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Articolo 809 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Norme sulle donazioni applicabili ad altri atti di liberalità

Dispositivo dell'art. 809 Codice Civile

Le liberalità anche se risultano da atti diversi da quelli previsti dall'articolo 769, sono soggette alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d'ingratitudine [801 c.c.] e per sopravvenienza di figli [803 c.c.] nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari [553 ss.](1).

Questa disposizione non si applica alle liberalità previste dal secondo comma dell'articolo 770(2) e a quelle che a norma dell'articolo 742 non sono soggette a collazione(3).

Note

(1) La donazione indiretta è una particolare forma di donazione che, pur essendo posta in essere con forme diverse rispetto a quelle tipiche della donazione, produce gli effetti di un atto di liberalità, ossia l'impoverimento del donante e l'arricchimento del donatario. Sono considerate esempi di donazione indiretta, ove vi sia spirito di liberalità, la remissione di debito, la rinuncia dell'eredità pura e semplice, il contratto a favore di terzo, ecc.
(2) Si tratta delle liberalità d'uso (v. art. 770 comma 2 del c.c.).
(3) Ossia le spese di mantenimento, di educazione e malattia, nonché quelle ordinarie per l'abbigliamento e le nozze fatte a favore dei figli (e discendenti) e del coniuge del defunto.

Ratio Legis

La norma in commento ha lo scopo di estendere l'applicazione di talune norme sulla donazione anche a quegli atti che, pur non avendo la forma della donazione, realizzano il medesimo effetto, ossia l'impoverimento di chi la compie e l'arricchimento di chi la ricevere.

Spiegazione dell'art. 809 Codice Civile

L’articolo, che non ha riscontro nel vecchio codice del 1865, essendo stato formulato ex novo nel Progetto preliminare, dichiara applicabili alle liberalità risultanti da atti diversi dalla donazione-contratto le norme relative alla revocazione delle donazioni per ingratitudine e per sopravvenienza di figli e quelle relative alla riduzione per integrare la quota di riserva.
Con questo articolo si vuole, pertanto, legislativamente risolvere il problema della disciplina delle c. d. “donazioni indirette”. La differenza fra le donazioni dirette, di cui all’art. 769, e le donazioni indirette o non formali (liberalità risultanti da atti diversi da quelli che per il cit. art. 769 sono formalmente donazioni) non consiste nella diversità dell’effetto pratico, ma nel mezzo con cui si attua la liberalità, che per le donazioni dirette è l’atto pubblico, per le donazioni indirette è un fatto o un negozio giuridico, che dalle parti si utilizza per uno scopo ulteriore o diverso da quello tipico a cui l’atto o il negozio sono normalmente diretti. La norma in esame si rendeva necessaria poiché, pur non essendo ogni liberalità una donazione vera e propria, non si poteva, per l’identità di effetti tra l’una e l'altra specie di liberalità, sottrarre le prime ad alcune norme che disciplinano le seconde.
La norma non si estende né alle liberalità che si sogliono fare in occasione di servizi resi o conformemente agli usi, le quali, per il capoverso dell’art. 770, non costituiscono donazioni, né alle liberalità che, a norma dell’art. 742, non sono soggette a collazione, le quali neppure possono qualificarsi donazioni.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

385 Un emendamento formale ho apportato all'art. 809 del c.c., che disciplina le così dette donazioni indirette, parlando, anziché di «atti di liberalità diversi dalla donazione», di «liberalità che risultano da atti diversi da quelli previsti dall'articolo 769». La formula è connessa alla definizione della donazione data in quell'articolo, e vuol far riferimento appunto a quelle liberalità compiute senza porre in essere un contratto di donazione.

Massime relative all'art. 809 Codice Civile

Cass. civ. n. 5073/2023

In caso di trust "inter vivos" con effetti "post mortem" di tipo discrezionale - nel quale, cioè, l'individuazione dei beneficiari e/o la determinazione dell'entità delle quote loro spettanti è rimessa alla discrezionalità del "trustee" - la tutela dei diritti successori dei legittimari nei confronti del relativo atto istitutivo e dei successivi atti di conferimento è assicurata non già dal mancato riconoscimento del "trust" - in conseguenza della sua nullità per contrasto con l'ordine pubblico interno, ai sensi dell'art. 13 della Convenzione dell'Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva in Italia con l. n. 364 del 1989 - bensì dall'azione di riduzione, i cui legittimati passivi devono individuarsi nei beneficiari, ove il "trustee" abbia già eseguito il programma del disponente, dando corso alle relative disposizioni patrimoniali (ovvero allorquando i beneficiari medesimi siano comunque individuabili con certezza), e nel "trustee" nella contraria ipotesi in cui il "trust" non abbia ancora avuto esecuzione (oltre che nel cd. "trust" di scopo, nel quale manca una specifica individuazione dei beneficiari).

Cass. civ. n. 9379/2020

La donazione indiretta si identifica con ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da un fine di liberalità e abbia l'effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, sicché l'intenzione di donare emerge solo in via indiretta dal rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso, nei limiti in cui siano tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio. (Nella specie, la S.C. ha escluso che la donazione indiretta fosse dimostrata dalla dazione di denaro effettuata all'unico scopo di acquisto di un immobile da parte del destinatario, non potendo trarsi conferma dell'"animus donandi" dalla sola dichiarazione, resa dall'"accipiens", che il corrispettivo della compravendita era stato pagato dai genitori dell'ex coniuge).

Cass. civ. n. 23260/2019

La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità - e non già dal mezzo giuridico impiegato, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall'ordinamento - e consiste in atti o negozi la cui combinazione produce l'effetto di un'attribuzione patrimoniale gratuita, come nel caso del pagamento di un debito altrui con rinuncia all'azione di regresso, a nulla rilevando l'esistenza di un interesse del "solvens" all'adempimento. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO SEZ.DIST. DI SASSARI, 10/03/2017).

Cass. civ. n. 19400/2019

La donazione indiretta è un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell'arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore; differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale - in materia di contratti e simulazione - che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza gravata che aveva ritenuto l'esistenza di donazioni indirette sulla base di prove presuntive). (Rigetta, CORTE D'APPELLO VENEZIA, 17/11/2014).

Cass. civ. n. 18831/2019

Il "trust inter vivos", con effetti "post mortem", deve essere qualificato come donazione indiretta, rientrante, in quanto tale, nella categoria delle liberalità non donative ai sensi dell'art. 809 c.c., poiché l'attribuzione ai beneficiari del patrimonio che ne costituisce la dotazione avviene per atto del "trustee", cui il disponente aveva trasferito la proprietà, sicché l'avvenuta fuoriuscita del "trust fund" dal patrimonio di quest'ultimo quando era ancora in vita esclude la natura "mortis causa" dell'operazione, nella quale l'evento morte rappresenta mero termine o condizione dell'attribuzione, senza penetrare nella giustificazione causale della stessa. (Regola giurisdizione).

Cass. civ. n. 15666/2019

La rinuncia a un diritto, se fatta allo scopo di avvantaggiare un terzo, può importare donazione indiretta, purché fra donazione e arricchimento sussista un nesso di causalità diretta. (Nella specie, la S.C. ha escluso che la rinuncia del "de cuius" a sottoscrivere la quota di aumento del capitale sociale di una s.r.l., seguita dalla concomitante sottoscrizione, da parte del figlio, della quota non sottoscritta dal genitore, costituisse donazione indiretta, atteso che, a seguito della rinuncia del "de cuius", anche gli altri soci avevano avuto analoga possibilità di sottoscrizione). (Rigetta, CORTE D'APPELLO MILANO, 03/10/2014).

Cass. civ. n. 10759/2019

Si ha donazione indiretta di un bene (nella specie, un immobile) anche quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo della relativa compravendita dovuto dal donatario, laddove sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme, dovendo, in tal caso, individuarsi l'oggetto della liberalità, analogamente a quanto affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato pari alla quota di prezzo corrisposta con la provvista fornita dal donante. (Rigetta, CORTE D'APPELLO TRENTO, 10/04/2015).

Cass. civ. n. 7681/2019

Nei contratti di scambio, la donazione indiretta è configurabile solo a condizione che le parti abbiano volutamente stabilito un corrispettivo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto, con l'intento, desumibile dalla notevole entità della sproporzione tra il valore reale del bene e la misura del corrispettivo, di arricchire la parte acquirente per la parte eccedente quanto pattuito. (Rigetta, CORTE D'APPELLO FIRENZE, 16/03/2015).

Cass. civ. n. 24160/2018

L'attività con la quale il marito fornisce il denaro affinché la moglie divenga con lui comproprietaria di un immobile è riconducibile nell'ambito della donazione indiretta, così come sono ad essa riconducibili, finché dura il matrimonio, i conferimenti patrimoniali eseguiti spontaneamente dal donante, volti a finanziare lavori nell'immobile, giacché tali conferimenti hanno la stessa causa della donazione indiretta. Tuttavia, dopo la separazione personale dei coniugi, analoga finalità non può automaticamente attribuirsi ai pagamenti fatti dal marito o alle spese sostenute per l'immobile in comproprietà, poiché in tale ultimo caso non può ritenersi più sussistente la finalità di liberalità e tali spese dovranno considerarsi sostenute da uno dei comproprietari in regime di comunione, con l'applicazione delle regole ordinarie ad essa relative. Conseguentemente, il coniuge comproprietario potrà ripetere il 50% delle spese che ha sostenuto per la conservazione ed il miglioramento della cosa comune, purché abbia avvisato preliminarmente l'altro comproprietario e purché questi, a fronte di un intervento necessario, sia rimasto inerte.

Cass. civ. n. 13619/2017

Nell'ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra - anche ai fini della collazione - donazione indiretta del bene stesso e non del danaro. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO BOLOGNA, 10/10/2011).

Cass. civ. n. 1986/2016

Nel caso di acquisto di un immobile da parte di un soggetto, con denaro fornito da un terzo per spirito di liberalità, si configura una donazione indiretta, che si differenzia dalla simulazione giacché l'attribuzione gratuita viene attuata, quale effetto indiretto, con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti ed alla quale, pertanto, non si applicano i limiti alla prova testimoniale - in materia di contratti e simulazione - che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo.

Cass. civ. n. 17604/2015

Nell'ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, si configura la donazione indiretta dell'immobile e non del denaro impiegato per l'acquisto, sicché, in caso di collazione, secondo le previsioni dell'art. 737 c.c., il conferimento deve avere ad oggetto l'immobile e non il denaro.

Cass. civ. n. 3819/2015

La rinuncia abdicativa della quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comunisti, mediante eliminazione dello stato di compressione in cui il diritto di questi ultimi si trovava a causa dell'appartenenza in comunione anche ad un altro soggetto, costituisce donazione indiretta, senza che sia all'uopo necessaria la forma dell'atto pubblico, essendo utilizzato per la realizzazione del fine di liberalità un negozio diverso dal contratto di donazione.

Cass. civ. n. 13684/2014

L'art. 809 cod. civ., nell'indicare quali norme della donazione siano applicabili alle liberalità risultanti da atti diversi dalla donazione, va interpretato restrittivamente, nel senso che alle liberalità anzidette non si applicano tutte le altre disposizioni non espressamente richiamate. Ne consegue l'inapplicabilità dell'art. 778 cod. civ., che stabilisce i limiti al mandato a donare, al mandato a stipulare un "negotium mixtum cum donatione".

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Consulenze legali
relative all'articolo 809 Codice Civile

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Anonimo chiede
giovedì 04/07/2024
“Buonasera, la domanda è la seguente: mio padre ha dato lavoro solo a mio fratello in azienda tessile come operaio semplice dove possiede il 35% di quote di una srl ed è amministratore unico fin dal 1992 per motivi inspiegabili non ha mai fatto entrare in azienda il sottoscritto che ha la qualifica di ragioniere diplomato nel 1985 mentre per mio fratello più piccolo di un anno e ripetente per ben tre anni nello stesso istituto tecnico ha avuto via libera ad entrare in azienda ed inoltre nemmeno come ragioniere ma come magazziniere (che in quel periodo l'azienda non necessitava di una figura professionale del genere in quanto già presente). Questo chiaramente ha implicato seri problemi familiari in quanto il sottoscritto ha sempre trovato difficoltà a trovare lavoro in un settore, quello di Prato, dove il 90% delle aziende erano tessili ed avendo il padre con un azienda tessile mi dicevano che ero in concorrenza ed avrei poi detto in famiglia i segreti delle aziende concorrenti, mentre per mio fratello chiaramente le cose andavano diversamente ovvio. Per cui mi chiedo come legittimo erede se ho la possibilità di far rientrare questi favoritismi come donazione indiretta dato che mio fratello si è arricchito con l'azienda di famiglia, escludendo il sottoscritto, con stipendi altissimi fuori dalla normali buste paga per un operaio semplice ed usufruendo di tutti i privilegi e non avendo nessun tipo di carica dirigenziale e caricando ovviamente di costi la mia quota parte di quote societarie per ben 30 anni . grazie”
Consulenza legale i 10/07/2024
Ai fini della corretta qualificazione giuridica di un determinato atto quale atto di liberalità occorre preliminarmente indagare, come affermato dalla Corte di Cassazione SS.UU. Civile con sentenza n. 6538 del 18.03.2010, su quelli che sono gli interessi effettivamente perseguiti e condivisi dalle parti, in quanto nella identificazione della causa del negozio assume un ruolo rilevante la gratuità con cui il disponente attua il suo interesse non patrimoniale.
Infatti, è solo nel caso in cui il disponente si fa portatore di un interesse non patrimoniale (ovvero non riceve alcun vantaggio economico, neppure indiretto) ed il beneficiario ottiene vantaggi economici in termini di arricchimento, che si può parlare di atto gratuito o liberale; di contro, laddove entrambe le parti siano portatori di interessi patrimoniali, allora il negozio giuridico concluso per soddisfare tali interessi va collocato nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive.

E’ importante a questo punto evidenziare che nella individuazione degli interessi concreti perseguiti dalle parti si deve a sua volta cercare di prescindere dal tipo contrattuale utilizzato, in quanto spesso con esso si persegue una finalità diversa rispetto alla causa per cui quel determinato negozio esiste ed è stato disciplinato.
Con ciò vuol dirsi che la “liberalità” può realizzarsi sia direttamente (attraverso fattispecie nate proprio per tale scopo, come la donazione pura o il patto di famiglia) che indirettamente, ovvero facendo uso di schemi negoziali, gratuiti o onerosi, che non sono stati pensati dal legislatore per tale finalità, bensì per uno scopo diverso.

Ecco, dunque, che anche nell’ambito di un contratto con causa onerosa o di scambio si può parlare di gratuità e liberalità, la quale si realizza quando l’interesse di una delle parti non è di natura patrimoniale, in quanto non si attende nulla dall’altra parte ed effettua una prestazione disinteressata.
Quando l’intento liberale viene perseguito attraverso contratti il cui tipo è preordinato allo scambio ed in cui le prestazioni sono legate da interdipendenza, la reale finalità presa di mira dalle parti può essere realizzata solo attraverso metodi indiretti, i quali possono essere:
  1. utilizzo di un unico negozio giuridico, caratterizzato da bilateralità nelle prestazioni a titolo oneroso;
  2. utilizzo di più negozi giuridici, tra loro funzionalmente collegati (è questo il caso del contratto a favore di terzo).

L’elemento determinante per identificare una liberalità non donativa nel caso sub a), ossia di utilizzo di un unico negozio giuridico di tipo oneroso, è l’assenza della consistenza economica dello scambio.
Il caso tipico è quello della c.d. vendita “nummo uno” (per una moneta), ovvero ad un prezzo irrisorio o comunque di gran lunga inferiore al reale valore della cosa compravenduta, la quale consente, appunto, di realizzare la liberalità indiretta.

Ebbene, all’esempio classico della vendita per una moneta si vorrebbe qui ricondurre il contratto di lavoro stipulato tra il padre (datore di lavoro) ed il figlio lavoratore, ritenendosi che il secondo abbia ricevuto quale corrispettivo del lavoro prestato una paga di gran lunga superiore al tipo di prestazione a cui si era obbligato.
Da un punto di vista meramente teorico si può in effetti astrattamente asserire, sulla base di quanto detto fin qui, che sarebbe ben possibile utilizzare lo schema contrattuale del contratto di lavoro (contratto per sua natura di tipo oneroso) per mascherare l’intento in parte liberale di una delle parti (nel caso di specie il padre-datore di lavoro).

Tuttavia, sotto il profilo probatorio, non è così semplice portare avanti una tesi di questo tipo, risultando abbastanza arduo il compito di individuare lo spirito di liberalità indiretta che le parti hanno effettivamente inteso realizzare.
L’interprete, infatti, per tale intendendosi l’autorità giudiziaria a cui ci si dovrà necessariamente rivolgere, dovrà considerare il contesto complessivo nel quale l’operazione si sviluppa, le circostanze del caso concreto, tenendo presenti relazioni personali e professionali, rapporti che entrano in gioco tra le parti, per comprendere appunto se vi è equilibrio o meno tra le prestazioni.

Pertanto, ciò che può consigliarsi, prima di avventurarsi in una battaglia giudiziaria di una certa complessità e dall’esito incerto, è di sottoporre le buste paga sospette al giudizio di un consulente del lavoro, per comprendere se effettivamente sussista nei corrispettivi versati dal padre al figlio una sproporzione tale da potersi configurare uno spirito in parte liberale, oppure se le maggiori somme versate possano magari trovare la loro causa, ad esempio, in lavoro straordinario o nello svolgimento di mansioni superiori a quelle per le quali il figlio risultava essere stato assunto.

Infine, si tenga sempre presente che, anche nell’ipotesi in cui si riuscisse a dare prova del fatto che quel contratto di lavoro in effetti mascherava un intento in parte liberale, occorre sempre fare i conti con le norme dettate in tema di successione ereditaria.
Ciò significa che il figlio che assume di essere stato danneggiato dalla donazione indiretta delle differenze retributive in favore dell’altro figlio, potrà legittimamente invocare l’applicazione dell’art. 809 c.c. e, conseguentemente, esperire l’azione di riduzione soltanto se, dopo aver proceduto alla determinazione della massa ereditaria ex art. 556 c.c., ne risulti una effettiva lesione della sua quota di riserva.


V. S. chiede
martedì 11/04/2023
“salve, il quesito che vorrei sottoporvi è il seguente: muore il padre nel 2019 vedovo con due figli, il fratello A cita in giudizio il fratello B perchè sostiene che la sua quota di legittima sia stata lesa, il fratello B si difende chiedendo con domanda riconvenzionale la collazione di alcune secondo lui donazioni di canoni di locazione che avrebbero percepito sia lui che il fratello A per tanti anni in merito ad un negozio di proprietà del de cuius con due numeri civici.
Nella specie i contratti di locazione erano stati stipulati nel 2009 ed erano due: uno intestato come locatore al solo al fratello A per un civico, l'altro contratto intestato al fratello B per l'altro civico. Solo uno di questi due contratti cioè quello di B veniva però registrato all'agenzia delle entrate. Ma i due contratti venivano rispettati ed i due fratelli percepivano tutti e due il canone stabilito nei contratti in ugual misura, un pò in contanti un pò con assegni.
Il padre non prendeva nulla di affitto, e nei contratti non veniva specificato nulla in merito a come veniva dati questi soldi, nè alcuna menzione sul proprietario.
Mi servirebbero giurisprudenze in relazione al tema concernente la percezione o meno dei canoni di affitto come donazioni e sapere se anche per il contratto di affitto "in nero" si potesse configurare una donazione, (magari, oltre a produrre il contratto, chiamando a testimoniare anche i conduttori in caso per far dichiarare che davano i soldi ad entrambi i fratelli)
grazie”
Consulenza legale i 22/04/2023
Nel quesito si fa riferimento ad un negozio (e dunque ad un unico immobile) di proprietà del defunto, ma avente due distinti civici, per ciascuno dei quali era stato concluso un distinto contratto di locazione ed i cui canoni venivano separatamente riscossi dai figli A e B.
Il primo problema che si pone è quello di cercare di dare un inquadramento giuridico al rapporto intercorrente tra i figli/locatori ed il padre proprietario degli immobili concessi in locazione, rapporto che si ritiene possa ricondursi alla fattispecie del mandato, e precisamente del mandato senza rappresentanza, disciplinato dagli artt. 1703 e ss. c.c.
In particolare, tra tali norme assume particolare rilievo, per quel che qui interessa, l’art. 1713 del c.c., in forza del quale si prevede non soltanto che il mandatario deve rendere al mandante il conto del suo operato, ma si dispone che lo stesso mandatario debba rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato.

Pertanto, si ritiene che sia proprio in adempimento di quanto statuito da tale norma che i figli (mandatari) avrebbero dovuto rimettere al padre (mandante) quanto ricevuto a titolo di canoni di locazione riscossi per l’immobile di proprietà dello stesso padre.
La circostanza, poi, che il padre li abbia da ciò dispensati, autorizzandoli a trattenere per sé quanto riscosso dai conduttori, configura una vera e propria rinunzia ad un diritto di credito, la quale, se sorretta da puro animo di liberalità, non può che inquadrarsi tra i c.d. “altri atti di liberalità”, a cui fa riferimento la rubrica dell’art. 809 c.c. ed i quali sono soggetti alle stesse norme che disciplinano la riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari.

Si parla in questi casi di donazione indiretta o atipica, la quale ricorre tutte le volte in cui le parti, al fine di conseguire il risultato pratico della donazione contrattuale, vale a dire l’arricchimento del donatario ed il depauperamento del donante, fanno ricorso a strumenti giuridici diversi dalla donazione, ma che ugualmente consentono di produrre, in via mediata, effetti economici di liberalità.
Con l’espressione “donazione indiretta”, peraltro, non ci si intende riferire ad una categoria giuridica unitaria, bensì ad una serie di condotte eterogenee, poste in essere con la finalità di raggiungere gli stessi effetti del contratto di donazione (unitario può dirsi solo l’aspetto funzionale, considerato che in ogni caso deve trattarsi di liberalità non soggetta alla forma solenne).

Anche la giurisprudenza si è espressa chiaramente in tal senso, precisando che la donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, compresi i negozi tra loro collegati (cfr. Cass. civ. Sez. III sent. n. 3134/2012).
Tra i numerosi atti utilizzati può essere ricordata proprio la rinunzia (istituto giuridico a cui può ricondursi il comportamento del padre defunto), la quale, come manifestazione di volontà abdicativa, rappresenta un mero atto dismissivo di diritti o di situazioni soggettive in genere e che può condurre come effetto mediato ad un incremento della sfera giuridica di un terzo (sempre nel caso di specie quella dei figli).
Sempre la giurisprudenza ha affermato che la rinuncia ad un diritto al fine di avvantaggiare un terzo, così come la rinuncia alla quota di comproprietà, tale da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari (Cass. n. 10666/2021; Cass. n. 3819/2015), nonché la rinuncia abdicativa, costituiscono donazione indiretta a condizione che tra la rinuncia e l’arricchimento vi sia un nesso di causalità diretta.
Allo stesso modo, configura una donazione indiretta la rinuncia all’azione di regresso da parte di chi abbia pagato un debito altrui, a prescindere dall’esistenza di un interesse del solvens all’adempimento (così Cass. n. 23260/2019, nella quale tra l’altro si legge che “La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità e non già dal mezzo giuridico impiegato, che può essere il più vario nei limiti consentiti dall’ordinamento, e consiste in atti o negozi la cui combinazione produce l’effetto di una attribuzione patrimoniale gratuita”).

Come può notarsi, seppure non sia rinvenibile, almeno nelle banche dati a disposizione di questa Redazione, giurisprudenza che si sia proprio occupata della particolare ipotesi di donazione indiretta realizzata nel caso di specie, il fine perseguito e lo schema utilizzato coincidono perfettamente con i diversi casi presi in esame dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata ed ai cui principi ci si può ricondurre.
Pertanto, se si dispone (come si accenna nel quesito) di mezzi probatori atti a provare la sussistenza del secondo contratto di locazione (quello non registrato), i cui frutti venivano fatti propri dal fratello, sarà abbastanza semplice dimostrare che la volontà del padre di rinunciare al rendiconto da parte dei figli ed alla rimessione dei canoni di locazione dagli stessi riscossi debba ricondursi ad una ipotesi di donazione indiretta.

Unico problema, a questo punto, resterebbe quello della mancata registrazione del contratto di locazione, in quanto, a prescindere dalla sanzione civile della nullità che ad esso vi ricollega l’art. 1 comma 346 della Legge 30.12.2004 n. 311 (sanzione che ormai non può più assumere alcuna rilevanza), occorre invece tenere conto delle conseguenze di carattere fiscale a cui si può andare incontro, derivanti dall’evasione fiscale per mancata dichiarazione del reddito da locazione.

R. M. chiede
domenica 08/01/2023 - Liguria
“Spettabile redazione Buona Sera.
1 - Mia suocera vedova, ha fatto nel 2011 una donazione di 235.000 € per l’ acquisto di un Immobile alla Figlia Caia. Il costo dell’immobile è stato di 275.000 € e non si è attuata la Dispensa.
2 - Da accordi verbali tra le eredi, si decise che alla figlia secondogenita Sempronia, nonchè mia cognata, sarebbe andato, l’immobile A in cui in questo momento vive mia suocera (pari valore)
Oggi però Sempronia rivendica NON più l’immobile come pattuito, ma la stessa somma di 235.000 €, da lei non percepita nel 2011 , rivalutata negli anni con interesse.
A questa nuova Io e mia Moglie ci siamo opposti fermamente, da quanto si evince dalla letteratura del codice del codice civile.
3 - Mia suocera , di anni 88 , possiede anche un secondo immobile B, stimabile in circa 80.000 € e una Liquidità di circa 160.000 €.
Suocera e figlie hanno avuto un primo incontro preliminare con un Notaio ( non mi è stato concesso di presenziare ) che ha ascoltato le parti in causa. Di primo acchito ha visionato il nostro atto di acquisto da cui si evince la donazione indiretta di immobile ed ha già ha dichiarato che quanto affermava mia Cognata non trova riscontro e che teoricamente a lei andrebbe l’immobile A , come dicevamo noi e come Intendeva operare la madre. Prossimo incontro avverrà tra un mese.
Domande :
A- Si chiede come andrebbero Collocati i beni su menzionati nella massa ereditaria , e quale sarebbe una giusta e meno problematica distribuzione di tali beni alle rispettive figlie.
B- Da quando si considera l’apertura della successione,? Si decide con il notaio la data questo inizio ?
C- Mi confermate che nella collazione per imputazione, il valore del mio immobile donato non è quello che questi aveva al momento della donazione, ma quello stimato all’apertura della successione ?
D- Nel frattempo Sempronia, in difficoltà economiche ha chiesto alla madre 100.000 di prestito che si è realizzato mediante Bonifico Bancario ; è sufficiente tale operazione o si richiede per maggior tutela della madre e di noi coeredi una atto scritto ?
In Attesa vostra Risposta
Distinti saluti

Consulenza legale i 24/01/2023
La prima e fondamentale questione di cui occorre occuparsi è quella relativa alla donazione di euro 235.000 ricevuta da una delle figlie per contribuire all’acquisto di un immobile del valore di euro 275.000.
In casi come questo, in cui il denaro donato corrisponde solo a parte del prezzo pagato per la compravendita, ci si chiede se oggetto di donazione debba considerarsi la somma di denaro ovvero se debba egualmente configurarsi una donazione indiretta di immobile, con tutte le conseguenze che ne derivano in sede di collazione.

Ebbene, proprio di tale questione si è occupata in diverse occasioni la Suprema Corte di Cassazione, sostenendo in un primo momento che la dazione di una somma di denaro inferiore al prezzo dell’immobile non sarebbe idonea ad attuare il processo di arricchimento voluto dal donante, in quanto non è sufficiente a permettere l’ingresso dell’immobile nel patrimonio del donatario.
In tal senso, in particolare, si è pronunciata Cass. civ. sent. n. 2149/2014, negando appunto che possa attribuirsi natura di donazione indiretta all’atto di acquisto per il quale il donante paghi solo una parte del prezzo del bene, in considerazione della inidoneità della corresponsione del denaro a costituire una diversa modalità per attuare l’identico risultato giuridico economico dell’attribuzione liberale dell’immobile.
In tal caso, dunque, si è ritenuto più corretto qualificare l’atto liberale come donazione diretta della somma di denaro.

In senso contrario, invece, si è pronunciata sempre la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con successiva sentenza n. 10759 del 17.04.2019, con la quale la S.C., prendendo spunto da quanto dedotto in altre precedenti pronunce (ed in particolare CCass. N. 11499/1992 e Cass. 133347/2006), ha riconosciuto la possibilità che la liberalità realizzata con la corresponsione delle somme necessarie a pagare il prezzo da parte del donante non necessariamente debba tradursi nella corresponsione dell’intero prezzo, ma anche di una parte di esso, purchè si riesca a dare prova dello specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme.
In particolare si afferma che, laddove dette somme non siano in grado di coprire per intero l’obbligazione gravante sul compratore, l’oggetto della liberalità debba identificarsi nella percentuale di proprietà del bene acquistato corrispondente alla quota parte di prezzo soddisfatta con la provvista fornita dal donante.

Aderendo a tale più recente orientamento, pertanto, se ne deve dedurre che oggetto di collazione non potrà che essere la quota parte di immobile che la figlia donataria ha acquisito al suo patrimonio per effetto della donazione della somma di euro 235.000, risultando incontestato, per come viene detto nel quesito, che quella donazione fu fatta dalla madre in favore della donataria proprio per contribuire all’acquisto dell’immobile.
Circa la determinazione di tale valore, conformemente a quanto disposto dagli artt. 746 e 747 c.c., occorrerà fare riferimento al valore che l’immobile ha al momento dell’apertura della successione.

Chiarito quanto sopra, è possibile adesso rispondere analiticamente alle singole domande che vengono poste:

A) La determinazione della massa ereditaria non potrà che essere fatta al momento dell’apertura della successione (coincidente con la morte della persona della cui successione si tratta), secondo il disposto dell’art. 556 del c.c..
Più precisamente essa sarà il risultato del valore dei beni appartenenti al defunto al momento della sua morte (c.d. relictum, costituito nel caso di specie ed allo stato attuale da immobile A, immobile B e liquidità di circa euro 160.000), da cui andranno detratti eventuali debiti ed a cui andrà sommato il valore del c.d. donatum (ovvero il valore della quota parte di immobile di cui la figlia donataria si è arricchita con il contributo della donazione di euro 235.000).
Sulla divisione dei beni non potrà che decidere liberamente la madre, con il solo limite del rispetto della quota di riserva spettante ai legittimari, che nel caso di specie andrà determinata ex art. 537 comma secondo c.c. (ossia 2/3 da dividere in parti uguali tra tutti i figli).

B) Il momento di apertura della successione coincide per legge con la data della morte della persona della cui successione si tratta, e ciò secondo il chiaro disposto dell’art. 456 del c.c..
Ciò comporta che la determinazione di tale momento non può essere lasciata alla libera determinazione delle parti (gli eredi d’accordo con il notaio).

C) In conformità a quanto detto nella parte introduttiva di questa consulenza e tenuto conto dell’orientamento più recente della Corte di Cassazione, la figlia donataria dovrà imputare alla sua quota il valore, stimato alla data di apertura della successione, che può attribuirsi alla porzione di immobile acquistata con il contributo della donazione della somma di euro 235.000,00.

D) Il trasferimento in favore della seconda figlia della somma di euro 100.000, attuato con mezzi tracciabili (ovvero a mezzo bonifico bancario) non può che intendersi effettuato per spirito di liberalità e come tale dovrà formare anch’esso oggetto di collazione secondo quanto disposto dall’art. 751 del c.c..

Anonimo chiede
martedì 25/05/2021 - Sicilia
“La famiglia: padre; madre; due figli. Il padre diviene socio accomandante in una società dove la figlia è socia accomandataria. Padre e madre prestano fidejussione bancaria, sia per la società dello stesso con la figlia, sia per una società dove il marito della figlia è accomandatario. Prima di morire, il padre, nomina la moglie erede universale. Per far fronte a debiti accumulati dalle due società con istituti di credito, la moglie vende prima due beni(intestati solo a lei) e poi uno(intestato ai due coniugi). Quest’ultimo atto di vendita viene sottoscritto dalla madre e dai due figli. Nel corso degli anni, la madre aveva sempre tentato di far comprendere al figlio la necessità di aiutare la figlia, visto che lui non aveva problemi. I rapporti, però si sono diradati e la madre, prima scrive un testamento olografo nel quale dichiara di voler lasciare immobili, mobili e suppellettili alla figlia, e poi dona, con atto notarile, l’unico immobile rimasto, sempre alla figlia. La madre muore. Il figlio pretende di avere riconosciuta l’eredità di tutti i cespiti venduti in precedenza. Può pretenderli? Se, si, in quale misura?
Nel ringraziarvi in anticipo per la cortese attenzione prestatami, vi saluto cordialmente.”
Consulenza legale i 31/05/2021
Il caso che si sottopone all’attenzione richiede di affrontare un problema abbastanza comune a molte famiglie, ossia quello dell’intervento dei genitori nel pagamento dei debiti di uno solo dei figli.
Si tratta di un atto che se da un lato costituisce un evidente gesto di generosità dei genitori nei confronti del figlio in difficoltà, dall’altro lato molto spesso è fonte di malumori tra gli altri figli, non contenti che il patrimonio di famiglia venga assorbito dai debiti del fratello o della sorella e convinti che i soldi che sono andati a beneficio del fratello, dovranno essere considerati, all’atto della morte dei genitori, come un anticipo sull’eredità che spetta a lui.

Di tale problematica si è occupata proprio di recente la Corte di Cassazione nella sentenza n. 23260 del 18/09/2019.
Ora, come si ritiene possa essere ben noto, il nostro ordinamento giuridico prevede due diversi modi per donare qualcosa, ossia la donazione diretta e la donazione c.d. indiretta.
Con la donazione diretta il donante cede direttamente un suo bene o diritto al donatario o lo acquista per poi intestarglielo.
Nel caso della donazione indiretta, invece, il donante vuole dare al donatario la proprietà di uno specifico bene, versando il corrispettivo al venditore perché lo ceda al donatario oppure bonificando il prezzo di vendita sul conto del donatario, in modo che lo stesso possa successivamente pagare il venditore (il contratto a favore di terzo, disciplinato dall’art. 1411 del c.c., costituisce la fattispecie negoziale più utilizzata a tale fine).

Sia nel caso di donazione diretta che in quello di donazione indiretta, il momento di fare i conti giunge alla morte del genitore donante, in quanto ad ogni figlio, come del resto al coniuge, spetta una quota di eredità minima che la legge chiama “legittima” e che, ex art. 556 del c.c., va calcolata tenuto anche conto delle donazioni che il genitore ha effettuato in vita, in quanto queste, come già detto, costituiscono una sorta di anticipazione dell’eredità.

Ebbene, il pagamento che il genitore fa di un debito del figlio costituisce, ormai secondo la tesi prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, un’ipotesi di donazione indiretta, a meno che lo stesso genitore non pretenda dal figlio la restituzione del denaro speso per suo conto, ponendo in essere la cosiddetta “azione di regresso”.
Il caso di specie, inoltre, si caratterizza per un’ulteriore elemento: i genitori sono anche fideiussori dei debiti contratti dalla società di cui la figlia è socio accomandatario (illimitatamente responsabile) e loro stessi soci accomandanti.
Pertanto, ciò potrebbe legittimarli a sostenere che a tali debiti avrebbero dovuto in ogni caso far fronte nella loro qualità di garanti e coobbligati in solido, al fine di evitare l’incremento degli interessi moratori e l’escussione coattiva del proprio patrimonio.

Non la pensa così, però, la Corte di Cassazione nella medesima sentenza sopra citata, la quale sostiene che costituisce una indiscussa ipotesi di donazione indiretta il pagamento di un debito altrui accompagnato dal mancato regresso e dalla mancata surrogazione.
Aggiunge che “a nulla rileva l’esistenza o meno di un interesse proprio del solvens all’adempimento, sia perché il requisito di liberalità dell’atto presuppone un posterius rispetto al solo pagamento, sia in quanto il carattere indiretto della donazione postula per sua stessa definizione un collegamento funzionalmente inscindibile di atti”.

Il solo ostacolo da affrontare, a questo punto, rimane quello della prova, in quanto, a differenza di ciò che accade nel caso della donazione diretta (per la quale è richiesto, a pena di nullità, il rispetto della forma dell’atto pubblico), nel caso del donazione indiretta devono essere sempre adeguatamente provati sia lo spirito di liberalità sia il suo collegamento diretto con quanto elargito, ossia il fine (nesso teleologico).
Sotto tale profilo, assume particolare rilevanza il supporto utilizzato per la suddetta donazione, il quale nella prassi consiste quasi sempre in un bonifico bancario, anche se, a parere della stessa Corte di Cassazione (ed in particolare Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 27/07/2017, n. 18725) il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto del donante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta, la quale, salvo i casi di donazione di modico valore, necessita, ex art. 782, della forma dell’atto pubblico, (consistendo in una vera e propria donazione diretta).

Con ciò vuol dirsi che, se si dispone di mezzi probatori capaci di dimostrare che la madre ha per puro spirito di liberalità inteso aiutare la figlia pagando i debiti dalla stessa contratti, allora si ha tutto il diritto di chiedere che, ai fini del calcolo della propria quota di riserva (e solo entro tale misura), si tenga conto delle somme ricavate dalla vendita degli immobili a sé intestati ed utilizzati esclusivamente per la suddetta finalità.
In caso contrario, invece, non potrà avanzarsi alcuna pretesa sulle somme di cui la sorella ha beneficiato in via esclusiva.


Martina D. A. chiede
mercoledì 10/02/2021 - Lombardia
“Spett.le redazione di Brocardi, sono a porVi un quesito nell'ambito immobiliare e della successione.
Il soggetto in questione è titolare della nuda proprietà di un immobile dal 2006 e il padre dell'usufrutto. Al decesso del padre usufruttuario nel 2016 il soggetto diventa proprietario totale. Nell'atto di proprietà viene riportato l'acquisto dell'immobile, ripartito tra usufrutto del padre e nuda proprietà del figlio.
Nell'atto di compravendita, redatto ante legge Bersani, non è specificata la forma di pagamento e il prezzo stabilito per l'acquisto dell'immobile è di molto più basso del valore effettivo dello stesso e vi è scritto che quanto convenuto:"di averlo regolato tra di loro al di fuori del presente atto".
Il soggetto in questione non ha corrisposto somme per l'acquisto della nuda proprietà.

Il quesito è questo:

1) Il soggetto nel rivendere il suddetto immobile può avere problemi di natura fiscale/legale?

2) Data la presenza di coeredi, è possibile per loro agire per la restituzione? Considerando quanto descritto, può essere difficoltosa tale azione da parte dei coeredi nei confronti del soggetto titolare dell'immobile?

Considerando che: immobile acquistato ante Bersani nel 2006, usufrutto padre nuda proprietà figlio, costo dell'acquisto basso, forma di pagamento non specificata nell'atto ma "regolato al di fuori dell'atto", decesso padre 2016, non esiste prova di passaggio di danaro padre-figlio.”
Consulenza legale i 17/02/2021
Come correttamente viene detto nel quesito, è soltanto dal 4 luglio 2006 che, per effetto di quanto disposto dall’art. 35 comma 22 d.l. 4 luglio 2006, n. 223 convertito con legge 4 agosto 2006, n. 248 (modificato dall'art. 1 comma 48 legge 27 dicembre 2006, n. 296), sussiste l’obbligo di riportare in tutti gli atti di cessione a titolo oneroso di immobili apposita dichiarazione sostitutiva di notorietà delle parti con l'indicazione delle modalità di pagamento.

In particolare le parti devono dichiarare se il pagamento è avvenuto in contanti ovvero mediante assegni bancari o circolari ovvero mediante bonifico bancario (in questi ultimi casi andranno indicati gli estremi degli assegni o dei bonifici eseguiti per il pagamento del prezzo).

Sembra opportuno anche precisare che la violazione dell'obbligo di dichiarare le modalità di pagamento non incide sulla validità dell'atto, il quale rimane pur sempre valido ed efficace, salva l’applicazione delle previste sanzioni, una di carattere amministrativo e l’altra di carattere fiscale.

Precisato ciò, occorre adesso affrontare il problema posto con la prima delle domande contenute nel quesito, ossia quella relativa alla possibilità che possano manifestarsi eventuali problemi di natura fiscale e/o legale in sede di successiva rivendita del bene.
In realtà, trattandosi di atto compiuto ormai da circa quindici anni, non può sussistere alcuna ragione per temere di andare incontro a problematiche di natura fiscale, non essendo più possibile che l’Agenzia delle entrate emetta un avviso di accertamento di maggior valore.
Nessun problema si pone anche sotto il profilo di una eventuale successiva rivendita del bene al reale prezzo corrente di mercato, in quanto sono ormai trascorsi abbondantemente i cinque anni dalla data di stipula dell’atto per dover subire la tassazione della plusvalenza che si andrebbe a realizzare (si ricorda, infatti, che la plusvalenza riguarda le cessioni a titolo oneroso di beni immobili acquistati, costruiti o ricevuti in donazione da non più di cinque anni).

Altra problema che si richiede di affrontare è quello relativo al rischio di una eventuale azione di riduzione (e conseguente restituzione) da parte degli altri eredi, problema che presuppone l’esistenza di altri soggetti, c.d. legittimari, la cui quota di riserva potrebbe aver subito una lesione (l’art. 536 del c.c. individua in coniuge, figli e ascendenti del de cuius i soggetti in favore dei quali è riservata una quota di eredità).
Ebbene, non può negarsi che questo si presenta come un rischio reale, considerato che, almeno secondo quanto si lascia intuire dal testo del quesito, ciò che le parti (padre e figlio) hanno posto in essere non è altro che una intestazione di immobile in nome altrui, espressione che viene tradizionalmente impiegata per designare quegli atti di liberalità per mezzo dei quali il donante, con l’accordo del donatario (ovviamente maggiore di età), intende far conseguire a quest’ultimo gratuitamente ed in via diretta la proprietà o altro diritto reale su un bene che un terzo pone in vendita (si dice “in via diretta” perché il bene, neppure per un momento, transita dal patrimonio del donante).

Così, sebbene nell’atto di compravendita del 2006 le parti abbiano effettuato un distinguo tra prezzo convenuto per la nuda proprietà e prezzo convenuto per l’usufrutto, dichiarando nel contempo che quel prezzo era stato regolato dalle stesse prima del rogito notarile, sarebbe teoricamente possibile che eventuali altri legittimari decidano di effettuare delle verifiche delle movimentazioni finanziarie di quel periodo sui conti bancari e/o postali di donante e donatario, onde accertare la reale provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto di quell’immobile.

Viene anche chiesto quanto possa essere difficoltoso per gli altri legittimari, potenzialmente lesi, portare avanti un’azione di tale natura, ed in effetti qualche difficoltà sicuramente sarebbero costretti ad affrontarla.
Infatti, sebbene anche gli eredi del defunto abbiano il diritto di richiedere lo storico degli estratti conto bancari, al fine di verificare le movimentazioni bancarie e così poter ricostruire l’asse ereditario del de cuius, occorre ricordare che secondo il disposto di cui al quarto comma dell’[[119tub]] l’obbligo della banca di soddisfare detta richiesta sussiste per tutta la documentazione inerente le singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni.

Nel caso in cui, invece, la richiesta riguardi estratti conto precedenti al decennio (come accadrebbe nel caso di specie), la banca potrebbe in prima battuta negare il rilascio degli stessi in forza della norma sopra richiamata, eccependo l’intervenuta prescrizione del diritto degli eredi di chiedere ed ottenere tale documentazione.
Occorre chiarire, tuttavia, che si tratta soltanto di una possibilità, e ciò in considerazione del fatto che nella prassi molti istituti di credito preferiscono dare riscontro a tale richiesta, conformandosi a quell’indirizzo formatosi nella giurisprudenza della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1584/2016, secondo cui le banche hanno comunque l’obbligo di fornire gli estratti conto a far data dall’apertura del conto corrente.

Pertanto, qualora a seguito della acquisizione di tale documentazione dovesse risultare una corrispondenza tra somme prelevate dal conto del padre e prezzo pagato per l’acquisto dell’immobile, sia per la nuda proprietà che per l’usufrutto, è chiaro che gli altri legittimari avrebbero tutto il diritto e l’interesse di agire in giudizio per chiedere la riduzione di quell’atto di liberalità scaturente dalla intestazione della nuda proprietà dell’immobile in favore di uno solo dei figli.

In casi come questo, un’ulteriore problematica che si pone, e che la giurisprudenza si è trovata costretta a dover affrontare, è quella di ciò che deve ritenersi oggetto della liberalità, ossia se la somma di denaro (la quale, come sicuramente è ben noto, nel corso del tempo è soggetta a svalutazione) ovvero il bene immobile (il quale, al contrario, con il passare del tempo si rivaluta).
Prevale ormai in giurisprudenza la tesi secondo cui l’oggetto della liberalità deve considerarsi non ciò di cui si è impoverito il donante, ossia la somma di denaro, ma ciò di cui si è arricchito il donatario, ossia l’immobile acquistato (così Cass. n. 9282/1992, Cass. n. 11496/2010), con la conseguenza che oggetto della riduzione sarà l’equivalente in denaro dello stesso bene immobile, secondo il valore che lo stesso ha al momento dell’apertura della successione (ex art. 747 del c.c.).


GIANNI S. chiede
mercoledì 30/01/2019 - Toscana
“Salve questo il mio caso,nel 1994 (25 anni fa) mio padre mi "intestò" un piccolo terreno agricolo, 580mq, non edificabile e con servitù elettrica, acquistandolo dal fratello. Questo terreno è una porzione di un appezzamento di famiglia di circa 3000mq, questo suddiviso fra i diversi eredi di mio nonno, fra i quali mio padre per altre porzioni.L'atto di acquisto dei 580mq in questione è a mio nome, con un valore di 3 milioni di lire dell'epoca, così come da trascrizione che ho consultato in conservatoria.
Morto recentemente mio padre, i figli del mio defunto ed unico fratello reclamano questo acquisto fatto a mio nome, essendo noto a loro questo fatto, chiedendo in cambio quindi una porzione di terreno equivalente della rimanente proprietà in successione da mio padre.
Venendo al quesito, come è più opportuno comportarsi:
- essendo l'atto di vendita a mio nome (e passati 25 anni) ignorare la richiesta;
-compensare in denaro i coeredi per quieto vivere familiare ma in che modo: rivalutando l'ammontare del prezzo pattuito all'epoca, oppure facendo un estimo al valore odierno del terreno?
Ringrazio anticipatamente per l'attenzione”
Consulenza legale i 03/02/2019
Non sempre le valutazioni ed i consigli fondati sulle regole giuridiche possono coincidere con le regole fondate sulla morale e sull’equità.

Un ragionamento condotto sula base di queste ultime regole, infatti, non può che spingerci a suggerire di assecondare le richieste dei parenti (i figli del fratello premorto), compensandoli del valore della quota di quel terreno che sarebbe loro spettata se lo stesso fosse caduto in successione e nella misura in cui sia stata effettivamente integrata una disparità di trattamento tra gli eredi.
Così, supponendo che eredi siano soltanto chi pone il quesito ed i figli del fratello premorto, a questi ultimi competerebbe per legge una quota complessiva pari al cinquanta per cento del patrimonio ereditario (da dividere in due), e ciò in forza del combinato disposto dell’art. 566 del c.c. (che stabilisce le quote) e dell’art. 467 del c.c. e seguenti (che disciplina la successione per rappresentazione).

Stando sempre a quanto stabilito dal codice civile in materia, l’equivalente monetario da corrispondere dovrebbe essere calcolato sul valore che l’immobile ha al momento dell’apertura della successione, e ciò in linea con quanto disposto dall’art. 746 del c.p.c. e dall’art. 747 c.p.c. (attenzione a tenere conto, nel calcolo di tale valore, anche della diminuzione che ne consegue dal fatto che il terreno risulta gravato da una servitù elettrica).

Questa la soluzione valevole sotto il profilo del rispetto delle regole di morale e di equità.
Diversa, invece, sarà la soluzione se si decidesse di seguire le regole giuridiche, ed in particolare quelle dettate dal codice civile in materia.
Intanto preme osservare che per ignorare la richiesta dei parenti non occorre invocare il decorso di 25 anni dalla data dell’acquisto, in quanto ciò potrebbe rendersi necessario qualora non vi sia un regolare e valido titolo di acquisto a legittimare l’esclusiva proprietà ed il legittimo possesso di quel bene.

Ciò posto, analizzando sotto un profilo “tecnico” la fattispecie negoziale attraverso cui si è divenuti proprietari di quel terreno, può dirsi di essere in presenza di una classica ipotesi di intestazione di beni a nome altrui (il padre ha acquistato il terreno intestandolo al figlio), a cui si attribuisce unanimemente natura di donazione indiretta (attraverso una compravendita il padre ha di fatto arricchito il patrimonio del figlio, facendovi entrare gratuitamente il terreno), ma tutto ciò sul presupposto che gli altri parenti abbiano elementi sufficienti per dimostrare che l’acquisto è avvenuto con denaro del padre (nonno).

Per la disciplina delle donazioni indirette trova espressa applicazione il primo comma dell’art. 809 del c.c., nella parte in cui dispone che le liberalità, anche se risultano da atti diversi da quello di donazione, sono soggette alle stesse norme che regolano la riduzione delle donazioni per integrare la quota riservata ai legittimari.

Da ciò se ne deve far conseguire che:

  1. se da una valutazione complessiva del patrimonio ereditario ne dovesse risultare che i figli del fratello premorto (eredi per rappresentazione) abbiano conseguito una quota inferiore a quella che la legge gli riserva, allora sarà il caso di assecondare le loro volontà e, nell’effettuare la divisione dei beni caduti in successione, attribuire loro una quota di maggior valore (che tenga conto della donazione indiretta ricevuta in vita dal de cuius), ovvero corrispondere agli stessi il correlativo valore in denaro.
Per la determinazione della quota di riserva il riferimento va fatto al secondo comma dell’art. 537 del c.c., il quale dispone che se il genitore lascia più figli, a questi è riservata la quota di due terzi da dividersi in parti eguali tra loro (in termini numerici, ai figli del fratello dovrebbe essere garantita una quota complessiva di 4/12, ossia pari a 2/12 ciascuno);

  1. se, invece, da quella donazione indiretta non ne è derivata alcuna lesione di legittima in danno dei nipoti, allora, usando l’espressione che si legge nel quesito, si potrà tranquillamente ignorare quella richiesta, in quanto la donazione indiretta del terreno andrà ad intaccare quella che si definisce quota disponibile del patrimonio ereditario, della quale chiunque può disporre come vuole (per la determinazione della porzione disponibile il riferimento va fatto all’art. 556 del c.c.).

Anna P. chiede
giovedì 03/05/2018 - Toscana
“CAUSA INDEBITO ARRICCHIMENTO CONIUGI. Il mio ex marito mi richiede 373 mila € per contribuzione acquisto casa coniugale a me intestata e pagata oltre 500 mila € poiché questo denaro proveniva sia da un conto personale suo che da un conto cointestato con me. Col suo veniva pagato il mutuo intestato a me ( terminato nel 2008) per ultimare l’acquisto della casa L’acquisto di essa è stato interamente gestito da lui col venditore al quale ha firmato assegni ed inviato bonifici dal conto cointestato mio e suo ; depositati infatti nel fascicolo in cancelleria del tribunale di Lucca con le diverse contabili ,( tutte a suo nome ), delle rate di mutuo da lui pagate col suo conto personale. Ma drammatico è il fatto che tutto quel denaro apparteneva a mia madre che aveva con me un conto cointestato . Alla morte di mio padre, la mia mamma ha , ingenuamente, messo in mano tutto il nostro denaro a lui (codici segreti di accesso ai conti) in quanto promotore finanziario . Per l’acquisto della casa e x il resto degli anni di matrimonio (25) il mio ex marito effettuava giroconti: dal conto cointestato mio / e di mia madre versava il denaro sul cointestato suo /e mio e in occasione del pagamento del mutuo , girava il denaro direttamente sul suo conto personale.Nel 2015 dopo la separazione , mi ha fatto causa per art 1150 e 2041. Il giudice ha indetto ctu autorizzandola ad accedere e assumere informazioni presso gli istituti bancari secondo indicazioni delle parti. Purtroppo le nostre banche non dispongono più dei conti del 1998! Nel giugno 2016 mio figlio , nel riporre in soffitta alcune cose, trova , tra alcuni documenti del mio ex , buona parte di quei vecchi conti che testimoniano che il denaro x la casa è di mia madre . Sono estratti conto originali e altri fogli su cui lui ha scritto come effettuerà l’acquisto dell’immobile, disinvestendo titoli miei e di mia madre e vendendo l’appartamento, a me intestato, regalatomi dai miei genitori in occasione delle mie nozze.Fatta immediatamente istanza al giudice x riammissione nei termini della documentazione che invio a giudice e ctu Si vede che sul cointestato mio e del mio ex marito in 3 mesi entrano 800 milioni di lire! Della mia famiglia. Il giudice rigetta l’istanza perché fuori dei termini( non so se in appello sarà ammissibile; temo di no) e perché la soffitta è nelle mie possibilità di accesso. A questo punto sono disperata anche perché l’esito della ctu non è favorevole per me. Vengo al dunque: la casa è intestata a me e nel preliminare di vendita lui scrive:”IL SIGNOR ++++++ È VENUTO NELLA DETERMINAZIONE DI ACQUISTARLO ( l immobile) PER SÈ O PER PERSONA FISICA O GIURIDICA DA NOMINARSI ALL’ATTO DEL ROGITO” Gentilmente vi chiedo se posso ricorrere alla DONAZIONE INDIRETTA supportandola con sentenze della Cassazione riferita a casi simili al mio. La casa è costata oltre 500 mila € e lui ne chiede 373 mila € . Quindi non interamente pagata da lui . Posso salvarmi attraverso una donazione INDIRETTA? Si tratta di una sorta di truffa, ho i documenti ma non posso usarli e rischio di perdere la causa. Già durante gli ultimi tempi del matrimonio la minaccia di mandarmi la casa all’asta e di un decreto ingiuntivo era ricorrente. Spesso me lo ripeteva ma non ho mai pensato ad un piano così diabolico! Due volte ha avuto l’allontanamento da casa (nel 2010) di cui uno dai figli ma io , stupidamente, ho ritirato tutte le denunce. Nel 2015 mi sono separata e finora nessun alimento. Ho altre cause in ballo con lui ma quella più grossa è questa. Mi potreste aiutare? L’unica alternativa mi sembra quella della donazione indiretta da parte sua. È paradossale ma non so come uscirne. Un incubo, tra i tanti! Grazie.”
Consulenza legale i 17/05/2018
Per donazione indiretta si intende un atto compiuto con spirito di liberalità, al pari della donazione prevista dall’art. 769 del c.c.
Essa consiste in un’attribuzione patrimoniale con cui si realizza il medesimo risultato della donazione, ovvero l’arricchimento dell’altra parte, ma con strumenti giuridici diversi dalla donazione vera e propria. In sostanza, le parti pongono in essere un negozio giuridico diverso dalla donazione c.d. “diretta”, e per la cui validità non è richiesta la forma dell’atto pubblico, prescritta invece per le donazioni dall’art. 782 del c.c.

La donazione indiretta trova il proprio fondamento normativo nell’art. 809 del c.c., che disciplina appunto le liberalità risultanti da atti diversi da quelli previsti dall'articolo 769 c.c.
Uno dei casi più frequenti di donazione indiretta è, appunto, l’intestazione in favore di altro soggetto di un bene - ad esempio un immobile - acquistato con denaro del donante.
L’azione di indebito arricchimento è, invece, prevista dall’art. 2041 del c.c.: chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra persona è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale.
L’esperibilità di tale azione presuppone pacificamente il carattere, appunto, ingiustificato dell’arricchimento: cioè che l’incremento patrimoniale di un soggetto a danno dell’altro sia avvenuto senza giusta causa, “sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale” (così, tra le altre, Cass. Civ. III, 25554/2011).
Nel caso in esame potrebbe astrattamente configurarsi la fattispecie della donazione indiretta, dal momento che le somme utilizzate per l’acquisto dell’immobile provengono - almeno apparentemente - da conti correnti intestati o cointestati al presunto “donante”.
Sostenere la sussistenza della donazione indiretta, sempre che ne ricorrano i presupposti, sarebbe sicuramente utile a contrastare la tesi di controparte riguardo all’ingiustificato arricchimento, dal momento che, come evidenziato sopra, quest’ultimo presuppone l’assenza di una causa e non può quindi essere invocato in presenza di un atto di liberalità.
Tuttavia, occorre anche tenere presente che, secondo Cass. Civ. II, 2149/2014, la fattispecie della donazione indiretta di immobile è configurabile solo nel caso in cui l'intero costo del bene, e non solo una sua frazione, sia stato sostenuto dal donante, perché solo in tale ipotesi la corresponsione del denaro sta in luogo dell'attribuzione liberale dell'immobile, di cui costituisce soltanto una diversa modalità attuativa, identico essendo il risultato giuridico-economico finale.
Nel caso in esame parte del corrispettivo dell’acquisto della casa è stata versata da un conto cointestato ai due coniugi: pertanto sussistono dubbi in merito alla effettiva possibilità di far valere la donazione indiretta.
Esiste poi un problema di ordine processuale, dal momento che, stando a quanto riferito nel quesito, l’altro coniuge ha già proposto una causa facendo valere sia un diritto al rimborso ex art. 1150 del c.c. (evidentemente per miglioramenti, addizioni e/o riparazioni straordinarie) sia ex art. 2041 c.c. per ingiustificato arricchimento. Tale giudizio risulta essere in fase piuttosto avanzata, come si evince dalla circostanza dell’avvenuto espletamento della C.T.U. e dal fatto che il giudice non ha consentito la produzione della documentazione da ultimo rinvenuta.
È evidente pertanto che, in questo stato del processo, la moglie convenuta non potrà eccepire che l’intestazione della casa sia avvenuta per effetto di donazione indiretta.
Il codice di procedura civile prevede infatti precisi termini sia per l’articolazione delle proprie difese sia per la formulazione di mezzi di prova e la produzione di documenti. Si tratta di termini perentori, cioè stabiliti a pena di decadenza.
In particolare, ai sensi dell'art. 167 del c.p.c., nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda; a pena di decadenza, deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio.

Per una risposta definitiva occorrerebbe analizzare gli atti della causa in corso e i documenti ritrovati.

V. S. chiede
lunedì 05/03/2018 - Lazio
“Buon Giorno
Premesso che con mia moglie siamo in separazione dei beni.
Nel 1995 ho ereditato, da mio padre, un tredicesimo di un appartamento, al pian terreno e 1/13 di un appartamento al primo piano di un villino plurifamiliare. (Proprietà originariamente di mio nonno)
Nel 2001, mia moglie ed io, abbiamo acquistato i 7/13 di tale proprietà, Io mi sono intestato le 7 quote del primo piano. A mia moglie sono state intestate 7 quote del piano terreno.
Per tale operazione abbiamo speso circa 236.000 euro di cui 72.000 di mutuo (un mutuo di 50.000 da restituire in 10 anni con rate annuali di 7.200 euro)
ed il resto ricavati dalla vendita di un mio immobile
Quindi
Io ero proprietario di 8/13 dell'immobile al primo piano (7/13 acquistati, 1/13 ereditato) ed 1/13 del piano terra (ereditato)
Mia moglie era proprietaria di 7/13 del piano terreno
Nel 2008 abbiamo intrapreso una causa di divisione giudiziale (per la precisione: una divisione ereditaria io ed una ordinaria mia moglie)
A settembre del 2017 la sentenza definitiva ha assegnato a mia moglie il 100% del piano terreno con l'obbligo di riscattare i 6 coeredi rimanenti.
ed a me il 100% del primo piano con l'obbligo di riscattare i 5 coeredi rimanenti.
Adesso, in forza della sentenza, mia moglie intende vendere il suo immobile e non intende restituirmi alcunché delle cifre che io ho messo a sua disposizione per acquistare il suo immobile.
Pensavo di fare una azione (contro mia moglie) per simulazione (causa estremamente difficile da vincere) oppure di sfruttare l'art 783 C.C. per aver fatto a mia moglie una donazione di non modico valore.
La mia domanda è
Ritenete che l'alternativa di appellarmi al codice 783 possa sortire alcun esito a me favorevole. Cosa rischio?
Cordiali saluti

Consulenza legale i 14/03/2018
Purtroppo il caso di specie si caratterizza per il fatto di trovarci in presenza non di una donazione diretta del denaro, bensì di una donazione indiretta delle quote di immobile (il denaro personale ha contribuito all’acquisto di quell’immobile).

E’ molto frequente nella vita quotidiana, e durante la convivenza coniugale, assistere a situazioni di questo tipo: Caio acquista un immobile intestandolo interamente alla moglie, in regime patrimoniale di separazione dei beni, paga per intero il valore del bene e dopo molti anni di felice matrimonio, per alterne vicende, vuoi perché si separa dalla moglie vuoi per qualunque altra ragione, si chiede se può riavere indietro la proprietà del bene acquistato con il suo denaro personale o comunque ottenere la restituzione del corrispettivo pagato a suo tempo.

Ebbene, in casi come questo, l’acquisto, pur non avendo le caratteristiche proprie dell’atto di donazione, ne partecipa indirettamente della natura; infatti, l’atto di acquisto si identifica in quello di compravendita dell’immobile o della porzione di immobile, mentre l'animus donandi è costituito dalla volontà di realizzare una liberalità in favore del coniuge senza corrispettivo, accollandosi l'intero o parte del prezzo di compravendita.

Ciò che si dona, dunque, come accennato all’inizio, non è il denaro, ma il bene immobile, e questa è la ragione per cui si parla di donazione indiretta, per la quale si sostiene pacificamente che non occorre la presenza dei testimoni come viene richiesta nel caso di donazione diretta del denaro (in tal senso possono citarsi Cass. 1992 n. 9282 e Cass. 1998 n. 5310).

Si ha infatti una “donazione indiretta” in tutti quei casi in cui si verifica un arricchimento del beneficiario in correlazione ad un connesso “impoverimento” del disponente (secondo lo schema tipico della donazione “vera e propria”) senza che sia stipulata una donazione “formale”, vale a dire quel contratto contenuto necessariamente in un atto pubblico notarile e ricevuto alla presenza di due testimoni.[1]

Dovendosi accettare, dunque, la tesi secondo cui la donazione di quella somma di denaro non può essere attaccata sotto il profilo della sua validità formale, seppure non si tratti di donazione di modico valore, si ritiene a questo punto che una sola sia la soluzione per cercare in qualche modo di recuperare quanto speso in quell’immobile interamente confluito nel patrimonio della moglie, ossia fare ricorso a quella che si definisce norma di chiusura del nostro ordinamento giuridico, l’art. 2041 c.c., applicabile appunto tutte le volte in cui non sussistono altri strumenti di tutela giuridica.

Di tale norma ne ha fatto egregia applicazione il Tribunale di Brindisi in una sentenza del 26 maggio 2014, resa nel corso di un giudizio afferente proprio i rapporti fra coniugi.

In particolare afferma in tale sentenza il Tribunale che la consapevolezza di provocare un arricchimento dell’altro coniuge in assenza di qualsiasi dovere che impone di realizzare l’atto, deve ritenersi elemento sufficiente per la sussistenza dell’animus donandi tipico del contratto di donazione, contratto che potrà in un secondo momento essere revocato soltanto nelle ipotesi tassative previste dall’art. 800 c.c., ossia per ingratitudine e per sopravvenienza di figli.

In mancanza del configurarsi di tali ipotesi, sarà tuttavia possibile agire per il riconoscimento dell’indennità per indebito arricchimento.

A tal fine occorre intanto verificare se sussiste l’ingiustizia, che consiste nell’arricchimento di una delle parti a scapito dell’altra, partendo dal presupposto che, seppure il trasferimento di beni o utilità sia ricollegabile ad un comportamento volontario del coniuge che, in modo deliberato, contribuisce all’incremento del patrimonio dell’altro coniuge, tale incremento non può in ogni caso essere giustificato dall’adempimento degli obblighi morali (nel caso di convivenza) o giuridici di assistenza morale e materiale e di collaborazione (per le famiglie fondate sul matrimonio), soprattutto quando si tratta di spese straordinarie rispetto agli esborsi abitualmente sopportati da una famiglia in base al tenore economico e sociale.

Certo, questo è un discorso che può valere e che può farsi nel momento in cui intervenga una crisi familiare ed una rottura del matrimonio tra i coniugi, ma se si ha già idea di intentare un’azione di simulazione e se l’altra parte vuole appropriarsi di tutto ciò che ricaverà dalla vendita dell’immobile, sembra evidente che qualcosa non funziona per il verso giusto.

Secondo quanto affermato dal Tribunale di Brindisi, infatti, l’azione di indebito arricchimento presuppone il venire meno della coabitazione, costituendo questa condizione essenziale per una specifica destinazione dell’utilitas al bene familiare; solo il venire meno della coabitazione, a seguito di una crisi familiare, può giustificare la restituzione di quell’attribuzione patrimoniale indiretta o del suo equivalente monetario, proprio perché viene meno il dovere di adempiere un dovere giuridico o morale.

Infine, onde poter qualificare come sperequata quella somma di denaro utilizzata per finanziare l’acquisto in capo all’altro coniuge, sarà sufficiente far rilevare ad un eventuale giudice a cui la questione dovrà essere sottoposta che, al fine di riuscire ad adempiere al pagamento della rimanente parte del prezzo di acquisto, si è stati costretti a contrarre un mutuo.

Al di là di tale strumento giuridico non si vedono altri rimedi per riscattare quella consistente somma di denaro, spesa per incrementare il patrimonio dell’altro coniuge.


[1] Si applicheranno, invece, alla donazione indiretta, le regole “sostanziali” che il codice civile detta per la donazione vera e propria; in particolare ci si intende riferire a quelle in materia di lesione di legittima.


Anonimo chiede
martedì 10/10/2017 - Lazio
“Nell’anno 1991 il mio convivente, con il quale avevo già due figli, decise di acquistare la casa in cui tuttora abitiamo. Io contribuii all’acquisto sia con denaro personale che grazie al contributo di mia madre, e il mutuo fu cointestato a lui e a me, sul mio conto corrente. L’appartamento invece fu INTESTATO SOLO A LUI: mi aveva espressamente chiesto che fosse così intestata solo a lui, nella sua qualità di padre di una bambina frutto di un precedente matrimonio, così che i tre figli (due nostri e una soltanto sua) un domani avessero pari diritti sull’immobile. So di essere stata sciocca, acconsentii, ma soprattutto mi sono fidata, di lui e del Notaio, un caro amico del fratello sindacalista. Contestualmente all’atto, il padre dei miei figli redasse di suo pugno una dichiarazione con cui esplicitava che malgrado la casa fosse registrata ESCLUSIVAMENTE a suo nome, in realtà io, convivente, avrei dovuto essere considerata comproprietaria al 50%. Il Notaio, penso consapevolmente, si guardò bene dal controfirmare o autenticare in alcun modo questa scrittura autografa. Nel 1994 ci siamo poi sposati, in separazione dei beni. Un’altra casa acquistata successivamente è intestata solo a lui sempre con la stessa motivazione della figlia.
Oggi vorrei chiedere la formale cointestazione ad ENTRAMBI, me e a mio marito, della casa CONIUGALE o, meglio ancora, cederei volentieri sin da subito la proprietà della mia “mezza casa” ai miei DUE figli, lasciando che la terza figlia - quella solo sua cioè - possa un domani godere dell’eredità solo in riferimento alla metà del padre e della parte uguale alle sorelle di quella al mare). Come devo procedere per far validare questo foglio che giace dimenticato da ben 26 anni? Le riporto qui le espressioni utilizzate:
“Io sottoscritto.......nato a...... riconosco che l’appartamento acquistato con atto per Notaio........ in data odierna, a me fiduciariamente intestato, in realtà è stato acquistato con il denaro anche della signora......nata a ..... il ......con me convivente e pertanto deve intendersi come acquistato con lei in parti uguali”.
Tutto di suo pugno e firmato (ma, come le dicevo, malgrado in presenza del Notaio, quest’ultimo si guardò bene dal controfirmare o validare nei modi opportuni...)
Come dovrei procedere per la tutela mia e dei miei figli?
Grazie ancora

Consulenza legale i 17/10/2017
Purtroppo si ritiene che la scrittura privata da lei citata sia priva di valore giuridico, quantomeno ai fini che a lei interessano.

Il sottoscrittore parla, infatti, impropriamente di "intestazione fiduciaria" dell'immobile, dal momento che il suddetto accordo non contiene alcun impegno al ritrasferimento del bene.

Di conseguenza, non si ritiene che tale scrittura privata possa essere fatta valere in giudizio al fine di ottenere il trasferimento della quota di proprietà da lei pretesa.

Nell'accordo, infatti, come si accennava, il suo compagno non si è impegnato a ritrasferirle in bene ma ha solo dato atto che il bene è stato acquistato con denaro anche suo (cosa, peraltro, incontestata e incontestabile, dal momento che il mutuo è cointestato con lei).

Un modo per ottenere l'intestazione di una quota di proprietà dell'immobile potrebbe essere quello di procedere alla stipula di un contratto di donazione (art. 769 c.c.), dinanzi al notaio. Ma questa strada, oltre ad avere dei costi, espone comunque al rischio della revoca (della donazione). Altra possibilità sarebbe quella di chiedere al compagno il rimborso di quanto lei ha pagato a titolo di mutuo (in qualità co-mutuataria). Di fatto, questo pagamento protrattosi negli anni, mancando un intento di liberalità da parte sua e non avendone lei ricavato alcun vantaggio patrimoniale, non è sorretto da un valido titolo, o quanto meno andrebbe dimostrato quale sia. Lei infatti non è fideiussore, ma proprio comutuataria. Quindi obbligata principale assieme al suo compagno nei confronti della banca mutuante. Alla banca può anche non interessare il perché lei abbia assunto un obbligo per l'acquisto di un bene non suo (è anzi felice di avere due obbligati principali), ma certamente chi ritrae vantaggio del vedersi pagata ogni mese metà della rata, è necessario che possa dimostrare che c'è un titolo alla base di questo contributo patrimoniale a titolo gratuito. Se c'è un arricchimento senza una giusta causa e senza che via sia un intento liberale ... qualcosa non va. Va capito fin dove lei è disposta a spingersi per far valere il suo buon diritto e che timori ha per il futuro. Varie potrebbero essere le soluzioni adottabili.







Alessia M. chiede
lunedì 10/07/2017 - Friuli-Venezia
“Buongiorno. A febbraio 2007 ho, sotto forti pressioni di una zia, acquistato un immobile (prezzo 320.000) e parte dei soldi per acquistarlo mi sono stati versati sul conto tramite assegni circolari (70.000 per l'acquisto più 15.000 per atti notarile e spese arie) da questa zia (sorella di Mia madre). Non vi sono stati atti scritti, e gli importi donati erano per lei di poco conto considerato che era amministratore di un azienda e percepiva compensi molto alti.(Si dice 30.000 euro al mese).L azienda è fallita e questa zia pretende la restituzione di quanto donatomi. Purtroppo però quando lei ha deciso di farmi acquistare l'immobile mi ha fatto anche sottoscrivere un mutuo con la banca molto alto (250.000), pertanto io non sono in grado di restituire nulla. L'acquisto era stato calibrato sui suoi redditi non sui miei. Aveva concordato tutto lei persino con la banca, io andavo solo a firmare quando era tutto deciso. Sto cercando di vendere la casa ma l'importo derivante dalla vendita coprirebbe a malapena i debiti. Io mi fidavo ciecamente di questa persona che ha pagato più di 100.000 in architetti, avvocati e professionisti a mio nome. Quando l'azienda è fallita, io mi sono ritrovata la casa distrutta perché lei aveva fatto iniziare i lavori di demolizione x ristrutturarla. Così ho dovuto contrarre ulteriori debiti x renderla abitabile. Io ho una bimba e un lavoro, pago a fatica tutti i debiti che lei mi ha lasciato. Mi sta minacciando di rivelare fatto personali al mio compagno se non la lascio stare in quella casa e di rovinarmi andando dal curatore fallimentare a dire che parte dei soldi erano suoi x far rientrare la casa nel fallimento. Come posso fare x difendermi? Si può considerare una donazione indiretta? Se fosse una donazione indiretta può chiedere a me i soldi che lei ha sperperato senza dirmi nulla? Se non e' una donazione, di cosa si tratta?Sono davvero preoccupata. Ha vari procedimenti penali in piedi per bancarotta fraudolenta, sta rischiando la prigione e io ho paura. Al momento vive dentro la mia casa, e io pago bollette e mutuo. Dice che quella è casa sua, ha portato cani e gatti che stanno rovinando tutto e alla mia richiesta di non tenerli in casa ha ribadito che è sua intenzione rovinarmi. Io non ho i soldi per sistemare ciò che viene rovinato.Ho paura a fare qualsiasi cosa perché temo le sue ritorsioni. Vi ringrazio per la risposta che mi darete.
Consulenza legale i 14/07/2017
Quando si parla di donazione ci si riferisce generalmente a quel contratto con il quale un soggetto (detto “donante”) trasferisce un proprio diritto (ad esempio: la proprietà di un immobile o di una somma di denaro) ad un altro soggetto (detto “donatario”) o assume verso quest’ultimo una obbligazione (ad esempio: l’obbligo di corrispondergli una rendita vitalizia) per spirito di liberalità, senza cioè ricevere una controprestazione, incrementando così l’entità della sfera giuridica del donatario a detrimento della sfera giuridica del donante.

Proprio perché si tratta di un’attività giuridica che provoca un impoverimento del patrimonio del donante senza che questi ottenga nulla in cambio, la legge circonda l’atto di donazione di forme molto “solenni”, e ciò per consentire una maggiore riflessione del donante su ciò che sta facendo.
Si parla in questo caso di “donazioni formali”, in quanto necessitano per la loro validità della forma dell’ atto pubblico; tuttavia, risulta molto frequente nella pratica che l’intento di un soggetto di beneficiare un altro soggetto senza avere una controprestazione in cambio possa raggiungersi, nella quotidianità dei rapporti tra persone legate da vincoli familiari o affettivi, anche mediante strumenti diversi rispetto a quelle che abbiamo prima definito “donazioni formali”.

Tipici esempi sono il caso del padre che paga un prezzo dovuto dal figlio per comprare un appartamento nella città ove frequenta l’Università; oppure il caso sempre del padre che paga un debito del figlio; oppure ancora il caso del nonno che versa una somma di valore non irrisorio sul conto corrente del nipote.
In queste ipotesi, così come in altre che ad esse possono assimilarsi, si parla di c.d. “donazione indiretta”, in quanto si verifica pur sempre un arricchimento del beneficiario in correlazione ad un connesso “impoverimento” del disponente, senza che sia stipulata una “donazione formale”, vale a dire un contratto contenuto in un atto pubblico notarile e ricevuto alla presenza di due testimoni.

Il ricorso al concetto di donazione “indiretta” trova proprio la sua ragion d’essere nel fatto che si giunge al medesimo effetto di una donazione (e cioè, si ripete, l’impoverimento del donante e l’arricchimento del beneficiario) non direttamente attraverso un contratto stipulato con il ministero notarile, ma appunto “indirettamente”, e cioè attraverso un percorso che conduce comunque al medesimo risultato.
In conseguenza di ciò si avrà che alla donazione indiretta non si applicheranno le regole formali della donazione vera e propria (e cioè la regola dell’atto pubblico notarile in presenza di due testimoni, con la conseguenza della validità della donazione indiretta anche senza atto notarile), ma troveranno per essa applicazione le regole sostanziali che il codice civile detta per la donazione vera e propria (il riferimento è in particolare alle norme in tema di lesione della quota di legittima, non potendo la donazione indiretta costituire uno strumento per aggirare l’applicazione di tali norme).

Sullo specifico tema della donazione indiretta, una pronuncia della Corte di Cassazione che si ritiene estremamente utile richiamare è la sentenza emessa dalla Cassazione Civile, sez. I, n. 21494 del 10 ottobre 2014, la quale, pronunciandosi relativamente ad un caso di donazione indiretta effettuata tramite il trasferimento del danaro da padre a figlio, al fine precipuo di evitare che il bene acquistato costituisse oggetto della comunione legale, ha confermato e riepilogato una serie di principi, in tema di liberalità indirette, che possiamo considerare oramai consolidati e che qui si vogliono riportare:
a) allorquando il donante elargisca del danaro al fine di permettere al donatario di procedere con l'acquisto di un determinato bene immobile, e quindi la disposizione patrimoniale sia specificamente finalizzata al suddetto acquisto, si ha donazione indiretta dell’immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto (cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 5-08-1992, n. 9282)
b) per la validità delle donazioni indirette di un immobile non è richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità.
Ciò in quanto l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall'art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (cfr. Cass. civ. Sez. II, 16-03-2004, n. 5333; Cass. civ. Sez. I, Sent., 05-06-2013, n. 14197).
c) nella donazione indiretta, in particolare in quella realizzata attraverso l’acquisto del bene da parte di un soggetto con danaro che altro soggetto mette a sua disposizione con spirito di liberalità, l’attribuzione gratuita viene attuata con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti che lo pongono in essere, e non è quindi simulato. Tale negozio produce, quindi, non soltanto l’effetto diretto che gli è proprio, ma anche quello indiretto relativo all’arricchimento del destinatario.

Occorre tuttavia evidenziare che, sempre richiamandoci a quanto affermato nella sentenza sopra citata, sussiste un solo limite per l’ipotesi in cui si sia beneficiari di una donazione indiretta, ossia che, allorquando si dovesse essere citati in giudizio dalla zia per la restituzione di quanto donato sulla base del difetto della forma dell’atto pubblico previsto per la donazione (assumendosi magari la nullità della donazione per mancanza del requisito della modicità di valore di quanto donato), sarà onere della parte convenuta che eccepisca l’esistenza di una donazione indiretta, di provare i fatti su cui l’eccezione si fonda, ex art. 2697 c.c.

Nel nostro caso la prova potrebbe esser data dal versamento sul conto della nipote degli assegni circolari e dal contestuale impiego di quelle somme per finanziare parte dell’acquisto dell’immobile.
A tutto ciò va aggiunto che, qualificandosi la dazione delle somme di denaro quale forma di donazione indiretta, troveranno per essa applicazione, in virtù dell’espresso richiamo contenuto nell’ art. 809 c.c. le norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d'ingratitudine e per sopravvenienza di figli.

Pertanto, non sembrando ricorrere in questo caso alcuna delle predette cause di revocazione, la donazione delle somme effettuate dalla zia non potrà essere revocata per nessun’altra ragione.

Per quanto concerne la minaccia da parte della zia di portare la situazione a conoscenza del curatore fallimentare, ossia di informare quest’ultimo delle somme che sono uscite dal patrimonio della fallita per finanziare l’acquisto della nipote, va detto che, trattandosi di atto a titolo gratuito, troverà applicazione l’art. 64 della Legge fallimentare, per effetto del quale negli atti gratuiti (rinunzie, remissioni, adempimenti di debiti altrui, ecc.), valutati avendo riguardo alla concreta causa del negozio e prescindendo dalla forma giuridica rivestita (Cass. n. 17200/2012), compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento (esclusi i regali d’uso e gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, in quanto la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante), la revoca è ope legis.

Dalla formulazione del quesito non è dato purtroppo determinare con esattezza l’anteriorità della donazione rispetto alla dichiarazione di fallimento; tuttavia, per l’ipotesi peggiore, si potrebbe tentare di far valere la tesi secondo cui si tratta di una donazione posta in essere in adempimento di un dovere morale della zia, proporzionata peraltro al patrimonio della donante.

Per quanto concerne infine il problema dell’occupazione abusiva della propria casa, va intanto chiarito che ricorre tale fattispecie non soltanto nel caso in cui un soggetto si insedi in casa altrui, eventualmente forzando la serratura, senza che il proprietario dell’immobile lo abbia mai autorizzato, ma anche quando il consenso del proprietario, benché inizialmente sussistente, venga poi revocato e, ciò nonostante, l’utilizzatore continui ad abitare l’immobile, contro la volontà del proprietario.
Ora, quando purtroppo non c’è un contratto di affitto scritto e registrato né alcun altro titolo che legittimi la presenza del soggetto terzo (quale ad esempio un diritto di abitazione), la tutela diventa a volte abbastanza complessa, più lunga e certamente meno immediata, e può essere sia civile che penale.

In ambito civile il proprietario può agire proponendo una delle cosiddette azioni petitorie, vale a dire quelle dirette a tutelare il legittimo titolare del bene (a condizione però che questi dimostri il diritto di proprietà; non ci sono termini massimi di prescrizione per ricorrere a tale tutela), ovvero l’azione di reintegra del possesso (che consente di tutelarsi in via immediata ed urgente ricorrendo al giudice per ottenere la restituzione dell’immobile; in questo caso, però, i termini per agire si riducono, in quanto l’azione possessoria può essere esercitata entro un anno dalla data del sofferto spoglio).
Ovviamente la sola sentenza non sarà sufficiente se l’occupante si rifiuta di rilasciare l’immobile, essendo per tale caso necessaria la successiva esecuzione forzata: il proprietario dovrà dunque richiedere l’intervento dell’ufficiale giudiziario che, eventualmente, potrà farsi accompagnare dalla forza pubblica per vincere eventuali resistenze fisiche.

Sotto il profilo della difesa di carattere penale, il proprietario può rivolgersi sempre ai Carabinieri o alla polizia e presentare una denuncia (la stessa potrebbe essere depositata anche presso la locale Procura della Repubblica).
La persona che occupa abusivamente l’immobile, infatti potrebbe aver integrato uno dei seguenti reati: reato di invasione di terreni od edifici, nonché reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento, il furto ed il reato di violazione di domicilio.

In conclusione, dunque, sulla base delle considerazioni sopra svolte, e data la complessità della vicenda in cui ci si trova ad essere coinvolti, si suggerisce di seguire le seguenti tappe:
  1. intimare alla zia di lasciare l’abitazione, preferibilmente con formale lettera redatta da parte di un legale;
  2. in caso di inottemperanza, presentare una denuncia penale, nella speranza che questa possa nel frattempo creare nella zia uno stato di timore tale da indurla a lasciare volontariamente l’abitazione, potendo questa risultare la strada più celere rispetto ad una azione civile;
  3. qualora la zia dovesse agire in giudizio per far valere la nullità della donazione di quelle somme, far valere la tesi secondo cui la dazione di quelle somme in effetti ha configurato una tipica ipotesi di donazione indiretta, non soggetta in quanto tale al particolare formalismo previsto per gli atti di donazione formale, dimostrando a tal uopo la contestualità dell’utilizzo del denaro per l’acquisto dell’immobile e per le spese accessorie a tale acquisto ricollegabili (quali quelle per l’atto notarile).

Domenico . M. chiede
lunedì 03/03/2014 - Lazio
“Mia zia nubile, sorella di mio padre, non ha figli ne altri ipotetici eredi, pensionata di 83 anni intestataria di euro 150.000,00 quale frutto di una polizza posta in essere a suo tempo dalla sorella deceduta nel 2009, che le aveva assegnato tale somma. Decide di passare a me i suoi soldi con bonifico bancario, senza alcuna causale. Cosi sul mio conto sono traslati i suoi soldi. Ora, dopo quasi quattro anni, rivuole i suoi soldi che io chiaramente non ho più perché li ho spesi per la ristrutturazione della casa dove lei attualmente abita da sola in qualità di usufruttuaria, della quale casa io sono il proprietario in virtù di testamento olografo disposto dalla sorella deceduta, che era unica proprietaria della casa. Desidererei sapere se con azione legale potrebbe riavere i soldi. Grazie!”
Consulenza legale i 12/03/2014
Nel caso in esame vi è un trasferimento pecuniario consistente effettuato con bonifico, senza causale, e privo di un altro titolo o documento che possa comprovare la ragione di un tale spostamento di denaro. Chi ha ricevuto il pagamento ha utilizzato il denaro per ristrutturare un immobile di cui ha la nuda proprietà, mentre usufruttuaria è proprio chi ha dato la somma.

Le ipotesi sono principalmente due:
- vi è stata una donazione;
- vi è stato un prestito di denaro.

Quanto alla prima ipotesi, la donazione, se mai l'intenzione della zia fosse stata quella di regalare il denaro, sarebbe nulla. Infatti, l'art. 782 del c.c. stabilisce che la donazione deve essere fatta per atto pubblico sotto pena di nullità. Poiché nel caso di specie manca del tutto qualsiasi atto che attesti l'avvenuta donazione (non c'è nemmeno una scrittura privata), la somma di euro 150.000 transitata dal conto della zia a quello del nipote non può configurarsi come atto di liberalità valido.
La zia potrebbe, quindi, chiedere la restituzione della somma invocando la nullità della donazione. Ai sensi dell'art. 2033 del c.c., chi ha eseguito un pagamento non dovuto (ad esempio, in esecuzione di una donazione nulla) ha diritto di ripetere ciò che ha pagato.
Tale azione si prescrive in dieci anni, quindi la zia è ancora in tempo per esperirla.

Quanto alla seconda prospettiva, il contratto di mutuo (cioè il contratto che ha ad oggetto la consegna di una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, con l'obbligo per chi le riceve di restituire altrettante cose della stessa specie e qualità, v. artt. 1813 ss. c.c.) è un contratto a forma libera, dal momento che la legge non richiede espressamente la forma scritta.
Ben potrebbe, quindi, la zia aver prestato al nipote la somma di euro 150.000. La signora potrebbe quindi chiedere la restituzione del denaro adducendo quale titolo per la restituzione l'esistenza di un contratto di mutuo, esistenza che dovrà essere provata rigorosamente in giudizio, anche con testimoni o per presunzioni.
La giurisprudenza sul punto sostiene che chi chieda la restituzione di una somma di denaro, sia tenuto a dimostrare in maniera inequivocabile la ragione di tale domanda. La Cassazione, con sentenza del 24 febbraio 2004, n. 3642, si è così pronunciata: "la datio d'una somma di danaro non vale, infatti, di per sé, a fondare una richiesta di restituzione allorquando, ammessane la ricezione, l'accipiens non confermi, tuttavia, il titolo posto ex adverso alla base della pretesa di restituzione ed, anzi, ne contesti la legittimità, dacché, potendo una somma di danaro essere consegnata per varie cause, la contestazione della sussistenza d'un'obbligazione restitutoria da parte dell'accipiens impone, all'attore in restituzione, di dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, onere che si estende alla prova d'un titolo giuridico implicante, appunto, detta obbligazione, mentre la deduzione d'un diverso titolo da parte del convenuto, non configurandosi come eccezione in senso sostanziale, non vale ad invertire l'onere della prova (Cass. 6 luglio 2001 n. 9209, 2 aprile 1999 n. 3205, 23 aprile 1998 n. 4197, 3 febbraio 1995 n. 1321, 25 febbraio 1992 n. 2333)".

Pertanto, in base ai fatti esposti nel quesito, sembra che la zia possa chiedere al nipote la restituzione della somma, anche se incombe su di lei l'onere di provare il titolo in base al quale chiede la ripetizione del denaro.

Anonimo chiede
giovedì 03/10/2024
“Se un padre dona al figlio 999999 euro con bonifico bancario quindi valore sotto la franchigia di un milione di euro non paga imposta ma comunque è necessario atto pubblico (notaio) tranne il caso di donazione indiretta? Ringrazio”
Consulenza legale i 04/10/2024
Ai sensi dell’art. 782 c.c., la donazione deve essere stipulata per atto pubblico, sotto pena di nullità.
Fanno eccezione all’obbligo di forma solenne:
La giurisprudenza (si veda la recentissima Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 02/07/2024, n. 18098) ha precisato che “la donazione indiretta si identifica con ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da un fine di liberalità e abbia l'effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, e nel quale l'intenzione di donare emerge solo in via indiretta, dal rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso, nei limiti in cui siano tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio; per la validità delle donazioni indirette, non è però richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo sufficiente l'osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità”.

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