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Articolo 948 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Azione di rivendicazione

Dispositivo dell'art. 948 Codice Civile

Il proprietario(1) può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l'esercizio dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa(2). In tal caso il convenuto è obbligato a recuperarla per l'attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno [2789].

Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa.

L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione(3).

Note

(1) Solo il proprietario del bene può agire in rivendica, al fine di vedere riconosciuto il suo diritto, provando, con ogni mezzo, di essere il titolare. Il legislatore non considera con favore i modi di acquisto a titolo derivativo, che possono, in teoria, derivare anche da chi non è proprietario (a non domino).
Chi agisce in rivendica deve provare, pertanto, di aver acquisito la titolarità del bene a titolo originario.
Viceversa, si deve dimostrare la legittimità di tutti gli acquisti a titolo derivativo, sino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario.
Si tratta della c.d probatio diabolica; il legislatore facilita, però, chi agisce in rivendica consentendo l'applicazione degli istituti del possesso, dell'usucapione e dell'accessione (v. art. 934).
Se, in particolare, il bene rivendicato è immobile, l'attore ha la possibilità di unire il suo possesso a quello del suo dante causa, dimostrando che la cosa è stata posseduta per tutto il tempo necessario ad usucapirla.
Se, invece, oggetto della rivendica è un mobile, basta provare di aver acquistato il possesso in buona fede, con un titolo astrattamente idoneo a trasferirlo (possesso vale titolo).
(2) Si tratta di un'actio in rem, cioè di un'azione reale esperibile contro chiunque. Il suo presupposto è insito nella natura stessa dei diritti reali, caratterizzati dal diritto di seguito, che consente al titolare di seguire la cosa presso chiunque lo possieda.
Solo chi può rendere il bene è legittimato passivo e tale non può che essere, dunque, colui che ne detiene la materiale disponibilità, anche se non si tratta della stessa persona che ha sottratto il bene al titolare, ed anche se è un puro e semplice detentore della cosa.
(3) L'azione di rivendica è imprescrittibile perché tale è il diritto di proprietà che ne sta a fondamento.

Ratio Legis

Si reputa che, a prescindere da un'espressa previsione di legge, il proprietario possa agire per far accertare dal giudice il diritto di proprietà, e non anche la condanna alla restituzione del bene.

Brocardi

Actio petitoria
Causa possidendi
Exceptio rei venditae et traditae
Possessio uti dominus
Possessor pro possessore
Possideo quia possideo
Probatio diabolica
Probatio onus petitoris, commodum possessoris
Rei vindicatio
Rem in bonis nostris habere intelligimur, quoties possidentes exceptionem, aut amittentes ad recuperandam eam actionem habemus
Ubi rem meam invenio, ibi vindico
Ubi rent meam invenio, ibi vindico

Spiegazione dell'art. 948 Codice Civile

Natura dell'azione di rivendicazione. Legittimazione attiva

L'azione di rivendicazione è tipicamente reale, ed è un’ azione di condanna, perché ha la duplice funzione di accertare il diritto e di preparare l’ esecuzione forzata. Come l'art. 439 del vecchio codice, l'art. 948 stabilisce che l'azione compete al proprietario. Possono altresì proporla:
a) il nudo proprietario, poiché è anch'egli titolare del diritto di proprietà quando la cosa si trova nel godimento temporaneo di altri;
b) il condomino che agisce per la comunione contro il terzo che detiene la cosa, quantunque gli altri condomini non partecipino all'esercizio dell' azione, ovvero che agisce contro l'altro condomino per il riconoscimento del suo diritto alla quota intellettuale ed al proporzionale godimento della cosa;
c) l'enfiteuta, perché ha sulla cosa un diritto reale che più degli altri, diversi da quello di proprietà, si accosta al diritto di proprietà, riassumendo gran parte dei poteri del proprietario,
d) il superficiario, limitatamente al suo diritto di superficie;
e) chi ha sulla cosa un diritto di proprietà condizionato, pendente la condizione, come si argomenta dall’ art. 1356 del c.c., ove è detto che appartiene al titolare di un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva la facoltà di disporne in pendenza della condizione con gli effetti ivi indicati;
f) al marito per i beni dotali della moglie, ma il giudizio deve svolgersi anche in contraddittorio di costei.

Non può rivendicare chi ha sulla cosa altro diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione, servitù).

Per i principi generali l'attore deve essere proprietario nel momento in cui la propone: se diventa proprietario nel corso del giudizio, l'azione, qualora sia fondata, deve essere accolta per il principio dello ius superveniens.

L'azione ha contenuto patrimoniale e non fa parte di quelle che possono essere esercitate esclusivamente dal titolare. Perciò può essere proposta dal creditore in surrogazione della persona alla quale compete. A norma degli artt. art. 2900 del c.c. e ss., il creditore deve citare anche il debitore che intende surrogare.


L'actio publiciana è inammissibile nel nostro diritto

Si discuteva, sotto la vigenza del vecchio codice, se per il nostro diritto fosse da ammettere l'azione publiciana del diritto romano. L' actio publiciana, com'e noto, era un’ azione petitoria fittizia: se concorrevano tutti i requisiti della usucapione ordinaria, ma il tempo necessario ad usucapire non era ancora decorso, si fingeva che l'usucapione fosse già compiuta.

Per il vecchio codice prevaleva l'opinione negativa: l'art. 439, si osservava, parla di proprietario e tale non è chi non ha usucapito e non può altrimenti dimostrare il diritto di proprietà; nel nostro diritto inoltre non sono ammesse le azioni fittizie.

Le stesse ragioni valgono a far escludere actio publiciana anche per il nuovo codice. Un'ulteriore osservazione è, però, da fare. L'art. 2124 del vecchio codice disponeva che l'usucapione era interrotta naturalmente quando il possessore era privato per più di un anno del godimento della cosa, di conseguenza, verificatasi la interruzione con la perdita del possesso per oltre un anno, cessavano gli effetti del possesso anteriore. Conseguentemente non si poteva più parlare di usucapione iniziata e non ancora compiuta. L'art. 1167, comma primo, dell’attuale codice civile riproduce in una forma più corretta l'art. 2124, con l'aggiunta del secondo comma, per il quale la interruzione si ha come non avvenuta se è stata proposta l'azione per il recupero del possesso (artt. 1168 e 1169), e questo è stato recuperato. È certo che questa nuova disposizione non ha resuscitato la publiciana, ma la sua applicazione porta al risultato che se il termine per l'usucapione è decorso da quando ha avuto luogo l'inizio del possesso, il rivendicante può dimostrare che è proprietario perché ha usucapito, quantunque il possesso sia stato temporaneamente interrotto.


Legittimazione passiva nell'azione di rivendicazione

Come per l'art. 439 del vecchio codice, l'azione, per l'art. 948 del nuovo codice, deve essere proposta contro il possessore o il detentore. Il criterio discriminativo del possesso dalla detenzione è posto nell' art. 1140 del c.c.. L'azione può essere spiegata anche contro il detentore perché ha per oggetto la restituzione della cosa da chiunque, perché inoltre i1 detentore può in atto violare il diritto di proprietà e chi rivendica non deve essere obbligato a indagini preliminari per stabilire a chi appartiene il possesso. La mancanza del possesso o della detenzione da parte del convenuto fa venir meno una delle condizioni dell'azione. Il possesso o la detenzione deve esistere al momento della proposizione dell'azione. Tuttavia se il convenuto acquista l'una o l'altra successivamente, il giudizio si convalida, perché si verifichi la condizione che da principio non avrebbe dovuto mancare.

Il detentore, se convenuto, fa la laudatio auctoris. Non vi era una norma specifica in tal senso nel codice del 1865 e non c’è nel nuovo, ma era communis opinio che il detentore fosse tenuto a fare la laudatio. Si considerava di generale applicazione il principio dettato dall'art. 1582 codice civile per la locazione, ancora presente nel nuovo codice (art. 1585 del c.c.), in base al quale se i terzi arrecano molestie al conduttore, pretendendo di avere diritti sulla cosa locata, il conduttore è tenuto a dame subito avviso al locatore, sotto pena del risarcimento dei danni. E se i terzi agiscono giudizialmente, il locatore è obbligato ad assumere la lite, qualora sia chiamato nel processo. Il conduttore deve esser estromesso, salvo che abbia interesse a rimanervi. Evidentemente il rivendicante ed il detentore, a meno che l'azione non sia l'effetto di collusione fra di loro, hanno interesse a chiamare nel processo colui in nome del quale il convenuto possiede. Il rivendicante perché l'autore del detentore potrebbe, nelle more del giudizio, ottenere una sentenza di condanna al rilascio contro il detentore, ed il rivendicante, nell’ impossibilità di avere la restituzione dal detentore, dovrebbe incominciare da capo contro l'autore di costui, con l’ eventualità di vedersi chiusa definitivamente la via dalla usucapione nel frattempo compiuta. Il convenuto, poiché non vuole certo addossarsi l'onere della lite, e perché, in caso di soccombenza, rimarrebbe esposto al rischio di dover risarcire i danni al suo autore, tra i quali danni, secondo i casi, può rientrare anche il valore della cosa.

L’ identificazione, dunque, del comune interesse del rivendicante e del detentore convenuto autorizza anche per il nuovo codice a concludere che il possessore sarà sempre chiamato nel processo.


L'azione di rivendicazione nei casi di ficta possessio

L'art. 948, per il caso di chi dolo desiit possidere, integra le disposizioni corrispondenti del vecchio codice, accogliendo soluzioni già ammesse dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

Notificata la domanda, se il convenuto cessa, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa, l'attore può proseguire contro di lui l'azione già iniziata. Si finge che il convenuto continui a possedere o detenere la cosa e sorge, per il fictus possessor, un obbligo di fare. Egli quindi deve recuperare la cosa anche se si trova presso persona diversa da quella alla quale la trasferì. Se, per qualsiasi motivo, non riesce a recuperarla, ed a restituirla al rivendicante, deve corrispondere a costui il valore della cosa e risarcirgli i danni.

Il proprietario, proseguendo l'azione contro il possessore o detentore, ne può iniziare un’ altra contro l'attuale possessore o detentore. Se recupera la cosa, deve, in relazione ai principi generali, restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo della cosa.

Il codice del 1865 non contemplava e il nuovo codice non contempla l'altro caso di ficta possessio previsto dalle fonti. Il silenzio della vecchia e della nuova legge si spiega perché, a quanto sembra, se il proprietario agisce contro chi liti se obtulit, simulando il possesso o la detenzione, l'azione, proprio per la mancanza della condizione del possesso o della detenzione, e per la conseguente impossibilità della restituzione, si svolge quale azione personale di risarcimento di danni. L'obbligo del risarcimento scaturisce dal comportamento del convenuto che agì in modo da trarre in inganno l'attore. Anche qui si applica, come pare, il secondo comma dell'art. 948. il proprietario, proseguendo l'azione contro chi liti se obtulit per il risarcimento dei danni, può rivendicare la cosa dal possessore o detentore. Se recupera la cosa, deve restituire al fictus possessor la parte della somma che, nella valutazione del danno, gli fu attribuita in luogo della cosa.


Oggetto dell'azione di rivendicazione

Come per il diritto romano, la cosa che si rivendica deve essere individualmente determinata: non potrebbero essere rivendicate le cose che sono parti ovvero accessorie di altre, invece possono essere rivendicate le universitates rerum (art. 816 del c.c.), come per il codice del 1865 (art. 707).

Tutte le cose, immobili e mobili, possono formare oggetto dell'azione: questa è la regola generale che dal vecchio codice è passata nel nuovo. Le eccezioni alla regola, poste nel vecchio codice, sono state riprodotte dal nuovo e, come ora si vedrà, sono state sviluppate in modo da dare un contenuto più ampio al principio, già accolto dal vecchio codice, secondo cui per i mobili il possesso vale titolo.

L' art. 810 del c.c., ricollegando le cose alla nozione di beni, adopera il comune denominatore della possibilità delle cose di diventare oggetto di diritti. Tale possibilità è coordinata, quindi, a due coefficienti: la natura della cosa e l’ idoneità della stessa a diventare obietto di diritti. Quanto ai diritti l' art. 813 del c.c. distingue tra diritti reali che hanno per oggetto beni e tutti gli altri diritti: ai primi si applicano le disposizioni relative ai beni immobili, anche per le relative azioni, a tutti gli altri diritti si applicano le disposizioni relative ai beni mobili, salvo, aggiunge l’articolo, che dalla legge risulti diversamente. Mentre è certo, come si è accennato, che l'azione di rivendicazione venga data per le cose immobili e mobili, sembra ugualmente certo che, di regola, la medesima azione non è proponibile per i diritti. La rivendicazione non funziona, in genere, che per le cose corporali: la nozione di possesso dei diritti e soltanto approssimativa. In tal caso la legge dispone altri rimedi; l'actio confessoria per i diritti reali, l'azione nascente dal rapporto costitutivo del diritto negli altri casi. La restituzione, fine ultimo dell'azione di rivendicazione, non è identificabile con la dichiarazione giudiziale dell’ esistenza di un diritto sulla cosa.

L' art. 2653 del c.c., riproducendo la norma dell'art. 19 lett. h del R. D. 3o dicembre 1923 n. 3272 sulle tasse ipotecarie, assoggetta a trascrizione « le domande dirette a rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento sui beni immobili ». Si è voluto, com'è detto nella relazione ministeriale del libro sulla tutela dei diritti (n. 19), integrare la disposizione dell’ art. 1049 del c.c., nel senso che la sentenza ottenuta contro il possessore convenuto con la domanda trascritta produce effetto anche contro chi abbia acquistato dal possessore ed abbia reso pubblico l'acquisto nelle more del giudizio, dopo la trascrizione della domanda di rivendicazione. A quanto sembra, però, il cennato art. 19, accennando alla rivendicazione dei diritti reali di godimento, si riferisce all' actio confessoria, la quale, per tali diritti, funziona come l'azione di rivendicazione per la proprietà.

Tuttavia la dottrina riconosce la natura reale del diritto al marchio e delle azioni in materia di marchio, e ammette conseguentemente l'azione di rivendicazione a tutela del diritto di proprietà del marchio. La dottrina inoltre riconosce, a tutela del diritto di privativa, per invenzioni industriali, la cosiddetta azione di rivendicazione del brevetto, che ha per oggetto il riconoscimento della paternità dell’ invenzione, che importa l'attribuzione all'inventore dell’ esclusiva sulla invenzione, conformemente all'attestato rilasciato, nonché la sostituzione del vero inventore al falso nella titolarità e nel godimento della invenzione, con l'obbligo per l'Amministrazione di procedere alle corrispondenti annotazioni nei suoi registri.


La rivendicazione delle cose mobili. Limiti. Differenze tra il vecchio ed il nuovo codice.

Quando il proprietario di una cosa mobile la trasferisce validamente a titolo di proprietà, l'acquirente ne diventa proprietario nel momento stesso che apprende il possesso della cosa. Chi acquista a non domino diventa proprietario mediante il possesso, subordinatamente a due condizioni: 1) se è in buona fede, se cioè ignora, non per sua colpa grave, di ledere il diritto altrui nel momento in cui riceve la consegna della cosa; 2) se acquista in virtù di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà. Di conseguenza, chi è in possesso della cosa mobile perché l'ha acquistata dal proprietario ovvero dal non proprietario, ma in concorso nelle due ora accennate condizioni, non può essere utilmente convenuto con l'azione di rivendicazione, anche se la sua buona fede, esistente all'atto dell'acquisto, sia venuta successiva-mente a mancare. È questo il contenuto dell' art. 1140 del c.c. che riconsacra il principio che in tema di beni mobili il possesso vale titolo.

Le differenze tra il vecchio ed il nuovo codice sono le seguenti. L'art. 707 codice del 1865 riservava l'applicazione del principio solo a favore del terzo possessore di buona fede. Il nuovo codice ha tolto la limitazione, pertanto l'acquirente è protetto anche contro l'azione di rivendicazione proposta da chi gli trasferì la cosa. Ma qui, a quanto sembra, l’ innovazione è soprattutto formale perché, tra i diretti contraenti, il venditore non proprietario, a norma dell’ art. 1478 del c.c. (cpv. art. 59 vecchio cod. di commercio), non può opporre all'acquirente il difetto di proprietà, ma è obbligato a procurargli l'acquisto della cosa, ed il compratore diventa proprietario nel momento in cui il venditore acquista dal titolare la proprietà della cosa. E, per altro, come già implicitamente si è detto, non si può prescindere dalla considerazione degli elementi di esistenza e di validità del negozio giuridico di trasferimento. Nè, secondo i casi, è irrilevante la causa della consegna della cosa. In quest'ultima ipotesi, per i principi generali, dovrebbe anche ammettersi, quando ne ricorrano gli estremi, la condictio indebiti contro chi ha ricevuta una cosa che non gli è dovuta.

Al contrario è sostanziale e profonda l'altra seguente innovazione. Per gli art. 708, 709 e 2164 del vecchio codice, in caso di furto o smarrimento, il proprietario poteva rivendicare la cosa da chiunque, entro il triennio previo il rimborso del prezzo, se il possessore aveva acquistato la cosa in una fiera o negli altri modi indicati nell'art. 709. L'art. 57 cod. comm. aveva già intaccato il sistema del codice civile, perché aveva limitata la rivendicazione dei titoli al portatore solo contro coloro che li avessero rubati o ritrovati, ovvero li avessero ricevuti conoscendo il vizio della causa del possesso. L'art. 1140 del nuovo codice parifica la perdita volontaria alla perdita involontaria del possesso: chi acquista la cosa a non domino, dovunque e da chiunque la acquisti, ne diventa proprietario col possesso, se acquista in buona fede e mediante titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà. È indifferente che il proprietario abbia smarrito la cosa, sia stato della stessa derubato, l'abbia consegnata perché vittima di una truffa, l'abbia affidata per uno scopo determinato ed il consegnatario, abusando della fiducia, l'abbia per suo conto alienata. L'acquirente diventa sempre proprietario e l’azione di rivendicazione contro di lui rimarrebbe senza risultato. Viceversa, chi acquista in mala fede o senza titolo astrattamente idoneo, non diventa proprietario, e rimane esposto all’azione di rivendicazione non solo se ha acquistato dal ladro, dal ritrovatore o da chi abbia abusato della fiducia, ma anche da qualsiasi altro possessore che non sia proprietario. Solo se acquista da chi è diventato proprietario diventa, mediante il possesso, anch’egli proprietario, essendo irrilevante la sua buona o mala fede, come si desume dagli artt. 335 E 341.

Ciò è confermato inoltre dall’ art. 1154 del c.c.: a chi acquista conoscendo l’illegittima provenienza della cosa o del titolo al portatore non giova l’erronea credenza che il suo autore o un precedente possessore ne sia diventato proprietario. Nel giudizio di rivendicazione, com’è chiarito nella relazione ministeriale (n. 203), il rivendicante deve provare il furto, lo smarrimento, l’abuso di fiducia e la conoscenza che ne aveva il convenuto al momento dell’acquisto; il convenuto deve provare che fu sanato il vizio della circolazione.

Le norme fin qui esaminate non si applicano alle universalità di mobili: la deroga al principio che per i mobili il possesso vale titolo ed il ritorno alla regola della rivendicabilità di tutte le cose sono posti nell’art. 1156: nella spiegazione di tale ultimo articolo si dirà quali sono le universalità di mobili. Per i mobili iscritti in pubblici registri questa norma prevede la stessa deroga: si tratta di una innovazione a cui, in tempi recenti, sono stati sottoposti alcuni beni mobili, in considerazione della loro natura e del servizio che rendono. Per le universalità di mobili, quindi, e per i mobili soggetti ad iscrizione, quando il rivendicante ha dimostrato di essere proprietario, il convenuto che ha acquistato a non domino, nonostante la presunzione di buona fede che accompagna il suo possesso e l’esistenza del titolo idoneo, deve restituire le universalità di mobili o la cosa mobile iscritta nel registro, salvo che non possa utilmente dedurre qualche eccezione che valga a far respingere l’azione indipendentemente dalla tutela prevista per l’acquisto delle cose mobili.


L'usucapione delle cose mobili

In mancanza del titolo idoneo, chi acquista a non domino beni mobili o titoli al portatore può diventare proprietario con l’usucapione. Il caso non era previsto dal vecchio codice, però la dottrina, in via di interpretazione (art. 710 e 2135) ammetteva l’usucapione anche per i beni mobili, subordinatamente al decorso del lungo termine di trent’anni.

Il nuovo codice statuisce che l’usucapione dei beni mobili, in mancanza del titolo, si compie col decorso di cinque o venti anni, a seconda che il possesso sia stato acquistato in buona o in mala fede (art. 1161 del c.c.). Pertanto, in questi casi, il rivendicante prima dei vent’anni deve dimostrare che il convenuto ha acquistato in mala fede, dopo i vent’anni deve dimostrare, unica dimostrazione ancora concludente, che il convenuto ha acquistato il possesso in modo violento o clandestino (art. 1163 del c.c.).

Chi acquista a non domino in buona fede e con titolo idoneo a trasferire la proprietà un bene mobile iscritto in pubblici registri, per il quale bene non si applica, come si è visto, la regola che il possesso vale titolo, deve trascrivere il titolo per usucapire. L'usucapione si compie col decorso di tre anni dalla trascrizione (art. 1162 del c.c.). In caso di rivendicazione, se il convenuto eccepisce la usucapione, poiché la buona fede è presunta, il rivendicante deve dimostrare la mala fede. Il convenuto deve provare che ha acquistato con titolo idoneo e che ha trascritto il titolo.

Per tutti i mobili, infine, è da notare che il proprietario può agire, quando ne ricorrano le condizioni, anche con l'azione di spoglio, a norma dell' art. 1168 del c.c.. Se l'azione di rivendicazione, quantunque non proposta, sarebbe proponibile, l'azione possessoria, se accolta, rimettendo il proprietario nel possesso della cosa, produce il medesimo risultato dell'azione di rivendicazione. L'autore dello spoglio dovrà poi, se vanta il diritto di proprietà sulla cosa, prendere l'iniziativa di proporre l'azione di rivendicazione addossandosi l'onere di provare che il vantato diritto di proprietà veramente sussiste.


Posizione delle parti nel giudizio di rivendicazione. Onere della prova

Il giudizio di rivendicazione segue le forme ordinarie: se sorgono contestazioni circa il possesso o la detenzione da parte del convenuto, il rivendicante deve innanzi tutto dimostrare che il convenuto possiede o detiene la cosa. Il rivendicante deve inoltre dare la prova del suo diritto di proprietà, e può darla con tutti i mezzi di prova ammessi dalla legge, in relazione alla natura della cosa che forma l'oggetto dell'azione e nei limiti di ammissibilità di ciascun mezzo di prova. Non basta che egli dimostri di avere un diritto poziore a quello del convenuto: questi ha il possesso in suo favore, perciò se l'attore non dà la prova del suo diritto di proprietà, la domanda deve essere respinta, anche quando il possesso del convenuto non sia avvalorato da alcun titolo.

La prova della proprietà è agevole negli acquisti a titolo originario, è invece difficile negli acquisti a titolo derivativo, poiché attraverso i titoli di acquisto anteriori si dovrebbe risalire fino all'acquirente a titolo originario (probatio diabolica). Perciò, negli acquisti a titolo derivativo, in mancanza di altri elementi concorrenti che accompagnati al titolo diano la prova piena della esistenza del diritto, il rivendicante può dedurre l'acquisto per usucapione dimostrando che egli ed i suoi autori (art. 1146 del c.c.) hanno posseduto per il tempo necessario ad usucapire.

Il convenuto può innanzitutto resistere passivamente attendendo che l’attore dimostri il titolo di proprietà: tale resistenza potrebbe eventualmente bastare perché, come si è detto, se all’attore la prova non riesce, la domanda deve essere rigettata. Il convenuto inoltre può proporre tutte le eccezioni idonee ad elidere o paralizzare il diritto dell’attore: per es. può dimostrare che egli è il proprietario, che il diritto di proprietà vantato dall’attore non sussiste, che è proprietario un terzo, che egli ha sulla cosa un diritto reale di godimento (es.: usufrutto, uso o abitazione), o di garanzia (pegno), e non è tenuto a restituire la cosa, che un rapporto obbligatorio ancora gli assicura la detenzione della cosa (locazione, comodato, anticresi). Però il convenuto proporrebbe inutilmente l’eccezione di prescrizione dell’azione, perché, se a sua volta non ha usucapito, tale eccezione non gli gioverebbe. La proprietà non si perde per non uso ed è imprescrittibile il diritto del proprietario di agire a difesa della stessa.


Effetti della sentenza di condanna

Come per il diritto romano e per il codice del 1865, se la domanda di rivendicazione è accolta, la cosa deve essere restituita cum omni causa. Il nuovo codice, uniformandosi alla tradizione, distingue tra possesso di buona e di mala fede: il possessore di buona fede fa suoi i frutti naturali separati ed i frutti civili maturati fino alla domanda giudiziale. Per il periodo successivo, fino alla restituzione della cosa, risponde dei frutti percepiti e di quelli che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1148 del c.c.). Il possessore di mala fede risponde dei frutti naturali e civili percepiti e percipiendi dal giorno del possesso. In relazione all’ art. [[n821]], comma 2, l’art. 1147, con una nuova disposizione, prevede che il possessore restituendo i frutti indebitamente percepiti, ha diritto, nei limiti del loro valore, al rimborso delle spese necessarie fatte per la loro produzione e raccolta. La disposizione si applica tanto per i frutti naturali quanto per quelli civili.

Circa il rimborso delle spese fatte dal possessore per la conservazione della cosa, il vecchio codice (art. 1150) distingueva tra le spese necessarie, utili e voluttuarie. Le spese necessarie ed utili dovevano essere rimborsate anche al possessore di mala fede, ai sensi dell’art. 705. Il rimborso era invece negato per le spese voluttuarie, mentre per i miglioramenti era stabilito che il possessore di buona o di mala fede aveva diritto alla minor somma tra lo speso e il migliorato.

Il nuovo codice parla più precisamente di spese per la conservazione e spese per il miglioramento della cosa, con riguardo alla buona o alla mala fede del possessore. Distingue, perciò, le spese per le riparazioni da quelle per i miglioramenti, e suddivide le riparazioni in ordinarie e straordinarie. Il rimborso delle spese per le riparazioni straordinarie è sempre dovuto. Le spese per le riparazioni ordinarie, com'è detto nella relazione ministeriale (n. 200), costituiscono in un certo senso un onere inerente al godimento della cosa. Il possessore, di buona o di mala fede, posto che l'art. 1150 non distingue, ha diritto al rimborso delle stesse subordinatamente alla condizione che egli restituisca i frutti, e limitatamente al tempo per il quale la restituzione è dovuta. Il rivendicante, ottenendo la restituzione dei frutti, consegue quella utilità che avrebbe conseguito se la cosa fosse rimasta in suo potere. Ed è giusto che limitatamente a quel periodo sopporti le spese che avrebbe fatte per ottenere il medesimo risultato.

I miglioramenti sono indennizzabili purché sussistano al tempo della restituzione: il possessore di buona fede ha diritto ad una somma corrispondente all'aumento di valore conseguito dalla cosa. II possessore di mala fede ha diritto alla minor somma tra l'importo della spesa ed il risultato utile.

Per le addizioni (ult. comma dell' art. 1150 in relazione all' art. 126), il pagamento della indennità per i miglioramenti (art. 1151 del c.c.) e per il diritto di ritenzione che spetta al possessore di buona fede, si rinvia al com­mento dei rispettivi articoli.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 948 Codice Civile

Cass. civ. n. 24050/2022

In tema di azioni a difesa della proprietà, tanto nell'azione di accertamento della proprietà, quanto in quella di rivendicazione, l'ampiezza e la rigorosità della prova circa la spettanza del diritto sono identiche, mentre la differenza tra le due figure va vista nel momento finale dell'azione, che in quella di accertamento si esaurisce nella dichiarazione dell'appartenenza del diritto, laddove nella rivendica mira anche al conseguimento del possesso della cosa.

Cass. civ. n. 22661/2022

Nel giudizio di rivendica di un immobile, ai fini della prova della proprietà non è sufficiente un atto di divisione, il quale, atteso il carattere retroattivo dell'atto divisionale, non ha di per sé forza probante, nei confronti dei terzi, del diritto di proprietà attribuito ai condividenti, ma occorre necessariamente dimostrare il titolo di acquisto in base al quale il bene è stato attribuito in sede di divisione.

Cass. civ. n. 15368/2022

In materia di procedimento civile, ove sia proposta in primo grado domanda personale di rilascio, ovvero anche domanda petitoria di rivendicazione, è preclusa al giudice del gravame provvedere alla qualificazione giuridica della stessa domanda in termini di regolamento di confini, costituendo tale qualificazione una inammissibile "mutatio libelli", non potendo il giudice pronunciare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato.

Cass. civ. n. 1569/2022

In caso di azione di rivendica, la portata dell'onere probatorio a carico dell'attore deve stabilirsi in relazione alla peculiarità di ogni singola controversia, sicché il criterio di massima secondo cui l'attore deve fornire la prova rigorosa della sua proprietà e dei suoi danti causa fino a coprire il periodo necessario per l'usucapione, può subire opportuni temperamenti secondo la linea difensiva adottata dal convenuto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto attenuato il rigoroso regime probatorio della rivendicazione, nella ipotesi di provenienza del bene rivendicato dallo stesso titolo dei convenuti, un atto di divisione, atteso che quest'ultimo ha valore probatorio nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, con la conseguenza che la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione di beni indivisi, postula il riconoscimento dell'appartenenza dei beni in comunione).

Cass. civ. n. 28865/2021

Essendo l'usucapione un titolo d'acquisto a carattere originario, la sua invocazione, in termini di domanda o di eccezione, da parte del convenuto con l'azione di rivendicazione, non suppone, di per sé, alcun riconoscimento idoneo ad attenuare il rigore dell'onere probatorio a carico del rivendicante, il quale, anche in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, non è esonerato dal dover provare il proprio diritto, risalendo, se del caso, attraverso i propri danti causa fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando che egli stesso o alcuno dei suoi danti causa abbia posseduto il bene per il tempo necessario ad usucapirlo. Il rigore probatorio rimane, tuttavia, attenuato quando il convenuto, nell'opporre l'usucapione, abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia specificamente contestato, l'appartenenza del bene al rivendicante o ad uno dei suoi danti causa all'epoca in cui assume di avere iniziato a possedere. Per contro, la mera deduzione, da parte del convenuto, di un acquisto per usucapione il cui "dies a quo" sia successivo al titolo del rivendicante o di uno dei suoi danti causa, disgiunta dal riconoscimento o dalla mancata contestazione della precedente appartenenza, non comporta alcuna attenuazione del rigore probatorio a carico dell'attore, che a maggior ragione rimane invariato qualora il convenuto si dichiari proprietario per usucapione in forza di un possesso remoto rispetto ai titoli vantati dall'attore.

Cass. civ. n. 25865/2021

Nell'azione per rivendicazione l'onere della cd. "probatio diabolica" incombente sull'attore si attenua quando il convenuto si difenda deducendo un proprio titolo d'acquisto, quale l'usucapione, che non sia in contrasto con l'appartenenza del bene rivendicato ai danti causa dell'attore; in siffatta evenienza detto onere può ritenersi assolto, in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, con la dimostrazione della validità del titolo di acquisto da parte del rivendicante e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere.

Cass. civ. n. 20912/2021

L'azione di rivendica e quella di regolamento di confini si differenziano tra loro giacché nel primo caso - che presuppone un conflitto di titoli - l'attore non ha incertezza alcuna circa il confine (che è anzi indicato in modo certo e chiaro) e chiede la restituzione della porzione di fondo usurpata, indicandone con esattezza estensione e misura, mentre nel secondo - in cui la contestazione involge non già i titoli di proprietà, ma la delimitazione dei rispettivi fondi - l'attore non solo non è sicuro "ab initio" dei confini del proprio fondo, ma neppure è certo che questo sia stato parzialmente occupato dal convenuto. Ne consegue che, ove venga attribuito un erroneo "nomen iuris" all'azione, occorre avere riguardo all'effettiva natura della controversia, così che, ove l'attore, pur dichiarando di esercitare un'azione di regolamento di confini chieda, con espressione precisa ed univoca, l'affermazione del suo diritto di proprietà su zone possedute dal convenuto ed il rilascio di esse, indicando come vero un determinato confine a lui più favorevole, la domanda deve essere qualificata come azione di rivendica.

Cass. civ. n. 15142/2021

I poteri inerenti al diritto di proprietà, incluso quello di esigere il rispetto delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi gli effetti dell'usucapione del diritto a mantenere la costruzione di distanza inferiore a quella legale: ne consegue che anche la domanda volta ad ottenere il rispetto delle distanze legali è imprescrittibile, trattandosi di azione reale modellata sullo schema dell'"actio negatoria servitutis", rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell'attore, ma a respingere l'imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO BRESCIA, 29/03/2016).

Cass. civ. n. 2612/2021

La domanda di restituzione di un bene già oggetto di furto, svolta nei confronti del soggetto che si trova nel possesso di esso, introduce un'azione di rivendica e non di restituzione, con i conseguenti oneri probatori a carico del rivendicante. Ne consegue che, ove la domanda abbia ad oggetto un bene mobile (nella specie, un dipinto attribuito a Renoir), l'attore non può limitarsi a dimostrarne il possesso - che può derivare anche da rapporti non traslativi della proprietà - all'epoca del furto, occorrendo, al contrario, che ne alleghi e provi, a tale momento, l'avvenuto acquisto della titolarità, ex art. 1153 c.c. e, dunque, oltre al possesso di buona fede, l'esistenza di un titolo astrattamente idoneo al relativo trasferimento. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO VENEZIA, 18/08/2015).

Cass. civ. n. 22591/2020

Atteso il carattere autodeterminato del diritto di proprietà e degli altri diritti reali di godimento, individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto - cioè del bene che ne costituisce l'oggetto -, nelle azioni ad essi relative la deduzione del fatto costitutivo rileva ai fini non della loro individuazione, ma soltanto della prova del diritto. Ne consegue che, qualora sia proposta una domanda di accertamento o di condanna, relativa ad uno dei su indicati diritti, sulla base di un determinato fatto costitutivo, e questa venga rigettata per ragioni inerenti al fatto costitutivo dedotto, l'accertamento con efficacia di giudicato dell'inesistenza del diritto stesso preclude la possibilità di far valere "ex novo" il medesimo diritto sulla base di un diverso titolo di acquisto. (Nella fattispecie, la parte ricorrente aveva chiesto accertarsi l'avvenuto acquisto per usucapione di un terreno a seguito del rigetto di precedente domanda volta ad ottenerne la proprietà in virtù di un contratto di rendita vitalizia). (Rigetta, CORTE D'APPELLO CATANZARO, 03/08/2015).

Cass. civ. n. 7567/2019

Al di fuori dell'ipotesi della rivendicazione, per la quale l'art. 948 c.c. prevede un regime probatorio rigoroso, la proprietà può essere dimostrata, come tutti i fatti, anche con presunzioni e, quindi, pure attraverso il ricorso alle risultanze catastali. (Rigetta, CORTE D'APPELLO PALERMO, 12/12/2013).

Cass. civ. n. 6007/2019

Poiché l'azione di rivendicazione ha per oggetto la restituzione del medesimo bene che l'attore afferma essere nel possesso o detenzione del convenuto, laddove tale bene, già prima della proposizione della domanda, sia venuto a mancare per distruzione, per alienazione ad altro soggetto o per altra causa, l'azione esperibile sarà soltanto quella personale o di risarcimento dei danni diretta a conseguire il valore pecuniario della cosa. (Rigetta, CORTE D'APPELLO FIRENZE, 06/09/2013).

Cass. civ. n. 25052/2018

L'azione personale di restituzione è destinata ad ottenere l'adempimento dell'obbligazione di ritrasferire un bene in precedenza volontariamente trasmesso dall'attore al convenuto, in forza di negozi giuridici (tra i quali la locazione, il comodato ed il deposito) che non presuppongono necessariamente nel "tradens" la qualità di proprietario; da essa si distingue l'azione di rivendicazione, con la quale il proprietario chiede la condanna al rilascio o alla consegna nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo, per il cui accoglimento è necessaria la "probatio diabolica" della titolarità del diritto di chi agisce.

Cass. civ. n. 21940/2018

In tema di azione di rivendicazione, ai fini della "probatio diabolica" gravante sull'attore, tenuto a provare la proprietà risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino all'acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione, non è sufficiente produrre l'atto di accettazione ereditaria, che non prova il possesso del dante causa, né il contratto di acquisto del bene, che non prova l'immissione in possesso dell'acquirente.

Cass. civ. n. 14734/2018

Il rigore della regola secondo cui chi agisce in rivendicazione deve provare la sussistenza del proprio diritto di proprietà o di altro diritto reale sul bene anche attraverso i propri danti causa, fino a risalire ad un acquisto a titolo originario o dimostrando il compimento dell'usucapione, non riceve attenuazione per il fatto che la controparte proponga domanda riconvenzionale ovvero eccezione di usucapione, in quanto chi è convenuto nel giudizio di rivendicazione non ha l'onere di fornire alcuna prova, potendo avvalersi del principio "possideo quia possideo", anche nel caso in cui opponga un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata, dal momento che tale difesa non implica alcuna rinuncia alla più vantaggiosa posizione di possessore.

Cass. civ. n. 1210/2017

Colui il quale agisca per ottenere il mero accertamento della proprietà o comproprietà di un bene, anche unicamente per eliminare uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto esercitato sullo stesso, è tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla “probatio diabolica” della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un'azione, inclusa quella di accertamento, che fonda sul diritto di proprietà tutelato "erga omnes".

Cass. civ. n. 19653/2014

L'azione di rivendicazione esige che l'attore provi il proprio diritto di proprietà risalendo sino all'acquisto a titolo originario attraverso i propri danti causa, o dimostrando il compimento dell'usucapione in suo favore, mentre il convenuto può limitarsi a formulare l'eccezione "possideo quia possideo", senza onere di prova. Quando tuttavia il convenuto rinunci a questa posizione, opponendo, ad esempio, un proprio diverso diritto, senza contestare quello affermato dall'attore, il giudice del merito non può respingere la domanda per difetto di prova, ma deve tener conto delle ammissioni del convenuto e degli altri fatti di causa, ricavandone possibili elementi presuntivi.

Cass. civ. n. 7305/2014

In tema di azioni a difesa della proprietà, le difese di carattere petitorio opposte, in via di eccezione o con domande riconvenzionali, ad un'azione di rilascio o consegna non comportano - in ossequio al principio di disponibilità della domanda e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - una "mutatio" od "emendatio libelli", ossia la trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dell'attore come personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso al convenuto, né, in ogni caso, implicano che l'attore sia tenuto a soddisfare il correlato gravoso onere probatorio inerente le azioni reali (cosiddetta "probatio diabolica"), la cui prova, idonea a paralizzare la pretesa attorea, incombe solo sul convenuto in dipendenza delle proprie difese

Cass. civ. n. 26992/2013

In tema di azione di rivendicazione, ai fini dell'individuazione del bene conteso, la base primaria dell'indagine del giudice è costituita dall'esame e dalla valutazione dei titoli di acquisto delle rispettive proprietà, costituendo peraltro, il giudizio sulla corrispondenza o meno del bene domandato con quello descritto nel titolo un accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità, qualora risultino verificate la correttezza dei criteri ermeneutici adottati dal giudice del merito e l'adeguatezza logico-giuridica della motivazione che ne giustifica i risultati.

Cass. civ. n. 16864/2013

L'accertamento della comunione di una via privata, costituita "ex collatione agrorum privatorum", non è soggetto al rigoroso regime probatorio della rivendicazione, potendo tale comunione, al pari di ogni altra "communio incidens", dimostrarsi con prove testimoniali e presuntive, concernenti l'uso prolungato e pacifico di essa e la sua rispondenza allo stato dei luoghi, nonché l'effettiva destinazione alle esigenze comuni di passaggio, sempre che l'asserito partecipante, il quale non vanti un diverso titolo di acquisto, abbia contribuito al conferimento del sedime della strada, presupposto d'insorgenza della comunione.

Cass. civ. n. 705/2013

La domanda con cui l'attore chieda di dichiarare abusiva ed illegittima l'occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, con conseguente condanna dello stesso al rilascio del bene ed al risarcimento dei danni da essa derivanti, senza ricollegare la propria pretesa al venir meno di un negozio giuridico, che avesse giustificato la consegna della cosa e la relazione di fatto sussistente tra questa ed il medesimo convenuto, non dà luogo ad un'azione personale di restituzione, e deve qualificarsi come azione di rivendicazione; né può ritenersi che detta domanda sia qualificabile come di restituzione, in quanto tendente al risarcimento in forma specifica della situazione possessoria esistente in capo all'attore prima del verificarsi dell'abusiva occupazione, non potendo il rimedio ripristinatorio ex art. 2058 c.c. surrogare, al di fuori dei limiti in cui il possesso è tutelato dal nostro ordinamento, un'azione di spoglio ormai impraticabile.

Cass. civ. n. 30606/2011

L'attore che proponga una domanda di accertamento della proprietà ed abbia la materiale disponibilità della cosa oggetto del preteso diritto, in virtù di un possesso acquistato con violenza o clandestinità, ovvero sulla cui legittimità sussista uno stato di obiettiva e seria incertezza, in relazione alle particolarità del caso concreto, ha l'onere di offrire la stessa prova rigorosa richiesta per la rivendica, non ricorrendo in tali ipotesi la presunzione di legittimità del possesso, che giustifica l'attenuazione del rigore probatorio qualora l'azione di accertamento della proprietà sia proposta da colui che sia nel possesso del bene. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che, avendo erroneamente qualificato come azione di rivendicazione la domanda proposta, non aveva affrontato la questione circa l'onere probatorio in materia di azione di accertamento della proprietà, né compiuto alcuna indagine sulla natura del possesso esercitato dall'attore, il quale assumeva di essere nella materiale disponibilità del bene per averne conseguito un sequestro giudiziario, volto a paralizzare un interdetto possessorio ottenuto dai convenuti).

Cass. civ. n. 22598/2010

Il rigore del principio secondo il quale l'attore in rivendica deve provare la sussistenza dell'asserito diritto di proprietà sul bene anche attraverso i propri danti causa fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione, risulta attenuato in caso di mancata contestazione da parte del convenuto dell'originaria appartenenza del bene ad un comune dante causa, ben potendo in tale ipotesi il rivendicante assolvere l'onere probatorio su di lui incombente limitandosi a dimostrare di avere acquistato tale bene in base ad un valido titolo di acquisto.

Cass. civ. n. 14092/2010

Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del "corpus", ma anche dell'"animus"; quest'ultimo elemento, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se vi è stato svolgimento di attività corrispondenti all'esercizio del diritto di proprietà, sicché è allora il convenuto a dover dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall'attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale. Pertanto, per stabilire se in conseguenza di una convenzione (anche se nulla per difetto di requisiti di forma) con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia possesso idoneo all'usucapione, ovvero mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o ad effetti obbligatori, in quanto solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare l'"animus possidendi" nell'indicato soggetto. Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del "corpus", ma anche dell"animus"; quest'ultimo elemento, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se vi è stato svolgimento di attività corrispondenti all'esercizio del diritto di proprietà, sicché è allora il convenuto a dover dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall'attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale. Pertanto, per stabilire se in conseguenza di una convenzione (anche se nulla per difetto di requisiti di forma) con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia possesso idoneo all'usucapione, ovvero mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un, contratto ad effetti reali o ad effetti obbligatori, in quanto solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare l"'animus possidendi" nell'indicato soggetto.

Cass. civ. n. 9303/2009

In tema di azione di rivendicazione, nel caso in cui il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, l'onere probatorio a carico dell'attore si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell'appartenenza del bene medesimo al suo dante causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, ed alla prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto.

Cass. civ. n. 21834/2007

In tema di azione di rivendicazione, di cui all'articolo 948 c.c., per l'individuazione del bene rivendicato, del quale si chiede il rilascio (ovvero per stabilire esattamente l'unità immobiliare contesa), la base primaria dell'indagine del giudice di merito è costituita dall'esame e dalla valutazione dei titoli di acquisto delle rispettive proprietà, quando essi sono stati esibiti in giudizio. Difatti solo la mancanza o l'insufficienza di indicazioni sui dati di individuazione delle unità rilevabile dai titoli, ovvero la loro mancata produzione, giustifica il ricorso ad altri mezzi di prova, ivi comprese le mappe catastali. (Nella fattispecie, relativa alla rivendicazione di una cantina occupata dal proprietario di altro appartamento dello stesso fabbricato, è stato ritenuto che gli attori non avessero fornito la prova precisa che la cantina da essi acquistata fosse proprio quella da loro pretesa, e non altra, giacché il loro atto di acquisto conteneva dati identificativi diversi rispetto a quelli di cui al rogito di acquisto dei propri danti causa, né avevano allegato le schede di frazionamento catastale).

Cass. civ. n. 11774/2006

Nel caso di azione diretta ad ottenere il rilascio di un immobile occupato senza titolo o a titolo precario, la contestazione del diritto di proprietà dell'attore, anche se effettuata dal convenuto con la deduzione di un suo contrastante diritto dominicale unicamente per far respingere la domanda, trasforma l'azione personale in azione reale, dal momento che il giudice deve decidere sulla sussistenza del diritto di proprietà vantato da una parte e negato dall'altra. Ne consegue la necessità per l'attore di dimostrare la proprietà del bene fornendo la prova del suo acquisto a titolo originario, non potendo ritenersi sufficiente la mera produzione di documentazione amministrativa e nel contempo dovendosi escludere qualsiasi onere probatorio a carico della parte convenuta di dimostrare la legittimità del possesso esercitato.

Cass. civ. n. 5161/2006

Qualora il convenuto sostenga, in via riconvenzionale, di aver acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, si attenua l'onere probatorio posto a carico dell'attore in rivendicazione, poiché esso si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere, nonché alla prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello secondo cui la proposizione della domanda riconvenzionale di usucapione non aveva implicato, di per sé, contestazione della titolarità del bene in capo al dante causa dell'attore in rivendicazione, poiché l'acquisto a titolo originario che si assumeva operato a favore dei convenuti agenti in riconvenzionale era stato successivo all'acquisto, per analogo titolo, formatosi in capo all'attore che aveva intrapreso l'azione di rivendicazione).

Cass. civ. n. 15248/2005

Poiché la proprietà e i diritti reali appartengono alla categoria dei diritti «autodeterminati» che sono individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l'oggetto, nelle azioni ad essi relative, a differenza di quelle accordate a tutela dei diritti di credito, la causa petendi si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda, sicché il giudice può porre a base della decisione anche un titolo diverso da quello allegato dall'attore.

Cass. civ. n. 7777/2005

Colui il quale propone un'azione di accertamento della proprietà di un bene non ha l'onere della probatio diabolica, ma soltanto quello di allegare e provare il titolo del proprio acquisto, atteso che detta azione mira non già alla modifica di uno stato di fatto, bensì solo all'eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l'attore è già investito.

La domanda di rivendica, avendo tipica finalità recuperatoria, presuppone necessariamente che all'atto della sua formulazione il bene rivendicato sia nel possesso del convenuto. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che, non avendo i ricorrenti allegato che il bene fosse nel possesso della controparte, aveva escluso la finalità recuperatoria e qualificato la domanda proposta come azione di accertamento del diritto di proprietà).

Cass. civ. n. 23086/2004

L'azione di rivendicazione e quella di restituzione hanno natura distinta. La prima ha carattere reale, si fonda sul diritto di proprietà di un bene, del quale l'attore assume di essere titolare e di non avere la disponibilità, ed è esperibile contro chiunque in fatto possiede o detiene il bene al fine di ottenere l'accertamento del diritto di proprietà sul bene stesso e di riacquisirne il possesso. La seconda ha, invece, natura personale, si fonda sulla deduzione della insussistenza o del sopravvenuto venir meno di un titolo di detenzione del bene da parte di chi attualmente lo detiene per averlo ricevuto dall'attore o dal suo dante causa, ed è rivolta, previo accertamento di quella insussistenza o di quel venir meno, ad ottenere consequenzialmente la consegna del bene. Ne discende che l'attore in restituzione non ha l'onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà; ma solo dell'originaria insussistenza o del sopravvenuto venir meno per invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio dell'eventuale facoltà di recesso — del titolo giuridico che legittimava il convenuto alla detenzione del bene nei suoi confronti. Le due azioni, peraltro, pur avendo causa pretendi e petitum distinti, in quanto dirette al raggiungimento dello stesso risultato pratico della disponibilità materiale del bene riacquisito, possono non solo proporsi in via alternativa o subordinata nel medesimo giudizio, ma anche trasformarsi l'una nell'altra nel corso di esso, nel rispetto delle preclusioni introdotte nel codice di rito dalla legge n. 353 del 1990.

Cass. civ. n. 15145/2004

Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del animus ma anche dell'animus; quest'ultimo elemento, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se vi è stato svolgimento di attività corrispondenti all'esercizio del diritto di proprietà, sicché è allora il convenuto a dover dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall'attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale. Pertanto, per stabilire se in conseguenza di una convenzione (anche se nulla per difetto di requisiti di forma) con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia possesso idoneo all'usucapione, ovvero mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o ad effetti obbligatori, in quanto solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare l'animus possidendi nell'indicato soggetto.

Cass. civ. n. 14395/2004

La denuncia di successione — avente, di per sé, efficacia a soli fini fiscali e priva di rilevanza civilistica se non di tipo indiziario — è inidonea a fornire la prova del diritto di proprietà di un determinato bene, così come, per converso, la mancata indicazione in essa di un bene non consente di desumere automaticamente il difetto del relativo diritto di proprietà.

Cass. civ. n. 3648/2004

Soggiace all'onere di offrire la prova rigorosa prescritta in tema di azione di rivendica della proprietà dall'art. 948 c.c. chi - invocando la qualità di comproprietario e non di proprietario esclusivo del bene — agisca per ottenere — previo accertamento della comunione — il recupero della utilizzazione della cosa — di cui lamenti di essere stato privato — attraverso un provvedimento che gli consenta l'esercizio dei poteri spettanti al comunista nell'uso della cosa comune impedito dal comportamento del comproprietario. (La Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che, nel ritenere non assolto l'onere probatorio di cui all'art. 948 c.c. aveva rigettato la domanda con cui l'attore, assumendo di essere comproprietario di uno spiazzo comune anche al convenuto, aveva chiesto l'accertamento della relativa comproprietà con la condanna del predetto convenuto alla rimozione delle macerie dal medesimo depositate in modo da impedire il passaggio esercitato dall'istante).

Cass. civ. n. 16094/2003

Al di fuori dell'ipotesi della rivendicazione per la quale l'art. 948 c.c. prevede un regime probatorio rigoroso, la proprietà può essere provata, come tutti i fatti, anche con presunzioni e quindi anche attraverso il ricorso alle risultanze catastali. (La Corte, nel formulare il principio sopra indicato, ha ritenuto corretta la motivazione del giudice di appello nella parte in cui aveva fatto riferimento alle mappe catastali per stabilire l'appartenenza al convenuto della proprietà del suolo ubicato a monte e dal quale si era verificato il pericolo per il fondo a valle dell'attore che aveva proposto domanda di danno temuto e di condanna del convenuto all'adozione delle misure necessarie).

Cass. civ. n. 12091/2003

In tema di azioni reali esperite a tutela di facoltà comprese nel diritto di proprietà o di diritti ad esso accessori il soggetto che sia nel possesso nel bene, è gravato — relativamente all'asserito diritto di proprietà — di un onere probatorio meno rigoroso di quello a carico dell'attore in rei vindicatio, in quanto limitato alla sola giustificazione del possesso, mentre, qualora la medesima azione sia esperita da soggetto che non abbia il possesso del bene, l'accertamento della proprietà, ove contestata dalla controparte che se ne assuma a sua volta titolare, soggiace allo stesso onere probatorio della rei vindicatio, di cui ha analogo effetto recuperatorio.

Cass. civ. n. 15716/2002

La denuncia di successione — avente, di per sé, efficacia a soli fini fiscali — non è idonea a fornire la prova del diritto di proprietà di un determinato bene, ma, in assenza di prove o indizi di segno contrario, può costituire elemento di convincimento del giudice in favore di chi la alleghi a dimostrazione di una situazione di fatto esistente al momento della denuncia stessa

Cass. civ. n. 13186/2002

Il rigore del principio secondo il quale l'attore in rivendica deve provare la sussistenza dell'asserito diritto di proprietà sul bene anche attraverso i propri danti causa fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione, non è, di regola, attenuato dalla proposizione, da parte del convenuto, di una domanda riconvenzionale (o di un'eccezione) di usucapione (atteso che il convenuto in un giudizio di rivendica non ha l'onere di fornire alcuna prova, pur nell'opporre un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata), anche se la mancata contestazione, da parte del convenuto stesso, dell'originaria appartenenza del bene rivendicato al comune autore ovvero ad uno dei danti causa dell'attore comporta che il rivendicante possa, in tal caso, limitarsi alla dimostrazione di come il bene in contestazione abbia formato oggetto di un proprio, valido titolo di acquisto, tuttavia, l'opposizione di un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo a quello del titolo di acquisto del rivendicante comporta che — attenendo il thema disputandum all'appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell'invocata usucapione e non già all'acquisto di esso da parte dell'attore — l'onere probatorio del rivendicante possa legittimamente ritenersi assolto, nel fallimento dell'avversa prova della prescrizione acquisitiva, con la dimostrazione della validità del titolo in base al quale quel bene gli era stato trasmesso dal precedente titolare.

Cass. civ. n. 12984/2002

Colui che agisce per l'accertamento della proprietà su di un bene a titolo originario ha l'onere di dimostrare i requisiti del possesso necessari per l'usucapione, tra i quali anche la durata del possesso medesimo per il periodo prescritto dalla legge, in applicazione della regola generale sull'onere probatorio fissata dall'art. 2697 c.c., in base al quale chi intende far valere un diritto in giudizio ha l'onere di provare i fatti costitutivi di esso.

Cass. civ. n. 3568/2002

In tema di azione di rivendicazione, ai fini della prova dell'estensione della proprietà, non è decisiva la superficie indicata nell'atto di compravendita, poiché l'estensione del fondo va determinata in base ai confini menzionati nel contratto, ove essi siano precisi e riscontrabili sul terreno.

Cass. civ. n. 7894/2000

L'attore che proponga una domanda di accertamento della proprietà e non abbia il possesso della cosa oggetto del preteso diritto ha l'onere di offrire la stessa prova rigorosa richiesta per la rivendica (dimostrazione della titolarità del diritto mediante la prova di un acquisto a titolo originario, eventualmente risalendo al titolo originario dei propri danti causa, o quanto meno il possesso continuato del bene conforme al titolo, da parte del proprietario ed eventualmente dei suoi danti causa, protratto per il tempo necessario all'usucapione del bene) perché egli esercita un'azione a contenuto petitorio, diretta al conseguimento di una pronuncia giudiziale utilizzabile per ottenere la consegna della cosa da parte di chi la possiede o la detiene. Al contrario è esonerato dall'onere della prova richiesta per la rivendicazione, dei vari trasferimenti della proprietà sino alla copertura del tempo sufficiente ad usucapire, l'attore che propone un'azione di accertamento della proprietà ed abbia il possesso della cosa oggetto del preteso diritto (anche se tale minore rigore probatorio rispetto all'azione di rivendicazione non esime dall'onere di allegare e provare il titolo del proprio acquisto) e ciò perché tale azione tende non già alla modifica di uno stato di fatto, ma solo alla eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l'attore è già investito.

Cass. civ. n. 696/2000

Colui il quale propone un'azione di accertamento della proprietà di un bene ha l'onere di allegare e provare il titolo del preteso dominio e tale esigenza probatoria non è attenuata o esclusa nel caso di rigetto degli assunti prospettati dal convenuto, neppure se volti ad ottenere il riconoscimento a suo favore della proprietà del medesimo bene, a meno che essi non risultino basati su asserzioni che presuppongano l'originaria sussistenza del titolo su cui si fonda la domanda dell'attore e ne deducano la sopravvenuta caducazione.

Cass. civ. n. 2485/1999

L'attore che agisce in rivendicazione assumendo essergli inopponibile il titolo di acquisto (derivativo) del convenuto, in quanto trascritto posteriormente al proprio, ha l'onere di dimostrare la provenienza di entrambi i titoli dal medesimo dante causa.

Cass. civ. n. 1635/1999

Il proprietario che agisce per ottenere la restituzione della cosa e prospetti di averla consegnata al convenuto in funzione di un'opera o di un servizio che avrebbe dovuto essere compiuto nel suo interesse, se intende agire in quanto proprietario non ha l'onere di provare la natura del contratto in base al quale è avvenuta la consegna, perché la qualità di proprietario è sufficiente per richiedere la restituzione, mentre incombe al detentore che sostiene di avere sulla cosa un diritto di godimento l'obbligo di provare che fra le parti è stato concluso un contratto in tal senso.

Cass. civ. n. 8930/1998

L'azione personale diretta a conseguire la restituzione di un bene detenuto a titolo precario, non si trasforma in azione reale in presenza delle contestazioni del convenuto in ordine alla proprietà del bene medesimo.

Cass. civ. n. 8176/1998

In tema di rivendica, anche mobiliare, il principio secondo cui l'attore è onerato della prova dell'asserito diritto domenicale mediante la dimostrazione, ove occorrente, del titolo originario di acquisto del bene va interpretato in relazione alle concrete peculiarità delle singole fattispecie sottoposte all'esame del giudice di merito, potendo astrattamente assumere rilevanza anche il contenuto della difesa di volta in volta opposta dal convenuto, nel rispetto del più generale principio secondo cui le dichiarazioni del possessore o del detentore possono essere ritenute significative se interpretate nel più ampio contesto di tutte le risultanze relative alla condotta del soggetto, secondo un criterio di valutazione oggettiva.

Cass. civ. n. 5980/1998

Il principio secondo il quale il contenuto delle mappe catastali non ha rilievo decisivo in tema di azione di rivendica o di accertamento della proprietà (non essendo l'attore dispensato dall'onere di fornire anche aliunde la dimostrazione del titolo posto a fondamento dell'azione) non esclude che i rilievi topografici di dette mappe, oggetto della diretta constatazione da parte dei periti governativi, costituiscano piena prova delle constatazioni stesse e della conformazione degli immobili (nella specie, una strada assertivamente comunale) censiti all'epoca delle operazioni di rilevamento, pur se nei limiti dei dati tecnici rilevati.

Cass. civ. n. 11605/1997

L'attore in rivendica è tenuto a dimostrare la proprietà del bene che assume a lui appartenente fornendo la prova (anche risalendo ai propri danti causa) dell'acquisto a titolo originario della res oggetto della controversia, non potendo, all'uopo, ritenersi sufficiente la mera produzione di documentazione amministrativa (nella specie, nota di trascrizione nei registri immobiliari, nota dell'ufficio del registro, denuncia di successione del presunto dominus, dati ricavati dai registri catastali), ovvero l'assenza di contestazioni sul tema da parte del convenuto, sul quale, inoltre, non può ritenersi gravante alcun onere di allegazione o dimostrazione della legittimità del possesso da lui esercitato.

Cass. civ. n. 11115/1997

La prova della proprietà di beni immobili non può essere fornita con la produzione dei certificati catastali, i quali sono soltanto elementi sussidiari in materia di regolamento di confini ai sensi dell'art. 950 c.c., né con pretesi riconoscimenti della controparte, essendo necessario in materia l'atto scritto ad substantiam o un fatto equiparato come l'usucapione, né può riconoscersi la proprietà immobiliare in base ad un procedimento deduttivo, non ammettendo la forma scritta equipollente e quindi in base ad un atto o fatto che possa presupporla ma non la consacra direttamente a favore del soggetto come il decreto pretorile di riconoscimento dell'usucapione ex art. 1159 bis c.c.

Cass. civ. n. 5711/1997

Il rigore probatorio sotteso all'esercizio dell'azione di rivendica, che impone all'attore la dimostrazione dell'acquisto del bene a titolo originario (o della ricezione del medesimo, per effetto di una serie ininterrotta di trasferimenti, da chi lo aveva acquistato a detto titolo, ovvero del protrarsi di tale serie di validi trasferimenti per il tempo necessario all'usucapione), non può ritenersi attenuato dalla proposizione di una mera eccezione o di una domanda riconvenzionale di usucapione da parte del convenuto (attesane la natura di acquisto a titolo originario, tale da non presupporre alcun riconoscimento in favore della controparte), tale attenuazione potendo dirsi verificata, invece, nella ipotesi in cui sia opposto un acquisto solo successivo al titolo del rivendicante, ovvero venga riconosciuta la originaria appartenenza del bene ad un comune dante causa, ed invocata la detta usucapione solo come successiva a tale appartenenza.

Cass. civ. n. 1925/1997

Nel giudizio di rivendicazione l'attore deve provare di esser diventato proprietario della cosa rivendicata, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino ad un acquisto a titolo originario, o dimostrando il possesso proprio e dei suoi danti causa per il tempo necessario per l'usucapione. Se poi anche il possesso è contestato dal convenuto, l'attore non può limitarsi a dimostrare che il titolo o i titoli (tra i quali, per la sua natura dichiarativa, non può annoverarsi la divisione, salvo che si provi il titolo d'acquisto della comunione) risalgono ad un ventennio, ma deve provare che egli o i suoi danti causa abbiano effettivamente e continuativamente posseduto l'immobile, salva la presunzione iuris tantum di possesso intermedio, senza che il rigore di siffatto onere probatorio sia attenuato dalla mera proposizione di una domanda riconvenzionale o di un'eccezione di usucapione da parte del convenuto, quando queste non siano formulate in modo da comportare il riconoscimento della pregressa titolarità del diritto da parte dell'attore o dei suoi «danti causa». (Nella specie la S.C. ha annullato la sentenza impugnata, che non aveva compiuto alcun effettivo accertamento circa l'esistenza di una situazione possessoria in capo agli attori e ai loro danti causa, impropriamente valorizzando a tal fine un atto di divisione e una successiva attribuzione testamentaria).

Cass. civ. n. 1634/1996

L'onere della cosiddetta probatio diabolica incombente sull'attore in rivendicazione si attenua quando il convenuto si difenda deducendo un proprio titolo di acquisto, quale l'usucapione, che non sia in contrasto con l'appartenenza del bene rivendicato ai danti causa dell'attore, e può ritenersi assolto nel fallimento della prova della prescrizione acquisitiva, con la dimostrazione della validità del titolo in base al quale quel bene è stato trasmesso dal dominus originario.

Cass. civ. n. 1480/1996

L'azione di accertamento della comproprietà di una via privata agraria costituita ex collatione privatorum agrorum, promossa da uno dei proprietari dei fondi latistanti che pretende di usare la strada contro la volontà degli altri, non è soggetta al rigoroso regime probatorio delle rivendica, perché tale comunione, al pari di ogni altra communio incidens, può anche essere dimostrata con testimoni e presunzioni semplici desumibili dal prolungato e pacifico uso della strada da parte dei proprietari stessi, dalle caratteristiche dei luoghi, dalle esigenze di comunicazione colture dei fondi attraversati, a meno che dai titoli risulti, in contrasto con i predetti elementi indiziari, che la via appartiene soltanto ad alcuni dei proprietari dei fondi latistanti o che la porzione di terreno che la parte assume di avere conferito per la formazione della strada agraria apparteneva al demanio comunale.

Cass. civ. n. 2334/1995

Il rigoroso onere probatorio di norma gravante sul soggetto che agisce in rivendicazione può essere assolto con la deduzione e la dimostrazione, da parte sua o dell'acquisto del bene a titolo derivativo e della totalità del diritto di proprietà in capo ai precedenti danti causa, fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, o dell'avvenuto compimento dell'usucapione in suo favore. Il giudice, però, non può valorizzare ai fini della prova della proprietà il godimento del bene da parte del rivendicatore, qualora lo stesso non abbia allegato l'usucapione quale titolo d'acquisto.

Cass. civ. n. 1044/1995

Nell'azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., la quale tende al riconoscimento del diritto di proprietà dell'attore ed al rilascio in suo favore del bene rivendicato, l'attore è soggetto ad un onere probatorio rigoroso, in quanto è tenuto a provare la proprietà del bene risalendo, anche attraverso i propri danti in causa, sino ad un acquisto originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione, mediante il cumulo dei successivi possessi uti dominus. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata la quale, pur in presenza di contestazioni da parte dei convenuti, aveva ricavato la proprietà del rivendicante su dati presuntivi, derivati dalle certificazioni catastali).

Cass. civ. n. 3947/1994

Per l'esercizio dell'azione di rivendicazione non è necessario che l'attore sia stato spossessato del bene senza o contro la volontà, sicché anche quando abbia trasferito il possesso in base ad un'obbligazione assunta contrattualmente non gli è preclusa la possibilità, ove eventi giuridici successivi abbiano determinato il venir meno del diritto dell'accipiens, di proporre l'azione reale di rivendica per riottenere il possesso del bene quale proprietario, anziché di agire con l'azione personale di restituzione; ovvero, a fronte delle eccezioni del convenuto che opponga un proprio titolo di acquisto della proprietà (nella specie: usucapione), di modificare in corso di giudizio la domanda di restituzione originariamente proposta in domanda di rivendicazione.

Cass. civ. n. 9096/1991

Poiché il catasto è preordinato a fini essenzialmente fiscali, il diritto di proprietà, al pari degli altri diritti reali, non può — in assenza di altri e più qualificanti elementi ed in considerazione del rigore formale prescritto per tali diritti — essere provato in base alla mera annotazione di dati nei registri catastali, che hanno in concrete circostanze soltanto il valore di semplici indizi.

Cass. civ. n. 4836/1991

Ai fini dell'esercizio dell'azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), non è necessario che l'attore sia stato spossessato del bene senza o contro la sua volontà. Di conseguenza, la circostanza che egli abbia trasferito volontariamente il possesso del bene in attuazione di un'obbligazione contrattualmente assunta non gli preclude — ove deduca che eventi giuridici successivi hanno determinato il venir meno del diritto dell'accipiens al possesso e l'insorgenza del proprio diritto, quale proprie¬tario, a riottenerlo — l'agire in rivendica, invece che con l'azione personale di restituzione.

Cass. civ. n. 4650/1991

Il venditore, che non abbia consegnato la cosa venduta al compratore, non può fare valere contro quest'ultimo, che pur non avendo ricevuto la consegna della cosa, ne ha acquistato la proprietà ex art. 1376 c.c., il suo possesso anteriore all'atto di trasferimento, al fine di contrastare la domanda di rivendicazione del compratore stesso o di fondare una sua domanda di acquisto per usucapione, potendo a tal fine far valere soltanto il suo eventuale possesso successivo all'atto di trasferimento.

Cass. civ. n. 8326/1990

Il proprietario comodante può avvalersi, al fine di conseguire il rilascio del bene concesso ad altri in godimento, sia dell'azione di rivendica che della azione contrattuale di natura obbligatoria; in questa seconda ipotesi, l'attore non ha l'onere di provare la proprietà del bene medesimo, bensì soltanto l'esistenza del contratto di comodato e le sue implicazioni di carattere soggettivo, senza che possa rilevare al riguardo di tale regime probatorio che il convenuto abbia eccepito l'usucapione del bene in suo favore, in quanto tale pretesa non è idonea a trasformare in reale l'azione tipicamente personale proposta nei suoi confronti.

Cass. civ. n. 3669/1987

Nell'azione di rivendicazione incombe sull'attore l'onere di provare l'esistenza dell'asserito dominio sulla cosa rivendicata, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione a suo favore, mentre nessun onere probatorio grava sul convenuto, il quale può trincerarsi dietro il possideo quia possideo o anche affermare di essere proprietario della cosa medesima, senza che quest'ultima affermazione possa tornare a suo pregiudizio, non implicando di per sé rinuncia alla posizione vantaggiosa derivantegli dal possesso e non esonerando l'attore dalla prova a suo carico.

Cass. civ. n. 3340/1987

Qualora un soggetto si limiti a richiedere al giudice l'accertamento che un determinato bene, detenuto da un terzo, gli appartiene, senza chiederne la restituzione, tale azione, essendo pur sempre di natura reale, postula lo stesso rigore probatorio di quella di rivendicazione, con la quale coincide quanto all'accertamento della proprietà sulla cosa contesa.

Cass. civ. n. 1840/1986

L'azione diretta all'accertamento della comproprietà di una via privata agraria, della quale uno dei proprietari dei fondi latistanti assuma essergli impedito l'uso, non è soggetta al rigoroso regime probatorio della rivendica, potendo tale comunione essere dimostrata con ogni mezzo, e, quindi, anche mediante presunzioni.

Cass. civ. n. 4704/1985

In tema di rivendicazione, la prima e fondamentale indagine che il giudice del merito deve compiere concerne l'esistenza, la validità e la rilevanza del titolo dedotto dall'attore a fondamento della pretesa, e ciò prescindendo da qualsiasi eccezione del convenuto, giacché, investendo essa uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere fornita dall'attore e l'eventuale insussistenza deve essere rilevata dal giudice anche di ufficio. Per quanto, in particolare, attiene alla rilevanza del titolo, essenziale è l'indagine sull'identità del bene domandato dall'attore con quello descritto nel titolo stesso, ed essa deve essere istituita dal giudice anche d'ufficio, senza che il convenuto sia tenuto a formulare specifiche eccezioni ed ad onerarsi della dimostrazione di un proprio titolo di acquisto prevalente. Il giudizio sulla corrispondenza tra il bene domandato e quello descritto nel titolo, se adeguatamente motivato e condotto secondo i normali criteri ermeneutici, è incensurabile in sede di legittimità.

Cass. civ. n. 3398/1984

Le mappe catastali non hanno rilievo decisivo in materia di rivendica o di accertamento della proprietà e non dispensano dall'onere di fornire la dimostrazione del titolo da cui si assume derivare il diritto reale.

Cass. civ. n. 2210/1984

L'azione di restituzione di un bene postula che siano incontestati la proprietà o il possesso dello stesso (a mezzo di un detentore) da parte dell'attore e la qualità di detentore (e non di possessore) del convenuto e che tale detenzione sia priva di qualsiasi titolo giustificativo, per essere questo carente ab origine o venuto meno successivamente per accertata invalidità o inefficacia, ovvero per esaurimento della sua funzione (decorso del termine di durata, esercizio della facoltà di recesso).

Cass. civ. n. 120/1983

L'azione di rivendicazione e quella di restituzione — pur differenziandosi perché, mentre la prima, di natura reale, tende al riconoscimento del diritto di proprietà dell'attore ed al conseguimento del possesso sottrattogli contro la sua volontà, la seconda, di natura personale, presuppone che la detenzione della cosa sia stata trasferita al convenuto dall'attore o dal suo dante causa in forza di un rapporto successivamente venuto meno per invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio della facoltà di recesso, con il conseguente sorgere dell'obbligo di restituzione — sono entrambe dirette allo stesso risultato pratico del recupero del possesso del bene, con la conseguenza che possono essere proposte in via (anche implicitamente) alternativa, ovvero che, essendo stata proposta espressamente soltanto una di esse, questa possa trasformarsi, in corso di giudizio, nell'altra in relazione alle eccezioni del convenuto ed a determinate condizioni.

Cass. civ. n. 1004/1982

L'azione di rivendicazione presuppone che l'attore assuma di essere proprietario di una cosa e di non averne più il possesso ed agisca, quindi, contro il possessore o il detentore per ottenerne la restituzione, sicché essa richiede l'allegazione della proprietà di una certa cosa per ambito e contorni determinati (o determinandi) e la deduzione della lesione del proprio diritto in un ambito ben circoscritto, con un esatto tantundem restitutorio. Tali estremi non ricorrono in ipotesi di domanda di rivendica volta ad accertare una situazione di comproprietà tra i contendenti per quote minime imprecisate, con conseguente rettifica catastale, a fronte di un atto attributivo al convenuto della proprietà esclusiva di una parte del bene in contestazione e della comproprietà del medesimo, per il resto, in una quota determinata.

Cass. civ. n. 2799/1977

In tema di azione di rivendicazione non sussiste alcuna norma che limiti a prova a quella documentale, tanto più che l'azione può essere esercitata anche da chi abbia acquistato la proprietà per usucapione, senza necessità di alcun precedente accertamento giudiziale.

Cass. civ. n. 736/1977

Dalla presunzione di buona fede nel possesso, fissata dall'art. 1147 terzo comma c.c., deriva che all'attore in rivendicazione di bene mobile è sufficiente provare di aver acquistato il possesso della cosa in base a titolo astrattamente e potenzialmente idoneo al trasferimento della proprietà (art. 1153 c.c.), mentre spetta a chi resiste all'azione medesima di dimostrare l'eventuale mala fede al momento della consegna a non domino.

Cass. civ. n. 3859/1976

La prova a carico di colui che agisce in rivendicazione deve dimostrare la persistenza del diritto vantato fino alla domanda e l'azione deve ritenersi infondata se, pur essendo dimostrato il diritto del rivendicante per un certo periodo, esso risulti successivamente perduto per l'acquisto dello stesso bene validamente effettuato dal convenuto.

Cass. civ. n. 1122/1976

Il criterio distintivo tra azione di rivendica ed azione di accertamento del diritto di proprietà va individuato nella funzione petitoria e restitutoria che ha l'azione reale di rivendicazione, caratterizzata dal presupposto che l'attore, assumendo di essere il proprietario della cosa e di non averne il possesso, agisca contro il possessore o il detentore per ottenere il riconoscimento del proprio diritto e per conseguire la restituzione del bene; invece, l'azione di accertamento della proprietà ha per obiettivo non già la modificazione di uno stato di fatto non conforme allo stato di diritto, ma l'eliminazione di ogni incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa, di cui l'attore è già investito, attraverso la dichiarazione che esso risponde esattamente allo stato di diritto.

Cass. civ. n. 814/1976

In tema di azione di accertamento, per essere obiettiva, l'incertezza che genera l'interesse ad agire deve essere provocata da un atto o fatto esteriore, tale da conferire attualità e concretezza a quello stato di dubbio di cui si vuol promuovere, mediante una pronunzia di accertamento, l'effetto pregiudizievole; occorre quindi che l'incertezza sul contenuto di diritti e doveri sia attuale, non soltanto possibile ed eventuale, e nasca da un rapporto già esistente e non meramente ipotetico.

Cass. civ. n. 952/1975

In tema di prova del diritto di proprietà nelle azioni di rivendicazione, quando ciascuno dei contendenti affermi il suo diritto di proprietà in base a titoli di acquisto negoziali provenienti da autori diversi, il giudice non può prescindere dall'esame dei titoli dei vari danti causa onde accertare le condizioni massimali di un acquisto del diritto a titolo originario; l'esame, invece, può essere meno rigoroso quando i titoli di acquisto vantati dalle parti in causa siano di tipo diverso tra loro, ed a colui che agisca in base ad un titolo negoziale sia opposto un possesso ad usucapionem per il tempo previsto dalla legge.

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A.A.C. chiede
venerdì 03/09/2021 - Calabria
“Buon pomeriggio.
Espongo brevemente la mia situazione.
Mia mamma si appresta a instaurare una causa civile per recuperare un pezzetto di terreno di 20/30mq che è rimasto al di fuori di un terreno (di nostra proprietà) recintato. Questo pezzetto di terreno confina con un fabbricato e una piccola corte di proprietà del vicino il quale ritiene di averne l’usucapione (lo possiede utilizzandolo come legnaia), secondo lui la recinzione costituisce il confine tra la sua e la mia proprietà.
Diciamo che il fatto di aver messo questa recinzione arretrata rispetto ai confini catastali ci sta recando non pochi problemi. Non so spiegare il perché di questo. Sicuramente quando la rete è stata collocata il confine catastale nemmeno si conosceva, la recinzione e li da molti anni mentre il rilievo tecnico è stato fatto nel 2010). Il terreno confina per buona parte (il 50%) con una strada vicinale, per altra parte (il 30%) con tre fabbricati: il nostro, quello del vicino e quello di suo figlio (il quale anche mi ha dato problemi, per lo stesso motivo, cioè per via della recinzione più all’interno ed ha avanzato le stesse pretese del padre. Tuttavia in questo caso abbiamo già provveduto a instaurare la causa civile per via di altri motivi che ci sono stati. Qui infatti c’era la problematica di una sopraelevazione in centro storico e apertura ex novo di vedute; il terreno inoltre presenta la configurazione di una scarpata, la causa pende in appello da parte nostra). Su altro lato (il 20%) confina con una porzione derivante da un frazionamento di questo terreno che mia mamma ha donato a mia nipote.
Un certificato di destinazione urbanistica dice che il terreno in parte ricade in centro storico, in parte è in zona di espansione urbanistica. Questo dovrebbe significare che al mio vicino occorrono venti anni per usucapire.
Da parte nostra abbiamo fatto eseguire un rilievo aerofotogrammetrico dal quale si evince che la pretesa dalla controparte è inisistente essendo quel terreno libero fino a una certa data (6/7/2006). Sono anche in possesso di una foto che, anche se non scattata sul posto, bensi da lontano, inquadra la zona è conferma quanto si evince dal rilievo aerofotogrammetrico. Mia mamma inoltre paga l' IMU/ICI x intero di questo terreno, quindi sia di quello dentro che di quello fuori la recinzione.

Avendo come prove a mio favore i seguenti documenti: un rilievo aerofotogrammetrico che dimostra che il terreno era libero fino ad una certa data (6/7/2006); una fotografia, recante data febbraio 2004, scattata si da lontano ma che inquadra la zona in questione e che conferma ulteriormente la fotogrammetria, quindi che il terreno era libero; le ricevute da più di venti anni del pagamento ICI del fondo intero così come è esteso catastalmente; atti notarili con qui i beni tra cui questo fondo si sono consolidati nelle mani di mio nonno che poi a sua volta nel 1975 ha donato a mia mamma; gli esiti di una mediazione fatta (nel 2012/13) in vista di un primo tentativo di causa civile che poi non è andata in porto, (non so se può valere come evento interruttivo); la relazione di un geometra (del 2010) incaricato da mia mamma che ha effettuato un rilievo tecnico del fondo; una denuncia contro ignoti perchè dopo le operazioni di picchettamento i vicini hanno ben pensato di far sparire un picchetto e poi pian piano anche altri. Purtroppo non dispongo di prove testimoniali (se non quella dell’esecutore della fotogrammetria ed eventualmente la mia), comunque per me quella fotogrammetria dice tutto!!!

Queste sono le mie domande:
Qual è l’azione più idonea con cui noi dimostrando che il terreno era libero certamente fino al 6/7/2006 possiamo recuperarlo?
Una volta instaurato il giudizio la controparte si costituirà e dirà di avere l’usucapione!
A questo punto sarà meglio per noi proporre la riconvenzio reconvenzinalis chiedendo al giudice il rigetto della domanda di usucapione perché il terreno era libero come risulta dagli esiti del rilievo aerofotogrammetrico? Quale sarà la procedura che seguirà la causa in questo caso?
Oppure sarà conveniente stare in giudizio “normalmente” dando la prova contraria. Il mio dubbio qui è: le prove di cui dispongo sono sufficienti per una prova contraria? Oppure prova contraria si intende solo che dovrò provare il possesso del bene? Sotto questo aspetto difetto di prove testimoniali di possesso materiale; anche se anche pagare le tasse di un fondo costituisce possesso…….!!!!!! Credo…..!!!!!! vero????

Altra domanda, la cui risposta non so se possa valere a mio favore è che il vicino a sua volta non ha mai recintato quel pezzetto di terra, sento dire da più parti che se è così non può vantare un possesso esclusivo. Allora mi chiedo come e quando posso utilizzare questa argomentazione a mio favore?
In ultimo chiedo questo: mia mamma è ormai grande di età! intraprendere una causa adesso mi rendo conto che può comportare dei rischi. Purtroppo la pretesa del mio vicino controparte non ci lascia scampo, cosa posso fare se (Dio non voglia ) mia mamma verrà a mancare? La remissione della causa dipende dal tipo di azione intrapresa?
la ringrazio infinitamente per la sua attenzione e le porgo i miei saluti.”
Consulenza legale i 20/09/2021
In risposta alla prima domanda si osserva quanto segue.
Per come sono stati esposti i fatti e in base ai documenti in vostro possesso riteniamo che l’azione legale più idonea da intraprendere sia quella di rivendicazione di cui all’art.948 cc. che consente, appunto, al proprietario di rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene.
Infatti leggiamo che, tra l’altro, siete in possesso degli atti notarili a partire dal nonno e a seguire fino a Sua madre.
Come ha sottolineato la Suprema Corte nella sentenza n.21940/2018: “In tema di azione di rivendicazione, ai fini della "probatio diabolica" gravante sull'attore, tenuto a provare la proprietà risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino all'acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione, non è sufficiente produrre l'atto di accettazione ereditaria, che non prova il possesso del dante causa, né il contratto di acquisto del bene, che non prova l'immissione in possesso dell'acquirente.
Tale principio è stato ribadito anche nella pronuncia n.14734/2018 secondo cui: “Il rigore della regola secondo cui chi agisce in rivendicazione deve provare la sussistenza del proprio diritto di proprietà o di altro diritto reale sul bene anche attraverso i propri danti causa, fino a risalire ad un acquisto a titolo originario o dimostrando il compimento dell'usucapione, non riceve attenuazione per il fatto che la controparte proponga domanda riconvenzionale ovvero eccezione di usucapione.“
Nella presente vicenda, riteniamo che il rigoroso onere della prova a carico di chi rivendica il terreno verrebbe assolto producendo in giudizio i predetti atto notarili, partendo dal primo acquisto a titolo originario fino alla donazione fatta da Suo nonno a Sua madre, ovvero dimostrando l’avvenuta usucapione per decorso del termine ventennale.

Quanto alla domanda in merito alla strategia processuale più opportuna laddove il vicino si costituisca in giudizio opponendo l’acquisto per usucapione, si evidenzia quanto segue.
L’onere della prova è un principio di carattere generale in ambito processuale ed è sancito all’art. 2697 del codice civile.
Tale norma prevede infatti che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento e chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
Applicando tale principio teorico alla vicenda concreta in esame significa che l’attore (in questo caso chi intende che venga accertata la proprietà del pezzo di terreno detenuto dal vicino) deve fornire la prova della proprietà nei modi e termini rigorosi sopra specificati; mentre il convenuto (cioè il vicino) che eccepisca che tale diritto di proprietà si sia estinto dovrà agire in riconvenzionale opponendo l’acquisto per usucapione.
In merito a tale ultimo aspetto, la Cassazione con la recente sentenza n. 15050 del 2020 ha ribadito il principio secondo cui: “qualora il convenuto sostenga, in via riconvenzionale, di aver acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, l’attore in rivendica deve dare prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell’appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere, nonché la prova che quell’appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto”.

Nel caso che ci occupa, l’attore potrà adempiere a tale onere probatorio producendo in giudizio:
1) gli atti di acquisto che si sono succeduti nel tempo;
2) il rilievo aerofotogrammetrico che dimostra che il terreno era libero fino al 06.07.2006 nonché la foto del febbraio 2004 che inquadra la zona in questione e che conferma che il terreno era libero.

Quanto al pagamento dell’ICI e alle evidenze catastali, essi non hanno una particolare rilevanza probatoria.
Come aveva infatti evidenziato la Cassazione con la sentenza n.27296 del 2013: “l’intestazione catastale di un immobile, compiuta dall’autorità amministrativa nell’ambito di accertamenti di carattere fiscale per individuare il titolare della proprietà, non comporta la dimostrazione che l’intestatario, o gli intestatari, abbiano effettivamente esercitato su di esso quel potere di fatto che, unitamente all’indispensabile elemento intenzionale, è idoneo a produrre l’acquisto della proprietà per il decorso del tempo ed il concorso di tutte le altre condizioni a tal fine richieste dalla legge. D’altra parte, le indicazioni catastali non sono elementi decisive per l’accertamento del diritto di proprietà.

Ciò posto, in risposta alla domanda l’attore non dovrà proporre alcuna reconventio reconventionis limitandosi semplicemente a confutare tramite la predetta produzione fotografica che non è maturato il tempo per usucapione in favore del convenuto in quanto il terreno era sicuramente libero almeno fino al 2006.
Per inciso, comunque, tali aspetti processuali così tecnici (riconvenzionale/eccezione) saranno un aspetto che dovrà valutare il legale che predisporrà l’atto di citazione per la rivendica ex art. 948 c.c.

Quanto alla terza domanda contenuta nel quesito, riteniamo che la circostanza che il vicino non ha recintato il pezzo di terreno non sia così rilevante dal momento che comunque il pezzo di terreno in contestazione si trova oltre la recinzione da voi a suo tempo collocata.
Anzi, proprio in ragione dell’esistenza di tale recinzione collocata proprio dall’attore riteniamo che ai fini della strategia processuale non sia un aspetto da evidenziare nell’atto introduttivo.

Infine, con riguardo all’ultima domanda contenuta nel quesito si osserva quanto segue.
Laddove, non sia mai, l’attore e cioè sua madre dovesse venire a mancare nel corso del giudizio, vi sarebbero due strade: la prima sarebbe quella di dichiarare l’evento con conseguente interruzione del processo (art. 300 c.p.c.) e successiva riassunzione (art. 299 c.p.c) da parte degli eredi.
La seconda strada sarebbe quella di non dichiarare l’evento il che comporterebbe una ultra attività del mandato dell’avvocato.
Infatti, come sottolineato dalla Suprema Corte nella sentenza n.20964 del 2018la morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, comportano, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alla lite”.
In ogni caso, nessuna delle due ipotesi porterebbe alcun pregiudizio con riguardo gli esiti del giudizio intrapreso.

CLAUDIO Z. chiede
giovedì 09/04/2020 - Lazio
“Il mio Amministratore di condominio ha affermato, nell'ambito di una PEC inviata al mio avvocato, che, dalla documentazione in suo possesso, una certa chiostrina che si trova nel palazzo è condominiale.
Il mio avvocato ha richiesto tale documentazione all'Amministratore tramite PEC per ben due volte (una volta nell'ottobre 2019 e l'altra nel febbraio 2020).
L'amministratore NON risponde.
Si chiede quali azioni legali può intraprendere il mio avvocato (al momento non riesco a contattarlo).
Grazie.”
Consulenza legale i 21/04/2020
Da quanto descritto, par di capire che l’amministratore di condominio, nell’adempimento dei suoi compiti, abbia rivendicato come condominiale la proprietà di una parte dell’edificio, la chiostrina, che, sicuramente, l’autore del quesito utilizza in maniera esclusiva impedendo agli altri proprietari di accedervi.

L’effetto della comunicazione inviata è quello di interrompere il computo del termine ventennale di cui all’art.1158 del c.c. utile per usucapire la chiostrina. Così facendo, l’amministratore si pone come obbiettivo quello di evitare che quella parte dell’edificio, ritenuta condominiale dagli altri condomini, diventi di proprietà esclusiva di un singolo a danno della restante parte dei proprietari.

L’avvocato dell’autore del quesito nella corrispondenza intercorsa con il condominio avrà sicuramente contestato quanto sostenuto nella pec e sollecitato l’amministratore a consegnare tutta la documentazione utile a provare la natura condominiale della chiostrina.

Il silenzio dell’amministratore alle richieste avanzate è assolutamente positivo per gli interessi dell’autore del quesito, in quanto potrebbe essere indicativo del fatto che questa documentazione semplicemente non esiste.

In applicazione del principio dell’onere della prova racchiuso nell’art. 2697del c.c., chi agisce per rivendicare la proprietà ai sensi dell’’art. 948 del c.c., ha l’onere di provare il proprio diritto anche attraverso i propri danti causa fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, o dimostrando l’intervenuto acquisto per usucapione (si veda tra le tante Cass. Civ., Sez.II, Ord. n.32386 del 14.12.2018).

In altre parole l’iniziativa se instaurare o meno una causa volta ad accertare la natura condominiale della chiostrina spetta al condominio, e sarà suo onere fornire la prova che tale parte sia effettivamente di proprietà comune, onere che, sicuramente, non può ricadere sulla parte convenuta che nel caso specifico è l’autore del quesito. Allo stato attuale, quindi, la cosa più giusta da fare è quella di non prendere alcuna iniziativa, attendendo che il condominio faccia la prima mossa notificando eventualmente o una istanza di mediazione o un atto giudiziario. Ovviamente questo accadrà se l’assemblea dei proprietari, a cui lo stesso autore del quesito dovrà essere convocato, autorizzerà l’amministratore ad intraprendere il percorso giudiziario, posto che all’oggi non si ha traccia di alcuna documentazione a sostegno della natura condominiale della chiostrina.

Nel frattempo si consiglia di continuare a comportarsi come se nulla fosse, usando la chiostrina in maniera esclusiva come, si immagina, si è fatto fino ad oggi: non sempre la miglior difesa è l’attacco!

Ferdinando G. chiede
giovedì 23/01/2020 - Campania
“I miei genitori negli anni 70 costruirono un fabbricato di tre piani e negli anno 80 donarono a ciascuno dei tre figli la nuda proprietà di un piano continuando loro ad abitare a piano terra; poiché sono ingegnere provvidi personalmente al frazionamento prima e alla sanatoria successivamente. Nel 2004 mi fu donato anche l'usufrutto dell'appartamento oltre ad un garage costruito sui beni comuni e provvidi alla redazione dell'elaborato planimetrico e all'accatastamento dello stesso aggraffandolo al mio appartamento. Mio padre è morto nel 2009 mentre mia madre tuttora vivente, sulla carta resta usufruttuaria per 500/1000 dei beni degli altri due figli.
Qualche tempo fa, volendo recintare la mia area esclusiva a piano terra e adiacente al giardino comune (agli altri due era stata data un'area scoperta prospiciente la strada su cui poi hanno costruito delle verande abusive) ho richiesto copia dell'elaborato planimetrico. Ho dovuto riscontrare che lo stesso era stato stravolto, non compariva più la mia area esclusiva e la legnaia, bene comune, era stata accatastata come bene esclusivo di un mio fratello che nel frattempo se ne era appropriato e la trasformava e usava in maniera esclusiva. Della variazione dell'elaborato planimetrico nessuno aveva avuto notizia, io ne sono venuto a conoscenza solo fortuitamente. L'appropriazione della legnaia è avvenuta anche con danneggiamento delle utilità esclusive (Serbatoi gpl e impianto autoclave) presenti nell'area comune e a seguito di numerosi atti di emulazione (la protervia era degenerata tanto che avevo preferito trasferirmi piuttosto che passare un guaio con questo soggetto particolare). Ultimamente a ridosso della ex legnaia è comparsa una recinzione in lamiera che ci esclude da circa un terzo del giardino comune.
E' lecito variare l'elaborato planimetrico all'insaputa dei comproprietari? cosa fare per ripristinare la situazione preesistente e come ottenere il rilascio dei beni comuni occupati con violenza.
Il tribunale di competenza è quello di (omissis), se ne esistono i presupposti si valuterà l'azione da esperire.
Grazie”
Consulenza legale i 29/01/2020
Il primo chiarimento che viene chiesto attiene alla modalità di variazione di un elaborato planimetrico, dovendosi a tal riguardo precisare che con tale espressione si intende quel documento volto a rappresentare graficamente il perimetro dell’edificato, le porzioni comuni, la suddivisione delle aree scoperte e gli accessi alle singole unità immobiliari (così si legge nella Circolare della Direzione generale del catasto e dei servizi tecnici erariali n. 2 del 20.01.1984).
Esso è obbligatorio quando si intendono costituire beni comuni censibili e beni comuni non censibili, viene rilasciato dal catasto e può essere richiesto da chiunque vi abbia interesse, a prescindere dalla titolarità sull’immobile.
Questi pochi elementi, sicuramente ben noti a chi pone il quesito (in quanto trattasi di un ingegnere), ma qui precisati perché probabilmente utili per eventuali terzi lettori che non conoscono la materia, inducono a dover rispondere che deve ritenersi lecita la sua variazione all’insaputa dei comproprietari, potendo tale variazione essere richiesta da chiunque, anche da chi non riveste la qualità di proprietario o titolare di altro diritto reale sugli immobili interessati.

Detto questo, il problema fondamentale che adesso si pone è quello di come difendere la comproprietà dei beni comuni, e precisamente della legnaia e del giardino, e di come sistemare sotto il profilo planimetrico l’area esclusiva a piano terra, adiacente al giardino comune.
Per quanto concerne questo secondo aspetto, si ritiene che, se non vi è stata alcuna appropriazione di fatto di quell’area esclusiva, sarà sufficiente procedere soltanto da un punto di vista tecnico alla variazione dell’elaborato planimetrico, potendo tale variazione, come detto prima, essere posta in essere da chiunque ed in qualunque momento (sugli aspetti propriamente tecnici, ovviamente, questa redazione non può essere in grado di fornire alcuna indicazione, in quanto esulano dalla materia giuridica).

Qualora, invece, il fratello, che adesso sta tentando di appropriarsi di circa un terzo del giardino comune, si sia anche appropriato sia dell’area esclusiva che della legnaia, allora il problema non può che porsi sotto un profilo prettamente giuridico di difesa della proprietà.
Purtroppo, considerate le espressioni temporali usate nel quesito, sembra di capire che si tratta di fatti ed azioni risalenti a più di un anno fa, il che induce a dover escludere la ricorrenza dei presupposti per avvalersi delle azioni possessorie.
Infatti, l'art. 1168 del c.c. e l'art. 1170 del c.c. consentono l’esercizio rispettivamente dell’azione di reintegrazione e di manutenzione qualora non sia trascorso più di un anno dall’avvenuto spoglio o dalla molestia.

In difetto dei presupposti per avvalersi di queste azioni, dunque, non resta che agire per il recupero dei beni illegittimamente usurpati mediante l’esercizio delle azioni a difesa della proprietà, ed in particolare dell’azione di rivendicazione della proprietà (art. 948 c.c.), attraverso la quale sarà ben possibile ottenere la restituzione di quell’area esclusiva, previa dimostrazione della esistenza di un valido titolo di proprietà.
Occorre tuttavia precisare che l’esercizio di tale azione non è consigliabile se sono già trascorsi venti anni da quando il fratello si è appropriato dell’area, in quanto sarà fin troppo semplice per lo stesso opporre l’intervenuto acquisto in suo favore a seguito di usucapione, modo di acquisto della proprietà previsto dall’art. 1158 del c.c..

In ordine, invece, ai beni comuni si suggerisce di avvalersi del disposto di cui all’art. 1102 del c.c., il quale vieta a ciascuno dei partecipanti di servirsi della cosa comune alterandone la destinazione e impedendone agli altri partecipanti di farne un pari uso.
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza (cfr. Cass. 17208/2008 e Cass. 11287/2010) quello secondo cui lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo, che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri, non può ricondursi alla facoltà di ciascun comunista di trarre dal bene comune la più intensa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo.

Pertanto, ciò che può consigliarsi nell’immediato è di diffidare formalmente il fratello ad eliminare quella recinzione in lamiera, che ostacola il pari uso del giardino comune.
Qualora, come è molto probabile, non venga dato alcun seguito a quella diffida, per evitare che lo stesso possa un domani vantare di aver usucapito quel bene, non resterà altra soluzione che quella di avvalersi del procedimento di cui all’art. 700 c.p.c., attraverso cui chiedere al giudice di emettere un provvedimento di urgenza, per mezzo del quale ottenere la rimozione di quella recinzione e la rimessione in pristino del giardino comune.


ANGELA F. chiede
giovedì 16/07/2015 - Emilia-Romagna
“Ho comprato negli anni 70 un immobile che ho fittiziamente intestato ad un parente. Questo immobile l’ho gestito ed amministrato sempre io, per oltre 20 anni. Poi questo mio parente ha deciso d’impossessarsene. Il bene è intestato a lui, e lo detiene dalla fine del 2003.

DOMANDA: Per il fatto che io ho gestito questo bene come se fosse mio, tanto che anche lui con alcune scritture private lo riconosce, posso intentare una causa dicendo di aver usucapito il bene?

PRECISAZIONE: io non gestisco più questo immobile dal 2003, anno in cui l’ha preso questo mio parente, ma dal 1970 fino al 2003 il bene è stato sempre gestito dal sottoscritto, tanto che non ho dovuto versare alcun canone di affitto a questo mio parente, essendo questo bene intestato solo fittiziamente a lui. Tuttavia, non sono forse caduto in prescrizione per poter fare una causa, visto che sono passati più di dieci anni dall’ultimo anno in cui detenevo il bene? Tuttavia, un avvocato mi ha detto che anche questo mio parente non ha raggiunto i vent’anni di possesso del bene, anche se ha questo bene intestato dal 1970. Quindi anche se sono passati più di dieci anni dall’ultima volta che lo detenevo, visto che il mio parente non detiene il bene da altrettanti 20 anni, come invece il sottoscritto lo ha tenuto, questo avvocato mi ha detto che sono ancora in tempo per adire le vie legali e riprendere il bene, grazie al fatto che l’ho usucapito. Tale cosa è ancora possibile o si è prescritta?”
Consulenza legale i 23/07/2015
Il quesito attiene alle modalità e ai limiti per la proposizione della domanda di usucapione.

Va innanzitutto precisato che l'azione con cui si fa valere l'intervenuta usucapione di un immobile - che configura un acquisto a titolo originario del bene - è, di fatto, una azione di rivendicazione ai sensi dell'art. 948 del c.c., cioè un'azione volta a far accertare il diritto di proprietà dell'attore e a farsi restituire il bene che si trova nel possesso o nella detenzione di un altro soggetto.
Legittimato attivo all'azione è il proprietario del bene che non lo possieda più.
Caratteristica fondamentale della rivendicazione è che si tratta di azione imprescrittibile, cioè che può essere esercitata sempre, senza termini di prescrizione: lo sancisce l'ultimo comma dell'art. 948.

Il convenuto in giudizio, colui che possiede il bene altrui, potrà difendersi affermando di aver a sua volta usucapito il bene: in tal modo, se può provare le sue affermazioni, il suo diritto sarà ritenuto prevalente rispetto a quello del proprietario rivendicante.

Nel caso di specie, un bene immobile è stato posseduto da un soggetto dal 1970 al 2003. Poiché l'azione di rivendicazione è imprescrittibile, l'usucapente ha ancora la possibilità di esercitare la relativa azione in giudizio.
L'usucapione potrà essere dichiarata se chi invoca l'acquisto a titolo originario del diritto di proprietà sul bene immobile potrà provare l'esistenza dei presupposti richiesti dalla legge, ovvero il possesso ed il tempo (art. 1158 del c.c.).
Il possesso, come dice l'art. 1140 del c.c., è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale: perché il possesso possa rilevare ai fini dell'usucapione è necessario che esso sia palese e non violento (art. 1163 del c.c.). Palese, significa "pubblico", "non clandestino", cioè avvenuto in maniera trasparente, anche se magari il proprietario non ne sia venuto a conoscenza subito; il possesso non è violento quando è stato acquisito pacificamente, senza una violenza fisica o morale nei confronti del proprietario. Inoltre, deve trattarsi di un possesso continuo, cioè non deve essere esercitato in maniera saltuaria od occasionale. Infine, il possesso deve essere ininterrotto per fatto del terzo o per eventi naturali: l'interruzione si verifica nel caso in cui il possessore sia stato privato del possesso per oltre un anno.

Dall'altro lato, il convenuto potrà opporre un suo eventuale acquisto per usucapione. Dovrà dare prova degli stessi requisiti di legge poco sopra descritti. Se, veramente, il finto intestatario ha posseduto solo dal 2003 ad oggi, l'usucapione non può essersi perfezionata. Naturalmente, egli cercherà di dimostrare che il suo possesso è più antico, magari affermando che il parente che gestiva l'immobile lo faceva per suo conto. Si tratta di una prova non facile.

S. D. L. chiede
giovedì 21/11/2024
“Il quesito attiene un'azione di rivendica cui opporre la condizione di buona fede del terzo possessore.

L’azione di rivendica è esperita dall’unica figlia della de cuius, riconosciuta per via giudiziaria successivamente al decesso della madre vedova e senza altri figli.
Il bene oggetto di rivendica è un immobile che dopo essere stato legato in favore della sorella (quindi zia dell’attrice), veniva da questa venduto al vicino confinante, nelle more della causa di riconoscimento di cui sopra.
In merito detta compravendita è provato che:
1. Subito dopo il decesso, il legato fu impugnato dalla figlia della legataria (quindi cugina dell'attrice), anch’essa erede testamentaria, perché ritenuto apocrifo;
2. Con sospetto tempismo, pochi giorni dopo la notifica della causa di riconoscimento, la legataria:
a. manfestò l’intento dei comporre la lite di cui al punto 1;
b. pose in vendita dell’immobile con modalità di urgenza: prezzo ampiamente al di sotto del mercato, durata dell’incarico di mediazione pari a 3 giorni e compravendita da perfezionare entro 3 settimane;
3. Il vicino confinante intanto, sebbene conscio di essere persona invisa alla legataria nonché consapevole della disputa di cui al punto 1 in quanto trascritta, piuttosto che astenersi:
a. pose in essere efficaci intrighi e sotterfugi interponendo prestanome e corrompendo i mandatari della venditrice i quali avevano ricevuto precise istruzioni a riguardo,
b. omise le verifiche e le richieste di garanzia che la normale diligenza impone in queste situazioni affidandosi alle dichiarazioni della venditrice.
4. l'atto stesso fu altresì viziato da:
a. rappresentazione infedele del prezzo (1 in luogo di 3);
b. mancata indicazione dei mezzi di pagamento
c. errata formalizzazione della pendente pratica di condono (causa di annullamento per la normativa dell’epoca).

Quesito: Può il terzo acquirente salvare il proprio titolo ex art 534 c.c. imputando alla venditrice l’omessa comunicazione della pendenza della causa di riconoscimento e, pertanto, la propria ignoranza di acquistare a non domino?”
Consulenza legale i 02/12/2024
La norma citata nel quesito, ovvero l’art. 534 c.c., appare molto chiara ed esplicita sul problema che qui si sottopone ad esame, ovvero quello del c.d. erede apparente.
Prima di esaminare tale questione si ritiene necessario fare alcune precisazioni.
Innanzitutto deve osservarsi che, come ad ogni proprietario, all’erede compete, oltre all’azione di petizione, anche l’azione di rivendica, disciplinata all’art. 948 del c.c., la quale potrà essere esercitata solo allorchè gli venga contestata non la qualità di erede, ma il diritto di proprietà del de cuius sui beni ereditari.
Più precisamente, mentre la petizione di eredità mira a far riconoscere, in capo a chi la esercita, la sua qualità di erede, con conseguente nascita dell’obbligo di restituzione delle cose dell’eredità in capo a chi le possiede o detiene, l’azione di rivendica mira direttamente al recupero di un bene posseduto o detenuto da altri, dopo che sia stata rigorosamente fornita la prova che il rivendicante ne è proprietario a titolo originario (c.d. probatio diabolica).

Fatta questa precisazione, deve a questo punto osservarsi che la posizione giuridica dell’erede apparente è diversa a seconda che si faccia riferimento al rapporto con l’erede vero oppure con i terzi acquirenti.
Tralasciando il rapporto con l’erede vero, quello che qui interessa è il rapporto con i terzi acquirenti, nei confronti dei quali il legislatore ha voluto prevedere una particolare ipotesi di acquisto a non domino a titolo derivativo, in forza di una particolare valorizzazione dell’apparenza del diritto.
Dispone, infatti, l’art. 534 c.c. che non possono essere pregiudicati gli acquisti che i terzi abbiano posto in essere conseguendo un diritto da colui che, apparendo erede o legatario di quel diritto, proprio in apparenza poteva legittimamente trasmettere.
E’ discusso se la tutela prevista da questa norma per chi acquista dall’erede apparente possa estendersi anche al caso di chi acquista dal legatario apparente; prevale, comunque, la tesi positiva, la quale argomenta sia dall’evidente analogia tra acquisto dal legatario apparente e acquisto dall’erede apparente sia da quanto disposto dal n. 7 dell’art. 2652 e dal n. 4 dell’art. 2690 c.c., i quali accordano tutela anche al terzo che abbia acquistato non già dall’erede apparente, ma da chi appare legatario.

Da ciò ne consegue che, in caso di convenzioni a titolo oneroso, i terzi, i quali diano prova di aver contrattato in buona fede, non perderanno i diritti acquistati, salvo che tali diritti abbiano ad oggetto beni immobili o mobili registrati e che gli atti di acquisto siano stati trascritti dopo che il vero erede o legatario abbia trascritto il suo acquisto o la domanda giudiziale contro l’erede apparente (si veda l’ultimo comma del citato art. 534 c.c.).
Come può notarsi, tale norma, facendo gravare sul terzo acquirente l’onere di provare di aver contratto in buona fede, si pone in deroga al principio sancito al terzo comma dell’art. 1147 del c.c. secondo cui la buona fede si presume.

Il vero erede, pertanto, potrà vittoriosamente agire contro il terzo acquirente per ottenere la restituzione del bene ereditario soltanto nel caso in cui questi abbia acquistato dall’erede apparente a titolo gratuito o in mala fede.
Concentrando l’attenzione sull’elemento soggettivo della buona fede (come richiesto nel quesito), va detto che questa consiste nello stato di ignoranza o nell’errore in cui si trova il terzo (il quale ritiene che l’altro contraente sia l’erede vero) e deve sussistere solo nel momento in cui si conclude il negozio giuridico, in applicazione del principio espresso dal brocardo latino mala fides superveniens non nocet.
Secondo la tesi prevalente in giurisprudenza, per escludere la buona fede non è necessaria la colpa grave, ma è sufficiente anche la mancanza dell’ordinaria diligenza.

Nel caso in esame appare evidente che la sussistenza della buona fede possa ritenersi inficiata sulla sola base di quanto detto al punto 3 del quesito, ovvero in forza della circostanza che l’acquirente dal legatario apparente fosse ben consapevole della causa sussistente tra la stessa legataria e l’altra erede testamentaria, volta ad accertare la natura apocrifa della scheda testamentaria (il che avrebbe sicuramente reso incerto il suo acquisto).
A ciò si aggiunga anche la circostanza che il prezzo convenuto per la compravendita si dice essere stato ben al di sotto del corrente valore di mercato del bene, con l’evidente scopo di far risultare falsamente quell’atto a titolo oneroso, come richiesto dall’art. 534 c.c.
Stando così le cose, si ritiene, dunque, che il terzo possa incontrare parecchi ostacoli nel dare prova della sua buona fede nell’acquisto dalla legataria apparente.

In ogni caso, non deve trascurarsi l’aspetto dei rapporti che tra erede apparente ed erede vero sorgono allorchè l’acquisto del terzo dovesse ritenersi efficace, in quanto non potendosi escludere la mala fede della legataria apparente, potrà invocarsi l’applicazione della norma di cui al secondo comma dell’art. 2038 del c.c., secondo cui chi ha alienato in mala fede la cosa ricevuta è obbligato a restituirla in natura ovvero a corrispondere il valore, oltre a risarcire gli eventuali danni ex art. 2043 del c.c..

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