Brocardi.it - L'avvocato in un click! CHI SIAMO   CONSULENZA LEGALE

Articolo 2033 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Indebito oggettivo

Dispositivo dell'art. 2033 Codice Civile

Chi ha eseguito un pagamento non dovuto(1) [1189] ha diritto di ripetere ciò che ha pagato [1185 comma 2, 1463, 1952 comma 3]. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda [1148, 2036; 39 l.f.].

Note

(1) La norma contempla l'ipotesi in cui il debito non sussiste, cioè è privo di qualsiasi causa di giustificazione. Quindi, non solo il caso in cui non è mai sorto ma anche quello in cui è già stato estinto con adempimento (1176 ss. c.c.) o altro mezzo (novazione 1230 c.c., remissione 1236 c.c., compensazione 1241 c.c., confusione 1253 c.c.). Rientra, inoltre, anche l'ipotesi in cui venga retroattivamente meno il negozio fondamentale, come accade, ad esempio, in caso di annullamento (1441 c.c.) o risoluzione (1453 ss. c.c.). Infine, si comprende anche l'indebito soggettivo "ex latere creditoris" che sussiste quando chi paga ha un debito ma non nei confronti del destinatario del pagamento bensì verso un terzo.

Ratio Legis

Se non esiste un debito, non ha senso effettuare un pagamento: quindi chi lo ha eseguito ha diritto alla restituzione di quanto versato.
Ha diritto, inoltre, alla restituzione di frutti ed interessi: se non avesse fatto il pagamento, questi sarebbero stati suoi. La loro restituzione segue la regola dettata per la restituzione dei frutti, che distingue a seconda della buona o mala fede dell'accipiens (1148 c.c.).

Brocardi

Condictio indebiti
Condictio indebiti ob causam finitam
Condictio indebiti sine causa
Cuius per errorem dati repetitio est, eius consulto dati donatio est
Ea quae per errorem omissa vel soluta sunt, condici possunt
Ex persona creditoris
Indebitum ex re
Quod indebitum per errorem solvitur, aut ipsum, aut tantundem repetitur
Restitutio in integrum
Si sciens se non debere solvit, cessat repetitio
Solutio indebiti

Spiegazione dell'art. 2033 Codice Civile

Concetto e contenuto dell’indebito oggettivo

L' indebito oggettivo presuppone la mancanza di un obbligo.

Così si è detto al n. 790 della relazione al codice per precisare il contenuto del principio fondamentale, enunciato nell'art. 2033, in quanto afferma il diritto di ripetere ciò che é stato corrisposto per un pagamento non dovuto.

L'obbligazione, di cui la norma in esame presuppone la mancanza, dev'essere, dunque, intesa in senso strettamente giuridico: essa è, cioè, un’obbligazione di cui nuovo codice non aveva voluto enunciare il concetto, preferendo precisare il concetto della prestazione nella quale si concretizza l'oggetto dell' obbligazione, e indicandone come caratteristiche la patrimonialità della prestazione e la sua corrispondenza a un interesse anche morale del creditore (n. 557 relaz. al cod. civ. e art. 1174 cod. civ.): di modo che assurga a figura giuridica distinta « da quegli altri obblighi i quali, per quanto diano luogo ad azione, tuttavia non hanno contenuto patrimoniale diretto o di riflesso », e « dagli altri che costituiscono la sfera della vita morale e sociale, e da cui non evadono o perché rispondono a bisogni universali meno sentiti o perché il valore e il motivo della loro esi­stenza consiste nella spontaneità del loro adempimento » (n. 557 relaz. al cod. civ.). Se ne parlerà ancora nel commento all'art. 2034.

Perché il pagamento non sia dovuto non deve sussistere, per alcun titolo, il dovere giuridico di eseguirlo: non dev'essere, cioè, un rapporto di diritto, cui la legge conceda tutela e azione, per ottenere coattivamente l'adempimento di quella prestazione che, invece, venne adempiuta.

In conseguenza integra l'indebito oggettivo il semplice fatto d'un pagamento eseguito — e correlativamente ricevuto senza causa. Perciò un tale pagamento, come si dirà, non può essere che dovuto ad errore.

Da tale concetto consegue che ricorre l'indebito oggettivo anche quando il dovere giuridico d'eseguire il pagamento sussista, ma per adempiere una prestazione diversa, nella sua entità reale, da quella per la quale il pagamento é avvenuto. La mancanza, infatti, d'un dovere giuridico ad eseguire la prestazione che, invece, per errore viene eseguita, riconduce anche tale pa­gamento sotto il principio enunciato: quello, cioè, della sua esecuzione come un semplice fatto senza causa.

Lo stesso dicasi per ciò che eccede, nella misura, il pagamento d'un de­bito: e anche per ciò che è realmente dovuto, ma che può essere negato per una giusta e legittima eccezione.

Così è anche ammessa la ripetizione del pagamento d'un debito prescritto: essa é soltanto esclusa — e il pagamento avvenuto dà luogo soltanto a un'obbligazione naturale (art. 2940 cod. civ.) — quando il debito prescritto sia stato pagato spontaneamente.

Del pari la ripetizione è negata — e perciò non ricorre indebito oggettivo in ipotesi di pagamento fatto o di altra prestazione data nella consapevolezza che potevano essere ricusati perché, a rigore di diritto, non do­vuti, mentre furono eseguiti per delicatezza, per motivo d'onore, e simili: tanto meno quando la prestazione venga adempiuta coll'animo di donare.

Neppure può ripetersi ciò che sia stato pagato anticipatamente, anche se il debitore ignorava l'esistenza del termine — salva la possibilità d'esperire l'azione d'arricchimento, nei limiti della perdita subita, per ripetere ciò di cui il creditore si sia arricchito per effetto del pagamento anticipato (arti­colo 1185).


Presupposto dell’errore del solvente, non dell’accipiente

In base al codice del 1865 si faceva, però, per la ripetizione dell'indebito, questa distinzione.

C'era il già citato art. 1237 prima parte, comprensivo di tutte le ipotesi d'indebito diverse dalla condictio indebiti e, nella sua generalità, riferibile a tutte le condictiones del diritto romano (mancanze di causa, sua illiceità, suo successivo venir meno, ecc.), che contemplava il pagamento compiuto senza errore, o, meglio, indipendentemente dall'errore del solvens: per modo che l'errore era un elemento estraneo al fatto del pagamento e all'azione data per ripeterlo.

C'erano gli art. 1145, 1146 c.c., del pari citati, che disciplinavano la condictio indebiti propriamente detta, nella doppia ipotesi già ricordata dell'indebitum ex re e dell'indebitum ex personis, i quali, invece, presupponevano sempre, come elemento essenziale, l'errore del solvens: di fatto o di diritto, scusabile o inescusabile.

Il nuovo codice non dice che, per la ripetizione dell'indebito oggettivo, è necessario, in chi paga, il concorso d'un errore. Per la formula dell'art. 2033 basta l'esecuzione d'un pagamento oggettivamente non dovuto.

All'errore, invece, è fatto esplicito riferimento — e, anzi, è richiesto come requisito necessario — nella nozione ch'è data dell'indebito soggettivo. Lo si vedrà commentando l'art. 2036.

Ora è da ritenersi che l'errore debba ricorrere, come elemento dell'in­debito oggettivo, anche nella disciplina dell'art. 2033?

È utile ricordare che, vigente il codice del 1865, e superata la prima distinzione, fatta dalla dottrina, che il concorso dell'errore fosse necessario soltanto per l'indebitum ex personis di cui all'art. 1146 e non anche per l'indebitum ex re di cui all'art. 1145, s'era tuttavia rilevato che l'efficacia di quel requisito nell'indebitum ex re incideva in una così ristretta applicazione d'ipotesi da far dubitare veramente della sua essenzialità.

Si osservava, infatti, che il pagamento volontario e consapevole — cioè senza errore d'un debito inesistente escludeva ogni diritto di ripetizione perché si risolveva in una donazione. Ma si aggiungeva che, applicando i principii in materia di donazione, la conseguenza che ne sarebbe derivata era questa: che se il pagamento eseguito configurava una donazione di cose mobili di modico valore (donazione manuale), allora, per la sua validità, anche senza la mancanza dell'atto pubblico, la ripetizione di ciò ch'era stato donato — vale a dire di ciò ch'era stato indebitamente pagato — restava sempre esclusa; se, invece, il pagamento eseguito configurava un'altra ipotesi di donazione, allora l'inosservanza delle forme e dei requisiti richiesti e determinata la nullità dell'atto, non sanabile neanche con l'esecuzione volontaria e rendeva legittima la ripetizione di quanto era stato donato — vale a dire di quanto era stato indebitamente pagato — per mancanza di causa. Così il concorso dell'errore, come presupposto dell'indebitum ex re influiva in sostanza, e produceva un qualche effetto, giuridicamente apprezzabile, in quanto si fosse trattato di pagamenti di modesta entità riconducibili sotto il concetto delle donazioni manuali.

Ma non sembra che il nuovo codice abbia tenuto conto di questi rilievi per escludere, nell'indebito oggettivo, il requisito dell'errore come presupposto necessario del diritto alla ripetizione del pagamento effettuato.

La relazione della commissione reale al libro delle obbligazioni è esplicita: « Trasportato in questa sede il vecchio art 1237 dalla sede del pagamento in cui si trovava, e raccostata la disposizione sulle obbligazioni naturali a quella degli art. 1145-1147 (ora articoli 67 e 68), è tolta pagamento in cui si trovava, e raccostata la disposizione sulle obbligazioni naturali a quella ambiguità all'espressione del tutto generica « ciò che fu pagato senza essere dovuto è ripetibile » dell'antico art. 1237, ed è eliminato ogni possibile contrasto come ben aveva sostenuto una parte della dottrina) tra questo e quelli, restando chiarito che, per aversi ripetizione nelle obbligazioni civili, si ri­chiede come condizione l'error solventis.

Né apporta un apprezzabile argomento contrario, la struttura letterale della norma nella quale, diversamente dall'art. 1145 del codice abrogato, all'errore non è fatto alcun richiamo.

La struttura stessa — nella incisiva enunciazione del presupposto che, per esservi diritto a ripetizione di ciò che è stato pagato, dev'esservi un paga­mento non dovuto — supera la necessità dell' indicazione espressa dell'errore da parte del solvente: e, nel contempo, necessariamente lo presuppone.

Per il codice abrogato non era richiesto il concorso dell'errore dell'accipiente.

Neppure può essere richiesto, quale presupposto dell' indebito oggettivo, in base al nuovo codice.

Soltanto in ipotesi d' indebito soggettivo la necessità d'un errore dell'accipiente è presa in considerazione quando — come si dirà — viene esclusa la ripetizione dell' indebitamente pagato per essersi il creditore privato in buona fede del titolo o delle garanzie del credito. Lo stato soggettivo, in cui viene a trovarsi chi agisce in buona fede, non va scompagnato, infatti, da un qualche errore che ne é causa diretta o, almeno, concorrente. E allora — come si vedrà — ne derivano particolari effetti che come prova della sussistenza dell'obbligo finché non sia, per altro verso, provato l’errore in cui eventualmente ebbe a versare il solvens, e in tal caso può derivarne anche fondata e legittima la ripetizione; ma non rendono di per sè - e soltanto perché provati - valido e legittimo l'effettuato pagamento, e perciò non escludono irrimediabilmente la possibilità della sua ripetizione.


Il pagamento

Per pagamento si intende – nel titolo dell’istituto e nella norma in esame - l'adempimento, in senso lato, dell'obbligazione o, meglio, della supposta obbligazione: cioè la praestatio eius quod est in obbligatione: quindi la dazione di denaro, di cose, di corpi certi in peso, numero e misura e, comunque, ogni adempimento che significhi esatta prestazione di ciò che si riteneva dovuto.

Oggetto della prestazione e del suo adempimento può essere anche la dazione di una cosa, oltreché in proprietà, anche in solo possesso. E la dottrina annovera, poi, come altrettanti possibili esempi di pagamento indebito, la concessione o la liberazione d'un diritto reale sulla o dalla cosa altrui; l’ estinzione d'un debito anche mediante novazione o remissione; il trasferimento d'un credito mediante cessione o novazione o promessa esplicita in forza di obbligazione scritta.

Perfino l'eccedenza d'una prestazione, nell'assolvere un'obbligazione legittima, pub costituire — come già dissi — materia di ripetizione.

È pagamento anche la prestazione d'un fatto cioè un'obbligazione di fare — purché sia valutabile in danaro: in questo caso il valore della prestazione pub essere sempre ripetuto da quegli cui la prestazione stessa fu data: non potrà esservi restituzione del percepito, ma restituzione per equivalente.

Quando, però, il pagamento indebito abbia avuto per oggetto una cosa determinata, il codice — come vedremo — l' ha sottoposta la ripetizione a una particolare disciplina con gli art. 2037 e 2038.

È irrilevante che il pagamento sia stato fatto per sè o per altri, e cioè l’ obbligazione cui si adempie sia un'obbligazione propria del solvens o di un terzo: quello ch' è necessario - e che costituisce una caratteristica differenziatrice dell' indebito oggettivo rispetto, come si vedrà, all' indebito soggettivo - è la mancanza dell' obbligazione nel senso sopra spiegato. tuttavia, precisare che soggetto del diritto della ripetizione, nell' indebito oggettivo, è sempre quegli che ha effettuato il pagamento non dovuto: esso è anche titolare della correlativa azione personale che deve rivolgere contro chi riceve indebito.

In ipotesi d' indebito pagato da un mandatario o da un rappresentante, come tale, del preteso debitore, l'esercizio del diritto di ripetizione e la correlativa azione spettano a costui, cioè al mandante o rappresentato.

Questo perché sono imprescindibili effetti della rappresentanza la diretta ripercussione, nel patrimonio del rappresentato, delle conseguenze dell'atto compiuto dal procuratore, e il passaggio diretto e immediato al rappresentato dei diritti e degli obblighi derivanti dal negozio compiuto dal rappresentante.

Del pari, contro il mandante e il rappresentato dev'essere sperimentata l'azione, ove 1' indebito pagamento sia stato ricevuto, rispettivamente, dal loro mandatario o rappresentante.


L’azione di ripetizione: oggetto

Contenuto del diritto e scopo dell'azione di ripetizione - che, come detto, si risolve in un'azione personale per ottenere l’adempimento di un’obbligazione di restituzione - sono quelli di conseguire, appunto, la restituzione di ciò che fu indebitamente pagato, con tutti gli accessori: però, presupposto o condizione per l'esercizio di detta azione è la sussistenza di un danno.

Correlativamente a quanto si è detto sub 3, l'azione è diretta a con­seguire la restituzione del danaro nella stessa somma versata; o delle identiche cose, avute in proprietà o in possesso, se ancora esistono, osservate anche le norme dettate dagli articoli 876 e 877; o dei corpi certi nella stessa qualità e natura, e nello stesso peso, numero o misura di quelli che furono dati e ricevuti in pagamento; la revoca o l'annullamento degli atti mediante i quali fu consentito o riconosciuto un diritto, estinto un debito, trasferito un credito, ecc.

Anche la restituzione del prezzo di vendita d'un immobile, a seguito della nullità del contratto per mancata registrazione nel termine prescritto, è stato ritenuto che possa inquadrarsi nell'ipotesi dell'art. 2033 c.c., siccome omissione d'ascriversi ugualmente all'inerzia del compratore e del venditore.

Ma, da ultimo, la Cassazione ha considerata l'obbligazione che ne de­riva, quale obbligazione non di somma ma di valuta, ma di valore negando che le si possa applicare il principio nominalistico e affermando che il venditore, contro restituzione della cosa, è tenuto a versarne al compratore il valore al momento del suo accertamento giudiziale; e ciò non come effetto del con­tenuto negoziale del contratto dichiarato nullo, ma come uno degli effetti della dichiarazione di tale nullità « precipuo quello — dice la sentenza —del ripristino della parità contrattuale, alla cui restaurazione è normalmente intesa l'azione d'annullamento ».

Con tale impostazione - e risoluzione - sorgono forti dubbi se una tale questione possa rimanere correttamente inquadrata sul fondamento dell'art. 2033 c.c. che, dell'obbligazione e dell'azione nascenti dall'indebito, stabilisce in termini precisi l’estensione e la finalità, limitandole alla ripeti­zione di ciò ch'è stato pagato, di frutti e agli interessi.

Come istituzione di carattere generale la ripetizione dell'indebito è, infine, applicabile anche nei confronti della pubblica amministrazione, per qualsi­voglia pagamento effettuato in dipendenza di obbligazioni civili fatta ecce­zione per quelle derivanti da transazione.


Restituzione dei frutti e degli interessi in rapporto allo stato di buona e di mala fede dell’accipiente

II diritto di ripetere ciò che fu indebitamente pagato si estende, in ogni caso, ai frutti e agli interessi: però con una diversità quanto alla loro decorrenza, e cioè dal giorno del pagamento se chi ebbe a riceverlo era in mala fede; dal giorno della domanda se era in buona fede.

La norma dell’art. 2033 è più completa di quella del vecchio codice che, soltanto dal principio enunciato dall’ art. 1147 del c.c. – secondo il quale chi avesse ricevuto il pagamento in mala fede era tenuto a restituire tanto il ca­pitale quanto gli interessi o i frutti dal giorno del pagamento — autorizzava a ricavarne a contrariis, che uguale obbligazione non sussisteva a carico del possessore di buona fede, il quale, come colui che abbia acquistato a non domino, ha un titolo apparente per fare suoi i frutti, ove li abbia percetti.

La norma é anche più completa perché è nuova l'enunciazione che limita l'obbligo del pagamento degli interessi, per l'accipiente in buona fede soltanto a decorrere dal giorno della domanda.

La buona fede diversità di disciplina tra mala e buona fede è giustificata dalla considerazione che, nella seconda ipotesi, l'accipiente è d'aversi non solo come debitore, ma anche come possessore di buona fede. Anche per costui v'è un titolo del possesso di cui s' ignorano i vizi: anche per costui manca una vera obbligazione, allo stesso modo che nell' acquisizione a non domino manca il diritto del trasmittente o la facoltà di alienare.

Non mi pare, tuttavia, che sussistano nuove ragioni perché non debba con­tinuare ad avere vigore la massima, già insegnata dalla Suprema Corte, per la quale il principio della diversa decorrenza dei frutti e degli interessi, a seconda della mala o della buona fede di chi ricevette il pagamento indebito, non si applica più se vi abbia concorso la mala fede tanto dell'accipiens quanto del solvens.

Agli effetti di cogliere il concetto di buona fede, può tenersi utilmente presente quant' è detto nella relazione al libro delle obbligazioni (n. 14), quando, a proposito del rapporto contrattuale, si precisa che il dovere di buona fede (in senso oggettivo) è imposto ai soggetti per esigere da essi, nella sfera del rapporto stesso, « un comportamento ispirato dal senso della probità, sia nella rappresentazione leale e non cavillosa dei diritti e degli obblighi che ne derivano, sia nel modo di farli valere e di osservarli, con riguardo, in ogni caso, allo scopo del comando che forma il contenuto del rapporto, all'armonia dei rispettivi interessi e di quelli superiori della Nazione, che esigono una pacifica collaborazione produttiva ».

Tale concetto della buona fede è, quindi, più esteso di quello che si riconduce alla coscienza d'avere il diritto di possedere ciò che si è acquistato (elemento soggettivo) e alla sincera persuasione — per 1'ignoranza di un difetto di capacità, o del tizio di un atto, o di un fatto impeditivo — che ciò che si è acquistato è stato trasmesso, mediante un mezzo apparentemente idoneo e legittimo, da chi aveva il potere di farlo (elemento oggettivo): è un concetto più esteso perché comprende la convinzione della conformità della propria condotta alle esigenze della solidarietà sociale.

Applicato al pagamento indebito, il concetto si concreta, poi, nel ra­gionevole convincimento, in chi lo riceve, del proprio diritto a riceverlo, e della sussistenza del correlativo obbligo a carico di colui che lo esegue.

L’indagine sul concorso o meno della buona fede è demandata al magistrato, il quale formerà il proprio giudizio apprezzando le circostanze della fattispecie sottoposta al suo esame.

Ma a proposito della malafede e della buona fede dell'accipiente, mi sembra che debba restare fermo, in tutto il suo valore, anche il principio già enunciato dalla Suprema Corte quando, a proposito del perimento e del deterioramento della cosa ricevuta, ha precisato che la malafede non s'identifica necessariamente col dolo; che trattasi di due diverse situazioni psicologiche quali possono, bensì, coesistere se il soggetto si sia adoperato in qualche modo per determinare l'errore di cui poi abbia approfittato (dolo); ma che si contrapponeva benissimo non coincidere se l'accipiente abbia avuto solamente la consapevolezza di trarre profitto da un errore da lui non ingenerato (malafede), che a questo secondo caso si contrappone la consapevolezza di ledere l'altrui diritto, e allora si è in presenza della buona fede.

La distinzione tra frutti e interessi non richiede una speciale disamina in quanto non è stato modificato il concetto tradizionale, per il quale, ch’è frutto — nell'accezione generica e comune — ogni reddito o utilità che, per forza di natura, congiunta o non all'attività dell'uomo, si trae da una cosa immobile, mobile o semovente; sono frutti civili quelli che non sono generati dalla cosa, ma che si ottengono in sua occasione o per sua causa.

Gli interessi ne sono, appunto, un tipico esempio. E nella norma in esame essi hanno lo scopo di risarcire al solvens il danno sofferto per l' indisponibilità della somma indebitamente pagata all'accipiens, finché da questi non ne abbia ottenuta la restituzione.

La domanda, da cui decorrono i frutti e gli interessi in ipotesi di buona fede é, poi, la domanda giudiziale o anche qualunque altra domanda legalmente efficace a costituire in mora.

È, infine, da ricordare un’autorevole dottrina che – ricollegando a una situazione di mora dell'accipiens in mala fede l'obbligo, posto a suo carico, degli interessi dal giorno del pagamento - considera e ammette come oggetto del risarcimento dell'ulteriore danno dovuto ex mora, anche le conseguenze derivanti dalla svalutazione monetaria.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

647 Mi è sembrato inutile affermare che ogni pagamento presuppone un debito (art. 759); mentre ho creduto necessario fissare immediatamente l'oggetto della ripetizione nell'obbligo di corrispondere gli interessi, oltre che nell'obbligo di restituire la cosa pagata.
Ho distinto espressamente la ipotesi in cui l'accipiente è in buona fede da quella in cui è in mala fede, aggiungendo alla previsione dell'art. 1147 cod. civ. (art. 68 progetto del 1936), che poneva l'obbligo di corrispondere, nel secondo caso, gli interessi dal giorno del pagamento, la enunciazione (nuova) dell'obbligo dell'accipiente di corrispondere gli interessi dalla domanda, ove sia in buona fede.

Massime relative all'art. 2033 Codice Civile

Cass. civ. n. 10337/2023

L'irripetibilità dell'indebito previdenziale è subordinata al ricorrere di quattro condizioni: a) il pagamento delle somme in base a formale e definitivo provvedimento; b) la comunicazione del provvedimento all'interessato; c) l'errore, di qualsiasi natura, imputabile all'ente erogatore; d) la insussistenza del dolo dell'interessato (a cui è parificata "quoad effectum" la omessa o incompleta segnalazione di fatti incidenti sul diritto, o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall'ente competente), difettando anche una sola delle quali opera la regola della ripetibilità di cui all'art. 2033 c.c.

Cass. civ. n. 35280/2022

L'efficacia retroattiva della risoluzione, per inadempimento, di un contratto preliminare comporta l'insorgenza, a carico di ciascun contraente, dell'obbligo di restituire le prestazioni ricevute, rimaste prive di causa, secondo i principi della ripetizione dell'indebito ex art. 2033 c.c., e, pertanto, implica che il promissario acquirente che abbia ottenuto la consegna e la detenzione anticipate del bene promesso in vendita debba non solo restituirlo al promittente alienante, ma altresì corrispondere a quest'ultimo i frutti per l'anticipato godimento dello stesso. Ne consegue che nel caso di occupazione di un immobile fondata su di un titolo contrattuale venuto meno per effetto della risoluzione giudiziale del contratto va esclusa la funzione risarcitoria degli obblighi restitutori.

Cass. civ. n. 5984/2022

L'irripetibilità dell'indebito previdenziale è subordinata al ricorrere di quattro condizioni: a) il pagamento delle somme in base a formale e definitivo provvedimento; b) la comunicazione del provvedimento all'interessato; c) l'errore, di qualsiasi natura, imputabile all'ente erogatore; d) la insussistenza del dolo dell'interessato, cui è parificata "quoad effectum" la omessa o incompleta segnalazione di fatti incidenti sul diritto, o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall'ente competente, difettando anche una sola delle quali opera la regola della ripetibilità di cui all'art. 2033 c.c.

Cass. civ. n. 34011/2021

L'azione di restituzione delle somme pagate in base ad una pronuncia di condanna poi caducata non è riconducibile allo schema della ripetizione d'indebito, perché si collega ad un'esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale e, dunque, non si presta a valutazioni sulla buona o mala fede dell'"accipiens"; per ottenere la restituzione di quanto pagato è necessaria la formazione di un titolo restitutorio, il quale comprende "ex lege", senza bisogno di una specifica domanda in tal senso e a prescindere anche da una sua espressa menzione nel dispositivo, il diritto del "solvens" di recuperare gli interessi legali, con decorrenza, ex art. 1282 c.c., dal giorno dell'avvenuto pagamento.

Cass. civ. n. 27372/2021

Allorché una parte, provata la consegna di una somma di denaro all'altra, ne domandi la restituzione omettendo di dimostrare la pattuizione del relativo obbligo, e la controparte non deduca alcuna causa idonea a giustificare il suo diritto a trattenere la somma ricevuta, il rigetto per mancanza di prova della domanda restitutoria va argomentato con cautela e tenendo conto di tutte le circostanze del caso, onde accertare se la natura del rapporto e le circostanze del caso concreto giustifichino che l'accipiens trattenga senza causa il denaro ricevuto dal solvens. (Nella specie, la S.C. ha riformato la sentenza della Corte di appello osservando che, a fronte di un'espressa imputazione del versamento da parte dell'attrice, documentata dalla causale del bonifico, il giudizio in ordine alla carenza di prova dell'esistenza del rapporto di mutuo invocato dalla ricorrente, non si era attenuto al criterio di particolare cautela valutativa, specie in presenza di un'allegazione difensiva della controparte che si fondava unicamente su documenti unilaterali predisposti in epoca successiva alla dazione della somma). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO MILANO, 23/06/2016).

Cass. civ. n. 261/2021

Il consumatore non è tenuto, ai sensi dell'art. 57 del codice del consumo (nella specie, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 21 del 2014, venendo in rilievo un contratto concluso prima del 13 giugno 2014), ad alcuna prestazione corrispettiva in caso di fornitura di energia elettrica non richiesta, né il fornitore può agire nei suoi confronti a titolo di indebito o di arricchimento senza causa, ancorché il medesimo consumatore abbia tratto vantaggio dalla detta fornitura, poiché il legislatore ha inteso fare prevalere gli interessi della parte debole del contratto - con l'esonero dagli oneri conseguenti a pratiche commerciali scorrette - su quelli del professionista, dovendosi riconoscere al citato art. 57 pure una valenza latamente sanzionatoria. (Cassa con rinvio, TRIBUNALE BRINDISI, 01/09/2017).

Cass. civ. n. 29190/2020

In materia di conto corrente bancario, il correntista che agisca in giudizio per la ripetizione di quanto indebitamente trattenuto dalla banca (e dunque da lui pagato) con il saldo finale del rapporto non è tenuto a documentare le singole rimesse suscettibili di ripetizione soltanto mediante la produzione in giudizio di tutti gli estratti conto mensili,ben potendo la prova dei movimenti del conto desumersi anche "aliunde", vale a dire attraverso le risultanze dei mezzi di cognizione assunti d'ufficio e idonei a integrare la prova offerta (nella specie mediante consulenza tecnica contabile disposta dal giudice sulle prove documentali prodotte). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO VENEZIA, 28/06/2018).

Cass. civ. n. 13223/2020

In tema di indebito assistenziale, in luogo della generale ed incondizionata regola civilistica della ripetibilità, trova applicazione, in armonia con l'art. 38 Cost., quella propria di tale sottosistema, che esclude la ripetizione, quando vi sia una situazione idonea a generare affidamento del percettore e la erogazione indebita non gli sia addebitabile. Ne consegue che l'indebito assistenziale, per carenza dei requisiti reddituali, abilita alla restituzione solo a far tempo dal provvedimento di accertamento del venir meno dei presupposti, salvo che il percipiente non versi in dolo, situazione comunque non configurabile in base alla mera omissione di comunicazione di dati reddituali che l'istituto previdenziale già conosce o ha l'onere di conoscere. (Nella specie, la S.C. ha escluso la ripetibilità dei ratei di assegno sociale, perché l'assistito aveva inserito nelle dichiarazioni reddituali i ratei della pensione estera che determinavano il superamento dei limiti di reddito). (Rigetta, CORTE D'APPELLO BARI, 22/05/2018).

Cass. civ. n. 11294/2020

Chi allega di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte, e proponga nei confronti dell'"accipiens" l'azione di indebito oggettivo per la somma versata in eccedenza, ha l'onere di provare l'inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta. (Nella specie, i ricorrenti avevano agito per la ripetizione di una quota parte della tariffa pagata in relazione alla fornitura del servizio idrico, a titolo di corrispettivo per l'attività di depurazione delle acque, deducendo che tale attività era mancata). (Cassa con rinvio, TRIBUNALE NAPOLI, 26/09/2018).

Cass. civ. n. 10810/2020

L'azione di indebito oggettivo ha carattere restitutorio, cosicché la ripetibilità è condizionata dal contenuto della prestazione e dalla possibilità concreta di ripetizione, secondo le regole previste dagli artt. 2033 ss. c.c., che ricorre quando detta prestazione abbia avuto ad oggetto una somma di denaro o cose di genere ovvero, infine, una cosa determinata, operando, altrimenti, ove tale prestazione sia irripetibile e ne sussistano i presupposti, l'azione generale di arricchimento senza causa di cui all'art. 2041 c.c., che assolve alla funzione, in base ad una valutazione obiettiva, di reintegrazione dell'equilibrio economico; la legittimazione ad esperire l'azione volta alla reintegrazione patrimoniale spetta a colui che abbia disposto il pagamento senza causa e non a chi, da questi e per suo conto, sia stato delegato ad effettuare materialmente la prestazione. (Rigetta, CORTE D'APPELLO ROMA, 30/05/2016).

Cass. civ. n. 8731/2019

In tema di indebito previdenziale, il dolo dell'assicurato, idoneo ad escludere l'applicazione delle norme che limitano la ripetibilità delle somme non dovute, in deroga alla regola generale di cui all'art. 2033 c.c., pur non potendo presumersi sulla base del semplice silenzio, che di per sé stesso, non ha valore di causa determinante in tutti i casi in cui l'erogazione indebita non sia imputabile al percipiente, è configurabile nelle ipotesi di omessa o incompleta segnalazione di circostanze incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciute o conoscibili dall'ente competente.(Nella specie, il pensionato aveva omesso di segnalare l'evidente discrasia tra lo stipendio percepito in costanza di lavoro e la pensione, provvisoriamente liquidata in misura quasi pari al doppio del primo). (Dichiara inammissibile, CORTE D'APPELLO TRENTO, 20/04/2017).

Cass. civ. n. 2993/2019

Nell'ipotesi di nullità di un contratto, la disciplina degli obblighi restitutori tra le parti è mutuata da quella dell'indebito oggettivo, poiché viene a mancare la causa giustificativa delle rispettive attribuzioni patrimoniali. Ne consegue che, ai fini della decorrenza degli interessi, rileva la condizione soggettiva dell'"accipiens" al momento in cui ha ricevuto la prestazione, essendo lo stesso tenuto a restituirli dal giorno del pagamento, se in mala fede, e da quello della domanda giudiziale, se in buona fede. (Rigetta, CORTE D'APPELLO MILANO, 23/12/2013).

Cass. civ. n. 30944/2018

La "datio" di una somma di danaro non vale - di per sé - a fondare la richiesta di restituzione, allorquando, ammessane la ricezione, l'"accipiens" non confermi il titolo posto "ex adverso" alla base della pretesa di restituzione e, anzi, ne contesti la legittimità, posto che, potendo una somma di danaro essere consegnata per varie cause, la contestazione, ad opera dell'"accipiens", della sussistenza di un'obbligazione restitutoria impone all'attore in restituzione di dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, onere questo che si estende alla prova di un titolo giuridico implicante l'obbligo della restituzione, mentre la deduzione di un diverso titolo, ad opera del convenuto, non configurandosi come eccezione in senso sostanziale, non vale ad invertire l'onere della prova. Ne consegue che l'attore che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, pertanto, non solo l'avvenuta consegna della somma, ma anche il titolo da cui derivi l'obbligo della vantata restituzione.

Cass. civ. n. 30822/2018

Nei rapporti di conto corrente bancario, il correntista che agisca in giudizio per la ripetizione dell'indebito è tenuto alla prova degli avvenuti pagamenti e della mancanza di una valida "causa debendi" essendo, altresì, onerato della ricostruzione dell'intero andamento del rapporto, con la conseguenza che non può essere accolta la domanda di restituzione se siano incompleti gli estratti conto attestanti le singole rimesse suscettibili di ripetizione.

Cass. civ. n. 30713/2018

Nella ripetizione di indebito opera il normale principio dell'onere della prova a carico dell'attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l'avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi.

Cass. civ. n. 27704/2018

L'azione di ripetizione dell'indebito proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale che decorre, in assenza di un'apertura di credito, dai singoli versamenti aventi natura solutoria. Grava sull'attore in ripetizione dimostrare la natura indebita dei versamenti e, a fronte dell'eccezione di prescrizione dell'azione proposta dalla banca, dimostrare l'esistenza di un contratto di apertura di credito idoneo a qualificare il pagamento come ripristinatorio ed a spostare l'inizio del decorso della prescrizione al momento della chiusura del conto. (Rigetta, CORTE D'APPELLO LECCE, 25/09/2014).

Cass. civ. n. 27131/2018

Il termine di prescrizione del diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di condanna di primo grado, riformata in appello, comincia a decorrere, ai sensi dell'art. 2935 c.c., dalla data di pubblicazione della sentenza di riforma in ragione dell'immediata efficacia di quest'ultima, ed è interrotta dalla notifica dell'atto di appello, con effetti permanenti fino al passaggio in giudicato, solo a condizione che in tale atto (o successivamente, in caso di esecuzione avviata dopo la proposizione dell'impugnazione) sia stata espressamente formulata la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado; in assenza di tale domanda, infatti, non può operare automaticamente l'effetto interruttivo previsto dal combinato disposto degli artt. 2943 e 2945 c.c., in quanto il diritto alla restituzione non ha alcuna correlazione con lo specifico rapporto controverso in appello, trovando la sua fonte in un fatto nascente dal processo (l'avvenuta esecuzione di un titolo giudiziale poi riformato), che potrebbe del tutto mancare (o, comunque, sopravvenire) al momento dell'impugnazione, con la conseguenza che tale fatto deve essere autonomamente portato alla cognizione del giudice di appello.

Cass. civ. n. 18266/2018

La disciplina della ripetizione dell'indebito di cui all'art. 2033 c.c. ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa. (Nella specie, la S.C. ne ha ritenuto applicabile la disciplina, e il conseguente regime prescrizionale decennale, al diritto del preponente, in caso di risoluzione anticipata del contratto d'agenzia, alla restituzione degli anticipi provvigionali corrisposti all'agente).

Cass. civ. n. 3706/2018

Il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di condanna, successivamente riformata, soggiace, ai sensi degli artt. 2033 e 2946 c.c., al termine di prescrizione decennale, che inizia a decorrere dal giorno in cui è divenuto definitivo - con la riforma della sentenza predetta - l'accertamento dell'indebito.

Cass. civ. n. 14013/2017

Qualora venga acclarata la mancanza di una "causa adquirendi" - tanto nel caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente - l'azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo; è, quindi, la pronuncia dichiarativa o estintiva del giudice, avente portata estintiva del contratto, l’evenienza che priva di causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti e dà fondamento alla domanda del “solvens” di restituzione della prestazione rimasta senza causa.

Cass. civ. n. 25270/2016

La qualificazione di un'azione come di ripetizione di indebito, anche ai fini dell'applicabilità del conseguente regime di prescrizione decennale, presuppone sempre una prestazione positiva (un “facere” o un dare) in precedenza indebitamente eseguita dal “solvens” che agisce ex art. 2033 c.c.. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che, esclusa la disciplina dell'indebito, aveva applicato il termine quinquennale di prescrizione di cui all'art. 2948, n. 5, c.c. all'azione di inesatto adempimento esercitata da lavoratori nei confronti del datore di lavoro che, all'atto del pagamento del TFR, aveva operato una compensazione impropria con gli incentivi all'esodo di cui aveva diritto ad ottenere la restituzione).

Cass. civ. n. 24653/2016

In tema di termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito, occorre distinguere il caso di nullità del contratto e, dunque, di mancanza originaria della “causa solvendi”, in cui il “dies a quo” comincia a decorrere dal giorno dell’intervenuta esecuzione della prestazione, da quelli in cui il difetto della “causa solvendi” sopravvenga al pagamento, nei quali il suddetto termine decorre dal giorno in cui l’accertamento dell’indebito è divenuto definitivo. È questa l’ipotesi dell’indebito conseguente al pagamento, da parte della ASL al farmacista, del corrispettivo dei medicinali forniti agli utenti del servizio sanitario nazionale, originariamente effettuato in conformità del procedimento previsto dall’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con le farmacie ai sensi del d.p.r. n. 94 del 1989 (secondo cui il farmacista ha diritto al rimborso dopo la presentazione delle distinte riepilogative dei farmaci somministrati), e, successivamente, divenuto privo di causa per l’annullamento delle ricette irregolari ad opera dell’apposita Commissione dell’ASL.

Cass. civ. n. 20383/2016

In materia contrattuale, la mancanza di una "causa adquirendi" - a qualunque titolo accertata - determina la possibilità di avvalersi dell'azione di ripetizione dell'indebito anche quando la controprestazione non sia a propria volta ripetibile, stante l'eccezionalità, e conseguente non estensibilità, delle ipotesi legislative di irripetibilità delle prestazioni eseguite, potendo ottenersi, in tali casi, la reintegrazione dello squilibrio economico determinatosi tra le parti attraverso la diversa azione ex art. 2041 c.c., nei limiti di operatività della stessa. (Nella specie, la S.C. ha affermato la ripetibilità dei canoni percepiti dal locatore in base ad un contratto di locazione nullo, pur a fronte dell'irripetibilità della controprestazione concernente il godimento del bene, ritenendo non applicabile in tal caso l'eccezione prevista dall'art. 1458 c.c., in quanto relativa solo alla risoluzione per inadempimento dei contratti ad esecuzione continuata, mentre la diversa questione dell'arricchimento del conduttore avrebbe potuto rilevare ai fini dell'azione ex art. 2041 c.c., non proposta nel caso concreto).

Cass. civ. n. 7749/2016

In caso di nullità di un contratto per impossibilità giuridica originaria del suo oggetto, l'azione di ripetizione dell'indebito, esperibile in relazione all'avvenuto versamento del corrispettivo, deve essere esercitata entro dieci anni dalla data del pagamento, non ostando al decorso della prescrizione l'assenza di un giudicato in ordine alla nullità contrattuale.

Cass. civ. n. 24628/2015

In tema di indebito oggettivo, il termine di prescrizione dell'azione di ripetizione decorre dal giorno in cui l'accertamento dell'indebito sia divenuto definitivo, quando il difetto della "causa solvendi" sopravvenga al pagamento e non riguardi, invece, elementi genetici di un negozio nullo. (Principio affermato in relazione ad un caso in cui era stata richiesta la ripetizione della somma corrisposta, in conto-prezzo, in occasione della stipula di un contratto preliminare, successivamente rimasto inadempiuto e i cui effetti contrattuali erano venuti meno all'esito del giudicato formatosi nel giudizio introdotto ex art. 2932 c.c.).

Cass. civ. n. 7897/2014

Va qualificata come ripetizione di indebito, ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., qualunque domanda avente ad oggetto la restituzione di somme pagate sulla base di un titolo inesistente, sia nel caso di inesistenza originaria, che di inesistenza sopravvenuta o di inesistenza parziale. Ne consegue che il diritto alla restituzione dell'indennizzo assicurativo, per la parte che l'assicuratore assuma di aver pagato in eccedenza rispetto al dovuto, è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale e non a quella breve di cui all'art. 2952 cod. civ., in quanto scaturente dall'indebito e non dal contratto di assicurazione.

Cass. civ. n. 6747/2014

L'azione di indebito oggettivo ha carattere restitutorio, cosicché la ripetibilità è condizionata dal contenuto della prestazione e dalla possibilità concreta di ripetizione, secondo le regole previste dagli artt. 2033 e ss. cod. civ. (e cioè quando abbia avuto ad oggetto una somma di denaro o cose di genere ovvero, infine, una cosa determinata), operando altrimenti, ove ne sussistano i presupposti, in mancanza di altra azione, l'azione generale di arricchimento senza causa prevista dall'art. 2041 cod. civ., che assolve alla funzione, in base ad una valutazione obbiettiva, di reintegrazione dell'equilibrio economico. Pertanto, nel caso di prestazione di "facere", la quale non è suscettibile di restituzione e, in quanto indebita, non è oggetto di valide ed efficaci determinazioni delle parti circa il suo valore economico, non è proponibile l'azione di indebito oggettivo ma, in presenza dei relativi presupposti, solo quella di ingiustificato arricchimento.

Cass. civ. n. 13207/2013

L'azione di ripetizione di indebito, prevista dall'art. 2033 c.c., ha per suo fondamento l'inesistenza dell'obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una condizione risolutiva avveratasi. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha escluso l'operatività dell'istituto "de quo", atteso che la controversia, investendo la restituzione di corrispettivi versati per trasporti di merce per un chilometraggio effettivamente coperto diverso da quello oggetto di fatturazione, era stata correttamente inquadrata dal giudice di merito nell'alveo contrattuale, con conseguente applicazione, quanto alla prescrizione del diritto, dell'art. 2951 c.c.).

Cass. civ. n. 10815/2013

In tema di indebito oggettivo, la buona fede dell'"accipiens" al momento del pagamento è presunta per principio generale, sicché grava sul "solvens" che faccia richiesta di ripetizione dell'indebito, al fine del riconoscimento degli interessi con decorrenza dal giorno del pagamento stesso e non dalla data della domanda, l'onere di dimostrare la malafede dell'"accipiens" all'atto della ricezione della somma non dovuta. (Nel caso di specie, la buona fede dell'"accipiens" è stata esclusa in base al rilievo che la somma erogatagli a titolo di indennità di fine servizio, in forza di provvedimento di destituzione dall'impiego, era stata dallo stesso percepita dopo la sospensione cautelare di tale provvedimento da parte del giudice amministrativo e, dunque, nella consapevolezza del venir meno del presupposto - la cessazione dal servizio - necessario per la liquidazione di quanto percepito).

Cass. civ. n. 7501/2012

Chi allega di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte, e proponga nei confronti dell'"accipiens" l'azione di indebito oggettivo per la somma pagata in eccedenza, ha l'onere di provare l'inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta.

Cass. civ. n. 15669/2011

L'accertata nullità del negozio giuridico, in esecuzione del quale sia stato eseguito un pagamento, dà luogo ad un'azione di ripetizione di indebito oggettivo, volta ad ottenere la condanna alla restituzione della prestazione eseguita in adempimento del negozio nullo, il cui termine di prescrizione inizia a decorrere non già dalla data del passaggio in giudicato della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella del pagamento stesso.

Cass. civ. n. 7586/2011

In tema di ripetizione d'indebito oggettivo, l'espressione "domanda" di cui all'art. 2033 c.c. non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale ma ha valore di atto di costituzione in mora, che, ai sensi dell'art. 1219 c.c., può anche essere stragiudiziale, dovendosi considerare l"'accipiens" (in buona fede) quale debitore e non come possessore, con conseguente applicazione dei principi generali in materia di obbligazioni e non di quelli relativi alla tutela del possesso di buona fede ex art. 1148 c.c.. Ne consegue che, in caso di obbligazioni periodiche, ove si deduca con la richiesta extragiudiziale di restituzione delle somme indebitamente corrisposte anche la corretta interpretazione del titolo costitutivo dell'obbligazione, contestando l'unica "causa solvendi" a cui tutti i pagamenti si riferiscono, gli interessi, nonché l'ulteriore risarcimento ex art. 1224, secondo comma, c.c., decorrono dalla data dell'istanza stessa quanto agli importi già versati, mentre, quanto ai ratei non ancora scaduti, spettano dal giorno di scadenza di ciascuna rata, senza necessità di una ulteriore specifica richiesta di rimborso, che resta utile per ottenere la condanna alla restituzione delle somme successivamente versate (se non compresa nell'originaria istanza) ma non è necessaria per la decorrenza degli accessori legali. (Fattispecie relativa a indebito previdenziale in ordine alla domanda di restituzione delle differenze dei contributi mensili per assegni familiari versati ai soci lavoratori di una cooperativa).

Cass. civ. n. 1734/2011

Proposta domanda di ripetizione di indebito, l'attore ha l'onere di provare l'inesistenza di una giusta causa delle attribuzioni patrimoniali compiute in favore del convenuto, ma solo con riferimento ai rapporti specifici tra essi intercorsi e dedotti in giudizio, costituendo una prova diabolica esigere dall'attore la dimostrazione dell'inesistenza di ogni e qualsivoglia causa di dazione tra "solvens" e "accipiens".

Cass. civ. n. 198/2011

In tema di indebito previdenziale, il pensionato, ove chieda, quale attore, l'accertamento negativo della sussistenza del suo obbligo di restituire quanto percepito, ha l'onere di provare i fatti costitutivi del diritto alla prestazione già ricevuta, la cui esistenza consente di qualificare come adempimento quanto corrispostogli dall'Istituto convenuto, ferma, peraltro, la necessità che quest'ultimo, nel provvedimento amministrativo di recupero del credito, non si sia limitato a contestare genericamente l'indebito ma abbia precisato gli estremi del pagamento, corredati dall'indicazione, sia pure sintetica, delle ragioni che non legittimerebbero la corresponsione delle somme erogate, così da consentire al debitore di effettuare i necessari controlli sulla correttezza della pretesa, il cui accertamento ha carattere doveroso per il giudice, rispondendo a imprescindibili esigenze di garanzia del destinatario dell'atto di soppressione o riduzione del trattamento pensionistico in godimento. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha rilevato che correttamente la corte territoriale aveva ritenuto incomprensibili le ragioni della pretesa restitutoria, non emergendo dalla richiesta dell'INPS indicazioni adeguate a porre in grado la pensionata di verificare se si trattasse di un trattamento attribuito "sine titulo" ovvero di una erogazione conseguente ad un calcolo errato dell'ente).

Cass. civ. n. 24418/2010

L'azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Infatti, nell'anzidetta, ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell'esecuzione di una prestazione da parte del "solvens" con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell'"accipiens".

Cass. civ. n. 22872/2010

In tema di ripetizione di indebito oggettivo, la prova dell'inesistenza della "causa debendi" (nella specie, relativa al pagamento al lavoratore di compensi non pattuiti) incombe sulla parte che propone la domanda, trattandosi di elemento costitutivo della stessa ancorché abbia ad oggetto fatti negativi, dei quali può essere data prova mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario o anche mediante presunzioni da cui desumersi il fatto negativo. Ove, peraltro, la domanda sia stata proposta solo in via riconvenzionale di fronte alla richiesta del lavoratore diretta ad ottenere l'adeguamento annuale dell'assegno "ad personam", asseritamente stipulato con il datore di lavoro, incombe sul lavoratore provare il fatto costitutivo del credito azionato (l'esistenza di detto accordo), senza necessità di provare l'indebito pagamento, dovendosi ritenere la relativa prova già acquisita al giudizio.

Cass. civ. n. 18483/2010

Colui che agisce per la ripetizione di un indebito allega la dazione senza causa della somma di denaro non come adempimento di un negozio giuridico ma come spostamento patrimoniale privo di causa e può, conseguentemente, assolvere l'onere della prova di questo fatto al di fuori dei limiti probatori previsti per i contratti, atteso che detti limiti sono applicabili solo al pagamento dedotto come manifestazione di volontà contrattuale e non a quello prospettato come fatto materiale estraneo alla esecuzione di uno specifico rapporto giuridico; ne consegue che la prova dell'indebito può essere fornita anche per testimoni, indipendentemente dai limiti di cui all'art. 2721 c.c..

Cass. civ. n. 9052/2010

In tema di ripetizione di indebito oggettivo, la ripetibilità è condizionata dal contenuto della prestazione e dalla possibilità concreta di ripetizione, secondo le regole degli artt. 2033 e ss. c.c., operando altrimenti, ove ne sussistano i presupposti, in mancanza di altra azione, l'azione generale di arricchimento prevista dall'art. 2041 c.c..

Cass. civ. n. 8564/2009

Nell'ipotesi di nullità di un contratto, la disciplina degli eventuali obblighi restitutori è mutuata da quella dell'indebito oggettivo, con la conseguenza che qualora l" 'accipiens sia in mala fede nel momento in cui percepisce la somma da restituire è tenuto al pagamento degli interessi dal giorno in cui l'ha ricevuta. (Nella specie, relativa a un mutuo di scopo legale per la costruzione di un complesso edilizio non realizzato, la S.C. ha ritenuto superata la presunzione di buona fede del mutuatario, avendo riconosciuto la nullità del contratto, per mancanza originaria della causa, sulla base dell'esistenza di un patto di compensazione tra un debito preesistente nei confronti del mutuante e le somme mutuate, con la parziale utilizzazione di queste ultime per estinguere i debiti precedenti, cosa da risultare evidente la consapevolezza del mutuatario, che aveva prestato il consenso all'effettuazione delle trattenute).

Cass. civ. n. 5624/2009

L'art.2033 cod. civ., pur essendo formulato con riferimento all'ipotesi del pagamento "ab origine" indebito, è applicabile per analogia anche alle ipotesi di indebito oggettivo sopravvenuto per essere venuta meno, in dipendenza di qualsiasi ragione, in un momento successivo al pagamento, la "causa debendi". (Fattispecie relativa alla ripetizione di somma conseguente ad accordo amichevole sull'indennità di espropriazione, a seguito della revoca sopravvenuta della dichiarazione di pubblica utilità comportante l'inefficacia dell'accordo medesimo, con relativo computo degli interessi compensativi dal momento della domanda giudiziale, essendo rimasta esclusa la malafede del soggetto espropriando).

Cass. civ. n. 16612/2008

In tema di azione di ripetizione, l'indebito oggettivo opera non solo quando l'originaria causa di pagamento sia venuta meno, ma anche quando essa manchi fin dall'origine; ai sensi degli artt. 2033 e 2935 c.c., la prescrizione del diritto di restituzione dell'indebito oggettivo decorre dal giorno del pagamento e può dal titolare essere interrotta secondo la disciplina generale di cui all'art. 2943 c.c. anche mediante atti diversi dalla domanda giudiziale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato la domanda restitutoria proposta dal consumatore nei confronti del fornitore di gas metano in relazione a quanto versato in più per la maggiorazione del prezzo determinata, per effetto del diritto del fornitore di traslazione di imposta, per oneri fiscali non dovuti e che aveva, altresì, conseguentemente applicato a tale domanda la prescrizione ordinaria decennale).

Cass. civ. n. 27334/2005

In caso di mancanza di una causa adquirendi, sia in caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, che in caso di qualsiasi altra causa la quale faccia venir meno il vincolo originariamente esistente, fazione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo. (Nella specie la S.C., esclusa la configurabilità di un contratto di mutuo, e ravvisando ricorrere un contratto di società o associativo, in difetto della proposizione di un actio indebiti ha escluso l'esistenza dell'interesse a ricorrere in riferimento al motivo di censura avente ad oggetto esclusivamente la nullità del contratto per difetto di forma).

Cass. civ. n. 21647/2005

L'azione di indebito oggettivo è esperibile non solo in caso di totale nullità di un contratto, con riferimento alle prestazioni eseguite in base ad esso, ma anche in caso di nullità parziale, in relazione a singole clausole in base alle quali siano state effettuate specifiche prestazioni e, eventualmente, controprestazioni a queste funzionalmente collegate. La ripetibilità, tuttavia, è condizionata dal contenuto della prestazione e dalla possibilità concreta di ripetizione, secondo le regole degli artt. 2033 e ss. c.c., operando altrimenti, ove ne sussistano i presupposti, in mancanza di altra azione, l'azione generale di arricchimento prevista dall'art. 2041 c.c. (Nella fattispecie la S.C. ha ritenuto, in presenza di nullità parziale, esperibili sia l'azione di indebito oggettivo da parte dall'autore della prestazione di pagamento del corrispettivo di una prestazione di fare, sia l'azione di arricchimento nei confronti del destinatario di quest'ultima prestazione).

Cass. civ. n. 21096/2005

Sussiste indebito oggettivo tutte le volte in cui manchi la causa della prestazione e l'accipiens non abbia titolo per riceverla: tanto accade nei casi di nullità del contratto, ove l'azione de qua diventa esperibile per la restituzione delle prestazioni rese in base ad esso, ma anche nei casi di nullità di specifiche clausole contrattuali e per la restituzione delle corrispondenti prestazioni e controprestazioni da tali clausole originate.

Cass. civ. n. 7651/2005

Qualora con sentenza sia dichiarata la nullità del titolo sulla base del quale è stato effettuato un pagamento, la domanda di restituzione dà luogo a un azione di ripetizione di indebito oggettivo il cui termine di prescrizione inizia a decorrere non dalla data della decisione ma da quella del pagamento effettuato al momento della stipula del contratto dichiarato nullo, atteso che la pronuncia di nullità del negozio, essendo di mero accertamento, ha efficacia retroattiva con caducazione fin dall'origine dell'atto e della modifica della situazione giuridica preesistente, e ciò non diversamente da quanto accade nell'ipotesi di ripetizione del pagamento effettuato in base a norma successivamente dichiarata incostituzionale.

Cass. civ. n. 4745/2005

Nell'ipotesi d'azione di ripetizione d'indebito oggettivo, ex art. 2033 .c.c., il debito dell'accipiens; a meno che egli, non sia in mala fede, produce interessi solo a seguito della proposizione di un'apposita domanda giudiziale, non essendo sufficiente un 'qualsiasi atto di costituzione in mora del debitore, atteso che all'indebito si applica la tutela prevista per il possessore in buona fede — in senso soggettivo — dall'art. 1148 c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto dalla domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda.

Cass. civ. n. 13829/2004

La ripetizione d'indebito oggettivo, di cui all'art. 2033 c.c., rappresenta un'azione restitutoria, non risarcitoria, a carattere personale, che riflette l'obbligazione insorta tra il solvens ed il destinatario del pagamento privo di causa acquirendi sia che questi lo abbia incassato personalmente sia che l'incasso sia avvenuto a mezzo di rappresentante. (Nella specie, relativa a versamento di somme — in sottoscrizione di polizza assicurativa — all'agente generale della compagnia, la S.C. in applicazione del principio di cui sopra ha ritenuto irrilevante la mancanza della prova che le somme versate al rappresentante fossero effettivamente pervenute alla società rappresentata).

Cass. civ. n. 8587/2004

In materia di indebito oggettivo, ai fini della decorrenza degli interessi ai sensi dell'art. 2033 c.c. e della rilevanza dell'eventuale maggior danno di cui all'art. 1224, secondo comma, c.c., rileva una nozione di buona fede in senso soggettivo, coincidente con l'ignoranza dell'effettiva situazione giuridica in conseguenza di un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave, non essendo applicabile la disposizione dettata dall'art. 1147, secondo comma, in riferimento alla buona fede nel possesso. Pertanto, anche il dubbio particolarmente qualificato circa l'effettiva fondatezza delle proprie pretese è compatibile con la buona fede ai fini in esame. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di secondo grado nella parte in cui aveva escluso che l'Inps fosse tenuto alla restituzione degli interessi sugli importi restituiti per contributi indebitamente versati con decorrenza dalla domanda amministrativa del datore di lavoro di un diverso inquadramento per i dipendenti inseriti nel ramo tecnico — domanda accolta dall'Inps a seguito della verifica della conformità dell'attività della impresa a quella descritta nella domanda medesima, — ritenendo detta richiesta inidonea a comprovare la conoscenza della situazione da parte dell'Istituto, e, quindi, la malafede dello stesso in relazione ai pagamenti effettuati in epoca successiva alla domanda e fino al momento dell'apertura, da parte dell'Istituto, della posizione assicurativa richiesta).

Cass. civ. n. 1581/2004

Nell'ipotesi di azione di ripetizione di indebito oggettivo, ex art. 2033 c.c., in parziale deroga rispetto a quanto previsto sia dall'art. 1282 che all'art: 1224 c.c., il debito dell'accipiens, pur avendo ad oggetto una somma di denaro liquida ed esigibile, non produce interessi a partire dal momento del pagamento, a meno che l'accipiens non sia in mala fede, e non è sufficiente un qualsiasi atto di costituzione in mora del debitore, ma è necessario a questo scopo la proposizione di un'apposita domanda giudiziale.

Cass. civ. n. 12038/2000

L'accertamento con sentenza della nullità del titolo sulla base del quale è stato effettuato un pagamento dà luogo ad un'azione di ripetizione di indebito oggettivo, il cui termine di prescrizione inizia a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza medesima; infatti, prima di tale momento permane l'esistenza del titolo che aveva dato luogo al versamento della somma ed è esclusa la possibilità legale dell'esercizio del diritto.

Cass. civ. n. 9604/2000

In tema di ripetizione d'indebito, deve ritenersi operante il normale principio dell'onere della prova gravante sul creditore istante, il quale è, pertanto, tenuto a dimostrare sia l'avvenuto pagamento, sia la mancanza di una causa che lo giustifichi, ovvero il successivo venir meno di questa. In particolare, l'attore in ripetizione che assuma di aver pagato un importo superiore al proprio debito è tenuto a dimostrare il fatto costitutivo del suo diritto alla ripetizione, e cioè l'eccedenza di pagamento (fattispecie in tema di richiesta, da
parte di una società, di rimborso all'amministrazione finanziaria, ex artt. 41, D.P.R. n. 602/1973, 6 ed 8, D.P.R. n. 787/1980, di somme illegittimamente corrisposte in eccedenza a titolo di Irpeg ed Ilor).

Cass. civ. n. 1089/2000

È ravvisabile un indebito oggettivo nei pagamenti dovuti al momento della solutio, ma rimasti successivamente privi di causa per un fatto sopravvenuto. Una siffatta soluzione si verifica con riferimento ad un rapporto contrattuale a formazione progressiva, allorché la stessa obbligazione sia oggetto di molteplici, successivi accordi, l'ultimo dei quali, stabilendo definitivamente il quantum della obbligazione stessa, individua il carattere indebito dei pagamenti già effettuati, eccedenti la relativa somma. Ne consegue che i pregressi pagamenti effettuati dagli assegnatari di alloggi realizzati da società cooperativa edilizia, eccedenti i prezzi definitivamente fissati nei rispettivi rogiti di assegnazione, sono ripetibili dagli stessi.

Cass. civ. n. 13353/1999

In tema di indebito oggettivo il diritto del creditore agli interessi di cui all'art. .2033 c.c. non esclude il risarcimento del maggior danno ex art. 1224, comma secondo, C.C. a prescindere dalla buona o mala fede dell'accipiens che, ai fini dell'art. 2033 c.c., rileva solo in ordine alla decorrenza di interessi e frutti ma non ai fini della loro sussistenza. (Fattispecie in materia di sgravi contributivi).

Cass. civ. n. 4760/1998

Il pagamento di un debito oggettivamente esistente, ma a persona diversa dal creditore (cosiddetto indebito ex latere accipientis), dà luogo ad una specie di indebito da assimilarsi a quella di cosiddetto «indebito oggettivo», con la conseguenza per cui si rendono, anche in un tal caso applicabili le regole di cui all'art. 2033 c.c.

Cass. civ. n. 11973/1995

Il pagamento effettuato in base a contratto nullo per contrarietà a norme imperative configura un'ipotesi di indebito oggettivo cui consegue per il disposto dell'art. 2033 c.c. (diversamente dalla nullità per contrarietà al buon costume) la ripetibilità di quanto sia stato pagato.

Cass. civ. n. 2814/1995

Il pagamento di un debito altrui, eseguito dal solvens volontariamente, ma non spontaneamente, a causa del comportamento illegittimo dal creditore (nella specie, che pretendeva di coinvolgerlo in una procedura fallimentare obiettivamente ingiusta), non è riconducibile allo schema dell'indebito soggettivo in difetto del pagamento dell'errore del solvens, ma rientra nella disciplina generale dell'art. 2033 c.c. — trattandosi di pagamento pur sempre privo di causa debendi e non eseguito con la volontà di estinguere l'altrui debito — sicché dà diritto alla ripetizione del pagamento.

Cass. civ. n. 11177/1994

In tema di ripetizione dell'indebito oggettivo, la mora dell'accipiens, in quanto debitore di un'obbligazione pecuniaria, comporta anche l'applicabilità dell'art. 1224 c.c. Spetta perciò al solvens, oltre agli interessi legali sulla somma dovutagli in restituzione, anche l'ulteriore risarcimento correlato e conseguente alla svalutazione monetaria (art. cit. comma 2) che, quale fatto notorio, non necessita di una prova specifica, incidendo sul patrimonio del creditore in misura corrispondente al tasso di inflazione desumibile degli indici Istat sul costo della vita, salva la prova, a carico del creditore stesso o del debitore, di un danno maggiore ovvero – rispettivamente – di un danno minore o dell'inesistenza di alcun danno.

Cass. civ. n. 9018/1993

Colui che, avendo pagato per evitare l'esecuzione forzata minacciata in base ad un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo successivamente revocato con sentenza pronunciata in seguito a giudizio di opposizione, chiede la restituzione della somma, propone azione di ripetizione dell'indebito oggettivo (ai sensi dell'art. 2033 c.c.) e non di ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.) e può, quindi, pretendere con la restituzione della somma ed i relativi interessi il risarcimento del maggior danno, ai sensi dell'art. 1224 c.c., solo se l'accipiens è in mora.

Cass. civ. n. 11969/1992

La natura degli interessi dovuti in sede di ripetizione di indebito di una somma di denaro non esclude l'applicabilità dell'art. 1224 c.c., ancorché ad essi deve attribuirsi natura corrispettiva, atteso che la messa in mora dell'accipiens, in quanto debitore di una obbligazione pecuniaria, comporta l'applicabilità anche dell'art. 1224 in tema di liquidazione dei relativi danni, con la conseguenza, però, che essendo l'art. 2033 norma parzialmente derogatoria rispetto sia all'art. 1282 che all'art. 1224, il debito dell'accipiens, pur avendo ad oggetto una somma di danaro liquida ed esigibile, produce interessi solo a partire dalla domanda giudiziale e non dal pagamento — salvo che questi non versi in mala fede — e che non è sufficiente alla produzione di interessi ed alla risarcibilità del danno un qualsiasi atto di costituzione in mora del debitore, ma è necessaria la specifica proposizione della domanda giudiziale.

Cass. civ. n. 6702/1991

Nel caso di azione di ripetizione d'indebito ex art. 2033 c.c. spetta al creditore oltre agli interessi legali sulla somma riconosciuta come dovutagli anche l'ulteriore risarcimento ex art. 1224 comma secondo c.c. conseguente a svalutazione monetaria ove risulti provato anche con presunzioni il pregiudizio patrimoniale dal medesimo subito, con la precisazione che in tal caso sia gli interessi legali sia il danno ulteriore decorrono dalla data della proposizione della domanda giudiziale e non già dalla mera richiesta dell'indebito, a meno che il creditore non provi la malafede del debitore.

Cass. civ. n. 3020/1987

La restituzione di somme indebitamente corrisposte costituisce una obbligazione pecuniaria nascente dalla legge e, pertanto, in ordine ad essa è applicabile la disciplina dettata per le obbligazioni in generale, compresa la norma del secondo comma dell'art. 1224 c.c., concernente il risarcimento del maggior danno subito a seguito dell'inadempimento, ovvero della mancata tempestiva restituzione, ove ricorrano gli estremi richiesti da tale norma e, in particolare, la colpa del debitore.

Cass. civ. n. 1690/1984

La proponibilità dell'azione di ripetizione d'indebito oggettivo non è esclusa dall'avere il solvens effettuato il pagamento non già nell'erronea consapevolezza dell esistenza dell'obbligazione, ma, al contrario, nella convinzione di non essere debitore, e quindi senza l'animus solvendi nemmeno quando tale convinzione sia stata enunciata in un'espressa riserva formulata in sede di pagamento effettuato al solo scopo di evitare l'applicazione di eventuali sanzioni, giacché l'errore scusabile del solvens è richiesto dalla legge come condizione della ripetibilità esclusivamente con riguardo all'indebito soggettivo ex persona debitoria, solo in quest'ultima ipotesi ricorrendo l'esigenza di tutelare l'affidamento dell'accipiens, il quale riceve ciò che gli spetta sia pure da persona diversa dal vero debitore, mentre nel primo caso (cui va assimilato l'indebito soggettivo ex persona creditoris) non vi è alcun affidamento da tutelare, in quanto l'accipiens non ha alcun diritto di conseguire, né dal solvens, né da altri, la prestazione ricevuta.

Cass. civ. n. 6245/1981

Qualora venga acclarata la mancanza di una causa acquirendi — tanto nel caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno un vincolo originariamente esistente — l'azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo, ancorché la prestazione si sia concretizzata in un facere, se questo è ragguagliato dalle parti ad una determinata somma di danaro. Non è, pertanto, nella suddetta situazione, esperibile l'azione di arricchimento senza causa, che ha carattere sussidiario e non può essere utilizzata allorché dall'ordinamento sia apprestata altra specifica azione.

Cass. civ. n. 469/1975

La disciplina delle obbligazioni derivanti, a carico delle parti, dalla declaratoria di nullità di un negozio dalle stesse stipulato va desunta, quanto alle reciproche restituzioni, dai principi propri della ripetizione dell'indebito oggettivo. Secondo tale disciplina è sufficiente, a legittimare la ripetizione di quanto rispettivamente prestato da ciascuna parte in esecuzione del rapporto poi dichiarato nullo, il requisito dell'avvenuta esecuzione del «pagamento» e quello della nullità del titolo (contratto) in virtù del quale tale esecuzione ha avuto luogo. Non si richiede anche — né costituisce, correlativamente, impedimento a tali restituzioni — la circostanza della sussistenza di un «arricchimento» nel patrimonio dell'accipiens e di una corrispondente diminuzione di quello del solvens, elementi caratteristici della diversa azione di arricchimento senza causa.

Cass. civ. n. 2784/1970

La dichiarazione di invalidità di un contratto che abbia avuto esecuzione, legittima l'azione di ripetizione d'indebito quando si chieda la restituzione della prestazione obiettivamente non dovuta, e non già quando si chieda il corrispettivo del lucro conseguito dalla controparte. L'invalidità del negozio legittima, infatti, l'azione di arricchimento senza causa per le prestazioni che si siano rivolte a vantaggio di un contraente con danno patrimoniale dell'altro.

Notizie giuridiche correlate all'articolo

Modelli di documenti correlati all'articolo

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.

SEI UN AVVOCATO?
AFFIDA A NOI LE TUE RICERCHE!

Sei un professionista e necessiti di una ricerca giuridica su questo articolo? Un cliente ti ha chiesto un parere su questo argomento o devi redigere un atto riguardante la materia?
Inviaci la tua richiesta e ottieni in tempi brevissimi quanto ti serve per lo svolgimento della tua attività professionale!

Consulenze legali
relative all'articolo 2033 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

G. B. chiede
sabato 07/12/2024
“Il 01.08.2003 ho ricevuto da mio nonno, poi deceduto il 31.01.2017 una somma in assegni, non modica senza atto notarile.
A tutt'oggi gli eredi in causa per eredità non ne hanno richiesto la restituzione né né hanno fatto cenno negli atti di causa.Preciso che tutti sono stati legittimati.
Fino a quando possono richiederli la restituzione o fino a quando avrebbero potuto.”
Consulenza legale i 12/12/2024
L’art. 782 del c.c. dispone che per le donazioni dirette, anche quelle aventi ad oggetto una somma di denaro, occorre il rispetto della forma dell’atto pubblico (forma richiesta ad substantiam), oltre alla presenza di due testimoni.
La ratio di tale formalismo va individuata nell’esigenza avvertita dal legislatore di attirare l’attenzione da parte di chi sta donando sull’importanza di tale gesto, consentendo anche una verifica imparziale, da parte del notaio e dei testimoni, sull’effettiva volontà del donante.
Tale principio non trova applicazione nel caso in cui oggetto di donazione sia una somma di denaro di modico valore, nel qual caso il contratto si perfeziona semplicemente con la c.d. datio, ovvero con la sola consegna della somma (così art. 783 del c.c.).

Il mancato rispetto del formalismo richiesto dalla legge determina la nullità della donazione, con conseguente obbligo in capo al beneficiario di restituire quanto ricevuto ex art. 2033 c.c.
Ciò vale anche se il trasferimento di denaro dovesse essere realizzato a mezzo di bonifico bancario, in quanto si tratta pur sempre di una donazione diretta di denaro (così Cass. 18725 del 27.07.2017).

Ora, è proprio con riferimento al citato art. 2033 c.c. che può rispondersi alla domanda posta.
Tale norma, infatti, disciplina il c.d. indebito oggettivo, dovendosi qualificare come tale il pagamento eseguito sulla base di un contratto nullo, il quale dà appunto luogo ad un’azione di ripetizione dell’indebito, finalizzata ad ottenere la condanna alla restituzione della somma versata ed il cui termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data del pagamento stesso.
In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. III civ., con sentenza n. 10250 del 12.05.2014, in contrapposizione ad altra tesi secondo cui il termine di prescrizione dovrebbe farsi decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza che dichiara la nullità del contratto, poiché solo da tale momento può considerarsi sorto il diritto di ripetere ex art. 2033 c.c.

Per quanto concerne il termine di prescrizione di tale azione, è pacifico il principio secondo cui vale l’ordinaria prescrizione decennale sancita dall’art. 2946 del c.c. (decorrente, come si è detto prima, dal momento dell’avvenuto pagamento), principio espresso in diverse occasioni dalla stessa giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, sent. n. 28436 del 05.11.2019).
Pertanto, poiché nel caso di specie il pagamento risale alla data dell’1 agosto 2003, risulta ormai abbondantemente decorso il termine decennale per agire in giudizio onde ottenere la restituzione della somma versata a titolo meramente liberale dal nonno al nipote.


F. T. chiede
giovedì 29/06/2023
“Buonasera, vi chiedo di esprimere un parere legale in merito alla questione di seguito brevemente esposta.
Sono stato assunto come docente, in qualità di vincitore di concorso in data 30.08.2001, senza avere alcun servizio pre-ruolo alle dipendenze della pubblica amministrazione. Ho assunto quindi servizio presso la sede assegnata e sono stato confermato in ruolo in data 01.09.2002. Successivamente ho prestato servizio ininterrottamente presso la suddetta scuola fino ad oggi. In data 27.05.2023 ho ricevuto dal servizio di segreteria, un decreto di ricostruzione di carriera eseguito d’ufficio, dopo oltre 20 anni dalla conferma in ruolo. Sulla base del suddetto decreto, emerge un mancato allineamento tra gli scatti di anzianità attribuiti dal sistema automatico di pagamento ministeriale e l’anzianità derivante dal decreto di ricostruzione di carriera.
Nello specifico, sulla base della ricostruzione di carriera elaborata dalla scuola, si evidenzia che nel corso della mia vita lavorativa, mi sono stati erroneamente attribuiti dal sistema di pagamento ministeriale i vari scatti di anzianità retributiva con un anno di anticipo, come di seguito dettagliato:
-passaggio in fascia retributiva 3 attribuito in data 01.09.2003 anziché in data 01.09.2004
-passaggio in fascia retributiva 9 attribuito in data 01.09.2009 anziché in data 01.09.2010
-passaggio in fascia retributiva 15 attribuito in data 01.09.2016 anziché in data 01.09.2017
-passaggio in fascia retributiva 21 attribuito in data 01.09.2022 anziché in data 01.09.2023

Il pagamento in misura anticipata di somme maggiori rispetto al dovuto per quattro annualità (relative rispettivamente agli scatti in fascia retributiva 3,9,15,21) è dipeso da un errore della stessa Amministrazione, errore non riconoscibile allo scrivente, che ignorava del tutto l’anomalia.

Dal provvedimento di ricostruzione scaturirà verosimilmente un mio debito nei confronti dell’amministrazione.

Nello specifico, vi domando:
- se è legittimo per l’amministrazione procedere al recupero integrale delle somme a debito;
- se il recupero da parte dell’amministrazione di somme erogate in eccedenza ai propri dipendenti va assunto nella fattispecie della ripetizione di indebito oggettivo e sottoposto quindi all’ordinaria prescrizione decennale di cui all’ articolo 2946 c.c.

-da quale termine o da quale evento decorre la prescrizione dell’azione di ripetizione da parte dell’amministrazione (ovvero a vostro parere la prescrizione decorre dal giorno in cui il danno si è verificato oppure dal giorno di notifica del decreto di ricostruzione di carriera?)

Vi ringrazio in anticipo per il vostro autorevolissimo parere.”
Consulenza legale i 04/07/2023
Il recupero di emolumenti indebitamente corrisposti ai dipendenti costituisce per l’amministrazione l’esercizio di un vero e proprio diritto (art. 2033 Cod. Civ.) avente di regola carattere di doverosità e privo di valenza provvedimentale, la cui azionabilità non è impedita né dall’eventuale percezione in buona fede delle somme non dovute né dall’eventuale destinazione delle stesse a bisogni primari della vita.

Si tratta, dunque, di un atto dovuto che non lascia all’Amministrazione alcuna discrezionale; il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate si configura come danno erariale.

La giurisprudenza amministrativa ha affermato la natura doverosa e non rinunciabile dell’azione di ripetizione:
“la percezione di emolumenti non dovuti da parte dei pubblici dipendenti impone all’Amministrazione l’esercizio del diritto-dovere di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 c.c.; il recupero è atto dovuto, privo di valenza provvedimentale e costituisce il risultato di attività amministrativa, di verifica e di controllo [omissis] quindi necessariamente da recuperare e/o da trattenere in caso di accertata loro non debenza, a tutela proprio dell’erario e dell’utenza, in tempi ragionevoli con riguardo alla singola fattispecie".

In tali ipotesi l’interesse pubblico è “in re ipsa” e non richiede specifica motivazione, in quanto, a prescindere dal tempo trascorso, l’atto che ha necessitato la procedura di recupero ha prodotto e produce di per sé un danno per l’Amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo, ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente (cfr. Consiglio di stato, Sez. III, 09/06/2014, n. 2903).

Il solo temperamento al principio dell’ordinaria ripetibilità dell’indebito è rappresentato dalla regola per cui le modalità di recupero devono essere, in relazione alle condizioni di vita del debitore, non eccessivamente onerose. (cfr., fra le altre, Cons. Stato – Sez. VI n. 3950/2009).

A ciò si aggiunga che, nel caso di indebita erogazione di denaro ad un pubblico dipendente anche l’affidamento di quest’ultimo e la stessa buona fede, pur astrattamente sostenibili in linea generale, non sono di ostacolo all’esercizio del potere di recupero e l’Amministrazione non è tenuta a fornire un’ulteriore motivazione sull’elemento soggettivo riconducibile all’interessato (cfr. Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 8).

Anche la Corte dei Conti ha affermato che “in caso di indebita erogazione di denaro al pubblico dipendente, la buona fede di quest’ultimo non preclude la ripetizione degli emolumenti erroneamente corrisposti – attesa la sussistenza in capo all’Ente di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale (Corte dei Conti -Sezione regionale di controllo per il Lazio, deliberazione 15/06/2015, n. 125)

Inoltre, la Corte Costituzionale, con la sentenza 24/05/1996, n. 166, ha evidenziato che “l’art. 2033 cod. civ. per se stesso non è censurabile in riferimento ad alcun parametro costituzionale, essendo improntato al principio di giustizia che vieta l’arricchimento senza causa a detrimento altrui. Nel diritto previdenziale questo principio è mitigato da disposizioni ispirate a criteri di equità e di solidarietà, sicché l’art. 2033 si riduce alla funzione di norma di chiusura, operante nei soli casi non soggetti a discipline speciali”.

Secondo la giurisprudenza, pertanto, le somme indebitamente corrisposte al pubblico dipendente devono essere recuperata in base alle regole dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. perché elargite senza titolo.

Ciò vale ancora di più per la pubblica amministrazione, che amministra interessi non propri, ma della collettività, dovendo perseguire finalità di pubblico interesse ex art. 97, comma 1 della Costituzione.

Si deve, tuttavia considerare, che l’azione di recupero di somme indebitamente corrisposte al pubblico dipendente da parte dell’amministrazione è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. (il cui termine decorre dal giorno in cui le somme sono state materialmente erogate).

In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite che ha affermato che: “la ripetizione dell’indebito oggettivo, essendo azione tesa a ripristinare l’equilibrio tra le posizioni di due contraenti, leso dal mancato rispetto del vincolo sinallagmatico tra le prestazioni, è soggetta al termine di prescrizionale decennale”(Cass. S.U. n. 24418 del 23.11.2010; da ultimo, Cass. sez. lav.,5 novembre 2019, n. 28436)

Si deve, infine, considerare che secondo la giurisprudenza di legittimità in caso di indebito retributivo il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore ha effettivamente percepito in eccesso (somma netta) e non può pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente. Diversamente, si avrebbe un aggravio ingiustificato per il lavoratore medesimo costretto a rifondere più di quanto concretamente percepito (Cass., ordinanza n. 1963 del 23 gennaio 2023; Cassazione, sezione lavoro, sentenze 2 febbraio 2012, n. 1464 e 25 luglio 2018, n. 19735; TAR Toscana, sezione I, sentenza 22 giugno 2017, n. 858; n. 120/2015; Cass. n. 5648, 21 febbraio 2022).

In ordine a somme indebite percepite in buona fede e in mancanza di cause illecite, si è di recente occupata la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cassazione, ordinanza interlocutoria 14.12.2021 n. 40004), a seguito dell’impugnazione di un pubblico dipendente condannato a restituire alla Pubblica Amministrazione una somma percepita indebitamente a causa di un errore dell’amministrazione medesima, accertato che la somma era stata ricevuta in buona fede e tenendo conto del principio di affidamento, ha sollevato la questione alla Corte Costituzionale, in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 1 Prot add. Cedu, dell’art. 2033 nella parte in cui, in caso di indebito retributivo erogato da una PA e di legittimo affidamento del dipendente pubblico, consentirebbe un’ingerenza non proporzionale nel diritto dell’individuo al rispetto dei suoi beni.

La pronuncia della Cassazione si basa sulla previsione dell’art. 1 del Protocollo CEDU ove è enunciato il principio di protezione della proprietà così esplicato: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Infatti, numerose pronunce della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) hanno già affrontato temi identici in cui era parte anche l’Italia accogliendo la tesi della irripetibilità delle somme percepite in buona fede dal lavoratore (ad es., sentenza della Prima Sezione dell’11 febbraio 2021 – Casarin / Italia), affermando che: “La costante attribuzione nel tempo senza riserva di un emolumento, avente carattere retributivo non occasionale, ad un lavoratore in buona fede, operato dalla pubblica amministrazione datrice di lavoro, ingenerante il legittimo affidamento del lavoratore sulla spettanza delle somme, impedisce la ripetizione di tale emolumento (benché indebito ai sensi delle diposizioni nazionali), in quanto tale ripetizione comporterebbe la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione”.

Quindi, viola il principio di proporzionalità previsto dall’art. 1 del Protocollo alla Convenzione la richiesta restitutoria sopraggiunta a considerevole distanza di tempo dalla erogazione delle somme, purché le stesse siano riconducibili all’attività professionale ordinaria del dipendente e non ad una prestazione effettuata una tantum e “isolata”, non vi sia stato un mero errore di calcolo ovvero l’esplicita indicazione della riserva di ripetizione (cfr. Cons. Stato, sentenza n. 5014 del 1 luglio 2021).

Senonché con la sentenza n. 8 del 27 gennaio 2023, la Corte Costituzionale ha evidenziato la legittimità della ripetizione dell’indebito verso il dipendente pubblico quand’anche lo stesso abbia percepito in buona fede e la condotta della PA abbia ingenerato un legittimo affidamento del percettore.

Tutto quanto sopra esposto, nel caso di specie, si può affermare che ai sensi del diritto italiano (art. 2033 c.c.) e della giurisprudenza maggioritaria italiana, è legittimo per l’amministrazione procedere al recupero delle somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente (al netto delle ritenute fiscali).

Vi sarebbe uno spiraglio per evitare la ripetizione invocando le regole di maggiore tutela europee, ma, come visto, sono state più volte disattese dalla giurisprudenza e da ultimo anche dalla stessa Corte Costituzionale.

Ad ogni modo, il dipendente non dovrà restituire tutte le somme percepite illegittimamente in busta paga, ma solo quelle la cui restituzione non è caduta in prescrizione.

Come visto, la prescrizione è decennale e decorre dal momento in cui le somme sono state erogate al lavoratore.

Pertanto, nel caso di specie, dovranno essere restituiti solamente gli importi riferibili ai seguenti passaggi:
-passaggio in fascia retributiva 15 attribuito in data 01.09.2016 anziché in data 01.09.2017
-passaggio in fascia retributiva 21 attribuito in data 01.09.2022 anziché in data 01.09.2023

Patrick C. chiede
martedì 29/09/2020 - Lombardia
“Buonasera,
vi contatto per questa situazione :
lavoravo in una nota multinazionale di consulenza informatica da dicembre 2015 ad aprile 2020. La società attraverso un programma di segnalazione di persone “valide” ha dato dei bonus ai dipendenti che portavano e segnalavano curriculum di persone ritenute valide e successivamente assunte dopo i primi 6 mesi di stage.Dal 2018 la società ha iniziato una campagna per la parità di genere attraverso il quale raggiungere la parità dei sessi entro il 2024/2025. Per far questo hanno riconosciuto alla prima donna “presentata” e assunta un bonus lordo di 4500 euro attraverso una voce “una tantum” in busta paga che poi al netto diventano circa 2200/2400 euro. L’unica condizione nota per non perdere questo bonus è che la persona neo assunta non si deve dimettere prima di un anno.
A ottobre 2019 ho ricevuto questo bonus, successivamente ad Aprile 2020 mi sono dimesso per un cambio di società mentre la persona da me segnalata è tutt’ora dipendente.
Oggi sono stato contattato da una persona delle risorse umane della mia ex società che mi ha comunicato che a seguito di alcuni controlli fatti dalla società si sono resi conto che l’erogazione di questo bonus è avvenuta in modo errato e che hanno erogato 4500 al posto dei 1000 standard a tante persone, dipendenti e non tra cui me.
Quindi mi hanno chiesto la restituzione di 3500 euro e che mi invieranno una lettera da firmare a valle della quale dovrò restituire i 3500 in due rate.
Ora la mia domanda è: trattandosi di un loro errore e che il bonus è in busta paga con voce una tantum e che non sono più dipendente che “potere” legale hanno di far leva su di me per ottenere una somma che hanno scelto loro di darmi?

A disposizione per ulteriori chiarimenti.”
Consulenza legale i 05/10/2020
Nel caso in cui il datore di lavoro eroghi delle somme in eccesso rispetto al dovuto, si configura un indebito retributivo, ossia, la percezione da parte del lavoratore di somme che non gli sono dovute e che sono, dunque, indebite. In questi casi, il datore di lavoro che si avvede dell’errore può recuperare le somme erogate in eccesso.

Tuttavia, secondo la giurisprudenza, è onere del datore di lavoro dimostrare che “… la corresponsione della maggiore retribuzione è frutto di un errore essenziale e riconoscibile dal dipendente stesso ex art. 1431 cod. civ.”. Tale orientamento trova fondamento nella presunta natura negoziale del pagamento, in quanto “ … il pagamento al lavoratore di una retribuzione superiore ai minimi del contratto collettivo, indica la volontà di derogare in meglio (art. 2077, 2° comma c.c.) tacitamente manifestata dal datore ed accettata dal lavoratore, mentre spetta al primo di dedurre e di provare l’invalidità di questa volontà contrattuale” (Cass. n. 818/2007). In altre parole, si finge o si presume che il datore di lavoro abbia realmente “voluto” concedere un trattamento migliorativo, ma che, nel contempo, tale “volontà” sia viziata da un errore, ai sensi dell’art. 1427 e ss. c.c., senza il quale detta volontà non si sarebbe formata. Rimanendo in tale scenario interpretativo, al fine di ripetere quanto pagato, occorre che l’errore commesso dalla Società sia riconoscibile da parte dell’accipiens: riconoscibilità che sussiste quando questi avrebbe potuto o dovuto riconoscere l’errore, secondo uno standard riferibile ad una persona di “normale diligenza” e “in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto e alla qualità dei contraenti” (art. 1431 c.c.). Per esempio: è riconoscibile l’errore da parte dello specialista o manager di una funzione di controllo di gestione, l’errore che ha determinato il riconoscimento di un premio basato su particolari indicatori economici aziendali; non lo è, se l’accipiens non è un tecnico della materia, o se i dati di bilancio sono a loro volta errati.

Fermo restando quanto sopra, in merito alle modalità di recupero dell’indebito retributivo, si applicano le regole generali previste dalla legge per la pignorabilità dello stipendio. Pertanto, il datore di lavoro non è autorizzato a richiedere somme mensili che superino un quinto dello stipendio ossia, il 20% dell’assegno retributivo mensile.

Nella prospettiva del rispetto dei canoni di correttezza e buona fede contrattuale, infatti, si deve considerare che un errore commesso dal datore di lavoro non può risolversi in un forte disagio per il dipendente. Quindi, il datore di lavoro dovrà scegliere delle modalità di recupero delle somme che consentano di ridurre al minimo il disagio per il lavoratore, anche considerando la situazione specifica del lavoratore.

Inoltre, è da sottolineare che nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, il primo versa al secondo la retribuzione al netto delle ritenute fiscali (nonché previdenziali e assistenziali). Ciò si verifica anche quando, come nella specie, siano erogate al lavoratore, per errore, somme maggiori di quelle dovute: anche in tal caso il datore opera, sulle somme erroneamente erogate in eccesso, le ritenute fiscali, a loro volta erronee per eccesso.

Secondo la giurisprudenza, infatti, la ripetizione dell'indebito nei confronti del lavoratore non può non avere ad oggetto, pertanto, che le somme da quest'ultimo "percepite", ossia quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del predetto.
Il datore di lavoro non può, invece, pretendere di ripetere somme al lordo delle ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali), allorché le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (Cass. n. 1464/2012). In tali termini, si è espresso anche il Consiglio di Stato, n. 1164/2009, con riguardo al rapporto tra amministrazione e dipendente.

Nel caso di specie, pertanto, l’ex datore di lavoro potrà richiedere la restituzione degli importi corrisposti in eccesso, ma solo nel caso in cui dimostri che si tratti di un errore essenziale e riconoscibile dall’ex dipendente.
Inoltre, la richiesta di restituzione dovrà avvenire al netto di ritenute fiscali, previdenziali ed assistenziali.
Infine, le modalità di recupero dovranno essere tali da rispettare il limite del quinto dello stipendio per ogni mese.


Vacca I. chiede
domenica 26/01/2020 - Sardegna
“L'amministratore del condominio in cui vivo, durante la esecuzione del restauro della facciata ha eseguito lavori straordinari aggiuntivi non urgenti per circa € 2.600,00 a mio carico mai rendicontati in assemblea, si è dimesso senza rendicontare nemmeno i lavori della facciata la cui delibera è stata annullata dal Tribunale di Cagliari.
Siccome durante la esecuzione dei lavori ho pagato secondo il buon senso del padre di famiglia, con la certezza che l'amministratore avrebbe sottoposto a ratifica i lavori aggiuntivi da lui inseriti nel riparto, la domanda è la seguente: come singolo condomino posso chiedere all'amministratore il rimborso delle cifre pagate per lavori aggiuntivi mai rendicontati?”
Consulenza legale i 29/01/2020
Sulla base delle complessive informazioni avute possiamo dire che la dazione di denaro effettuata dall’autore del quesito è priva di qualsiasi giustificazione causale. Se noi considerassimo tale somma versata in adempimento della delibera condominiale, il suo annullamento da parte del Tribunale fa venir meno la ragione giustificativa di ogni pagamento effettuato in sua esecuzione. A uguale conclusione si giunge se si considera la dazione di euro 2.600,00 effettuata per pagare questi “lavori straordinari aggiuntivi”, che, per quanto ci è dato sapere, neppure erano stati previsti nella delibera poi successivamente annullata!

È importante precisare che come principio generale il nostro codice civile prevede che ogni pagamento effettuato deve essere sorretta da una qualche giustificazione: la mancanza della stessa, legittima, ai sensi dell’art. 2033 del c.c., il soggetto che ha eseguito il pagamento a richiedere la restituzione di quanto versato a chi ha ricevuto tale somma.

Visto che l’autore del quesito ha eseguito i pagamenti con mezzi assolutamente tracciabili, e quindi dimostrabili anche in un’ottica di potenziale contenzioso, egli ha pieno titolo per pretendere la restituzione della somma versata, ma tale pretesa non può essere avanzata nei confronti del precedente amministratore, ma, bensì, nei confronti del condominio, il quale è, appunto, l’effettivo ente che ha ricevuto il pagamento e di cui l’ex amministratore era un semplice rappresentante legale.

Se si vuole evitare di litigare col proprio condominio sarà assolutamente possibile accordarsi con l’attuale amministratore e considerare la somma versata come un anticipo dato al condominio stesso sui futuri oneri condominiali non ancora scaduti o da maturarsi. Si è assolutamente convinti che l’amministratore in carica sarà ben lieto di accettare una simile transazione!


Bernadette L. chiede
martedì 10/04/2018 - Lazio
“Salve,
Ho venduto un appartamento in diritto di superficie nel 2006 a Roma.
Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che sul bene vigeva allora come ora il vincolo del prezzo massimo stabilito dal Comune di Roma, essendo costruito in edilizia agevolata (P.E.E.P.).
Invece all'epoca ho venduto a prezzo di mercato, avallata sia dal notaio che da una lettera della Regione Lazio dichiarante che non vi erano vincoli "di alcuna natura" all'alienazione del bene, anche tenendo conto della convenzione stipulata con il comune di Roma in base alla quale erano stabiliti i vincoli di prezzo massimo.
In pratica, io ero in completa buona fede e il notaio ha interpretato la convenzione come se il prezzo imposto si applicasse solo al primo acquirente della casa (la sottoscritta), non anche ai successivi.
Il mio caso è comune a migliaia di altri a Roma. Il compratore mi ha contattato per verificare lo stato delle cose.
Oggi ho ho letto l'art. 1422 del codice civile sulla prescrizione del diritto di annullare un contratto.
Sono trascorsi 12 anni dal rogito. Quindi vorrei sapere se il compratore può ancora esercitare il diritto di far annullare parzialmente il nostro contratto di compravendita.
La mia ipotesi che il diritto sia prescritto è rafforzata dalle dichiarazioni di un avvocato su una vicenda analoga in cui lo stesso è coinvolto di persona come compratore, il quale avrebbe dichiarato di non poter agire in regresso nei confronti del precedente proprietario perché sono trascorsi più di 10 anni dal rogito.
Vorrei avere conforto sulla mia convinzione che il compratore non può più agire nei miei confronti.
Invio per e-mail gli allegati rilevanti.
Grazie,
Cordiali saluti

Consulenza legale i 19/04/2018
Per risolvere il quesito appare innanzitutto indispensabile un breve excursus in ordine all'annullabilità ed alla nullità del contratto.

L'annullabilità è una forma di invalidità del contratto che, previa pronuncia del giudice, assoggetta il contratto alla sanzione dell'inefficacia.

Essa può essere eccepita solamente dal soggetto interessato all'annullamento e la relativa azione è soggetta al termine prescrizionale di cinque anni dal momento di conclusione del contratto. L'annullabilità è inoltre sanabile (tramite il consenso congiunto di entrambe le parti) e può essere richiesta solamente nei casi previsti dal codice civile, ovvero per incapacità di una delle parti (art. 1425) e per vizi del consenso (artt. 1427 e ss.), e cioè errore, violenza o dolo.

La nullità del contratto presenta, per contro, caratteristiche molto diverse. Innanzitutto il contratto nullo è inefficace (e determina la restituzione dei beni o del denaro oggetto di contrattazione) e la sentenza del giudice in merito ha efficacia meramente dichiarativa, proprio perché, a differenza dell'annullamento, il contratto è da ritenersi privo di effetti ab origine. L'importanza che la legge attribuisce alle cause di nullità fa sì che sullo sfondo vi sia un interesse pubblico acché il contratto non produca alcun effetto, mentre, al contrario, le cause di annullamento derivano da interessi privati del singolo contraente.

Per tali motivi, mentre l'annullabilità è eccepibile solo dalla parte interessata, la nullità può, anzi deve, essere eccepita dal giudice il cui contratto sia sottoposto alla sua attenzione.

Dall'interesse pubblico sotteso alle cause di nullità deriva altresì l'insanabilità del contratto e soprattutto l'imprescrittibilità dell'azione tesa a far valere la nullità.
Le cause di nullità, inoltre, non sono solamente quelle indicate dall'art. 1418, bensì anche quelle qualificate tali da singole disposizioni di legge.

Addentrandosi nel merito del quesito sottoposto ed anticipando quanto si affermerà in seguito, il legislatore accorda ai privati (data l'insanabilità del contratto) un importante strumento al fine di mantenere in vita il contratto nonostante la presenza di cause di nullità, o, meglio detto, di clausole (come quelle di determinazione del prezzo) del contratto nulle.

Tale strumento è la nullità parziale ex art. 1419 comma 2, secondo cui la nullità di singole clausole non determina la nullità dell'intero contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative.

Esempio classico è il contratto di lavoro subordinato che preveda un minimo salariale inferiore a quello del CCNL, nel qual caso non si avrà nullità dell'intero contratto (anche perché, a ben vedere, ci rimetterebbe anche l'incolpevole lavoratore), bensì la mera caducazione della relativa clausola, con sostituzione ex lege del minimo salariale imprescindibile.

Fondamentale e complementare alla ipotesi di nullità parziale, per quanto interessa in questa sede, risulta anche l'art. 1339, il quale stabilisce che le clausole, i prezzi di beni o di servizi, imposti dalla legge sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione della clausole difformi apposte dalle parti.

Orbene, come si evince dalla sentenza allegata n. 18135/2015 emessa dalle Sez. Unite della Corte di Cassazione (la quale, dopo aver statuito che il vincolo del prezzo, in assenza di valida convenzione ad hoc stipulata ai sensi dell'art. 31, comma 49, L. 448/98, segue il bene nei successivi passaggi di proprietà), l'eventuale violazione dei parametri legali sul prezzo di cessione è affetto da nullità ex art. 1418, e viene sostituito ex lege dal vincolo del prezzo massimo, secondo la disciplina suindicata di cui all'art. 1419 comma 2.

La sentenza ha inoltre chiarito che il vincolo del prezzo si applica sia alla cessione di proprietà piena, che alla cessione di superficie (come nel caso in esame).
Ciò premesso, appare dirimente aggiungere che l'imprescrittibilità dell'azione di nullità non comporta l'imprescrittibilità dei diritti derivanti dalla automatica sostituzione di norme imperative alle clausole nulle.

Qualora infatti venga dichiarata la nullità della clausola, la domanda di restituzione della somma eccedente il prezzo massimo dà luogo ad una azione di ripetizione dell'indebito oggettivo, il cui termine di prescrizione (dieci anni ex art. 2946) inizia a decorrere dal momento del pagamento, proprio per via del fatto che la pronuncia di nullità ha efficacia retroattiva, postulando l'inefficacia ab origine del contratto.

Pertanto, rispondendo compiutamente al quesito, l'azione di nullità del contratto non è soggetta a prescrizione ma l'eventuale domanda verrebbe rigettata per mancanza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., dato che, essendo prescritto il diritto alla restituzione, l'attore non potrebbe trarre alcuna utilità dalla dichiarazione di nullità parziale.


Luis C. chiede
venerdì 30/10/2015 - Liguria
“Buona sera, sono un ex dipendente del Ministero della Difesa, attualmente mi trovo in pensione.
Tra gli anni 2000 e 2006 sono stato in servizio all'estero.
Poco tempo fa, ho ricevuto una raccomandata A.R. dal Ministero della Difesa dove mi viene ingiunta la restituzione di una somma di denaro "indebitamente corrisposta" nell'anno 2006 dovuta al pagamento di una indennità di richiamo dal servizio all'estero.
Nel suddetto documento si asserisce che la somma erroneamente a me corrisposta è dovuta ad una non corretta modalità di calcolo.
Per quanto sopra, gradirei sapere se l'ingiunzione in oggetto, pervenuta, tra l'altro, dopo quasi 10 anni dal supposto pagamento delle somme reclamate, sia stata formulata in ottemperanza delle normative in vigore.
Grazie.

p.s. Vorrei precisare inoltre, che non ho alcun documento comprovante l'avvenuto pagamento e che sinceramente non ricordo come, quando e se mi è stata corrisposta la somma.”
Consulenza legale i 05/11/2015
L'indennità di richiamo dal servizio all'estero è un emolumento previsto per il personale dell’Esercito italiano, della Marina militare e dell’Aeronautica militare destinato a prestare servizio presso le rappresentanze diplomatiche italiane all'estero, da corrispondere, insieme ad altre voci, oltre allo stipendio e agli altri assegni a carattere fisso e continuativo previsti per l'interno (art. 1809, lett. c), d.lgs. 66/2010).

Il comma 7 dell'art. 51 del Testo Unico sui Redditi dice che "Le indennità di trasferimento, quelle di prima sistemazione e quelle equipollenti, non concorrono a formare il reddito nella misura del 50 per cento del loro ammontare per un importo complessivo annuo non superiore a euro 1549,37 (3 milioni di lire) per i trasferimenti all'interno del territorio nazionale ed euro 4648,11 (9 milioni di lire) per quelli fuori dal territorio nazionale o a destinazione in quest'ultimo. Se le indennità in questione, con riferimento allo stesso trasferimento, sono corrisposte per più anni, la presente disposizione si applica solo per le indennità corrisposte per il primo anno". La norma è stata introdotta nel 1986 con l'approvazione del T.U.I.R. e da quanto consta, in base ai documenti ufficiali, non è stata mai oggetto di modifica legislativa: per tale ragione, essa risulta applicabile all'indennità conferita nel 2006 a colui che ha posto il quesito in esame.

L'operazione di recupero messa in atto dall'Amministrazione riguarda un errore materiale occorso nell'attribuire l'indennità, dalla quale sono state trattenute le ritenute per fondo pensione e fondo credito per un importo inferiore a quello realmente decurtabile in base alle norme sopra riportate (in altri termini, le ritenute sono state operate sulla base imponibile sbagliata).
Se l'indennità personale lorda percepita nel 2006 fu di 7.358,07 euro, come affermato nella lettera del Ministero, in effetti la base imponibile a fini INPDAD è di 3.679,04 (il 50%), inferiore al limite massimo di 4.648,11.
Risulterebbe, quindi, corretto, recuperare la parte di indennità erroneamente corrisposta, da un punto di vista esclusivamente di calcolo numerico.

Giuridicamente, sembra altrettanto corretto che il recupero possa avvenire entro il termine decennale di prescrizione. Infatti, i crediti derivanti da indebite erogazioni effettuate nell'ambito di un rapporto di lavoro dipendente sono sottoposti alla prescrizione ordinaria decennale ai sensi del combinato disposto degli artt. 2033 e 2946 (Cons. Stato, sez. V, 2.7.2010, n. 4231; sez. VI, 26.6.2013, n. 3503).

In materia di recupero dell'indebito dai propri dipendenti, da parte della P.A., il Consiglio di Stato ha sottolineato che "detto recupero ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell’art. 2033 Cod. civ., di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate, mentre le situazioni di affidamento e di buona fede dei percipienti rileverebbero ai soli fini delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle esigenze di vita del dipendente" (v., Cons. St., Sez. III, 9.6.2014, n. 2903).
Una parte della giurisprudenza amministrativa, però, ritiene che i suddetti principi, "pur apparendo condivisibili in linea astratta", non possono essere applicati in via automatica, generalizzata e indifferenziata a qualsiasi caso concreto di indebita erogazione, da parte della pubblica amministrazione, di somme ai propri dipendenti, perché si deve "aver riguardo alle connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie dedotte in giudizio, tenendo conto della natura degli importi di volta in volta richiesti in restituzione, delle cause dell’errore che aveva portato alla corresponsione delle somme in contestazione, del lasso di tempo trascorso tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, dell’entità delle somme corrisposte in riferimento alle correlative finalità, ecc.". Ad esempio, con sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 27.10.2014, si è stabilito che i buoni-pasto, in quanto sostitutivi della fruizione gratuita del servizio mensa presso la sede di lavoro ed escludenti «ogni forma di monetizzazione indennizzante», non potevano essere chiesti in ripetizione al dipendente pubblico in buona fede, dopo quasi 10 anni dalla loro erogazione, e con la motivazione che solo in quel momento la P.A. si era accorta dell'errore nell'applicazione di una norma (si applicò ai militari la legge sui dipendenti civili).

Nel nostro caso, ci potrebbero essere margine per contrastare la richiesta del Ministero della Difesa, argomentando in modo simile a quello sopra riportato, anche se qui si tratta di ripetere una parte di una mera somma di denaro dovuta a titolo di indennità, quindi un importo che tutto sommato non coinvolge prestazioni di base come quello del servizio mensa. È consigliabile contattare un legale - di cui si abbia totale fiducia in riferimento al profilo di onestà intellettuale - che possa valutare se valga la pena opporsi al recupero della P.A. nel caso di specie, ove l'importo da restituire è piuttosto modesto (circa euro 1.000).

Nicolò R. chiede
sabato 07/03/2015 - Sicilia
“Come è possibile che "l'azione di ripetizione di somme in esecuzione di una sentenza di I° grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, non si inquadra nell'istituto della conditio indebiti (art. 2033 c.c.) del quale differisce per natura e funzione e pertanto, gli interessi legali devono essere riconosciuti dal giorno del pagamento e non da quello della domanda" giusto Cassazione civile sez. lavoro del 05/08/2005 n.16659 in evidente contrasto con Cass. a sez. unite del 25/06/2009 n.14886 secondo cui all'indebito si applica la tutela prevista per il possessore in buona fede - in senso soggettivo - dall'art. 1148 a norma del quale il debitore è obbligato a restituire i frutti sol-tanto dalla domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda.”
Consulenza legale i 12/03/2015
Con sentenza della Corte di Cassazione del 25.6.2009, n. 14886, le Sezioni Unite hanno precisato che il debito dell'accipiens, a meno che egli non sia in mala fede, produce interessi solo a seguito della proposizione di una apposita domanda giudiziale: non è, quindi, sufficiente, un qualsiasi atto di costituzione in mora del debitore, poiché all'indebito si applica la tutela prevista per il possessore in buona fede - in senso soggettivo - dall'art. 1148 del c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti solo dalla domanda giudiziale (per il principio in base al quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della domanda).

La sentenza della Suprema corte, sez. lavoro, n. 16659 del 2005 non si pone in contrasto con la predetta pronuncia a Sezioni Unite.
Difatti, nel 2005 la Cassazione si è pronunciata sulla natura dell'azione di ripetizione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello con sentenza confermata dalla Cassazione, stabilendo che tale domanda non va qualificata come richiesta di indebito ai sensi dell'art. 2033 del c.c.: il diritto alla restituzione sorge solamente in virtù della pronuncia che riforma la sentenza di primo grado, unico titolo che la parte vittoriosa può vantare nei confronti della parte soccombente in appello (ma che aveva vinto in primo grado).
Coerentemente con questo assunto (cioè con la tesi per cui il diritto alla restituzione non costituisce pagamento di indebito), la Cassazione dice quindi che non hanno alcun rilievo in questo caso gli stati soggettivi di buona o mala fede dell'accipiens e di conseguenza gli interessi legali devono essere riconosciuti dal giorno del pagamento e non da quello della domanda.

Va sottolineato che la tesi seguita da Cass. n. 16659/2005 costituisce orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, che è mutato rispetto a quello seguito in periodo più risalente (v. Cass. 23.1.1995, n. 722; Cass. 20.7.1988 n. 4708; Cass. 5.5.1983, n. 3071; che ritenevano invece rilevanti gli stati soggettivi di mala e buona fede per determinare il momento da cui si producevano gli interessi).
Si possono citare in tal senso un paio di pronunce:
- Cass. civ., 6.4.1999 n. 3291: "L'azione di ripetizione di somme pagate in esecuzione della sentenza d'appello successivamente cassata ovvero di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva successivamente riformata in appello non si inquadra dell'istituto della condictio indebiti (art. 2033 c.c.)";
- Cass. civ., sez. VI, ordinanza 27 marzo – 8 maggio 2014, n. 9929: "L'azione di restituzione e riduzione in pristino non è riconducibile allo schema della ripetizione d'indebito, perché si collega ad un'esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza; prescinde dall'esistenza del rapporto sostanziale (ancora oggetto di contesa); né, in particolare, si presta a valutazioni sulla buona o mala fede dell'accipiens, non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti, chi ha eseguito un pagamento non dovuto, per effetto di una sentenza provvisoriamente esecutiva successivamente riformata, ha diritto ad essere indennizzato dell'intera diminuzione patrimoniale subita, ovvero alla restituzione della somma con gli interessi legali a partire dal giorno del pagamento (confr. Cass. civ. 20 ottobre 2011, n. 21699)".

Mario G. chiede
sabato 10/01/2015 - Sicilia
“il mio commercialista mi ha arrecato un danno, non trasmettendo l'unico per diversi anni, dopo gli accertamenti fiscali subiti sto pagando quanto di conseguenza. nel contempo lo stesso per evitare di pagare il mio danno ha fatto fare donazione di beni da una parente deceduta, alla propria moglie e al figlio maggiorenne: siccome ha la separazione dei beni, è possibile applicare l'articolo di cui sopra?”
Consulenza legale i 15/01/2015
Nella vicenda in esame, in base ai dati forniti nel quesito, sembra che il debitore (il commercialista) abbia ricevuto in eredità alcuni beni, che però ha donato alla moglie e al figlio maggiorenne per evitare che siano aggrediti dal creditore (l'ex cliente del commercialista).

Nel caso di specie, lo scopo del creditore è quello di potersi rifare sui beni donati.
Le soluzioni sono diverse, tuttavia la più idonea sembra essere quella di esperire una azione revocatoria.

L'azione revocatoria (detta anche pauliana) è regolata dagli artt. 2901 e ss. del codice civile. Si tratta di un rimedio previsto a favore del creditore contro le alienazioni di beni del debitore fatte allo scopo di sottrarre il suo patrimonio all'esecuzione forzata.

I presupposti dell'azione sono il consilium fraudis (frode da parte del debitore, che compia l'alienazione sapendo di pregiudicare le ragioni del creditore) e l'eventus damni (il pregiudizio che può derivare alle pretese del creditore).
Effetto della revocatoria è la dichiarazione di inefficacia dell'atto di alienazione, che avvantaggia solo il creditore che ha esperito l'azione (cioè, agli occhi del creditore, il bene donato a terzi risulta ancora nel patrimonio del debitore).

Affinché sussistano entrambi i presupposti dell'azione, nel nostro caso è necessario:
- che sussista un diritto di credito verso il debitore: il creditore deve dimostrare di avere un credito, anche se non è richiesto che possieda già un titolo esecutivo (es. un decreto ingiuntivo, una sentenza a suo favore). Non si richiede nemmeno che il credito sia liquido, né che sia esigibile. Sarà il giudice adito ad operare una valutazione sull'esistenza del credito, anche se non è stata proposta una specifica domanda a tal proposito (domanda che però si consiglia di proporre se il creditore non fosse in possesso di altro titolo che attesti il credito);
- che l'atto revocando possa provocare un pregiudizio alle ragioni del creditore (eventus damni): il danno o il pericolo di danno può concernere sia l'entità della garanzia patrimoniale, sia la qualità dei beni che formano oggetto della medesima (es. non può essere revocata la donazione di un immobile se il debitore è titolare di altri dieci; può essere revocata la donazione di denaro anche se il debitore ha un immobile intestato, perché il denaro è più facilmente aggredibile esecutivamente).
- che il debitore abbia donato i beni con l'intenzione di pregiudicare il creditore (consilium fraudis): il debitore deve avere almeno la consapevolezza del carattere pregiudizievole del proprio comportamento, non essendo necessario un vera e propria specifica conoscenza del danno provocato.
Trattandosi di donazione, e quindi di atto a titolo gratuito, non è richiesta nel caso di specie la prova della partecipazione alla frode dei terzi acquirenti (moglie e figlio).

Ai sensi dell'art. 2903 del c.c., l'azione per revocare l'atto compiuto in frode si prescrive con il decorso di cinque anni dal compimento dell'atto stesso. A garanzia della certezza dei rapporti giuridici, è del tutto irrilevante la conoscenza o meno da parte del creditore della data in cui l'atto è stato compiuto: trascorsi 5 anni dall'atto, l'azione revocatoria è preclusa.

Circa il regime patrimoniale di separazione dei beni tra i coniugi, va precisato che i patrimoni di marito e moglie vanno tenuti nettamente distinti: il creditore del solo marito non ha azione diretta nei confronti del patrimonio della moglie non debitrice. Se invece i due fossero stati in comunione dei beni, l'art. 189 del c.c. avrebbe consentito al creditore di soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato.

Ai fini dell'azione revocatoria sopra descritta, è irrilevante che i coniugi abbiano scelto la separazione dei beni: l'azione può essere esperita.

Soluzione alternativa ma forse più complessa a livello probatorio è l'azione di simulazione della donazione: il creditore (ex cliente) del simulato alienante (il commercialista) può far valere la simulazione che lo pregiudica (in questo caso, l'alienazione di un bene che riduce il patrimonio del debitore) utilizzando come prova anche la testimonianza (artt. 1416-1417 c.c.).

Ancora, si può ipotizzare un'azione di nullità della donazione, se si riscontrasse la mancanza di un suo elemento essenziale (es. la forma solenne, cioè l'atto pubblico con testimoni).

M. D. R. chiede
martedì 25/04/2023
“Sono un agente di commercio, attualmente ho in corso un contenzioso legale con un'azienda che ha revocato l incarico, senza alcun preavviso e senza riconoscere alcuna indennità in riferimento alla attività svolta dal dicembre 2020 a marzo 2022.
È già stata presentata istanza al tribunale competente, con udienza fissata per settembre 2023.
Ora è capitato che mi abbiano erroneamente inviato un bonifico , di cui chiedono lo storno alla mia banca.
Posso inviare loro una ricevuta di pagamento quale acconto sulle somme non percepite, in attesa del futuro giudizio , oppure rischio un azione per appropriazione indebita, pur essendomi state finora negate le dovute indennità di mancato preavviso e liquidazione di fine rapporto?”
Consulenza legale i 01/05/2023
Ai sensi dell’art. 2033 c.c. chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda.

Integra l'indebito oggettivo il semplice fatto d'un pagamento eseguito — e correlativamente ricevuto senza causa. Tale pagamento non può essere che dovuto ad errore.

Da tale concetto consegue che ricorre l'indebito oggettivo anche quando il dovere giuridico d'eseguire il pagamento sussista, ma per adempiere una prestazione diversa, nella sua entità reale, da quella per la quale il pagamento è avvenuto. La mancanza, infatti, d'un dovere giuridico ad eseguire la prestazione che, invece, per errore viene eseguita, riconduce anche tale pa­gamento sotto il principio enunciato: quello, cioè, della sua esecuzione come un semplice fatto senza causa.

Nel caso di specie, peraltro, è stata chiesta la restituzione, quindi, dal giorno della domanda il beneficiario che non restituisce l’indebito è da considerarsi in malafede e dovrà restituire anche gli interessi e i frutti dal giorno dell’errato pagamento.

Il beneficiario che non restituisce quanto erroneamente percepito potrebbe avere delle conseguenze penali, subendo l’imputazione per appropriazione indebita, reato previsto e punito dall’art. 646 c.p. (“chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032 “).
Chi ha erroneamente accreditato la somma ha la possibilità, infatti, oltre che dar corso all’azione civile di ripetizione dell’indebito anzidetta, di proporre una querela per tutelare i propri interessi.

Per quanto riguarda la compensazione, è da tenere in considerazione che ai sensi dell’art. 1243 c.c. la compensazione legale opera solamente nel caso in cui i due crediti siano entrambi certi, liquidi ed esigibili.

Secondo la Cassazione, sentenza n. 13208/2010, “la compensazione legale non può operare qualora il credito addotto in compensazione sia contestato nell'esistenza o nell'ammontare, in quanto la contestazione esclude la liquidità del credito medesimo, laddove la legge richiede, affinché la compensazione legale si verifichi, la contestuale presenza dei requisiti della certezza, liquidità ed esigibilità del credito”.

Nel caso di specie l’indennità di mancato preavviso e la liquidazione di fine rapporto sono oggetto di un giudizio che è ancora in corso.
Pertanto, nel caso di specie, non si ritiene possa operare l’istituto della compensazione.

O. D. chiede
martedì 25/10/2022 - Friuli-Venezia
“Sono convivente con altra persona madre di 2 figli provenienti dal precedente matrimonio, di cui uno residente con noi. Dopo oltre 3 anni di convivenza presso la casa di lei e nella mia, abbiamo acquistato un immobile nel 2020, con caparra confirmatoria ed anticipo versati dal sottoscritto. 2 anni dopo, per questioni legate a varie necessità tra cui la considerazione di non avere figli e/o eredi diretti, decido in accordo con la compagna di cedere la mia quota di proprietà ad un prezzo concordato ma simbolico in quanto non comprendente le rate di mutuo fino ad allora versate e altri pagamenti al costruttore "in nero". Arriviamo ad un rogito in cui mi viene versato per la cessione della quota l'importo di 25000€ pari all'anticipo più spese (contro i 39000 DOVUTI). Di comune accordo e come risulta dal rogito mantengo la mia residenza nella stessa casa. Nulla faceva presagire ad un inasprimento dei rapporti. Al culmine di una serie di litigi (non dovuti a tradimenti o abbandono di tetto coniugale ma a diversità di vedute), decidiamo la separazione ma la "ex" compagna vuole che lo faccia entro 20 giorni. Faccio presente che l'80% dei mobili è stato acquistato dal sottoscritto con pagamento tracciabile e che è impossibile trovare un posto in affitto non ammobiliato con così scarso preavviso. Vorrei sapere se esiste un termine legale TASSATIVO entro il quale devo uscire dalla casa della ex e cosa posso pretendere a livello economico riguardo alle quote di mutuo versate e i pagamenti fatti al costruttore. E' mio interesse trovare un accordo stragiudiziale che comporti un termine ragionevole di uscita ed una quota in denaro commisurata ai mobili presenti che sono disposto a lasciare per un contributo in denaro.”
Consulenza legale i 04/11/2022
Con riferimento al primo dei quesiti formulati, la legge non prevede alcun termine entro cui il convivente more uxorio, in conseguenza della fine della relazione di coppia, debba allontanarsi dall’abitazione del, o della, partner.
Tuttavia la Cassazione (Sez. I Civ., 11/09/2015, n. 17971) ha precisato che “la convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare” e che il convivente “in virtù dell'affectio che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto (ex art. 2 Cost.) della relazione di convivenza è comunque detentore qualificato dell'immobile ed esercita il diritto di godimento su di esso in posizione del tutto assimilabile al comodatario, anche quando proprietario esclusivo sia l'altro convivente”.
Ora, se è vero che tale detenzione qualificata dipende comunque dall'esistenza di un programma di vita in comune, ciò non significa che il convivente non proprietario possa essere “buttato fuori di casa” in seguito alla rottura della relazione, ad esempio cambiando la serratura: afferma infatti la giurisprudenza citata che “l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio” (prevista dall'art. 1168 del c.c.).
È dunque ragionevole che venga concesso all’ex partner un congruo termine per reperire altro alloggio, fermo restando che, laddove la presenza nell’immobile si protragga, il convivente proprietario potrà agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile. Naturalmente, la soluzione migliore rimane quella prospettata nel quesito, di un accordo tra le parti inteso a consentire il trasloco dell’ex in tempi ragionevoli.
Quanto al secondo quesito oggetto di consulenza, il rimborso delle spese sostenute durante la convivenza è questione assai frequente e dibattuta.
Ora, la giurisprudenza recente (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 14/07/2021, n. 20062) ha affermato che “la sussistenza della convivenza more uxorio non attribuisce automaticamente alle operazioni aventi contenuto economico-patrimoniale lo status di donazioni o atti di liberalità” (in quanto tali non rimborsabili).
Aggiungiamo che la situazione va valutata caso per caso, avuto riguardo all’entità delle spese sostenute dal convivente, alle sue condizioni economiche, ecc.
Si è fatto anche ricorso, a tal fine, alla figura dell’obbligazione naturale, ex art. 2034 del c.c., ovvero a quella avente ad oggetto una prestazione eseguita spontaneamente in esecuzione di doveri morali o sociali, quali sono appunto i doveri collegati alla convivenza di fatto, quale formazione sociale tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost.
Così, ad esempio, Cass. Civ., Sez. VI - 3, ordinanza 01/07/2021, n. 18721: “nell'ambito di una convivenza di fatto, il pagamento di una somma per la ristrutturazione dell'immobile adibito a casa familiare di proprietà dell'ex convivente, si configura come adempimento di un'obbligazione naturale quando la prestazione è contenuta nei limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali di chi ha effettuato il pagamento. In tal caso dette somme non sono rimborsabili alla cessazione della convivenza”.
Ancora, Cass. Civ., Sez. III, ordinanza 12/06/2020, n. 11303 ha ribadito che “un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" configura l'adempimento di un'obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all'entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens”.
Occorrerà dunque verificare il rispetto di tali parametri anche nel caso oggetto del quesito.
Laddove le spese sostenute dal convivente non rientrino nella “normalità”, sarà possibile esperire nei confronti dell’altro l’azione di arricchimento senza causa, ex art. 2041 del c.c.: “in tema di convivenza more uxorio l'azione di arricchimento senza causa è inammissibile quando le prestazioni rese dai conviventi trovano la loro giustificazione nel rapporto di convivenza, mentre è configurabile un indebito arricchimento, ed è pertanto possibile proporre il relativo rimedio giudiziale, nel caso in cui le prestazioni rese da un convivente e convertite a vantaggio dell'altro esorbitano dai limiti di proporzionalità e adeguatezza” (Cass. Civ., Sez. III, 15/05/2009, n. 11330).
Ancora più esaustiva sul punto Cass. Civ., Sez. III, 22/09/2015, n. 18632, secondo cui “l'azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro, avvenuta senza giusta causa. In particolare, l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell'altro è configurabile in presenza di prestazioni a vantaggio del primo, che esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali della famiglia di fatto, e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. La mancanza o la ingiustizia della causa non è, invece, invocabile qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità, ovvero dell'adempimento di una obbligazione naturale”.

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.