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Articolo 2034 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Obbligazioni naturali

Dispositivo dell'art. 2034 Codice Civile

Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente(1) prestato(2) in esecuzione di doveri morali o sociali(3), salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace(4)(5).

I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri effetti(6)(7).

Note

(1) La prestazione non deve essere fatta in esecuzione di un dovere giuridico (ad esempio di una sentenza di condanna), ciò che costituisce la principale differenza tra l'obbligazione naturale e l'obbligazione civile (1173 ss. c.c.). La spontaneità non va confusa con la volontarietà, per cui l'eventuale errore non rileva.
(2) E' discusso se la prestazione comprenda solo un dare (ad esempio, versare una somma di denaro) od anche un fare (ad esempio, eseguire una certa attività).
(3) Il riferimento al dovere morale e sociale consente di ritenere applicabile la norma anche in ipotesi non tipizzate dal codice (di cui, in generale, al comma 2; tra di esse il debito prescritto, 2940 c.c., ed il debito di gioco, 1933 c.c.), ogni volta che l'inosservanza del dovere determini una disapprovazione sociale da parte della comunità.
(4) Se si ritiene che la norma si giustifichi in base ad un principio di autoresponsabilità deve concludersi che la capacità in questione sia solo quella naturale (428 c.c.). Se, invece, si qualifica la prestazione come atto negoziale deve sussistere la capacità d'agire (2 c.c.).
(5) Oltre a spontaneità e capacità si ritiene che l'operatività della norma esiga anche un rapporto proporzionale tra la prestazione e le capacità economiche del solvens. L'istituto disciplinato dal comma prende il nome di soluti retentio.
(6) Si ritiene che il secondo comma della norma sia speciale rispetto al primo (quindi ne contiene tutti gli elementi), in quanto fa riferimento alle ipotesi in cui l'obbligazione naturale è tipizzata dal codice, come, ad esempio, quella di debito di gioco (1933 c.c.). Anche l'elaborazione giurisprudenziale ha individuato delle fattispecie riconducibili all'ambito della norma, tra le quali il pagamento di interessi extralegali (purché non usurari ex art. 1284, comma 3 c.c.) convenuti oralmente.
(7) Per cui, tra gli altri: non è suscettibile di compensazione (1241 c.c.) o novazione (1230 c.c.); non è trasmissibile in via ereditaria, cosicché l'erede che vi adempie lo fa, a sua volta, in esecuzione di un'obbligazione naturale; non è suscettibile di essere garantita personalmente (1936 c.c.) o realmente (pegno, 2784 c.c. o ipoteca (2808 c.c.).

Ratio Legis

Il legislatore riproduce il principio per cui i vincoli che non hanno carattere giuridico non ricevono tutela dall'ordinamento, essendo rilevanti, al più, sul piano morale e sociale.
Tuttavia, il pagamento spontaneo non può essere ripetuto e ciò si giustificherebbe in base al principio di autoresponsabilità, conclusione rafforzata dal fatto che l'irripetibilità non opera se il solvens è incapace.

Brocardi

Is natura debet, quem iure gentium dare oportet, cuius fidem secuti sumus
Soluti retentio

Spiegazione dell'art. 2034 Codice Civile

Nozione di "obbligazione naturale"

L'obbligazione naturale consiste nell'adempimento di un dovere morale o sociale, tale per cui il debitore, pur non avendo il dovere (giuridico) di adempiere, una volta eseguita la prestazione non può più ottenere la ripetizione (restituzione) di quanto prestato. Si suole dire, infatti, che le obbligazioni naturali non costituiscono una idonea causa obbligandi, ma sono una valida causa solvendi. Diversamente da quanto avviene nei casi di obbligazioni civili, il debitore non è giuridicamente obbligato ad eseguire la prestazione, ma, se la esegue, non può chiederne la restituzione (c.d. soluti retentio).
L'art. 2034 c.c. costituisce una evidente eccezione al disposto del precedente art. 2033 c.c. che disciplina il c.d. indebito oggettivo.

Ratio e funzione dell' "obbligazione naturale"

L'istituto permette all'ordinamento di aprirsi alle nuove esigenze sociali e di dare un valore giuridico a certi comportamenti ignorati dal diritto ma sentiti come vincolanti dalla collettività (Gazzoni). Più in generale l'ordinamento mostra, mediante la previsione di questa norma nel proprio corpus normativo, di valutare positivamente l'esecuzione spontanea di doveri di natura prettamente morale e sociale, anche laddove questi non abbiamo assunto rilievo giuridico normativo.

E' utile precisare che, secondo l'opinione che risulta prevalere in giurisprudenza e dottrina, non vi rientrano i doveri dettati della moralità individuale o quelli che esprimono valori condivisi da una collettività ristretta, privi del carattere di generalità. Non basta, pertanto, che il soggetto avverta, per la sua morale personale, la necessità di adempiere. Occorre che tale inclinazione risponda a un sentire diffuso, condiviso dalla collettività, e che sia pertanto oggettivamente qualificabile come dovere sociale.

Esempio di scuola di obbligazione naturale è il pagamento dei debiti di gioco.

Natura dell'atto di adempimento dell' "obbligazione naturale"

Secondo parte della dottrina, l'atto di adempimento avrebbe natura negoziale poiché nell'adempimento di una obbligazione naturale mancherebbe la doverosità, conseguentemente si sarebbe in presenza di un contratto di attribuzione (Rescigno) ad effetti reali e reale (Oppo), ovvero di un negozio unilaterale (Bianca). Pertanto, l'atto di attribuzione compiuto in adempimento di una obbligazione naturale, essendo appunto atto di natura negoziale, richiederebbe sempre e comunque la ricorrenza della piena capacità di agire, non bastando quella di intendere e volere (ovvero la capacità "naturale"), come accade, invece, nel caso delle obbligazioni c.d. civili, e l'adempimento sarebbe impugnabile con l'azione di annullamento certamente in caso di violenza e dolo, e per taluni (ma è posizione del tutto minoritaria), per errore (sulla obbligatorietà giuridica dell'adempimento).
Per altra corrente dottrinale, invece, si tratterebbe di un atto non negoziale, e precisamente di un atto giuridico in senso stretto, in quanto l'adempimento non rappresenterebbe di per sè un atto di autoregolamentazione, essendo la regola già prefissata e derivante appunto dal dovere morale o sociale previsto dall'ordinamento extrastatuale, quindi indipendentemente dalla volontà del solvens. Sarebbe, pertanto, un adempimento in tutto simile a quello delle obbligazioni c.d. civili. Effetto immediato di questa teoria è che non può comunque rilevare l'errore, e, per conseguenza, chi paga credendo (erroneamente) di esservi tenuto giuridicamente (non socialmente), non potrà, in seguito, impugnare in alcun modo il suo atto di adempimento.
Resta, però, da spiegare come mai il legislatore escluda allora la possibilità della soluti retentio nel caso di incapacità. Secondo l'opinione maggioritaria laddove il legislatore, all'art. 2034, dice "salvo che la prestazione sia eseguita da un incapace" deve leggersi come riferimento alla mera capacità naturale. Basta, pertanto, la consapevolezza del proprio agire, a prescindere che si tratti di soggetto capace o incapace di agire. Sarebbe così anche spiegata la scelta fatta da legislatore del termine "spontaneamente", preferendolo a "volontariamente", che pure era possibile. Laddove, infatti, quest'ultimo richiama al concetto di volontà dell'agire (e quindi non possono non rilevare tutti i vizi della volontà, compreso l'errore), il primo invece mostra di considerare unicamente l'aspetto legato alla mera capacità naturale, ovvero alla necessità che vi sia la capacità di intendere e volere, e nulla più.

Vicende dell' "obbligazione naturale"

L'unico effetto giuridicamente rilevante conseguente all'adempimento dell'obbligazione naturale consiste nel diritto del destinatario a a trattenere e non restituire la prestazione effettuata in suo favore.
Pertanto, nessuna obbligazione naturale potrà mai essere suscettibile di novazione, compensazione, datio in solutum, nè tramite tali figure giuridiche sarà possibile trasformare l'obbligazione da naturale in civile.
Quanto alla cessione del credito naturale, la dottrina maggioritaria ritiene che l'effetto di irripetibilità non si produca in favore di una persona diversa dal creditore naturale, ciò alla luce del carattere personale del rapporto, che non sembra poter tollerare un adempimento del terzo, anche a causa del possibile regresso. Lo stesso dicasi per la delegazione di pagamento del creditore naturale al proprio debitore naturale in favore di un terzo.
Per tali ragioni l'obbligazione naturale non si trasmette neppure mortis causa, poiché, non avendo giuridicità prima e fuori dall'adempimento, non ha carattere patrimoniale e quindi non fa parte di quei diritti ed obblighi nei quali l'ordinamento prevede il subentro dell'erede. Si ritiene comunque possibile che sorga in capo all'erede un'autonoma obbligazione naturale avente ad oggetto l'adempimento di quella del de cuius.

Ambito applicativo dell' "obbligazione naturale"

L'art. 2034 c.c. distingue le obbligazioni naturali in due categorie, tra le quali sussiste un rapporto di genus a species. Il primo comma ha una portata applicativa generica, bastando, per la sua sussistenza, l'esistenza di un dovere morale o di coscienza e l'esecuzione spontanea dello stesso.

Invece il secondo comma prevede (con un rimando generico, laddove dice "e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato") fattispecie tipiche di obbligazioni naturali, casi cioè predeterminati dall'ordinamento e, nello specifico, il pagamento del debito di gioco ( art. 1933 del c.c. ), l'obbligo di eseguire la c.d. disposizione fiduciaria (art. 627 del c.c. ), e infine il pagamento di un debito prescritto (art. 2940 del c.c.).

Su quest'ultima fattispecie, però, non c'è accordo unanime in dottrina, essendo oggetto di ampio dibattito se davvero l'adempimento di un debito prescritto dia luogo ad una ipotesi di adempimento di obbligazione naturale.
Secondo alcuni autori la risposta non può che essere affermativa, poiché l' art. 2940 del c.c., che sancisce l'irripetibilità dell'adempimento spontaneo, ha richiama chiaramente, negli effetti e nella struttura, l'art. 2034 c.c.. La prescrizione opererebbe nel senso della estinzione dell'obbligazione civile con contestuale nascita immediata di una obbligazione naturale, che ne prenderebbe il posto. Ne consegue, pertanto, che l'eventuale incapacità sopravvenuta determinerebbe la ripetibilità di quanto prestato.
Secondo altra parte della dottrina, invece, la prescrizione estinguerebbe non l'obbligazione bensì l'azione volta ad ottenere l'adempimento coattivo, e quindi il debito sopravviverebbe. La spiegazione, pertanto, della non ripetibilità dell'indebito, andrebbe trovata al di fuori delle obbligazioni naturali. Semplicemente la prescrizione non estingue il diritto, cosicché, in caso di adempimento, andrebbe applicato l'art. 1191 del c.c., in base al quale vige l'irrilevanza dell'incapacità (anche di quella solo naturale) nel caso di adempimento di obbligazioni civili. Il pagamento, pertanto, non sarà in alcun caso ripetibile.

Alcuni esempi di "obbligazione naturale"

  • Prestazioni gratuite, diverse dalla donazione, effettuate a favore del convivente more uxorio - Le attribuzioni patrimoniali effettuate a favore del convivente more uxorio nel corso del rapporto (sempre che vengano rispettati i requisiti della proporzionalità ed adeguatezza) costituiscono una obbligazione naturale, poiché le unioni di fatto, quali formazioni sociali aventi rilievo ex art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche in rapporti di natura patrimoniale.
  • Pagamento spontaneo di interessi pattuiti oralmente in misura extralegale, sempre che non assumano connotazione usuraria;
  • Adempimento spontaneo da parte dell'erede di una disposizione testamentaria orale del de cuius - In tal caso però devono sussistere due requisiti fondamentali: in primo luogo il testatore deve aver manifestato all'erede legittimo in vita una propria volontà in modo chiaro ed inequivoco; in secondo luogo il destinatario di tale volontà deve eseguirla in modo spontaneo.
  • il pagamento di un debito esistente nonostante la sentenza di assoluzione pronunciata in ragione della mancanza di prove dell'obbligazione
  • l'adempimento di una obbligazione annullata per mancanza di capacità
  • la riparazione di un danno cagionato a terzi, anche laddove non ricorrano tutti i presupposti per ottenere il risarcimento
  • la prestazione di alimenti da patrigno a figliastra, nel caso in cui il patrigno abbia trattato la figliastra sempre come figlia
  • l'esecuzione volontaria di una disposizione testamentaria nulla per qualche vizio di forma

Accertamento giudiziale dell' "obbligazione naturale"

L'indagine che il giudice deve compiere per accertare se si trovi di fronte ad una obbligazione naturale è duplice. Da un lato dovrà accertare se, nel caso di specie, sussiste un dovere morale e sociale, in relazione alla valutazione corrente nella società attuale; dall'altro se tale dovere sia stato adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza. Tali indagini implicano valutazioni e apprezzamenti di fatto che si sottraggono a censura in sede di legittimità se correttamente motivate.

Rapporti e differenze della "obbligazione naturale" con altri istituti

Obbligazione naturale e donazione
Chi adempie una obbligazione naturale lo fa con la convinzione di esservi tenuto e non per compiere una liberalità: adempie, cioè, con animus solvendi e non con animus donandi. In particolare, l'obbligazione naturale va distinta dalle liberalità d'uso (art. 770 del c.c., che si caratterizzano per la modicità della prestazione e per la loro conformità al costume sociale. La liberalità d'uso rientra comunque nella categoria degli atti liberali, mentre ciò non vale per il solvens dell'obbligazione naturale.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

18 L'esclusione di ogni effetto giuridico ai semplici doveri di coscienza e a quelli imposti dalla convenienza sociale contrappone, all'obbligazione in senso tecnico, quella c.d. naturale. Il codice vigente accenna a quest'ultima solo nell'art. 1237, per sancire l'effetto dell'irripetibilità del pagamento fatto in adempimento di essa. Il richiamo incidentale e generico alla categoria delle obbligazioni naturali sembra sufficiente alla commissione reale, che nell'art. 66 del suo progetto si atten­ne a quanto appare detto nel codice del 1865: la Commissione non ritenne così opportuno di definire l'origine e gli effetti delle obbligazione naturali, di prendere partito sul rapporto, tra obbligazione naturale ed obblighi morali e di coscienza, di chiarire la posizione dell'obbligazione naturale rispetto a quella civile. Non ho condiviso questo indirizzo, data la gravità delle di­spute che si agitano sul l'argomento, e che, tramandate dai cultori del diritto romano, furono ravvivate, anziché sopite, dal sistema dell'art. 1237 cod. civ. Ho innanzitutto creduto di identificare l'obbligazione naturale con i semplici doveri di coscienza e con quelli derivanti dalle convenienze sociali. E' vero che tale identificazione non cor­risponde alla genesi storica della categoria delle obbligazioni naturali, e, per quanto de iure condito autorevolmente soste­nuta, non raccoglie i favori della dottrina prevalente; ma, poiché, come ora si vedrà, ho voluto limitare gli effetti delle obbligazioni naturali alla semplice soluti retentio, quella identificazione risulta più facile, dato che si riconosce pacifica­mente che anche i doveri morali o di coscienza importano l'effetto della irripetibilità. Solo un pregiudizio di scuola quindi poteva far continuare a differenziare la categoria delle obbligazioni naturali in senso stretto da quelle puramente morali o di coscienza. Del resto, nella formulazione adottata (semplici doveri di coscienza e doveri derivanti da convenienze sociali che abbiano contenuto patrimoniale) rientrano indubbiamente le figure che la dottrina più rigorosa considerava le sole specie di obbligazioni naturali. Quanto al delicato problema relative agli effetti delle obbligazioni stesse, ho ritenuto che, ove non si volesse necessariamente a reminiscenze storiche di sistemi giuridici ormai superati, non si poteva non accettare la soluzione più rigorosa. Se la giuridicità dell'obbligo deriva sostanzialmente dalla possibilità che il diritto del creditore si realizzi anche al di fuori o contro la volontà del debitore (che altrimenti il diritto del creditore non sarebbe più tale), a mio parere, deve discenderne, come conseguenza logica, che l'obbligazione naturale non è un vincolo giuridico neppure imperfetto: come tale non è idoneo a produrre effetti giuridici. La soluti retentio è, infatti, più che un effetto immediato dell'obbligazione naturale, una conseguenza del volontario adempimento, il quale crea una situazione che solo da questo momento l'ordinamento giuridico prende in considerazione e intende tutelare. Resta così chiaramente esclusa la novabilità dell'obbligazione naturale, e la possibilità di assumere una valida obbligazione civile sul fondamento esclusivo di una obbligazione naturale.

Massime relative all'art. 2034 Codice Civile

Cass. civ. n. 11303/2020

Nell'ambito del rapporto di convivenza "more uxorio", il termine di prescrizione dell'azione di ingiustificato arricchimento decorre non dai singoli esborsi, bensì dalla cessazione della convivenza. (Rigetta, CORTE D'APPELLO TORINO, 07/02/2018).

Cass. civ. n. 30114/2017

Il pagamento spontaneo di interessi in misura ultralegale costituisce adempimento di una obbligazione naturale e determina l'irripetibilità ex art. 2034 c.c. delle somme pagate a tale titolo a condizione che consegua ad una pattuizione che determini anche la misura degli stessi, dovendosi altrimenti escludere che possa configurarsi un dovere morale e sociale che ne giustifichi l'adempimento. Devono, di conseguenza, essere ritenuti ripetibili gli interessi ultralegali addebitati da una banca sul conto corrente del cliente per sua esclusiva iniziativa e senza alcuna autorizzazione da parte del cliente medesimo.

Cass. civ. n. 15954/2017

Il pagamento effettuato in esecuzione di una pattuizione contrattuale successivamente dichiarata nulla è ripetibile, perché non può qualificarsi come adempimento di un’obbligazione naturale in quanto non è possibile rinvenire il presupposto della spontaneità né quello dell’esecuzione di un dovere morale o sociale.

Cass. civ. n. 1266/2016

Le unioni di fatto, quali formazioni sociali rilevanti ex art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale, di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale e si configurano come adempimento di un'obbligazione naturale ove siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza. Ne consegue che, in un tale contesto, l'attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente "more uxorio" assume una siffatta connotazione quando sia espressione dei vincoli di solidarietà ed affettività di fatto esistenti, alternativi a quelli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, benché non possa escludersi che, talvolta, essa trovi giustificazione proprio in quest'ultimo, del quale deve fornirsi prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce valutazione, riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva negato la natura di obbligazione naturale al contributo lavorativo della donna all'azienda del convivente, in quanto fonte di arricchimento esclusivo dello stesso in luogo di quello dell'intera famiglia cui detto apporto lavorativo era preordinato).

Cass. civ. n. 1277/2014

Le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell'ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell'art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale. Ne consegue che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio" effettuate nel corso del rapporto (nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente) configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, senza che assumano rilievo le eventuali rinunce operate dal convivente - quale quella di trasferirsi all'estero recedendo dal rapporto di lavoro - ancorché suggerite o richieste dall'altro convivente, che abbiano determinato una situazione di precarietà sul piano economico, dal momento che tali dazioni non hanno valenza indennitaria, ma sono espressione della solidarietà tra due persone unite da un legame stabile e duraturo.

Cass. civ. n. 1218/1975

L'indagine che il giudice deve compiere per accertare se si trova di fronte a una obbligazione naturale è duplice. Da un canto egli deve accertare se nel caso sottoposto al suo esame sussiste un dovere morale o sociale, in relazione alla valutazione corrente nella società attuale; dall'altro se questo dovere sia stato adempiuto con una prestazione che presenti un carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso. Dette indagini implicano valutazioni e apprezzamenti di fatto, che si sottraggono a censura in sede di legittimità, se correttamente motivate. Il principio secondo cui l'obbligazione naturale acquista rilevanza giuridica ed entra nel mondo del diritto solo con l'adempimento porta ad escludere che l'obbligo morale e sociale possa formare oggetto di trasmissione ereditaria in senso tecnico. Cionondimeno, i doveri morali e sociali possono sussistere non solo nei confronti della persona che ha posto in essere la particolare situazione di fatto, ma, in determinate circostanze, dopo la morte di questa, anche verso un suo strettissimo congiunto, specie se l'utilità economica che la prima avrebbe potuto trarre dalla situazione stessa e non ha tratto, si sarebbe trasformata in vantaggio anche per il congiunto.

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Paolo L. chiede
martedì 27/04/2021 - Lazio
“Gentile Brocardi,
con la presente sono a chiedervi una consulenza in merito alla decorrenza dei termini della prescrizione tra coniugi ai sensi dell'articolo 2941 c.c. ovvero se la decorrenza dei termini sono da calcolare dalla sentenza di separazione oppure di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Ricapitolo molto sinteticamente la vicenda tra mio padre e mia madre che si sono separati con sentenza del Tribunale di XXX con addebito a mio padre. (Precedentemente con atto notarile i miei genitori sono passati dal regime della comunione a quello della separazione dei beni).
Dopo ben 24 anni dalla suddetta sentenza di separazione mio padre, con ricorso notificato a mia madre, ha avviato l’iter per la cessazione degli effetti civili del matrimonio chiedendo anche la revoca dell’obbligo di mantenimento come da sentenza di separazione. Tale giudizio è tuttora in corso.
Mia madre si è costituita con domanda riconvenzionale chiedendo oltre alla revisione in aumento dell’assegno di mantenimento (mia madre settantenne ha sempre fatto la casalinga) anche la restituzione di ben 150 milioni di lire (frutto di un lascito ereditario del padre) da lei versati in contanti agli inizi degli anni 80 per consentire a mio padre di costruire un palazzo di ben 9 appartamenti su una sua proprietà terriera (lavori terminati nel 1982 in piena vigenza della comunione).
Va detto che mia madre può dimostrare questo trasferimento di denaro solo indirettamente ovvero tramite la sottoelencata documentazione:
a) Atto di successione dove si evince le somme ereditate da mia madre a seguito della morte del padre;
b) Atto di successione di mio padre dove si evince che ha ereditato un piccolo appezzamento di terra dove poi successivamente sorgerà l’edificio;
c) la ricostruzione della carriera lavorativa di mio padre dove si evince che l’anno dopo in cui mia madre erediterà la suddetta somma costituirà la sua prima ditta edile per avviare i lavori di costruzione del Palazzo di 9 appartamenti e quindi passando da operaio edile dipendente di una ditta ad imprenditore del settore delle costruzioni;
d) licenza edilizia e comunicazione di fine lavori attestante appunto l’iter autorizzatorio, il progetto edilizio e la fine lavori, avvenuto sempre in quell'arco temporale;
e) Testimonianza sottoscritta del fratello di mia madre (residente negli USA) che ha contribuito all’operazione immobiliare anche con suoi prestiti.

E’ del tutto evidente dalla cronologia degli eventi che mio padre ha potuto avviare i lavori e quindi costruire il suo discreto compendio immobiliare solo ed esclusivamente grazie all’apporto finanziario di mia madre; apporto sempre avvenuto in contanti su base fiduciaria (con mio padre aveva tre figli tra cui io).
In occasione della prima udienza del procedimento per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, tenutasi mercoledì 23 novembre u.s., presso il Tribunale di YYY, il Giudice ha già anticipato che avrebbe deciso esclusivamente sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio e per l’assegno di mantenimento, invitando mia madre ad intraprendere eventualmente un nuovo giudizio in merito alle sue pretese economiche nei confronti di mio padre.
Questa cosa ci ha un po’ preoccupati. Non vorremmo andare incontro ad un giudizio infondato, pertanto, con la presente consulenza sono a chiedervi se vi sono i presupposti di fatto e di diritto per avviare, con separato giudizio, tale richiesta di “restituzione” delle somme versate (con eventuali interessi) a fronte delle motivazioni e della documentazione prodotta da mia madre nella domanda riconvenzionale e, cosa più importante, se i crediti vantati sono ancora esigibili oppure andati prescritti.
Lascio sotto i miei recapiti per ulteriori informazioni e per eventuale trasmissione di documentazione.
Nell’attesa invio i miei più cordiali saluti”
Consulenza legale i 04/05/2021
La questione del diritto alla restituzione delle somme versate, a vario titolo, da un coniuge durante il matrimonio è complessa e presenta diverse sfaccettature.
Nel caso di coppia unita in matrimonio, esiste una precisa norma, l’art. 143 c.c., che impone a entrambi i coniugi, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, di contribuire ai bisogni della famiglia.
Sulla base di ciò, la giurisprudenza ha chiarito che “a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell'altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio” (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 10927 del 7 maggio 2018).
Nella vicenda descritta nel quesito, però, i versamenti effettuati dalla moglie in favore del marito non sono stati utilizzati per i bisogni familiari, bensì per gli investimenti immobiliari del secondo, che grazie a quel denaro ha potuto avviare una vera e propria attività imprenditoriale nel settore.
Esclusa, dunque, l’applicabilità dell’art. 143 c.c., occorre esaminare se vi siano ulteriori norme che escludono la possibilità di un rimborso.
In proposito, un altro istituto cui ha fatto ricorso la giurisprudenza è quello delle obbligazioni naturali (art. 2034 c.c.), ovvero quelle prestazioni che vengono spontaneamente eseguite in adempimento di doveri morali o sociali. Due sono le caratteristiche fondamentali delle obbligazioni naturali: la prima è di non essere coercibili (cioè non si può essere costretti a pagare); la seconda è l’irripetibilità di quanto versato (una volta pagato, non si può chiedere la restituzione).
Ora, nella materia che ci occupa, la giurisprudenza, sia pure con riferimento alle coppie di fatto, ha precisato che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., purché siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza (Cass. Civ., Sez. III, sent. 15/05/2018, n. 11766; conforme Cass. Civ., Sez. I, 22/01/2014, n. 1277, la quale ha aggiunto che “tali dazioni [...] sono espressione della solidarietà tra due persone unite da un legame stabile e duraturo”).
Nel nostro caso, tuttavia, anche in considerazione del fatto che la moglie neppure godeva di redditi propri, ma ha sempre dato il proprio contributo ai bisogni della famiglia mediante il lavoro casalingo (le somme consegnate al marito provenivano da un lascito ereditario), sembra potersi escludere che sussistano sia la proporzionalità che l’adeguatezza.
Almeno in astratto, dunque (perché sarebbe necessario conoscere tutti i dettagli della vicenda), appare possibile richiedere il rimborso delle somme. Tuttavia, come correttamente rilevato dal giudice nel procedimento di divorzio, la relativa domanda deve essere proposta in separato giudizio.
A tal fine si potrebbe ipotizzare anche la sussistenza di un mutuo gratuito, con conseguente obbligo alla restituzione delle somme (nel quesito non viene specificato nulla circa l’eventuale esistenza di un accordo, anche non scritto, in tal senso). In assenza di azioni specifiche, la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile l’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.: si veda Cass. Civ., Sez. III, 15/05/2009, n. 11330, anche se riferita ancora una volta alla convivenza more uxorio. In particolare, secondo la Suprema Corte, l'arricchimento senza causa è configurabile quando le prestazioni rese esulano dall'adempimento dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e reciproca assistenza che, avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti, presiedono alla famiglia di fatto (considerazioni, queste, che possono essere estese anche alla famiglia nata dal matrimonio).
Trattandosi di fatti risalenti nel tempo, si pone, evidentemente, il problema di una eventuale prescrizione del diritto alla restituzione delle somme. Va premesso che, per stabilire se un diritto sia prescritto o meno, è necessario innanzitutto individuare il dies a quo della prescrizione, cioè il momento a partire dal quale la prescrizione inizia a decorrere in quanto il diritto stesso può esser fatto valere. Senza addentrarci in questa sede nella disamina di tale aspetto, va ricordato che nei rapporti tra coniugi si applica l’art. 2941 c.c., richiamato nel quesito, che stabilisce la sospensione della prescrizione tra coniugi. La sospensione della prescrizione opera anche durante la separazione personale, implicando questa solo un'attenuazione del vincolo (così Cass. Civ., Sez. III, ordinanza n. 7533 del 1 aprile 2014).
Il problema principale, nel nostro caso, è di ordine probatorio, vista la difficoltà di provare i trasferimenti di denaro, effettuati in contanti: tale profilo deve essere dunque valutato con particolare attenzione.

FILOMENA S. chiede
lunedì 25/05/2020 - Marche
“Spett.le Brocardi srl, ho già chiesto altre volte consulenza per me; parlando con mie amiche mi hanno detto delle loro richieste, espresse mio tramite per la loro difficoltà ad usare il mezzo informatico. Di seguito tratto del caso della sig.ra Franca che in virtù della rendita vitalizia (allegato 1 atto del 22.05.2006) da parte del padre Gino, deceduto il I/11/19 in cambio di assistenza morale e materiale, le veniva conferita la quota di 12/18 di nuda proprietà sulla casa di via verga (visura allegata 2). La restante proprietà rimaneva ripartita tra le sorelle e Franca come da visura. Date le condizioni di salute del padre Gino negli ultimi 10 anni si rendeva necessaria l'assistenza continuata di due persone. A tal fine si prodigavano sia la Sig.ra Franca che il marito Giovanni senza aver mai possibilità di sostituzione da parte delle altre sorelle Vagnoni. Quest'ultime mai facevano visita al padre, né assistenza in quanto adirate per la stipula della rendita vitalizia, ma con la precisazione che esse già prima di tale atto avevano relegato la sorella Franca alla cura esclusiva del padre Gino, quasi come obbligo in quanto senza figli. Dopo la morte del padre Gino, le sorelle di Franca pretendevano dalla stessa la liquidazione monetaria della loro quota di proprietà sulla casa di via Verga, ma la signora Franca, che non aveva potuto lavorare per assistere il padre, quindi in assenza di liquidità diceva che tale somma doveva andare in compensazione con il servizio prestato dal marito Giovanni pensionato al di lui suocero Gino. Le sorelle ribattevano che la prestazione di Giovanni era una obbligazione naturale in quanto convivente in casa con Franca e Gino ovvero che nel contratto di rendita era previsto che la signora Franca poteva avvalersi di terze persone; la Franca precisava, invece, che l'impegno preso nell'atto di rendita riguardava solo lei o un sostituto estemporaneo, non una persona aggiunta in modo stabile, come si era in pratica verificato.
In assenza di un accordo, Giovanni può chiedere giudizialmente il pagamento degli anni in cui ha prestato assistenza al suocero convivente (eventualmente poi compensando con l'acquisto delle quote di proprietà delle sorelle di Franca)?”
Consulenza legale i 03/06/2020
Occorre in primo luogo chiarire il concetto di “compensazione”, istituto prevista dall’art. 1241 c.c. quale una delle cause di estinzione delle obbligazioni diverse dall’adempimento.
Tale norma prevede che “quando due persone sono obbligate l'una verso l'altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti”.
La compensazione può essere di tre tipi: legale, giudiziale o volontaria.
Quest’ultima (prevista dall’art. 1252 c.c.) è possibile per volontà delle parti anche se non ricorrono le condizioni della compensazione legale (cioè anche se non si tratta di crediti certi liquidi ed esigibili come previsto dall’art. 1243 c.c.).
Tuttavia, anche quando si ha una compensazione per volontà delle parti, non può mancare il requisito della reciprocità delle obbligazioni: cioè le due persone devono essere obbligate una verso l’altra.

Orbene, nella presente vicenda non si ravvisano le condizioni per una compensazione né legale né volontaria mancando il presupposto di base della reciprocità delle obbligazioni.
Infatti, il coniuge della signora Franca non è obbligato nei confronti delle sorelle di quest’ultima le quali a loro volta non risultano debitrici nei confronti del Sig. Giovanni.
In merito a tale aspetto, va ricordato che l’art. 433 c.c. nel menzionare i soggetti obbligati agli alimenti elenca generi e nuore solo successivamente al coniuge, figli e genitori.

Quindi, possiamo affermare che il coniuge della signora Franca non fosse obbligato a provvedere all'assistenza del suocero né dal punto di vista della legge né dal punto di vista contrattuale in quanto la rendita vitalizia era stata stipulata esclusivamente tra padre e figlia (il coniuge era intervenuto all’atto ma solo ai fini di escludere la comunione, come ivi espressamente specificato).
Nè risulta essere intercorso un qualche accordo (risultante da scrittura privata) tra suocero e genero.

Appare dunque corretto, in mancanza di un obbligo come sopra specificato, inquadrare la posizione del Sig. Giovanni nell’ambito delle obbligazioni naturali, come sostenuto dalle sorelle della Sig.ra Franca, disciplinate dall’art. 2034 del codice civile. In base a tale norma, “non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali".
Ciò significa che per quanto fatto, non può essere chiesto un corrispettivo né una restituzione di somme eventualmente sborsate.

Pertanto, la risposta alla domanda contenuta nel quesito deve purtroppo intendersi negativa.


Giovanni R. chiede
mercoledì 25/10/2017 - Lazio
“Chiedo un approfondimento sul quesito Q201719443:
Il patrimonio del de cuius è costituito dal mobilio e dalla casa di cui mia zia deteneva i 5/9 mentre i rimanenti 4/9 sono ripartiti fra i vari eredi dei fratelli premorti. I figli e la moglie del nipote D, premorto un anno fa, che posseggono individualmente 2/81 ciascuno, ritenendosi allora eredi, avevano contribuito al sostentamento, alle cure della zia e al funerale. Al momento della pubblicazione del testamento, saputo di non poter succedere in rappresentanza del padre, hanno chiesto ai sensi dell'art 752 cc la restituzione delle somme sebbene fossimo disponibili a dare loro, legati da affetto verso D, una notevole somma, dopo la vendita della casa e al netto delle spese. Tale somma, inferiore ai 3/12 del patrimonio ereditato, sarebbe stata corrisposta attraverso atto pubblico a loro carico impegnandosi pro quota a far fronte ad eventuali passività che sarebbero potute insorgere sul patrimonio.
I figli di D non hanno accettato e continuano a considerare la parte che la zia avrebbe lasciato al padre come un loro esclusivo diritto e non certo un “regalo” da parte di alcuno e per iscritto invitano, con tono polemico, a donare la parte spettante al padre per la ricerca medica. Oltre alla restituzione delle somme non ritenendosi obbligati ai sensi dell'art 433,437, 443 risultando loro congiuntamente proprietari, come detto sopra, dei 6/81 della casa, ne chiedono le chiavi.
Chiedo:
1. I figli di D ai sensi dell'art 433 erano tenuti a contribuire al sostentamento ed alle cure della zia (per loro prozia)?
2. Dobbiamo restituire tutte le somme versate o solo quelle relative al funerale? Preciso che tali somme sono tutte provabili. Essi sostengono che siano state versate dalla madre non avendone l'obbligo ai sensi dell'art 433 cc. A questo proposito faccio presente che i relativi bonifici bancari provengono dal suo conto ma sono emessi a nome dei figli e della stessa.
3. Dobbiamo dare le chiavi? Possiamo eventualmente limitare il loro accesso solo ad alcuni ambienti considerato l'esiguità della loro percentuale di proprietà e porre il mobilio negli ambienti che chiuderemmo in attesa di venderlo o traslocarlo? In caso non fosse possibile possiamo chiedere un ragionevole tempo per il trasloco in un deposito prima di consegnare una copia delle chiavi? Prima della consegna delle chiavi va stilato un verbale dello stato dei luoghi?
4. Affermano di ritenere prematuro occuparsi della vendita della casa e di eventuali incontri con agenzie immobiliari finché non saranno risolte le pendenze economiche in questione, è corretto? In caso, per scelta di qualcuno, i tempi si dovessero allungare possiamo fare azioni per sbloccare la vendita contro la loro volontà o degli altri comproprietari?
5. Da ultimo informano che si occuperanno direttamente delle questioni inerenti il condominio. Ciò è possibile o bisogna andare in assemblea rappresentando unitariamente i millesimi attribuiti alla casa?
6. Possedendo noi 57/86 della proprietà e quindi la quota maggioritaria abbiamo diritti e doveri particolari nei confronti dei proprietari minoritari e del condominio?”
Consulenza legale i 02/11/2017
Prima di rispondere alle singole domande poste, si ritiene necessario fare alcune precisazioni nascenti dal testo del quesito stesso.

E’ del tutto errato chiedere la restituzione di somme versate per sostentamento, cure della zia e funerale ex art. 752 c.c., in quanto tale norma fa espresso riferimento alla ripartizione dei debiti ereditari tra coloro che rivestono la qualità di eredi, mentre i figli ed il coniuge di D non possiedono tale qualità nei confronti della zia defunta, essendo stati esclusi dalla successione della stessa in rappresentazione del padre premorto.

Precisato ciò, ed esclusa la possibilità di un accordo del tipo proposto, consistente nella corresponsione di una somma di denaro in segno di riconoscenza delle cure e delle premure prestate nei confronti della zia, vediamo come possono essere risolte le problematiche risultanti dalle singole domande poste.

  1. I figli di D ai sensi dell'art. 433 erano tenuti a contribuire al sostentamento ed alle cure della zia (per loro prozia)?

A questa domanda deve rispondersi negativamente, in quanto la norma citata pone l’obbligo di prestare gli alimenti in capo ai fratelli ed alle sorelle germani o unilaterali, ma non in capo ai loro figli (così n. 6 dell’art. 433 c.c.).

  1. Dobbiamo restituire tutte le somme versate o solo quelle relative al funerale?

Sembra opportuno intanto a questo proposito chiarire che, ex art. 1180 c.c., qualunque obbligazione, anche quella relativa alle spese funerarie, può essere adempiuta parzialmente o per intero da un terzo, salvo che il vero debitore si opponga o che il creditore abbia interesse che sia il debitore ad eseguire personalmente la prestazione.
Qualora non si sia voluto porre in essere un adempimento del debito altrui, ricorrerà la diversa figura del c.d. indebito soggettivo, disciplinata dall’art. 2036 c.c.; tale norma infatti, dispone che chi ha pagato un debito altrui, nell’erroneo convincimento di essere lui il debitore sulla base di un errore scusabile (in questo caso l’errore può ravvisarsi nel credersi erede in rappresentazione), può ripetere ciò che ha pagato, con diritto di subentrare nei diritti del creditore se la ripetizione non è più possibile.
Questo vale per le sole spese funerarie.
Per quanto concerne, invece, le somme uscite dal loro patrimonio per sostentamento e cure della zia, la norma a cui fare riferimento si ritiene che sia l’art. 2034 c.c., la quale dispone che non è ammessa la ripetizione di quanto sia stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, tranne il caso in cui sia stato un incapace ad eseguire la prestazione.
Si tratta di quelle che il codice definisce obbligazioni naturali, cioè obbligazioni che vengono spontaneamente adempiute e per le quali non è prevista alcuna forma di coazione; dovere morale è l'obbligo di carattere etico, che vincola il soggetto a livello personale, mentre dovere sociale è il dovere sentito come tale dalla collettività, quale può essere proprio l'obbligo di assistere finanziariamente un parente bisognoso.
Per tali somme, dunque, i figli di D non possono vantare alcun diritto al rimborso.

  1. Dobbiamo dare le chiavi? Possiamo eventualmente limitare il loro accesso solo ad alcuni ambienti considerato l'esiguità della loro percentuale di proprietà e porre il mobilio negli ambienti che chiuderemmo in attesa di venderlo o traslocarlo? In caso non fosse possibile possiamo chiedere un ragionevole tempo per il trasloco in un deposito prima di consegnare una copia delle chiavi? Prima della consegna delle chiavi va stilato un verbale dello stato dei luoghi?

Dal testo del quesito sembra di capire che i figli e la moglie di D siano comproprietari della casa lasciata dalla zia in ragione di 6/81 indivisi per successione legittima del padre e marito.
Ciò è sufficiente per dare loro diritto a ricevere copia delle chiavi della suddetta abitazione, almeno fin quando non si sarà proceduto a stipulare un formale contratto di divisione dell’immobile, sempre che ciò sia possibile.
Fino a tale momento non ci si potrà rifiutare di consegnare loro le chiavi né si potrà pretendere di limitare il loro accesso solo ad alcuni vani dell’abitazione; del resto, si tenga presente che l’art. 1111 c.c. dettato in materia di comunione in generale, riconosce espressamente a ciascuno del partecipanti alla comunione il diritto di chiedere in qualsiasi momento il suo scioglimento, salvo che si tratti di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso a cui sono destinate (così art. 1112 c.c.).
Tuttavia, allorché ci si dovesse trovare in presenza di una situazione del genere, ossia di immobile che per ragioni tecniche, urbanistiche o di qualunque altra natura non possa essere diviso, si potrà ricorrere al disposto di cui all’art. 720 c.c., norma dettata in materia di divisione ereditaria ed espressamente richiamata dall’art. 1116 c.c.
Dispone infatti l’art. 720 c.c. che se l’immobile non è comodamente divisibile, dovrà essere preferibilmente compreso per intero nella porzione del coerede avente diritto alla quota maggiore ovvero anche nelle porzioni di più coeredi, se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione; la quota degli altri comproprietari esclusi, invece, dovrà essere conguagliata in denaro (quindi, nel nostro caso, per una porzione pari a 6/81 si dovrà procedere ad una liquidazione in denaro).
Sicuramente sarà legittimo chiedere un congruo termine per sgomberare i locali da ogni bene mobile, così come si ritiene che sia alquanto prudente redigere un verbale di consegna delle chiavi, del quale si potrà approfittare per fare una breve descrizione dello stato dell’immobile, da rappresentare, se si vuole, anche mediante foto da allegare al verbale stesso.
Nessuno formula particolare occorre rispettare per la sua stesura, purché da esso si faccia risultare la consegna di copia delle chiavi, da cui ne conseguirà ipso iure la presa di possesso pro quota dell’immobile.

  1. Affermano di ritenere prematuro occuparsi della vendita della casa e di eventuali incontri con agenzie immobiliari finché non saranno risolte le pendenze economiche in questione, è corretto? In caso, per scelta di qualcuno, i tempi si dovessero allungare possiamo fare azioni per sbloccare la vendita contro la loro volontà o degli altri comproprietari?

L’assenza di un accordo sulla vendita dell’immobile comporta la necessità di fare innanzitutto ricorso al disposto di cui al sopracitato art. 1111 c.c., norma che riconosce il diritto di chiedere in qualsiasi momento lo scioglimento della comunione, consentendo soltanto all’autorità giudiziaria di differire tale scioglimento per un termine che non può essere superiore a cinque anni e soltanto allorché si dimostri che l’immediato scioglimento possa pregiudicare gli interessi degli altri.
Ciò significa che, se all’invito di procedere alla divisione dovesse essere opposto un rifiuto, si avrà ugualmente il diritto di ottenere immediatamente la divisione, ma purtroppo l’unica strada che resta è quella della divisione giudiziale, procedimento disciplinato dall’art. 784 e ss. c.p.c..
Qualora la divisione non sia possibile e nessuno dei comproprietari sia disposto a chiederne l’assegnazione per intero con addebito dell’eccedenza, si dovrà far luogo alla vendita all’incanto ex art. 720 ultima parte c.c.; patti e condizioni della vendita, in difetto di accordo dei condividenti, saranno stabiliti dall’autorità giudiziaria (così art. 721 c.c. , che richiama a sua volta l’art. 788 c.p.c.).
Evidentemente si tratta di una procedura alquanto lunga e dispendiosa, ragione per cui si consiglia di fare il possibile per raggiungere un accordo per la vendita consensuale dell’immobile.


  1. Da ultimo informano che si occuperanno direttamente delle questioni inerenti il condominio. Ciò è possibile o bisogna andare in assemblea rappresentando unitariamente i millesimi attribuiti alla casa?

Questa domanda trova risposta nell’attuale art. 67 disp. Att. C.c., il quale prevede che, nel caso di pluralità di proprietari (ne costituiscono tipici esempi proprio l’immobile ereditato o comunque in comunione tra coniugi), tutti quanti gli interessati hanno diritto ad essere avvisati dello svolgimento dell’assemblea, ma solamente uno di essi, in rappresentanza di tutti, ha diritto di partecipare alla riunione.
Il rappresentante che parteciperà all’assemblea dovrà essere designato dai comproprietari interessati ex art. 1106 c.c., e nell’atto di delega potranno determinarsi i poteri e gli obblighi dell’amministratore/rappresentante; qualora non si riesca a raggiungere un accordo sul soggetto che dovrà svolgere la funzione di rappresentante, sarà il presidente dell’assemblea di condominio a provvedervi mediante sorteggio.

6. Possedendo noi 57/86 della proprietà e quindi la quota maggioritaria abbiamo diritti e doveri particolari nei confronti dei proprietari minoritari e del condominio?

Risulta ovvio che ogni diritto così come ogni obbligo sarà rapportato alla misura della propria quota di proprietà; ciò significa che, se viene deliberato di effettuare nel condominio dei lavori di straordinaria manutenzione, coloro che hanno la quota maggioritaria avranno senza dubbio un maggior potere nel decidere se eseguire o meno tali lavori, così come, del resto, saranno tenuti a sopportarne le relative spese in misura maggiore rispetto ai comproprietari minoritari.
In definitiva, ogni diritto ed ogni peso saranno proporzionalmente commisurati alla quota di comproprietà di cui si è titolari.

Cliente chiede
lunedì 22/04/2024
“Diritto di Famiglia: Successionie Ereditaria
Siamo 3 fratelli che hanno ereditato un immobile dal genitore defunto (madre) nel 2019 già suddiviso in precedenza dopo la morte del padre (prima della madre) 1999.
La successione è stata da me presentata con accordo degli altri 2 fratelli (uno con intervento di un legale per conto della sorella più grande) nell'Agosto 2020 All'Agenzia delle Entrate, dove è stato dichiarato che non c'erano altri beni da dividere oltre all'immobile.
Io ho il possesso dell'immobile (chiavi) dal 1999 da quando mia madre è rimasta vedova in quanto sono stato l'unico degli altri 2 fratelli ad occuparmi di lei fino alla sua morte (2019).
Il fratello più grande (sorella) per una sua volontà ha interrotto i rapporti con mia madre e con me a partire dal 2001, senza mai preoccuparsi dello stato di salute e altro della madre fino ad essere assente nel giorno del suo funerale.
L'altro fratello (il più piccolo) pur essendo all' estero per lavoro ha mantenuto i rapporti telefonici e sporadici d' incontro con me e con la madre, perché sapeva che io avrei pensato anche per Lui a ns. madre.
Dal 2005 fino al 2020 oltre al possesso delle chiavi dell' immobile, sono stato residente nell'abitazione con mia madre.
Nel 2020 ho cambiato residenza perché mi sono sposato ma ho continuato ad avere il possesso dell' immobile fino ad oggi.
Nel 2022 c'è stato una sorta di riavvicinamento con la sorella, mio e di mio fratello (che non parlava più con la sorella dal 2013) per dei problemi di salute della stessa e guai giudiziari.
Detto riavvicinamento da parte mia si è subito interrotto nel Novembre 2022, mentre per mio fratello non so se ha ancora rapporti.
Di recente ho ricevuto una raccomandata lettera e pc inviata anche a mio fratello (dove non leggo gli estremi della raccomandata inviata allo stesso) di un avvocato per conto della sorella, che intesta la lettera "Scioglimento divisione Ereditaria della madre" invitando le parti ad un accordo stragiudiziale per la consegna da parte mia di una copia delle chiavi ad entrambi fratelli (il fratello più piccolo non ha mai rivendicato niente dopo la successione) e per
effettuare in contraddittorio l'inventario dei beni mobili ivi presenti".
Da precisare che fin dalla morte di mia madre l' immobile di comune accordo con gli altri fratelli è stato messo in vendita e tutt' ora è in vendita, libero da cose(vuoto) e nessuno dei due dal momento della successione ad oggi ha mai rivendicato cose o beni mobili., vuoi anche per il modesto arredo presente.
Fatta questa premessa vorrei:
1)Se posso rivendicare il diritto dell' usucapione dell'immobile visto il mio possesso dal 1999 ad oggi (sono oltre 20 anni)
2) se posso chiedere danni alla sorella per la mancata assistenza e supporto alla madre per oltre 18 anni, assistenza che ho dato solo io in salute e nel male( ricoveri ospedalieri e interventi chirurgici) a mia madre fino alla sua morte sottraendo alla mia vita il mio lavoro è la mia libertà personale.
Ho dalla mia parte un pullman di testimoni che possono confermare la mia assistenza a mia madre e la latitanza della sorella nei confronti della madre.
Resto in attesa di un Vs riscontro
Grazie

Consulenza legale i 07/05/2024
La facoltà di cui ci si vorrebbe avvalere in effetti risulta espressamente prevista dal legislatore all’art. 714 del c.c., norma che riconosce al coerede il diritto di opporsi alla divisione facendo valere l’usucapione del bene comune caduto in successione allorchè ne abbia avuto il possesso esclusivo per il tempo richiesto dalla legge, ovvero per venti anni secondo quanto disposto dall’art. 1158 del c.c.
Ora, della questione relativa alla possibilità o meno di usucapire un immobile in comproprietà si è in diverse occasioni occupata la giurisprudenza di legittimità, la quale ha, in verità, mostrato nel corso degli anni un orientamento altalenante, in quanto alla tesi negativa si è contrapposta quella favorevole all’acquisto della proprietà esclusiva per usucapione.


Un punto fermo sulla questione è stato raggiunto con l’ordinanza della Cass. Civ. Sez. VI, n. 10620 del 04.06.2020, così massimata: “In tema di possesso ad usucapionem di beni immobili, la fattispecie acquisitiva del diritto di proprietà si perfeziona allorché il comportamento materiale continuo ed ininterrotto attuato sulla res sia accompagnato dall'intenzione resa palese a tutti di esercitare sul bene una signoria di fatto corrispondente al diritto di proprietà, sicché - in materia di usucapione di beni oggetto di comunione – il comportamento del compossessore, che deve manifestarsi in un'attività apertamente ed obiettivamente contrastante con il possesso altrui, deve rivelare in modo certo ed inequivocabile l'intenzione di comportarsi come proprietario esclusivo”.

In particolare, secondo quanto si legge nell’ordinanza sopra citata, quel comportamento c.d. uti dominus, discendente dal possesso continuo, ininterrotto e pacifico, che consente l’acquisto a titolo originario della proprietà di un bene, può anche essere posto in essere dal comproprietario, ammettendosi dunque che questi possa usucapire la quota o le quote del bene immobile appartenenti agli altri comproprietari rimasti inerti.


Occorre a questo punto valutare se nel caso di specie possano dirsi integrati i presupposti per l’acquisto dell’immobile a titolo originario in favore di colui che pone il quesito e la risposta, purtroppo, almeno stando agli elementi del caso concreto qui forniti, si ritiene debba essere negativa.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, infatti, ai fini dell’usucapione di beni dell’eredità da parte di uno dei coeredi non basta che gli altri partecipanti si siano astenuti dall’uso della cosa, ma occorre anche che il coerede ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus (in tal senso Cass. Ord., 966/2019; Cass Ord., 10494/2018; Cass. 24214/2014; Cass. 7221/2009; Cass. 5687/1996; Appello L'Aquila 3.9.2012; Trib. Lecce 7.1.2022; Trib. Cassino 27.1.2011; Trib. Lodi 15.12.2010; Trib. Salerno 14.10.2009; Trib. Cassino 24.9.2009).


Ebbene, quest’ultimo presupposto sembra palesemente escluso dalle seguenti circostanze di fatto:
  1. l’immobile non è stato mai posseduto in via esclusiva da colui che adesso vuole rivendicarne la proprietà, essendo stato abitato da quest’ultimo, per gran parte del periodo utile all’usucapione, insieme alla madre;
  2. la volontà di possedere uti condominus, e non uti domunus, si ritiene possa essere agevolmente desunta dal fatto che dopo la morte della madre l’immobile, stando a quanto viene detto nel quesito, è stato messo in vendita “di comune accordo” tra tutti i fratelli comproprietari, il che lascia intendere che quel godimento esclusivo sia piuttosto conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte degli altri contitolari, inidoneo, come tale, a legittimare l’esercizio del possesso “ad usucapionem” (si veda in tal senso Cass. civ. ordinanza n. 30765/2023).


Passando alla seconda domanda, la questione dell’esistenza di un diritto al risarcimento in capo al figlio che si occupi da solo del genitore anziano e/o cagionevole di salute, mentre gli altri figli se ne disinteressano, è piuttosto delicata e richiede di capire, prima di tutto, quali siano gli obblighi dei figli verso i genitori e quali siano le conseguenze della violazione di tali doveri.
Dal punto di vista del diritto civile, gli artt. 433 e seguenti del c.c. contengono la disciplina dei cc.dd. alimenti.
Spieghiamo sinteticamente di cosa si tratta.
Gli alimenti sono una prestazione che ha natura sostanzialmente economica. Infatti consistono nel pagamento periodico di una somma di denaro, che ha lo scopo di far fronte alle necessità di vita del beneficiario, il quale deve trovarsi in stato di bisogno. Per non dilungarci troppo, ci basterà dire in questa sede che tra i soggetti tenuti a versare gli alimenti ci sono i figli, nei confronti naturalmente dei genitori.
Una modalità alternativa di prestazione degli alimenti, prevista espressamente dalla legge (art. 443 c.c.), è quella di accogliere presso di sé e mantenere direttamente il beneficiario/alimentando, anziché versargli un assegno mensile.
C’è da dire, però, che la disciplina degli alimenti riguarda i rapporti tra persona obbligata a versarli e beneficiario. Nel nostro caso, invece, si tratta di capire se sia possibile una qualche forma di rimborso o addirittura di risarcimento danni nei confronti dei fratelli e/o sorelle che non si sono presi cura del genitore.

Prima di arrivare a ciò, però, facciamo un brevissimo accenno alle conseguenze penali della mancata assistenza: si potrebbero, infatti, commettere dei reati, come la violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) o, addirittura, l’abbandono di persona incapace (art. 591 c.p.). Naturalmente, la sussistenza dei presupposti di tali reati deve essere attentamente valutata, caso per caso; la nostra vuole essere, infatti, un’informativa di carattere generale con lo scopo di evidenziare le possibili conseguenze di determinati comportamenti.

Veniamo quindi alla risposta al quesito che, purtroppo, ad avviso di chi scrive è negativa.
Infatti prendersi cura di un genitore malato o non autosufficiente rientra tra quelle che vengono chiamate “obbligazioni naturali”, cioè doveri imposti da regole morali o derivanti dall’appartenenza alla società e che, quindi, rispondono a un principio superiore di solidarietà.
Ora, per l’art. 2034 c.c. chi effettua spontaneamente una prestazione in esecuzione di doveri morali o sociali non può “ripetere”, cioè chiedere indietro, quanto prestato (quindi non può chiedere ad es. la restituzione di una somma di denaro).
Quindi, chi ha volontariamente accudito il genitore non può chiedere il risarcimento o il rimborso ai fratelli o alle sorelle.


O. D. chiede
martedì 25/10/2022 - Friuli-Venezia
“Sono convivente con altra persona madre di 2 figli provenienti dal precedente matrimonio, di cui uno residente con noi. Dopo oltre 3 anni di convivenza presso la casa di lei e nella mia, abbiamo acquistato un immobile nel 2020, con caparra confirmatoria ed anticipo versati dal sottoscritto. 2 anni dopo, per questioni legate a varie necessità tra cui la considerazione di non avere figli e/o eredi diretti, decido in accordo con la compagna di cedere la mia quota di proprietà ad un prezzo concordato ma simbolico in quanto non comprendente le rate di mutuo fino ad allora versate e altri pagamenti al costruttore "in nero". Arriviamo ad un rogito in cui mi viene versato per la cessione della quota l'importo di 25000€ pari all'anticipo più spese (contro i 39000 DOVUTI). Di comune accordo e come risulta dal rogito mantengo la mia residenza nella stessa casa. Nulla faceva presagire ad un inasprimento dei rapporti. Al culmine di una serie di litigi (non dovuti a tradimenti o abbandono di tetto coniugale ma a diversità di vedute), decidiamo la separazione ma la "ex" compagna vuole che lo faccia entro 20 giorni. Faccio presente che l'80% dei mobili è stato acquistato dal sottoscritto con pagamento tracciabile e che è impossibile trovare un posto in affitto non ammobiliato con così scarso preavviso. Vorrei sapere se esiste un termine legale TASSATIVO entro il quale devo uscire dalla casa della ex e cosa posso pretendere a livello economico riguardo alle quote di mutuo versate e i pagamenti fatti al costruttore. E' mio interesse trovare un accordo stragiudiziale che comporti un termine ragionevole di uscita ed una quota in denaro commisurata ai mobili presenti che sono disposto a lasciare per un contributo in denaro.”
Consulenza legale i 04/11/2022
Con riferimento al primo dei quesiti formulati, la legge non prevede alcun termine entro cui il convivente more uxorio, in conseguenza della fine della relazione di coppia, debba allontanarsi dall’abitazione del, o della, partner.
Tuttavia la Cassazione (Sez. I Civ., 11/09/2015, n. 17971) ha precisato che “la convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare” e che il convivente “in virtù dell'affectio che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto (ex art. 2 Cost.) della relazione di convivenza è comunque detentore qualificato dell'immobile ed esercita il diritto di godimento su di esso in posizione del tutto assimilabile al comodatario, anche quando proprietario esclusivo sia l'altro convivente”.
Ora, se è vero che tale detenzione qualificata dipende comunque dall'esistenza di un programma di vita in comune, ciò non significa che il convivente non proprietario possa essere “buttato fuori di casa” in seguito alla rottura della relazione, ad esempio cambiando la serratura: afferma infatti la giurisprudenza citata che “l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio” (prevista dall'art. 1168 del c.c.).
È dunque ragionevole che venga concesso all’ex partner un congruo termine per reperire altro alloggio, fermo restando che, laddove la presenza nell’immobile si protragga, il convivente proprietario potrà agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile. Naturalmente, la soluzione migliore rimane quella prospettata nel quesito, di un accordo tra le parti inteso a consentire il trasloco dell’ex in tempi ragionevoli.
Quanto al secondo quesito oggetto di consulenza, il rimborso delle spese sostenute durante la convivenza è questione assai frequente e dibattuta.
Ora, la giurisprudenza recente (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 14/07/2021, n. 20062) ha affermato che “la sussistenza della convivenza more uxorio non attribuisce automaticamente alle operazioni aventi contenuto economico-patrimoniale lo status di donazioni o atti di liberalità” (in quanto tali non rimborsabili).
Aggiungiamo che la situazione va valutata caso per caso, avuto riguardo all’entità delle spese sostenute dal convivente, alle sue condizioni economiche, ecc.
Si è fatto anche ricorso, a tal fine, alla figura dell’obbligazione naturale, ex art. 2034 del c.c., ovvero a quella avente ad oggetto una prestazione eseguita spontaneamente in esecuzione di doveri morali o sociali, quali sono appunto i doveri collegati alla convivenza di fatto, quale formazione sociale tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost.
Così, ad esempio, Cass. Civ., Sez. VI - 3, ordinanza 01/07/2021, n. 18721: “nell'ambito di una convivenza di fatto, il pagamento di una somma per la ristrutturazione dell'immobile adibito a casa familiare di proprietà dell'ex convivente, si configura come adempimento di un'obbligazione naturale quando la prestazione è contenuta nei limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali di chi ha effettuato il pagamento. In tal caso dette somme non sono rimborsabili alla cessazione della convivenza”.
Ancora, Cass. Civ., Sez. III, ordinanza 12/06/2020, n. 11303 ha ribadito che “un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" configura l'adempimento di un'obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all'entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens”.
Occorrerà dunque verificare il rispetto di tali parametri anche nel caso oggetto del quesito.
Laddove le spese sostenute dal convivente non rientrino nella “normalità”, sarà possibile esperire nei confronti dell’altro l’azione di arricchimento senza causa, ex art. 2041 del c.c.: “in tema di convivenza more uxorio l'azione di arricchimento senza causa è inammissibile quando le prestazioni rese dai conviventi trovano la loro giustificazione nel rapporto di convivenza, mentre è configurabile un indebito arricchimento, ed è pertanto possibile proporre il relativo rimedio giudiziale, nel caso in cui le prestazioni rese da un convivente e convertite a vantaggio dell'altro esorbitano dai limiti di proporzionalità e adeguatezza” (Cass. Civ., Sez. III, 15/05/2009, n. 11330).
Ancora più esaustiva sul punto Cass. Civ., Sez. III, 22/09/2015, n. 18632, secondo cui “l'azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro, avvenuta senza giusta causa. In particolare, l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell'altro è configurabile in presenza di prestazioni a vantaggio del primo, che esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali della famiglia di fatto, e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. La mancanza o la ingiustizia della causa non è, invece, invocabile qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità, ovvero dell'adempimento di una obbligazione naturale”.

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