferimento dalla moglie al marito, a soddisfacimento di tale debito, della comproprietà, in ragione di 4/10 indivisi (corrispondenti al 40%), dei beni di cui la stessa è proprietaria esclusiva (si tratterebbe di una c.d. datio in solutum, ossia di una prestazione in luogo dell’adempimento).
Ovviamente, producendo tale atto un effetto traslativo, andrebbe regolarmente trascritto presso la Conservatoria dei RR.II. e la situazione di fatto verrebbe così trasposta in una situazione di diritto.

Questa rappresenta l’ipotesi più lineare e pacifica.
Qualora, invece, il proprio coniuge dovesse manifestare dei dubbi in ordine a tale soluzione, si potrebbe agire cercando di esercitare una certa influenza sul piano psicologico, ovvero prospettandole la seguente reale situazione.
Come si ritiene possa essere noto, qualunque acquisto, se frutto di donazione, non può considerarsi sicuro e definitivo per un lungo periodo di tempo (almeno dieci anni dalla morte del donante).
In particolare, da quanto è dato leggere nel quesito, sembra che la donataria, malgrado l’esborso di denaro con il quale ha inteso soddisfare i diritti di riserva dei propri fratelli, non ha pensato in qualche modo a tutelarsi per il caso di esercizio di una successiva azione di riduzione, diritto a cui non è possibile rinunciare finché vive il donante ex art. 557 del c.c..

Prospettare, dunque, alla stessa un rischio di tale tipo, potrebbe indurla a cercare una soluzione per evitare le indubbie conseguenze negative dell’esercizio di un’azione di questo tipo da parte dei fratelli, ed è così che si potrebbe convincerla a realizzare la seguente costruzione giuridica:
trasferire ad un terzo una quota di quei beni, che possa quantomeno avere un valore pari a ciò che è stato speso per conseguirne prima la titolarità esclusiva e poi per effettuarvi dei miglioramenti (ovviamente il terzo potrebbe essere l’altro coniuge, se in regime di separazione dei beni, ovvero i figli, se ve ne sono).

In questo modo, qualora dovesse essere trascritta una domanda di riduzione di quella donazione, si avrebbe possibilità di invocare il disposto di cui al n. 8 dell’art. 2652 c.c., nella parte in cui è detto che se la trascrizione della domanda di riduzione è eseguita dopo dieci anni dall’apertura della successione, la sentenza di accoglimento non sarà in grado di pregiudicare i diritti che eventuali terzi hanno acquistato a titolo oneroso in forza di un atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda.
Anche in questo caso l’atto che si consiglia di redigere (per assumere natura onerosa) è quello di riconoscimento di debito da parte della moglie e contestuale trasferimento della comproprietà dei beni in adempimento del debito riconosciuto.

Al di là di tale suggerimenti, purtroppo, non si riesce a pensare ad altri strumenti giuridici che possano essere in grado di tutelare le ragioni di chi pone il quesito.


C. A. T. chiede
domenica 05/08/2018 - Sicilia
“Buongiorno, avrei necessità di una consulenza in merito alla questione:
acquisto prima casa e successiva separazione.
Vi riepilogo la mia situazione:
Io e mia moglie siamo sposati da tre anni in regime di separazione dei beni e abbiamo un figlio di due anni. Entrambi siamo lavoratori dipendenti, io presso un’azienda privata, mia moglie presso un istituto bancario.
Abbiamo deciso di acquistare la prima casa chiedendo un mutuo cointestato (per 30 anni con rata mensile di 465 €), ma di intestare l’immobile soltanto a mia moglie.
La mia domanda è:
cosa succederebbe in caso di una ipotetica separazione\divorzio?
In particolare:
- io sarei obbligato a continuare a pagare le rate del mutuo?
-C’è possibilità che mi vengano riconosciute e restituite le quote del mutuo versate da me fino al momento della separazione?
Grazie
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 13/08/2018
Il caso che si sottopone all’attenzione investe uno dei temi più dibattuti della vita di coppia, ossia la possibilità di riavere il denaro speso nell’interesse della famiglia e di cui ha usufruito l’altro coniuge.
Capita molto spesso, infatti, che i coniugi decidano di acquistare insieme un immobile o altro bene di durata, intestandolo, per le ragioni più diverse, ad uno solo di essi, ma facendosi entrambi carico delle somme necessarie per effettuare quell’acquisto; poi, per alterne vicende, il matrimonio entra in crisi, ed il coniuge che nulla ha comprato a suo nome si chiede come possa riavere indietro la porzione di bene che di fatto gli spetta o, quantomeno, il denaro personale impiegato per quell’acquisto.

Ebbene, proprio di tale fattispecie (mutuo contratto da entrambi i coniugi per l’acquisto di immobile di cui diviene proprietario uno solo di essi) si è occupata in diverse occasioni la giurisprudenza sia di merito che di legittimità, giungendo alla conclusione che tale acquisto, pur non presentandosi sotto forma di una vera e propria donazione, partecipa indirettamente della sua natura.
Infatti, sotto il profilo formale siamo in presenza di un comune atto di compravendita e di un mutuo finalizzato all’acquisto del bene oggetto del contratto di vendita, mentre, da un punto di vista sostanziale, il collegamento negoziale fra mutuo e compravendita maschera un animus donandi, ravvisabile nella volontà di realizzare una liberalità in favore del coniuge senza alcun corrispettivo, mediante accollo dell’intero o di parte del prezzo di compravendita.

La Corte di Cassazione (Cass. 1992 n. 9282 e Cass. 1998 n. 5310) parla a tale riguardo di c.d. donazione indiretta, ritenendo che oggetto di donazione non sia il denaro, ma il bene immobile che di fatto entra nel patrimonio dell’altro coniuge accrescendone il valore.
In quanto donazione indiretta, non occorre la presenza dell’atto pubblico e dei testimoni richiesti per la donazione formale, il che rende quella fattispecie inattaccabile sotto il profilo formale, con l’ulteriore conseguenza che, continuando il contratto di mutuo ad espletare la sua efficacia anche dopo una eventuale separazione, ciascuno dei coniugi continuerà ad essere obbligato a far fronte agli impegni contrattuali assunti di restituzione rateale della somma mutuata (quindi, rispondendo alla prima domanda, anche dopo la separazione si avrà l’obbligo di continuare a pagare le rate del mutuo, poco importando all’istituto di credito mutuante dei mutamenti intervenuti nei rapporti personali tra i coniugi mutuatari).

A questo punto, si ritiene che una sola possa essere la soluzione per cercare di recuperare il denaro personale impiegato nell’acquisto dell’immobile confluito nel patrimonio del coniuge da cui ci si è separati, ossia fare ricorso all’art. 2041 c.c., norma c.d. di chiusura del nostro ordinamento giuridico, perché applicabile tutte le volte in cui non è possibile individuare altro strumento di tutela giuridica.
Il ricorso all’applicazione di tale norma è stato in particolare avallato dal Tribunale di Brindisi nella sentenza 26 maggio 2014 (resa nel corso di un giudizio afferente proprio i rapporti fra coniugi), ove è stato affermato che la consapevolezza di provocare un arricchimento dell’altro coniuge in assenza di qualsivoglia dovere che lo imponga, deve ritenersi elemento sufficiente per la sussistenza dell’animus donandi tipico del contratto di donazione.

Considerato, però, che tale contratto potrà in un secondo momento essere revocato soltanto nelle ipotesi tassative previste dall’art. 800 del c.c., ossia per ingratitudine e per sopravvenienza di figli, qualora non vi siano i presupposti per il configurarsi di alcuna di tali ipotesi, sarà possibile agire in giudizio per vedersi quantomeno riconosciuta una indennità per indebito arricchimento.
Per conseguire tale risultato, occorrerà dare prova al giudice investito della relativa controversia che vi è stato arricchimento di una delle parti a scapito dell’altra, prova che si potrà fornire con un certa facilità poiché sarà agevole dimostrare che, a fronte di somme spese da entrambi i coniugi, soltanto uno di essi ne ha ricevuto un incremento di patrimonio.

Il coniuge avvantaggiato, da parte sua, non potrebbe eccepire che quel trasferimento di beni ed utilità sia ricollegabile ad un comportamento volontario dell’altro coniuge che, in modo deliberato, ha contribuito all’incremento del suo patrimonio; fa rilevare, infatti, il Tribunale di Brindisi, nella sentenza sopra citata, che l’incremento non può in alcun modo trovare la proprio giustificazione in pretesi obblighi di assistenza morale, materiale e di collaborazione discendenti dal vincolo matrimoniale, ovvero nell’adempimento di obblighi morali per le c.d. coppie di fatto, e ciò soprattutto quando si tratta di spese straordinarie rispetto agli esborsi abitualmente sopportati da una famiglia in base al suo tenore economico e sociale (la contrazione di un mutuo è indubbiamente un atto di straordinaria amministrazione).

Al di là di tale strumento giuridico, non si riescono a suggerire altre strade da percorrere per raggiungere l’obiettivo di recuperare il denaro impiegato per un acquisto di cui non ci si è avvantaggiati, e ciò anche alla luce del panorama giurisprudenziale alquanto ricco su tale materia.


Angelo S. chiede
mercoledì 08/11/2017 - Puglia
“In una ipotesi di Esdebitazione del Consumatore, ancora in istruttoria, si evidenzia un D.I. non opposto nel lontano 1992 che consente ad una Banca di pretendere un credito maturato in violazione degli usi piazza e dopo aver riportato in c/c i saldi dei conti anticipi e depositato così documentazione irregolare; in sintesi la Banca ha fatto perdere le tracce degli incassi intervenuti successivamente o rimasti insoluti e tanto anche in sede di procedura fallimentare; l’OCC ne ha fatto menzione sia pure sommaria affermando l’esistenza di criticità.
A mio avviso si potrebbe invocare la violazione del principio di buona fede, l’indebito arricchimento da occultamento atti e forse anche reati diversi.”
Consulenza legale i 16/11/2017
Bisogna, in primo luogo, considerare che per dimostrare qualsiasi tesi o criticità dinanzi ad un giudice, è necessario fornirsi di prove. Pertanto, prima di ciò, non si può prescindere da un'analisi approfondita della documentazione completa da far fare ad un legale.

Successivamente, si potrebbero ipotizzare alcune ipotesi di comportamento illegittimo da parte della banca.
A titolo di esempio, potrebbe configurarsi in primo luogo un'ipotesi di diritto civile di indebito arricchimento ai sensi dell'art. 2041 del Codice Civile, il quale dispone che chi si è arricchito senza giusta causa, a danno di altri, è tenuto a indennizzare della correlativa diminuzione patrimoniale.

Tra l'altro, con riferimento alla produzione da parte della banca di estratti conto come prova per sostenere i mancati incassi (che in realtà sono intervenuti), la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9695, del 3 maggio 2011, ha stabilito che “deve escludersi l’idoneità probatoria dell’estratto di conto corrente, benché certificato si sensi dell’art. 50 d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 : esso, in caso di contestazione, non può integrare di per sé prova a favore dell’azienda di credito dell’entità del credito, in quanto atto unilaterale proveniente dal creditore e dovendo ritenersi eccezionale – e per ciò stesso non estensibile al di fuori delle ipotesi espressamente previste – la valenza probatoria ad esso riconosciuta ai fini del conseguimento del decreto ingiuntivo”.

Pertanto, alla luce di quanto detto, se la banca ha agito in mala fede è possibile contestare i comportamenti illegittimi e sostenere che gli incassi sono intervenuti, tuttavia per sostenere questa tesi è necessario averne prova, e soprattutto analizzare tutta la documentazione.

Francesco C. chiede
giovedì 03/08/2017 - Veneto
“Buongiorno desidero una consulenza riguardo un credito che vanto nei confronti di una persona maturato durante il 2016 e vorrei capire se è possibile recuperarlo anche ricorrendo al giudice di pace e quanto mi potrebbe costare in linea di massima.

Ecco la storia:

Durante il 2016 ho prestato soldi ad una amica, che aveva appena iniziato lavorare dopo parecchio tempo, perché doveva pagare bollette, bolli auto, rc auto, revisione auto, rate auto e altre spese che aveva in scadenza e aveva paura delle conseguenze.

Premetto che non ho nulla di scritto da parte sua ma sempre una promessa di restituzione anche di sole 100€ al mese detto a voce.

Mi fidavo ciecamente e le prestavo il bancomat per fare i pagamenti.
Io ero molto impegnato per mio padre che stava male e non stavo molto a pensarci e comunque le dicevo sempre che doveva restituirmeli.

Non so se è importante ma preciso che non c’è nessuna storia sentimentale finita male o qualcosa del genere anche se negli anni avevamo avuto una breve frequentazione di qualche mese che andava al di là dell’amicizia.
C’era solo amicizia e passione per i cani che ora non c’è più.

Ora che ha trovato lavoro presso un center della vodafone le ho chiesto di cominciare a restituirmi i soldi magari posso anche limare qualcosa ma voglio recuperare buona parte.

Quasi tutte le spese sono state fatte con la mia tessera bancomat che le prestavo di cui posseggo la pezza giustificativa bancaria e per quanto riguarda le bollette posseggo anche la foto. Le ho prestato i soldi anche per le visite ginecologiche e ortopediche ma mi sa che era una balla tanto che le davo contante e so che è irrecuperabile. Ve ne elenco alcune.

Posseggo la ricevuta di 3 bonifici per un totale di 2.560 dove come causale ho messo SPESE su due e BOLLI AUTO su uno. Questi soldi me li chiedeva con disperazione e le servivano con urgenza per saldare vecchi bolli auto e rate della macchina perché aveva paura di decreti ingiuntivi. Sua madre non poteva sua sorella o suo fratello lo stesso...

Fattura e bonifico di 640 euro per pagare un avvocato per una causa reati: artt. 494, 485 c.p. frutto di suoi malintesi con clienti, non so bene la storia però le ho prestato i soldi anzi ho bonificato io.

Pagamento RC auto 458,60 € pezza giustificativa con descrizione della banca e dell’assicurazione. Mi chiedeva i soldi perché altrimenti non riusciva ad andare al lavoro ed era disperata. Anche qui mi aveva assicurato che me li avrebbe dati appena le davano lo stipendio.

Bollette acqua luce gas per molto oltre mille euro e dispongo di pezza bancaria e di alcune anche la foto ecc. ecc.
Detto questo mi sento di dire che in questi mesi ho capito che ne ha approfittato di una situazione personale che stavo vivendo: padre che stava per morire, fratello disabile 100% da stargli vicino e mamma che non sta per niente bene… Io mi dividevo tra ospedali, istituto e lavoro…
Grazie”
Consulenza legale i 09/08/2017
Quando qualcuno vuole agire in giudizio a tutela dei propri diritti ha l’onere di dimostrare tutti i fatti che pone a fondamento della pretesa.

Dunque se lei volesse agire in giudizio per recuperare il denaro che ha prestato alla sua amica dovrebbe anzitutto dimostrare di aver effettivamente consegnato i soldi a questa persona, prova molto difficile, per non dire impossibile, nel caso in cui il denaro sia stato consegnato in contanti.
Se invece il denaro è stato consegnato tramite bonifici bancari o assegni bancari o postali, allora sarà perlomeno possibile dimostrare la dazione, salvo dover poi provare a che titolo questa è stata fatta.
Occorrerebbe dimostrare, infatti, il titolo in base al quale lei ha consegnato il denaro alla sua amica e dunque anche il titolo in base al quale ora ne chiede la restituzione.
Se, ad esempio, le parti avessero messo per iscritto che il denaro veniva prestato, allora non si potrebbe dubitare della ragione per la quale se ne richieda la restituzione: si tratterrebbe, in sostanza (e in termini giuridici), di un mutuo tra privati.

Su una vicenda molto simile alla sua, ed invero piuttosto frequente, la Cassazione ha infatti sottolineato che l'attore che chiede la restituzione di somme che egli sostiene essere state date a mutuo è, ai sensi dell'art. 2697 c.c., tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna ma anche il titolo (la causa) della stessa, da cui deriva l'obbligo della restituzione; l'esistenza di un contratto di mutuo, infatti, non può essere desunta dalla mera consegna di somme di denaro (che può avvenire per svariate ragioni, non vale di per sé a fondare una richiesta di restituzione) (Cass. n. 17050 del 28/07/2014).

Supponendo che lei non abbia la disponibilità di alcuna prova che possa dimostrare che il denaro era stato prestato, e che dunque ne era attesa la restituzione spontanea, vi è comunque la possibilità, riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, di poter esperire un’azione per arricchimento senza causa nei confronti di questa sua amica che ha ricevute somme di denaro senza una valida ragione.

Il Tribunale di Firenze ha specificato sul punto che “è anche innegabile che chi riceva il denaro altrui non è in linea di principio autorizzato a trattenerlo "senza causa", e che la mancata prova da parte dell'attore della sussistenza di un contratto di mutuo, a giustificazione del diritto alla restituzione di somme che concretamente dimostri di avere versato, non elimina il problema di accertare se sia consentito all'accipiens di trattenere le somme ricevute, senza essere tenuto quanto meno ad allegare la causa che ne giustifichi l'acquisizione” (Trib. Di Firenze n. 2378 del 22.06.2016).

Sposando questa linea difensiva potrebbe dunque invertire l’onere della prova in capo alla sua amica.
Infatti, mentre lei sostiene che il denaro è stato solamente prestato, molto probabilmente la sua amica, in un futuro eventuale giudizio, sosterrà che il denaro le era stato donato, magari in ragione di una relazione sentimentale.
A quel punto però sarà la ragazza a doversi fare carico di provare che le elargizioni avvenivano a titolo di donazione, con tutte le difficoltà legate alla dimostrabilità dell’animus donandi, ovvero alla sussistenza dello spirito di liberalità, della volontà del donante di arricchire l'altra parte senza avere nulla in cambio.

Dunque Lei potrà esperire un’azione giudiziaria volta al recupero delle somme elargite, innanzi al Giudice di Pace se la somma è inferiore ad € 5.000.00, oppure innanzi al Tribunale se i prestiti di cui vi è prova ammontano a più di € 5.000.

In conclusione ci sentiamo di raccomandare maggior cautela in caso di prestiti di somme di denaro o di altri beni mobili a terze persone (soprattutto amici e familiari); prudenzialmente, è sempre meglio mettere per iscritto i termini del prestito o, se proprio si vuole evitare l'eccessivo formalismo per motivi "estetici", almeno farsi firmare una ricevuta del seguente tenore: "ricevo in data odierna a titolo di prestito personale la somma di Euro ... che mi impegno a restituire entro il ....". È poco, ma è meglio di nulla e toglie ogni dubbio su titolo della dazione di denaro.

Dario M. R. chiede
venerdì 16/06/2017 - Lombardia
“Nel 2007 io e la mia attuale ex moglie compriamo casa in regime di separazione di beni. Anticipatamente la signora ha versato come acconto di la somma di euro 40000 per l'acquisto. Tutto il mutuo è stato pagato però dal sottoscritto e quindi saldato in data 26 maggio 2016 per un importo totale di 100.000 euro interamente usciti dal mio conto corrente di cui sono unico intestatario. In sede di separazione giudiziale del 2011 si era sottoscritto accordo che io rilevavo il 50% della casa in questione di proprietà della mia ex moglie per 20.000 euro, accordo sottoscritto da entrambi ma che poi la mia ex non ha più ritenuto valido. Ora la signora dopo aver acquistato altro immobile nel 2013 ha donato al fratello di lei nello stesso anno il suo 50% senza nulla dirmi, quindi ora mi ritrovo con una casa interamente pagata da me ma proprietario solo al 50% oltre che gravata da donazione. Legalmente come posso farmi tutelare? Posso richiedere la metà del mutuo pagato solo da me? Posso far togliere la donazione? Ogni suggerimento è veramente ben accetto data la situazione in cui mi trovo. Ho sempre pagato solo io bollette, manutenzione, impianti nuovi e tutto quanto riguarda la casa, circa 40.000 euro di lavori. La caparra versata dalla mia ex come rientra: libera donazione o sono obbligato a tenerne conto? Grazie!”
Consulenza legale i 22/06/2017
Un caso abbastanza frequente quando si giunge ad una separazione tra coniugi, sia essa giudiziale o consensuale, è quello dei c.d. accordi a latere, non cristallizzati nel provvedimento di separazione, ed in relazione ai quali sono stati sollevati dei dubbi interpretativi circa la loro validità o meno, anche in virtù del contenuto, spesso eterogeneo, di tali intese.

Trattasi di intese che possono essere precedenti, coeve o successive rispetto alla separazione; è di solito con quelle precedenti o coeve che le parti stabiliscono le linee di principio su cui verterà la futura separazione, risolvendo anticipatamente alcune delle questioni che naturalmente emergeranno in tale sede, come quelle relative alle proprietà comuni, ai necessari trasferimenti immobiliari, ecc.

Riguardo alla validità di tali intese, va detto che nel corso degli anni la giurisprudenza è passata dal negare loro validità, all’affermazione della loro piena efficacia.
In particolare, si è affermato che i patti successivi alla separazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c., devono essere ritenuti validi ed efficaci “in quanto meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, mentre le pattuizioni antecedenti o coeve alla separazione, e non trasfuse nel relativo provvedimento, sono validi ed efficaci solo se «non interferiscono» con quanto stabilito nel provvedimento di separazione.
La scure della nullità, comunque, può colpire i soli accordi inerenti lo status coniugalis, dovendosi invece affermare la piena validità delle intese volte a regolamentare i diritti disponibili di natura patrimoniale.

Le superiori considerazioni, dunque, valgono a far ritenere pienamente valido l’accordo sottoscritto in sede di separazione giudiziale da entrambi i coniugi, in forza del quale l’ex moglie si impegnava a trasferire all’altro coniuge la quota di comproprietà della casa per il corrispettivo di euro ventimila, non incidendo tale accordo in alcun modo sugli effetti personali della separazione contenuti nella coeva o successiva sentenza (disciplinante solo gli effetti personali, come è dato leggere).

Sotto il profilo della sua natura giuridica, tale accordo, se debitamente sottoscritto, come riferito, non può che assumere natura di un vero e proprio preliminare di vendita, per la cui conclusione ci si sarebbe potuti avvalere della disposizione di cui all’art. 2932 c.c., relativa all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto, norma alla quale, tuttavia, non è più possibile fare ricorso essendo stata nel frattempo la quota di comproprietà trasferita ad un terzo con atto di donazione.

Si potrebbe soltanto tentare di agire per far valere una responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) con conseguente richiesta di risarcimento danni; per tale tipo di responsabilità, a differenza di quella extracontrattuale, si applica l'art. 2946 c.c. che prevede il termine ordinario di prescrizione decennale.

Essendo comunque ormai il bene uscito dal patrimonio dell’ex moglie, cerchiamo adesso di esaminare quale può essere la sorte delle somme prelevate dal patrimonio personale di un coniuge ed impiegate nel pagamento del mutuo residuo ed in spese ed investimenti della casa comune.
Su questo tema si ritiene interessante segnalare e prendere come punto di riferimento la sentenza del Tribunale di Brindisi del 26 maggio 2014, nella quale viene fissato il principio secondo cui se gli esborsi sono apprezzabilmente superiori alle condizioni economiche di chi li effettua, oppure sproporzionati rispetto al tenore familiare complessivo, il venir meno della coabitazione, quale presupposto per una specifica destinazione dell’utilitas al bene familiare, giustifica la restituzione di quell’attribuzione patrimoniale indiretta o del suo equivalente monetario, proprio perché viene meno il dovere di adempiere un dovere giuridico o morale.

Dunque, il cessare della convivenza, per effetto di un provvedimento giudiziale o per una scelta concorde, rende ripetibile o indennizzabile un’utilitas che, di per sé, priva di valenza solutoria e, cioè, non giustificata dall’adempimento di un vincolo morale o giuridico, ha cessato di assolvere alla funzione che i coniugi o i conviventi gli hanno assegnato.
D’altronde, contrasta con l’attuale sentire sociale, connotato dalla proliferazione delle separazioni, il permanere di situazioni interpretative che escludano ogni forma di tutela per il coniuge (o il convivente more uxorio) che, in pendenza di matrimonio abbia contribuito apprezzabilmente, oppure in via esclusiva, alla ristrutturazione o all’acquisto di un bene comune.
Dunque, è possibile prefigurare la liceità della richiesta restitutoria ogniqualvolta, al di là della proporzionalità dell’apporto economico rispetto allo status familiare o alle condizioni di chi sostiene l’esborso economico, il coniuge o il convivente arricchito non abbia collaborato in alcun modo alle esigenze economiche della famiglia stessa.

Sarebbe fuorviante invece cercare di configurare nel pagamento del mutuo una donazione indiretta della metà indivisa dell’immobile al fine di farne valere la nullità per mancanza della sua causa tipica e, cioè, la volontà di donare da parte del marito e di beneficiarne da parte della moglie.
La donazione indiretta, infatti, al pari della donazione diretta, ha la sua causa nella liberalità e, cioè, nella consapevole coscienza da parte del donante di compiere, a favore del donatario, una attribuzione patrimoniale “nullo iure cogente”, non essendo il comportamento determinato da nessun dovere o vincolo giuridico o extra giuridico.

Né la giurisprudenza ha ritenuto in questi casi ammissibile il ricorso all’azione di indebito arricchimento prevista dall’art. 2041 c.c., azione esercitabile dal coniuge (o convivente) che lamenti di aver contribuito economicamente all’acquisto di un bene in capo all’altro, con suo sacrificio patrimoniale e correlato arricchimento dell’altro, al fine di ovviare all'avvenuta diminuzione patrimoniale, nei limiti dell’altrui arricchimento.
Ciò offrirebbe l’opportunità di attuare un contemperamento di interessi giuridici di segno divergente, dei quali sono portatori, rispettivamente, il soggetto che ha compiuto un esborso privo di una causa apprezzabile e, sul lato opposto, chi da ciò ha ricavato un ingiusto vantaggio.
Nondimeno, secondo la giurisprudenza prevalente il suddetto strumento processuale, in quanto concepito per regolare “rapporti intersoggettivi di contenuto patrimoniale”, non è mutuabile sic et simpliciter quale modello di regolamentazione di “rapporti di famiglia” (deve, cioè, ritenersi l’inammissibilità di una meccanica trasposizione di principi e regole da un piano all'altro).

Volendo a questo punto tirare un po' le fila del discorso, possiamo dire che al coniuge che ha provveduto al pagamento della fetta maggiore di mutuo e che ha sostenuto spese di notevole rilievo per la conservazione dell’immobile non resta che:
  1. agire in giudizio per la restituzione delle somme uscite dal suo patrimonio personale senza alcun titolo giustificativo, considerato che trattasi di somme che non trovano neppure una giustificazione nella coabitazione dei coniugi, intesa quale presupposto per una specifica destinazione dell’utilitas al bene familiare (il bene è stato acquistato nel 2007 e nel 2011 è già intervenuta la separazione).
Sembra ovvio che nella determinazione delle somme da restituire il Giudice investito della controversia debba tener conto dell'acconto di € 40.000,00 già versata dall’ex moglie
  1. trattandosi di bene in comunione ordinaria, potrebbe in subordine chiedersi il rimborso delle spese ex art. 1110 c.c., consentito soltanto per le spese necessarie alla conservazione della cosa comune; ovviamente per tale ipotesi deve trattarsi di spese debitamente documentate e non di spese voluttuarie o volte al miglioramento della cosa stessa, le quali ultime presuppongono il consenso di tutti i comproprietari
  2. in subordine agire per il risarcimento del danno per inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., non avendo l’ex moglie adempiuto all’obbligo assunto nell’accordo coevo alla separazione, con il quale si impegnava a trasferire al marito la quota di sua proprietà dell’immobile per il prezzo di € 20.000,00 (la relativa azione si prescrive in 10 anni ex art. 2946 c.c.)
  3. non vi sono ragioni giuridiche per chiedere l’annullamento della donazione in favore del fratello, avendo l’ex moglie lecitamente disposto del suo diritto di comproprietà.
Pertanto, a questo punto, l’unico strumento giuridico per acquisire la proprietà esclusiva del bene sarebbe quello di chiedere ex art. 1111 c.c. lo scioglimento della comunione, dando prova del caso al Giudice delle maggiori somme versate per l’acquisto e la manutenzione del bene e chiedendo l’applicabilità dell’ultimo comma dell’art. 1115 c.c., norma che riconosce al partecipante che ha pagato il debito in solido e che non ha ottenuto il rimborso, il diritto di concorrere nella divisione per una maggiore quota corrispondente al suo diritto verso gli altri condividenti.

Si ritiene opportuno sottolineare che trattasi di soluzioni quasi estreme per cercare di recuperare quanto indebitamente versato per un bene di cui non si è mai stati pieni proprietari e che, pertanto, l'esito di una eventuale decisione giudiziale non potrà che essere caratterizzato da una estrema aleatorietà, trattandosi anche di materia sulla quale la giurisprudenza si è pronunciata nel corso degli anni in maniera molto altalenante.


Roberto D. chiede
domenica 09/04/2017 - Abruzzo
“Salve

In caso di revocatoria ordinaria di una compravendita immobiliare fra privato ed impresa edile promossa da un creditore dell'impresa, premesso che l'immobile al momento dell'acquisto era gravato da ipoteca e che l'acquirente qualche mese dopo l'acquisto provvede all'estinzione del mutuo, l'acquirente che subisce la revocatoria ha diritto a far valere, ai sensi dell'art. 2864 cc, le ragioni di rimborso per l'aumento di valore dell'immobile (dovuto all'estinzione del mutuo) e di arricchimento senza causa nei confronti del revocante?
Grazie.”
Consulenza legale i 18/04/2017
Concetto basilare che occorre tenere ben presente nell’affrontare il problema che viene sottoposto all’esame è quello secondo cui l’effetto dell’azione revocatoria, quale mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, consiste nella dichiarazione di inefficacia dell’atto dispositivo nei soli confronti del creditore che ha agito (c.d. inefficacia relativa) il quale, una volta ottenuta la pronuncia di revoca, potrà conseguire il risultato utile aggredendo il bene oggetto della disposizione impugnata mediante la procedura di espropriazione forzata ex art. 2902 c.c. e nelle forme di cui all’art. 602 c.p.c.

Questa protezione tende quindi a conservare l’integrità della garanzia patrimoniale, in quanto i beni alienati continuano ad essere sottoposti all’eventuale esecuzione forzata pur non facendo più parte del patrimonio del debitore, mentre il terzo è esposto a tale esecuzione come se su quei beni gravasse un diritto di séguito del creditore, il quale è preferito ai creditori dell’acquirente stesso.

La dottrina a tal proposito ritiene che in favore del creditore che abbia ottenuto la dichiarazione di inefficacia dell’atto e che abbia provveduto, se del caso, alla regolare trascrizione della domanda di revocazione e all’annotazione della successiva sentenza ai sensi dell’art. 2625, n. 5 c.c., venga riconosciuta una sorta di garanzia specifica, una vera e propria causa di prelazione rispetto ai creditori del terzo acquirente, con la conseguenza che il creditore potrà agire sul ricavato della vendita forzata con preferenza rispetto ai creditori del terzo-acquirente-espropriato.
La posizione del terzo acquirente, dunque, è analoga a quella del proprietario del bene gravato da pegno o ipoteca, ossia del proprietario di un bene assoggettato a garanzia per un debito altrui.

Descritto in via generale l’istituto ed i suoi presupposti, occorre adesso analizzare il rapporto esistente tra il creditore che abbia ottenuto la dichiarazione di inefficacia dell’atto ed il terzo che ha acquistato il bene dal debitore, sottraendolo alla sua garanzia patrimoniale, soprattutto per l’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il terzo abbia effettuato dei miglioramenti sull’immobile oggetto di revocatoria e sostenuto degli esborsi di somme di denaro al fine di liberare lo stesso dalle garanzie da cui risultava gravato.

Intanto va osservato che il terzo acquirente è litisconsorte necessario del debitore alienante, poiché l’accoglimento della domanda comporta, per effetto dell’assoggettamento dello stesso terzo alle azioni esecutive sul bene oggetto dell’atto di disposizione impugnato, l’acquisto da parte di costui di ragioni di credito verso l’alienante (art. 2902 cc., comma 2), oltre ad altri effetti immediati e diretti (quali l’obbligo della restituzione di prezzo a seguito di evizione della cosa).

Interessante è anche il rinvio operato dall’art.2904 c.c. alle disposizioni sull'azione revocatoria in materia fallimentare ed in materia penale, in virtù di una ravvisata identità sostanziale e funzionale tra revocatoria fallimentare e revocatoria ordinaria.
A tale disposizione si è invero attribuito il duplice significato, da un lato, dell'applicazione, in alternativa rispetto alle norme generali, di quelle speciali se ed in quanto queste dispongano e, dall'altro, quello inverso dell'applicazione, in mancanza di norme particolari, anche all'istituto speciale delle norme generali degli artt. 2901-2904 codice civile, contenute nella sezione riguardante la revocatoria ordinaria (Cass. 21 marzo 1996, n. 2423; Cass. 25 giugno 1980, n. 2780).
Tale rinvio, infatti, consente di far proprie quelle argomentazioni di cui dottrina e giurisprudenza si sono avvalse per far sì che il terzo acquirente non venga defraudato delle migliorie apportate al bene oggetto di revocatoria e delle spese per esso sostenute.

Intanto, come prima accennato, il dato certo da cui bisogna partire e che costituisce insegnamento consolidato sia in dottrina che in giurisprudenza, è quello secondo cui la restituzione del bene, conseguente al vittorioso esperimento dell’azione revocatoria, non realizza una vicenda traslativa, quale potrebbe essere un suo riacquisto al patrimonio del debitore, ma piuttosto una funzione ripristinatoria della garanzia generica prevista dall’art.2740 c.c., con il recupero del bene al patrimonio responsabile (così Cass. 11.9.1997, n. 8962, che richiama: in dottrina Quatraro e Fumagalli 1994, 105; Terranova 1993, 212; in giurisprudenza Cass. 6.3.1962, n. 435; Cass. 4.5.1972, n. 1351; Cass. 13.7.1977, n. 3135; Cass. 4.2.1987, n. 1001; Cass. 8.2.1989, n. 794; Trib. Parma 20.4.1995).

Ora, per comprendere meglio ciò che si andrà a sostenere, si ponga il caso che il bene oggetto di revoca sia perito e così il convenuto-terzo acquirente possa non essere in grado di riconsegnare in natura il bene acquistato in seguito al positivo esperimento dell’azione esecutiva su di esso; in tale specifica ipotesi è stato affrontato il problema se il terzo acquirente sia tenuto a corrispondere il valore del bene computato con riferimento alla data dell’atto o della sentenza.
A tal riguardo la giurisprudenza prevalente (Cass. 22.1.1972, n. 164; Cass. 27.2.1990, n. 1499) tende a determinare il valore del bene con riferimento al primo parametro temporale, ossia la data dell’atto.
Ed invero, come ha affermato sempre la S.C., poiché l’obbligo di restituzione conseguente all’accoglimento della revocatoria comporta la riconsegna del bene nelle condizioni in cui si trovava all’atto della cessione, ove ciò non sia possibile, l’accipiens (ossia il terzo acquirente) sarà tenuto a corrispondere il tantundem, ossia l’equivalente pecuniario del valore del bene al momento dell’atto (Cass. 14.2.1997, n. 1411).

Ebbene, il riferimento al tantundem previsto per l’ipotesi di perimento del bene non può non farsi valere anche nel caso che ci riguarda, ossia allorché il terzo acquirente revocato abbia motivo per vantare dei crediti, situazione peraltro prevista anche dall’art. 70 Legge fallimentare, ai sensi del quale colui che per effetto della revoca ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito.
E’ proprio in tale credito eventuale che può farsi rientrare quello derivante da riparazioni, miglioramenti e addizioni effettuati sul bene revocato (così Trib. Padova 30.4.2003); in proposito si è osservato che, nella misura in cui il valore attuale del bene superi quello che lo stesso aveva alla data dell’atto, può essere utilmente richiamato l’istituto dell’arricchimento senza causa (Cass. 2.4.1984, n. 2154).

Tale soluzione pare coerente con la ricostruzione della posizione del terzo alla luce delle tesi indennitarie, secondo cui le eventuali addizioni e miglioramenti apportati dal terzo al bene da restituire gli devono essere rimborsati dal creditore procedente il quale, apprendendo forzatamente il bene, profitta delle addizioni e miglioramenti ed è perciò obbligato a corrispondere al terzo un’indennità corrispondente all’aumento di valore conseguito dal bene stesso, giusta il principio che vieta l’indebito arricchimento e da cui è peraltro ispirata anche la norma contenuta nell’art. 1150, ult. capoverso, c.c., che in via analogica può richiamarsi a sostegno delle pretese del terzo.

Analogamente si è affermato che il terzo acquirente convenuto in revocatoria, che sia stato, in conseguenza dell’accoglimento della domanda del creditore, condannato alla restituzione del bene compravenduto, ha diritto ad essere soddisfatto in prededuzione per l’ammontare delle somme corrisposte per l’estinzione delle ipoteche iscritte sul bene medesimo, consolidate alla data dell’atto di compravendita poi revocato (Trib. Lecce 7.4.1992, con nota di Russo).
Osserva il Tribunale che, poiché l’acquisizione dell’immobile alla successiva procedura esecutiva viene a determinare un arricchimento privo di causa per il creditore, per la parte di esso corrispondente alle ragioni dei terzi che nel concorso avevano titolo a soddisfarsi con precedenza rispetto a loro (ossia i creditori ipotecari iscritti), e poiché a fronte di siffatto arricchimento e con esso causalmente connessa sussiste una diminuzione patrimoniale a carico dell’accipiens, determinata dalla estinzione dell’ipoteca che ex art. 2878, n. 3, c.c., non può più rivivere, benché legittimamente iscritta a suo tempo e consolidata alla data dell’atto, non par dubbio che ricorrano le condizioni di applicabilità dell’art. 2041 c.c., che legittimano il convenuto ad insinuare nelle debite forme il credito pari alle sue ragioni già assistite da prelazione.

Un’ultima notazione che si ritiene utile riportare è quella del Tribunale di Cassino sentenza 15.07.2003, in cui si è affermato che l’acquirente revocato può vantare legittimamente un credito soltanto per le spese affrontate al fine di apportare vantaggi al bene (quali quelle relative al pagamento dell’oblazione del condono edilizio) e non anche per quelle che non hanno determinato alcun miglioramento (quali quelle notarili e quelle riguardanti il pagamento di imposte, nella specie l’i.c.i.).

Per quanto concerne infine il richiamo all’art. 2864 c.c. fatto nel testo del quesito, si ritiene che tale norma abbia precipuamente riguardo ai rapporti sussistenti tra terzo acquirente del bene ipotecato e creditore ipotecario, disciplinando le conseguenze della vendita portata avanti dal creditore privilegiato per il caso in cui il terzo abbia effettuato dei miglioramenti sull’immobile (disponendo che egli non può ritenere l'immobile per causa di miglioramenti, ma ha comunque diritto a far separare dal prezzo di vendita la parte corrispondente ai miglioramenti eseguiti dopo la trascrizione del suo titolo, fino a concorrenza del valore dei medesimi al tempo della vendita); da tale norma può comunque trarsi conferma del principio generale voluto dal legislatore secondo cui il terzo acquirente ha in ogni caso diritto ad essere rimborsato dei miglioramenti e delle addizioni eseguite sull’immobile.

Anonima chiede
lunedì 12/08/2024
“Buongiorno,
sono sposata da 20 anni e sono 20 anni che non ho rapporti intimi con mio marito. La domanda che sicuramente si farà è, perchè ha aspettato così tanto? La risposta è che ho sempre pensato fosse colpa mia, che non fossi abbastanza attraente, che non potessi suscitare interesse, ecc. e per questo motivo mi sono fatta anche del male. Fino allo scorso novembre quando sono stata operata di tumore. Da qui una serie di risposte sono arrivate, compresa quella che lui si ritiene impotente. e questo me lo ha detto dopo 20 anni.in questi anni abbiamo comprato una casa, che però è intestata a lui, ma io ho pagato parte del mutuo.
Il mutuo è intestato a lui ma il conto corrente dove si paga è in comune. Ho sempre fatto bonifici sul conto con la dicitura mutuo casa dal mio conto corrente.Ho pagato più o meno la metà del mutuo. Siamo in separazione dei beni.
La mia domanda è: se chiedo la separazione, posso avere qualche tutela o non ho diritto a nulla?
Io ho un lavoro che però non mi consente di essere indipendente.
Attendo vostro riscontro”
Consulenza legale i 14/08/2024
La vicenda descritta nel quesito è sicuramente dolorosa e non priva, peraltro, di possibili conseguenze giuridiche. Infatti un comportamento quale quello tenuto dal marito potrebbe anche costituire causa di addebito della separazione, in quanto violazione del dovere di assistenza morale tra coniugi. Naturalmente si tratta di una valutazione che non può essere compiuta in astratto, ma che richiede l’esame di tutte le circostanze del caso.
Ad ogni modo, in caso di separazione, da un punto di vista economico due sono le questioni da affrontare.

La prima riguarda la possibilità per la moglie di ottenere un contributo per il proprio mantenimento. Anche qui, la decisione del giudice (in caso di separazione giudiziale) non può essere prevista in astratto, in quanto occorrerà prendere in considerazione la complessiva situazione patrimoniale e reddituale delle parti.
Al riguardo, l’art. 156 c.c. stabilisce che, nel pronunciare la separazione, il giudice può disporre, in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, a condizione che ella o egli non abbia adeguati redditi propri.
L’importo dell’assegno di mantenimento va quantificato in relazione alle circostanze e ai redditi del coniuge obbligato al pagamento.
La giurisprudenza (si veda Cass. Civ., Sez. I, sentenza 16/05/2017, n. 12196) ha chiarito che “la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i "redditi adeguati" cui va rapportato, ai sensi dell'art. 156 c.c., l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell'addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale”.

La seconda questione da esaminare è quella relativa alla casa, intestata al marito ma pagata anche dalla moglie. I coniugi sono in regime di separazione dei beni, per cui il problema che si pone è, semmai, quello di capire se la moglie possa richiedere un rimborso del proprio contributo all’acquisto dell’immobile.
Si tratta di una questione che si è posta spesso all’attenzione dei giudici, e sulla quale, in realtà, la risposta non è sempre semplice o univoca.
Possiamo però dire, riassumendo, che tendenzialmente la giurisprudenza tende a escludere il rimborso, considerando le spese fatte per l’acquisto della casa come adempimento dell’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia, previsto dall’ultimo comma dell’art. 143 c.c.
Ad esempio, Cass. Civ., Sez. I, ord. 15/06/2023, n. 17155, nel ricordare altre precedenti pronunce (Cass.10942/2015; 10927/2018), ha ribadito il principio secondo cui "poiché durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli art. 143 c.c. e art. 316 bis c.c., comma 1, a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell'altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio". Secondo la Suprema Corte, infatti, “l'assunzione di tali spese da parte del coniuge rientra nell'ambito dei doveri primari di solidarietà e reciproca contribuzione ai bisogni della famiglia (art. 143 c.c.) durante la comunione di vita coniugale”.

Uno spiraglio potrebbe, tuttavia, esservi, qualora si riesca a dimostrare che il contributo dato per l’acquisto della casa, in realtà, esula dal dovere di contribuzione familiare, in quanto sproporzionato e non adeguato rispetto alle condizioni sociali ed economiche dei coniugi (si veda su questo Cass. Civ., Sez. III, 22/09/2015, n. 18632).
In questo caso si potrebbe far valere la norma sull’ingiustificato arricchimento, prevista dall’art. 2041 c.c., con la possibilità di ottenere un “indennizzo” dall’altro coniuge.
Ad ogni modo, è inevitabile confrontarsi con un legale, considerando anche che il problema potrebbe essere risolto raggiungendo un accordo di separazione consensuale che tenga conto anche di questo aspetto.

Paolo L. chiede
martedì 27/04/2021 - Lazio
“Gentile Brocardi,
con la presente sono a chiedervi una consulenza in merito alla decorrenza dei termini della prescrizione tra coniugi ai sensi dell'articolo 2941 c.c. ovvero se la decorrenza dei termini sono da calcolare dalla sentenza di separazione oppure di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Ricapitolo molto sinteticamente la vicenda tra mio padre e mia madre che si sono separati con sentenza del Tribunale di XXX con addebito a mio padre. (Precedentemente con atto notarile i miei genitori sono passati dal regime della comunione a quello della separazione dei beni).
Dopo ben 24 anni dalla suddetta sentenza di separazione mio padre, con ricorso notificato a mia madre, ha avviato l’iter per la cessazione degli effetti civili del matrimonio chiedendo anche la revoca dell’obbligo di mantenimento come da sentenza di separazione. Tale giudizio è tuttora in corso.
Mia madre si è costituita con domanda riconvenzionale chiedendo oltre alla revisione in aumento dell’assegno di mantenimento (mia madre settantenne ha sempre fatto la casalinga) anche la restituzione di ben 150 milioni di lire (frutto di un lascito ereditario del padre) da lei versati in contanti agli inizi degli anni 80 per consentire a mio padre di costruire un palazzo di ben 9 appartamenti su una sua proprietà terriera (lavori terminati nel 1982 in piena vigenza della comunione).
Va detto che mia madre può dimostrare questo trasferimento di denaro solo indirettamente ovvero tramite la sottoelencata documentazione:
a) Atto di successione dove si evince le somme ereditate da mia madre a seguito della morte del padre;
b) Atto di successione di mio padre dove si evince che ha ereditato un piccolo appezzamento di terra dove poi successivamente sorgerà l’edificio;
c) la ricostruzione della carriera lavorativa di mio padre dove si evince che l’anno dopo in cui mia madre erediterà la suddetta somma costituirà la sua prima ditta edile per avviare i lavori di costruzione del Palazzo di 9 appartamenti e quindi passando da operaio edile dipendente di una ditta ad imprenditore del settore delle costruzioni;
d) licenza edilizia e comunicazione di fine lavori attestante appunto l’iter autorizzatorio, il progetto edilizio e la fine lavori, avvenuto sempre in quell'arco temporale;
e) Testimonianza sottoscritta del fratello di mia madre (residente negli USA) che ha contribuito all’operazione immobiliare anche con suoi prestiti.

E’ del tutto evidente dalla cronologia degli eventi che mio padre ha potuto avviare i lavori e quindi costruire il suo discreto compendio immobiliare solo ed esclusivamente grazie all’apporto finanziario di mia madre; apporto sempre avvenuto in contanti su base fiduciaria (con mio padre aveva tre figli tra cui io).
In occasione della prima udienza del procedimento per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, tenutasi mercoledì 23 novembre u.s., presso il Tribunale di YYY, il Giudice ha già anticipato che avrebbe deciso esclusivamente sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio e per l’assegno di mantenimento, invitando mia madre ad intraprendere eventualmente un nuovo giudizio in merito alle sue pretese economiche nei confronti di mio padre.
Questa cosa ci ha un po’ preoccupati. Non vorremmo andare incontro ad un giudizio infondato, pertanto, con la presente consulenza sono a chiedervi se vi sono i presupposti di fatto e di diritto per avviare, con separato giudizio, tale richiesta di “restituzione” delle somme versate (con eventuali interessi) a fronte delle motivazioni e della documentazione prodotta da mia madre nella domanda riconvenzionale e, cosa più importante, se i crediti vantati sono ancora esigibili oppure andati prescritti.
Lascio sotto i miei recapiti per ulteriori informazioni e per eventuale trasmissione di documentazione.
Nell’attesa invio i miei più cordiali saluti”
Consulenza legale i 04/05/2021
La questione del diritto alla restituzione delle somme versate, a vario titolo, da un coniuge durante il matrimonio è complessa e presenta diverse sfaccettature.
Nel caso di coppia unita in matrimonio, esiste una precisa norma, l’art. 143 c.c., che impone a entrambi i coniugi, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, di contribuire ai bisogni della famiglia.
Sulla base di ciò, la giurisprudenza ha chiarito che “a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell'altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio” (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 10927 del 7 maggio 2018).
Nella vicenda descritta nel quesito, però, i versamenti effettuati dalla moglie in favore del marito non sono stati utilizzati per i bisogni familiari, bensì per gli investimenti immobiliari del secondo, che grazie a quel denaro ha potuto avviare una vera e propria attività imprenditoriale nel settore.
Esclusa, dunque, l’applicabilità dell’art. 143 c.c., occorre esaminare se vi siano ulteriori norme che escludono la possibilità di un rimborso.
In proposito, un altro istituto cui ha fatto ricorso la giurisprudenza è quello delle obbligazioni naturali (art. 2034 c.c.), ovvero quelle prestazioni che vengono spontaneamente eseguite in adempimento di doveri morali o sociali. Due sono le caratteristiche fondamentali delle obbligazioni naturali: la prima è di non essere coercibili (cioè non si può essere costretti a pagare); la seconda è l’irripetibilità di quanto versato (una volta pagato, non si può chiedere la restituzione).
Ora, nella materia che ci occupa, la giurisprudenza, sia pure con riferimento alle coppie di fatto, ha precisato che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., purché siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza (Cass. Civ., Sez. III, sent. 15/05/2018, n. 11766; conforme Cass. Civ., Sez. I, 22/01/2014, n. 1277, la quale ha aggiunto che “tali dazioni [...] sono espressione della solidarietà tra due persone unite da un legame stabile e duraturo”).
Nel nostro caso, tuttavia, anche in considerazione del fatto che la moglie neppure godeva di redditi propri, ma ha sempre dato il proprio contributo ai bisogni della famiglia mediante il lavoro casalingo (le somme consegnate al marito provenivano da un lascito ereditario), sembra potersi escludere che sussistano sia la proporzionalità che l’adeguatezza.
Almeno in astratto, dunque (perché sarebbe necessario conoscere tutti i dettagli della vicenda), appare possibile richiedere il rimborso delle somme. Tuttavia, come correttamente rilevato dal giudice nel procedimento di divorzio, la relativa domanda deve essere proposta in separato giudizio.
A tal fine si potrebbe ipotizzare anche la sussistenza di un mutuo gratuito, con conseguente obbligo alla restituzione delle somme (nel quesito non viene specificato nulla circa l’eventuale esistenza di un accordo, anche non scritto, in tal senso). In assenza di azioni specifiche, la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile l’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.: si veda Cass. Civ., Sez. III, 15/05/2009, n. 11330, anche se riferita ancora una volta alla convivenza more uxorio. In particolare, secondo la Suprema Corte, l'arricchimento senza causa è configurabile quando le prestazioni rese esulano dall'adempimento dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e reciproca assistenza che, avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti, presiedono alla famiglia di fatto (considerazioni, queste, che possono essere estese anche alla famiglia nata dal matrimonio).
Trattandosi di fatti risalenti nel tempo, si pone, evidentemente, il problema di una eventuale prescrizione del diritto alla restituzione delle somme. Va premesso che, per stabilire se un diritto sia prescritto o meno, è necessario innanzitutto individuare il dies a quo della prescrizione, cioè il momento a partire dal quale la prescrizione inizia a decorrere in quanto il diritto stesso può esser fatto valere. Senza addentrarci in questa sede nella disamina di tale aspetto, va ricordato che nei rapporti tra coniugi si applica l’art. 2941 c.c., richiamato nel quesito, che stabilisce la sospensione della prescrizione tra coniugi. La sospensione della prescrizione opera anche durante la separazione personale, implicando questa solo un'attenuazione del vincolo (così Cass. Civ., Sez. III, ordinanza n. 7533 del 1 aprile 2014).
Il problema principale, nel nostro caso, è di ordine probatorio, vista la difficoltà di provare i trasferimenti di denaro, effettuati in contanti: tale profilo deve essere dunque valutato con particolare attenzione.

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