Concetto e contenuto dell’indebito oggettivo
L' indebito oggettivo presuppone la mancanza di un obbligo.
Così si è detto al n. 790 della relazione al codice per precisare il contenuto del principio fondamentale, enunciato nell'art. 2033, in quanto afferma il diritto di ripetere ciò che é stato corrisposto per un pagamento non dovuto.
L'obbligazione, di cui la norma in esame presuppone la mancanza, dev'essere, dunque, intesa in senso strettamente giuridico: essa è, cioè, un’obbligazione di cui nuovo codice non aveva voluto enunciare il concetto
, preferendo precisare il concetto della prestazione nella quale si concretizza l'oggetto dell' obbligazione, e indicandone come caratteristiche la patrimonialità della prestazione e la sua corrispondenza a un interesse anche morale del creditore (n. 557 relaz. al cod. civ. e art. 1174 cod. civ.): di modo che assurga a figura giuridica distinta «
da quegli altri obblighi i quali, per quanto diano luogo ad azione, tuttavia non hanno contenuto patrimoniale diretto o di riflesso », e
« dagli altri che costituiscono la sfera della vita morale e sociale, e da cui non evadono o perché rispondono a bisogni universali meno sentiti o perché il valore e il motivo della loro esistenza consiste nella spontaneità del loro adempimento » (n. 557 relaz. al cod. civ.). Se ne parlerà ancora nel commento all'art. 2034.
Perché il pagamento non sia dovuto non deve sussistere, per alcun titolo, il dovere giuridico di eseguirlo: non dev'essere, cioè, un rapporto di diritto, cui la legge conceda tutela e azione, per ottenere coattivamente l'adempimento di quella prestazione che, invece, venne adempiuta.
In conseguenza integra l'indebito oggettivo il semplice
fatto d'un pagamento eseguito — e correlativamente ricevuto senza causa. Perciò un tale pagamento, come si dirà, non può essere che dovuto ad errore.
Da tale concetto consegue che ricorre l'indebito oggettivo anche quando il dovere giuridico d'eseguire il pagamento sussista, ma per adempiere una prestazione diversa, nella sua entità reale, da quella per la quale il pagamento é avvenuto. La mancanza, infatti, d'un dovere giuridico ad eseguire la prestazione che, invece, per errore viene eseguita, riconduce anche tale pagamento sotto il principio enunciato: quello, cioè, della sua esecuzione come un semplice fatto senza causa.
Lo stesso dicasi per ciò che eccede, nella misura, il pagamento d'un debito: e anche per ciò che è realmente dovuto, ma che può essere negato per una giusta e legittima eccezione.
Così è anche ammessa la ripetizione del pagamento d'un debito prescritto: essa é soltanto esclusa — e il pagamento avvenuto dà luogo soltanto a un'obbligazione naturale (art. 2940 cod. civ.) — quando il debito prescritto sia stato pagato spontaneamente.
Del pari la ripetizione è negata — e perciò non ricorre indebito oggettivo in ipotesi di pagamento fatto o di altra prestazione data nella consapevolezza che potevano essere ricusati perché, a rigore di diritto, non dovuti, mentre furono eseguiti per delicatezza, per motivo d'onore, e simili: tanto meno quando la prestazione venga adempiuta coll'animo di donare.
Neppure può ripetersi ciò che sia stato pagato anticipatamente, anche se il debitore ignorava l'esistenza del termine — salva la possibilità d'esperire l'azione d'arricchimento, nei limiti della perdita subita, per ripetere ciò di cui il creditore si sia arricchito per effetto del pagamento anticipato (articolo 1185).
Presupposto dell’errore del solvente, non dell’accipiente
In base al codice del 1865 si faceva, però, per la ripetizione dell'indebito, questa distinzione.
C'era il già citato art. 1237 prima parte, comprensivo di tutte le ipotesi d'indebito diverse dalla
condictio indebiti e, nella sua generalità, riferibile a tutte le
condictiones del diritto romano (mancanze di causa, sua illiceità, suo successivo venir meno, ecc.), che contemplava il pagamento compiuto senza errore, o, meglio, indipendentemente dall'errore del
solvens: per modo che l'errore era un elemento estraneo al fatto del pagamento e all'azione data per ripeterlo.
C'erano gli art. 1145, 1146 c.c., del pari citati, che disciplinavano la
condictio indebiti propriamente detta, nella doppia ipotesi già ricordata dell
'indebitum ex re e
dell'indebitum ex personis, i quali, invece, presupponevano sempre, come elemento essenziale, l'errore del
solvens: di fatto o di diritto, scusabile o inescusabile.
Il nuovo codice non dice che, per la ripetizione dell'indebito oggettivo, è necessario, in chi paga, il concorso d'un errore. Per la formula dell'art. 2033 basta l'esecuzione d'un pagamento oggettivamente non dovuto.
All'errore, invece, è fatto esplicito riferimento — e, anzi, è richiesto come requisito necessario — nella nozione ch'è data dell'indebito soggettivo. Lo si vedrà commentando l'art. 2036.
Ora è da ritenersi che l'errore debba ricorrere, come elemento dell'indebito oggettivo, anche nella disciplina dell'art. 2033?
È utile ricordare che, vigente il codice del 1865, e superata la prima distinzione, fatta dalla dottrina, che il concorso dell'errore fosse necessario soltanto per
l'indebitum ex personis di cui all'art. 1146 e non anche per
l'indebitum ex re di cui all'art. 1145, s'era tuttavia rilevato che l'efficacia di quel requisito nell'
indebitum ex re incideva in una così ristretta applicazione d'ipotesi da far dubitare veramente della sua essenzialità.
Si osservava, infatti, che il pagamento volontario e consapevole — cioè senza errore d'un debito inesistente escludeva ogni diritto di ripetizione perché si risolveva in una donazione. Ma si aggiungeva che, applicando i principii in materia di donazione, la conseguenza che ne sarebbe derivata era questa: che se il pagamento eseguito configurava una donazione di cose mobili di modico valore (donazione manuale), allora, per la sua validità, anche senza la mancanza dell'atto pubblico, la ripetizione di ciò ch'era stato donato — vale a dire di ciò ch'era stato indebitamente pagato — restava sempre esclusa; se, invece, il pagamento eseguito configurava un'altra ipotesi di donazione, allora l'inosservanza delle forme e dei requisiti richiesti e determinata la nullità dell'atto, non sanabile neanche con l'esecuzione volontaria e rendeva legittima la ripetizione di quanto era stato donato — vale a dire di quanto era stato indebitamente pagato — per mancanza di causa. Così il concorso dell'errore, come presupposto dell'
indebitum ex re influiva in sostanza, e produceva un qualche effetto, giuridicamente apprezzabile, in quanto si fosse trattato di pagamenti di modesta entità riconducibili sotto il concetto delle donazioni manuali.
Ma non sembra che il nuovo codice abbia tenuto conto di questi rilievi per escludere, nell'indebito oggettivo, il requisito dell'errore come presupposto necessario del diritto alla ripetizione del pagamento effettuato.
La relazione della commissione reale al libro delle obbligazioni è esplicita: « Trasportato in questa sede il vecchio art 1237 dalla sede del pagamento in cui si trovava, e raccostata la disposizione sulle obbligazioni naturali a quella degli art. 1145-1147 (ora articoli 67 e 68), è tolta pagamento in cui si trovava, e raccostata la disposizione sulle obbligazioni naturali a quella ambiguità all'espressione del tutto generica «
ciò che fu pagato senza essere dovuto è ripetibile » dell'antico art. 1237, ed è eliminato ogni possibile contrasto come ben aveva sostenuto una parte della dottrina) tra questo e quelli, restando chiarito che, per aversi ripetizione nelle obbligazioni civili, si richiede come condizione
l'error solventis.
Né apporta un apprezzabile argomento contrario, la struttura letterale della norma nella quale, diversamente dall'art. 1145 del codice abrogato, all'errore non è fatto alcun richiamo.
La struttura stessa — nella incisiva enunciazione del presupposto che, per esservi diritto a ripetizione di ciò che è stato pagato, dev'esservi un pagamento non
dovuto — supera la necessità dell' indicazione espressa dell'errore da parte del solvente: e, nel contempo, necessariamente lo presuppone.
Per il codice abrogato non era richiesto il concorso dell'errore dell'accipiente.
Neppure può essere richiesto, quale presupposto dell' indebito oggettivo, in base al nuovo codice.
Soltanto in ipotesi d' indebito soggettivo la necessità d'un errore dell'accipiente è presa in considerazione quando — come si dirà — viene esclusa la ripetizione dell' indebitamente pagato per essersi il creditore privato in buona fede del titolo o delle garanzie del credito. Lo stato soggettivo, in cui viene a trovarsi chi agisce in buona fede, non va scompagnato, infatti, da un qualche errore che ne é causa diretta o, almeno, concorrente. E allora — come si vedrà — ne derivano particolari effetti che come prova della sussistenza dell'obbligo finché non sia, per altro verso, provato l’errore in cui eventualmente ebbe a versare il
solvens, e in tal caso può derivarne anche fondata e legittima la ripetizione; ma non rendono di per sè - e soltanto perché provati - valido e legittimo l'effettuato pagamento, e perciò non escludono irrimediabilmente la possibilità della sua ripetizione.
Il pagamento
Per pagamento si intende – nel titolo dell’istituto e nella norma in esame - l'adempimento, in senso lato, dell'obbligazione o, meglio, della supposta obbligazione: cioè la
praestatio eius quod est in obbligatione: quindi la dazione di denaro, di cose, di corpi certi in peso, numero e misura e, comunque, ogni adempimento che significhi esatta prestazione di ciò che si riteneva dovuto.
Oggetto della prestazione e del suo adempimento può essere anche la dazione di una cosa, oltreché in proprietà, anche in solo possesso. E la dottrina annovera, poi, come altrettanti possibili esempi di pagamento indebito, la concessione o la liberazione d'un diritto reale sulla o dalla cosa altrui; l’ estinzione d'un debito anche mediante novazione o remissione; il trasferimento d'un credito mediante cessione o novazione o promessa esplicita in forza di obbligazione scritta.
Perfino l'eccedenza d'una prestazione, nell'assolvere un'obbligazione legittima, pub costituire — come già dissi — materia di ripetizione.
È pagamento anche la prestazione d'un fatto cioè un'obbligazione di fare — purché sia valutabile in danaro: in questo caso il valore della prestazione pub essere sempre ripetuto da quegli cui la prestazione stessa fu data: non potrà esservi restituzione del percepito, ma restituzione per equivalente.
Quando, però, il pagamento indebito abbia avuto per oggetto una cosa determinata, il codice — come vedremo — l' ha sottoposta la ripetizione a una particolare disciplina con gli art. 2037 e 2038.
È irrilevante che il pagamento sia stato fatto per sè o per altri, e cioè l’ obbligazione cui si adempie sia un'obbligazione propria del
solvens o di un terzo: quello ch' è necessario - e che costituisce una caratteristica differenziatrice dell' indebito oggettivo rispetto, come si vedrà, all' indebito soggettivo - è la mancanza dell' obbligazione nel senso sopra spiegato. tuttavia, precisare che soggetto del diritto della ripetizione, nell' indebito oggettivo, è sempre quegli che ha effettuato il pagamento non dovuto: esso è anche titolare della correlativa azione personale che deve rivolgere contro chi riceve indebito.
In ipotesi d' indebito pagato da un mandatario o da un rappresentante, come tale, del preteso debitore, l'esercizio del diritto di ripetizione e la correlativa azione spettano a costui, cioè al mandante o rappresentato.
Questo perché sono imprescindibili effetti della rappresentanza la diretta ripercussione, nel patrimonio del rappresentato, delle conseguenze dell'atto compiuto dal procuratore, e il passaggio diretto e immediato al rappresentato dei diritti e degli obblighi derivanti dal negozio compiuto dal rappresentante.
Del pari, contro il mandante e il rappresentato dev'essere sperimentata l'azione, ove 1' indebito pagamento sia stato ricevuto, rispettivamente, dal loro mandatario o rappresentante.
L’azione di ripetizione: oggetto
Contenuto del diritto e scopo dell'azione di ripetizione - che, come detto, si risolve in un'azione personale per ottenere l’adempimento di un’obbligazione di restituzione - sono quelli di conseguire, appunto, la restituzione di ciò che fu indebitamente pagato, con tutti gli accessori: però, presupposto o condizione per l'esercizio di detta azione è la sussistenza di un danno.
Correlativamente a quanto si è detto sub 3, l'azione è diretta a conseguire la restituzione del danaro nella stessa somma versata; o delle identiche cose, avute in proprietà o in possesso, se ancora esistono, osservate anche le norme dettate dagli articoli 876 e 877; o dei corpi certi nella stessa qualità e natura, e nello stesso peso, numero o misura di quelli che furono dati e ricevuti in pagamento; la revoca o l'annullamento degli atti mediante i quali fu consentito o riconosciuto un diritto, estinto un debito, trasferito un credito, ecc.
Anche la restituzione del prezzo di vendita d'un immobile, a seguito della nullità del contratto per mancata registrazione nel termine prescritto, è stato ritenuto che possa inquadrarsi nell'ipotesi dell'art. 2033 c.c., siccome omissione d'ascriversi ugualmente all'inerzia del compratore e del venditore.
Ma, da ultimo, la Cassazione ha considerata l'obbligazione che ne deriva, quale obbligazione non di somma ma di valuta, ma di valore negando che le si possa applicare il principio nominalistico e affermando che il venditore, contro restituzione della cosa, è tenuto a versarne al compratore il valore al momento del suo accertamento giudiziale; e ciò non come effetto del contenuto negoziale del contratto dichiarato nullo, ma come uno degli effetti della dichiarazione di tale nullità «
precipuo quello — dice la sentenza —del ripristino della parità contrattuale, alla cui restaurazione è normalmente intesa l'azione d'annullamento ».
Con tale impostazione - e risoluzione - sorgono forti dubbi se una tale questione possa rimanere correttamente inquadrata sul fondamento dell'art. 2033 c.c. che, dell'obbligazione e dell'azione nascenti dall'indebito, stabilisce in termini precisi l’estensione e la finalità, limitandole alla ripetizione di ciò ch'è stato pagato, di frutti e agli interessi.
Come istituzione di carattere generale la ripetizione dell'indebito è, infine, applicabile anche nei confronti della pubblica amministrazione, per qualsivoglia pagamento effettuato in dipendenza di obbligazioni civili fatta eccezione per quelle derivanti da transazione.
Restituzione dei frutti e degli interessi in rapporto allo stato di buona e di mala fede dell’accipiente
II diritto di ripetere ciò che fu indebitamente pagato si estende, in ogni caso, ai frutti e agli interessi: però con una diversità quanto alla loro decorrenza, e cioè dal giorno del pagamento se chi ebbe a riceverlo era in mala fede; dal giorno della domanda se era in buona fede.
La norma dell’art. 2033 è più completa di quella del vecchio codice che, soltanto dal principio enunciato dall’
art. 1147 del c.c. – secondo il quale chi avesse ricevuto il pagamento in mala fede era tenuto a restituire tanto il capitale quanto gli interessi o i frutti dal giorno del pagamento — autorizzava a ricavarne a
contrariis, che uguale obbligazione non sussisteva a carico del possessore di buona fede, il quale, come colui che abbia acquistato a
non domino, ha un titolo apparente per fare suoi i frutti, ove li abbia percetti.
La norma é anche più completa perché è nuova l'enunciazione che limita l'obbligo del pagamento degli interessi, per l'accipiente in buona fede soltanto a decorrere dal giorno della domanda.
La buona fede diversità di disciplina tra mala e buona fede è giustificata dalla considerazione che, nella seconda ipotesi, l'accipiente è d'aversi non solo come debitore, ma anche come possessore di buona fede. Anche per costui v'è un titolo del possesso di cui s' ignorano i vizi: anche per costui manca una vera obbligazione, allo stesso modo che nell' acquisizione
a non domino manca il diritto del trasmittente o la facoltà di alienare.
Non mi pare, tuttavia, che sussistano nuove ragioni perché non debba continuare ad avere vigore la massima, già insegnata dalla Suprema Corte, per la quale il principio della diversa decorrenza dei frutti e degli interessi, a seconda della mala o della buona fede di chi ricevette il pagamento indebito, non si applica più se vi abbia concorso la mala fede tanto dell'
accipiens quanto
del solvens.
Agli effetti di cogliere il concetto di buona fede, può tenersi utilmente presente quant' è detto nella relazione al libro delle obbligazioni (n. 14), quando, a proposito del rapporto contrattuale, si precisa che il dovere di buona fede (in senso oggettivo) è imposto ai soggetti per esigere da essi, nella sfera del rapporto stesso, «
un comportamento ispirato dal senso della probità, sia nella rappresentazione leale e non cavillosa dei diritti e degli obblighi che ne derivano, sia nel modo di farli valere e di osservarli, con riguardo, in ogni caso, allo scopo del comando che forma il contenuto del rapporto, all'armonia dei rispettivi interessi e di quelli superiori della Nazione, che esigono una pacifica collaborazione produttiva ».
Tale concetto della buona fede è, quindi, più esteso di quello che si riconduce alla coscienza d'avere il diritto di possedere ciò che si è acquistato (elemento soggettivo) e alla sincera persuasione — per 1'ignoranza di un difetto di capacità, o del tizio di un atto, o di un fatto impeditivo — che ciò che si è acquistato è stato trasmesso, mediante un mezzo apparentemente idoneo e legittimo, da chi aveva il potere di farlo (elemento oggettivo): è un concetto più esteso perché comprende la convinzione della conformità della propria condotta alle esigenze della solidarietà sociale.
Applicato al pagamento indebito, il concetto si concreta, poi, nel ragionevole convincimento, in chi lo riceve, del proprio diritto a riceverlo, e della sussistenza del correlativo obbligo a carico di colui che lo esegue.
L’indagine sul concorso o meno della buona fede è demandata al magistrato, il quale formerà il proprio giudizio apprezzando le circostanze della fattispecie sottoposta al suo esame.
Ma a proposito della malafede e della buona fede dell'accipiente, mi sembra che debba restare fermo, in tutto il suo valore, anche il principio già enunciato dalla Suprema Corte quando, a proposito del perimento e del deterioramento della cosa ricevuta, ha precisato che la malafede non s'identifica necessariamente col dolo; che trattasi di due diverse situazioni psicologiche quali possono, bensì, coesistere se il soggetto si sia adoperato in qualche modo per determinare l'errore di cui poi abbia approfittato (dolo); ma che si contrapponeva benissimo non coincidere se l'accipiente abbia avuto solamente la consapevolezza di trarre profitto da un errore da lui non ingenerato (malafede), che a questo secondo caso si contrappone la consapevolezza di ledere l'altrui diritto, e allora si è in presenza della buona fede.
La distinzione tra frutti e interessi non richiede una speciale disamina in quanto non è stato modificato il concetto tradizionale, per il quale, ch’è frutto — nell'accezione generica e comune — ogni reddito o utilità che, per forza di natura, congiunta o non all'attività dell'uomo, si trae da una cosa immobile, mobile o semovente; sono frutti civili quelli che non sono generati dalla cosa, ma che si ottengono in sua occasione o per sua causa.
Gli interessi ne sono, appunto, un tipico esempio. E nella norma in esame essi hanno lo scopo di risarcire al
solvens il danno sofferto per l' indisponibilità della somma indebitamente pagata all'
accipiens, finché da questi non ne abbia ottenuta la restituzione.
La domanda, da cui decorrono i frutti e gli interessi in ipotesi di buona fede é, poi, la domanda giudiziale o anche qualunque altra domanda legalmente efficace a costituire in mora.
È, infine, da ricordare un’autorevole dottrina che – ricollegando a una situazione di mora dell'
accipiens in mala fede l'obbligo, posto a suo carico, degli interessi dal giorno del pagamento - considera e ammette come oggetto del risarcimento dell'ulteriore danno dovuto
ex mora, anche le conseguenze derivanti dalla svalutazione monetaria.