Natura dell'azione di rivendicazione. Legittimazione attiva
L'azione di rivendicazione è tipicamente
reale, ed è un’
azione di condanna, perché ha la duplice funzione di accertare il diritto e di preparare l’ esecuzione forzata. Come l'art. 439 del vecchio codice, l'art. 948 stabilisce che l'azione compete al proprietario. Possono altresì proporla:
a) il nudo proprietario, poiché è anch'egli titolare del diritto di proprietà quando la cosa si trova nel godimento temporaneo di altri;
b) il condomino che agisce per la comunione contro il terzo che detiene la cosa, quantunque gli altri condomini non partecipino all'esercizio dell' azione, ovvero che agisce contro l'altro condomino per il riconoscimento del suo diritto alla quota intellettuale ed al proporzionale godimento della cosa;
c) l'enfiteuta, perché ha sulla cosa un diritto reale che più degli altri, diversi da quello di proprietà, si accosta al diritto di proprietà, riassumendo gran parte dei poteri del proprietario,
d) il superficiario, limitatamente al suo diritto di superficie;
e) chi ha sulla cosa un diritto di proprietà condizionato, pendente la condizione, come si argomenta dall’
art. 1356 del c.c., ove è detto che appartiene al titolare di un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva la facoltà di disporne in pendenza della condizione con gli effetti ivi indicati;
f) al marito per i beni dotali della moglie, ma il giudizio deve svolgersi anche in contraddittorio di costei.
Non può rivendicare chi ha sulla cosa altro diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione, servitù).
Per i principi generali l'attore deve essere
proprietario nel momento in cui la propone: se diventa proprietario nel corso del giudizio, l'azione, qualora sia fondata, deve essere accolta per il principio dello ius
superveniens.
L'azione ha contenuto patrimoniale e non fa parte di quelle che possono essere esercitate esclusivamente dal titolare. Perciò può essere proposta dal creditore in surrogazione della persona alla quale compete. A norma degli artt.
art. 2900 del c.c. e ss., il creditore deve citare anche il debitore che intende surrogare.
L'actio publiciana è inammissibile nel nostro diritto
Si discuteva, sotto la vigenza del vecchio codice, se per il nostro diritto fosse da ammettere l'azione
publiciana del diritto romano.
L' actio publiciana, com'e noto, era
un’ azione petitoria fittizia: se concorrevano tutti i requisiti della usucapione ordinaria, ma il tempo necessario ad usucapire non era ancora decorso, si fingeva che l'usucapione fosse già compiuta.
Per il vecchio codice prevaleva
l'opinione negativa: l'art. 439, si osservava, parla di proprietario e tale non è chi non ha usucapito e non può altrimenti dimostrare il diritto di proprietà; nel nostro diritto inoltre non sono ammesse le azioni fittizie.
Le stesse ragioni valgono a far escludere
actio publiciana anche per il nuovo codice. Un'ulteriore osservazione è, però, da fare. L'art. 2124 del vecchio codice disponeva che l'usucapione era interrotta naturalmente quando il possessore era privato per più di un anno del godimento della cosa, di conseguenza, verificatasi la interruzione con la perdita del possesso per oltre un anno, cessavano gli effetti del possesso anteriore. Conseguentemente non si poteva più parlare di usucapione iniziata e non ancora compiuta. L'art.
1167, comma primo, dell’attuale codice civile riproduce in una forma più corretta l'art. 2124, con l'aggiunta del secondo comma, per il quale la interruzione si ha come non avvenuta se è stata proposta l'azione per il recupero del possesso (artt.
1168 e
1169), e questo è stato recuperato. È certo che questa nuova disposizione non ha resuscitato la
publiciana, ma la sua applicazione porta al risultato che se il termine per l'usucapione è decorso da quando ha avuto luogo l'inizio del possesso, il rivendicante può dimostrare che è proprietario perché ha usucapito, quantunque il possesso sia stato temporaneamente interrotto.
Legittimazione passiva nell'azione di rivendicazione
Come per l'art. 439 del vecchio codice, l'azione, per l'art. 948 del nuovo codice, deve essere proposta contro il possessore o il detentore. Il criterio discriminativo del possesso dalla detenzione è posto nell'
art. 1140 del c.c.. L'azione può essere spiegata anche contro il detentore perché ha per oggetto la restituzione della cosa da chiunque, perché inoltre i1 detentore può in atto violare il diritto di proprietà e chi rivendica non deve essere obbligato a indagini preliminari per stabilire a chi appartiene il possesso. La mancanza del possesso o della detenzione da parte del convenuto fa venir meno una delle condizioni dell'azione. Il possesso o la detenzione deve esistere al momento della proposizione dell'azione. Tuttavia se il convenuto acquista l'una o l'altra successivamente, il giudizio si convalida, perché si verifichi la condizione che da principio non avrebbe dovuto mancare.
Il detentore, se convenuto, fa la
laudatio auctoris. Non vi era una norma specifica in tal senso nel codice del 1865 e non c’è nel nuovo, ma era
communis opinio che il detentore fosse tenuto a fare la
laudatio. Si considerava di generale applicazione il principio dettato dall'art. 1582 codice civile per la locazione, ancora presente nel nuovo codice (
art. 1585 del c.c.), in base al quale se i terzi arrecano molestie al conduttore, pretendendo di avere diritti sulla cosa locata, il conduttore è tenuto a dame subito avviso al locatore, sotto pena del risarcimento dei danni. E se i terzi agiscono giudizialmente, il locatore è obbligato ad assumere la lite, qualora sia chiamato nel processo. Il conduttore deve esser estromesso, salvo che abbia interesse a rimanervi. Evidentemente il rivendicante ed il detentore, a meno che l'azione non sia l'effetto di collusione fra di loro, hanno interesse a chiamare nel processo colui in nome del quale il convenuto possiede. Il rivendicante perché l'autore del detentore potrebbe, nelle more del giudizio, ottenere una sentenza di condanna al rilascio contro il detentore, ed il rivendicante, nell’ impossibilità di avere la restituzione dal detentore, dovrebbe incominciare da capo contro l'autore di costui, con l’ eventualità di vedersi chiusa definitivamente la via dalla usucapione nel frattempo compiuta. Il convenuto, poiché non vuole certo addossarsi l'onere della lite, e perché, in caso di soccombenza, rimarrebbe esposto al rischio di dover risarcire i danni al suo autore, tra i quali danni, secondo i casi, può rientrare anche il valore della cosa.
L’ identificazione, dunque, del comune interesse del rivendicante e del detentore convenuto autorizza anche per il nuovo codice a concludere che
il possessore sarà sempre chiamato nel processo.
L'azione di rivendicazione nei casi di ficta possessio
L'art. 948, per il caso di chi
dolo desiit possidere, integra le disposizioni corrispondenti del vecchio codice, accogliendo soluzioni già ammesse dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Notificata la domanda, se il convenuto cessa, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa, l'attore può proseguire contro di lui l'azione già iniziata. Si finge che il convenuto continui a possedere o detenere la cosa e sorge, per il
fictus possessor, un
obbligo di fare. Egli quindi deve recuperare la cosa anche se si trova presso persona diversa da quella alla quale la trasferì. Se, per qualsiasi motivo, non riesce a recuperarla, ed a restituirla al rivendicante, deve corrispondere a costui il valore della cosa e risarcirgli i danni.
Il proprietario, proseguendo l'azione contro il possessore o detentore, ne può iniziare un’ altra contro l'attuale possessore o detentore. Se recupera la cosa, deve, in relazione ai principi generali, restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo della cosa.
Il codice del 1865 non contemplava e il nuovo codice non contempla l'altro caso di
ficta possessio previsto dalle fonti. Il silenzio della vecchia e della nuova legge si spiega perché, a quanto sembra, se il proprietario agisce contro chi
liti se obtulit, simulando il possesso o la detenzione, l'azione, proprio per la mancanza della condizione del possesso o della detenzione, e per la conseguente impossibilità della restituzione, si svolge quale azione personale di risarcimento di danni. L'obbligo del risarcimento scaturisce dal comportamento del convenuto che agì in modo da trarre in inganno l'attore. Anche qui si applica, come pare, il secondo comma dell'art. 948. il proprietario, proseguendo l'azione contro chi
liti se obtulit per il risarcimento dei danni, può rivendicare la cosa dal possessore o detentore. Se recupera la cosa, deve restituire al
fictus possessor la parte della somma che, nella valutazione del danno, gli fu attribuita in luogo della cosa.
Oggetto dell'azione di rivendicazione
Come per il diritto romano, la cosa che si rivendica deve essere individualmente determinata: non potrebbero essere rivendicate le cose che sono parti ovvero accessorie di altre, invece possono essere rivendicate le
universitates rerum (
art. 816 del c.c.), come per il codice del 1865 (art. 707).
Tutte le cose, immobili e mobili,
possono formare oggetto dell'azione: questa è la regola generale che dal vecchio codice è passata nel nuovo. Le eccezioni alla regola, poste nel vecchio codice, sono state riprodotte dal nuovo e, come ora si vedrà, sono state sviluppate in modo da dare un contenuto più ampio al principio, già accolto dal vecchio codice, secondo cui per i mobili il possesso vale titolo.
L'
art. 810 del c.c., ricollegando le cose alla nozione di beni, adopera il comune denominatore della possibilità delle cose di diventare oggetto di diritti. Tale possibilità è coordinata, quindi, a due coefficienti: la natura della cosa e l’ idoneità della stessa a diventare obietto di diritti. Quanto ai diritti l'
art. 813 del c.c. distingue tra diritti reali che hanno per oggetto beni e tutti gli altri diritti: ai primi si applicano le disposizioni relative ai beni immobili, anche per le relative azioni, a tutti gli altri diritti si applicano le disposizioni relative ai beni mobili, salvo, aggiunge l’articolo, che dalla legge risulti diversamente. Mentre è certo, come si è accennato, che l'azione di rivendicazione venga data per le cose immobili e mobili, sembra ugualmente certo che, di regola, la medesima azione
non è proponibile per i diritti. La rivendicazione non funziona, in genere, che per le cose corporali: la nozione di possesso dei diritti e soltanto approssimativa. In tal caso la legge dispone altri rimedi; l'
actio confessoria per i diritti reali, l'azione nascente dal rapporto costitutivo del diritto negli altri casi. La restituzione, fine ultimo dell'azione di rivendicazione, non è identificabile con la dichiarazione giudiziale dell’ esistenza di un diritto sulla cosa.
L'
art. 2653 del c.c., riproducendo la norma dell'art. 19 lett. h del R. D. 3o dicembre 1923 n. 3272 sulle tasse ipotecarie, assoggetta a trascrizione « le domande dirette a rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento sui beni immobili ». Si è voluto, com'è detto nella relazione ministeriale del libro sulla tutela dei diritti (n. 19), integrare la disposizione dell’
art. 1049 del c.c., nel senso che la sentenza ottenuta contro il possessore convenuto con la domanda trascritta produce effetto anche contro chi abbia acquistato dal possessore ed abbia reso pubblico l'acquisto nelle more del giudizio, dopo la trascrizione della domanda di rivendicazione. A quanto sembra, però, il cennato art. 19, accennando alla rivendicazione dei diritti reali di godimento, si riferisce
all' actio confessoria, la quale, per tali diritti, funziona come l'azione di rivendicazione per la proprietà.
Tuttavia la dottrina riconosce la
natura reale del diritto al marchio e delle azioni in materia di marchio, e ammette conseguentemente l'azione di rivendicazione a tutela del diritto di proprietà del marchio. La dottrina inoltre riconosce, a tutela del diritto di privativa, per invenzioni industriali, la cosiddetta
azione di rivendicazione del brevetto, che ha per oggetto il riconoscimento della paternità dell’ invenzione, che importa l'attribuzione all'inventore dell’ esclusiva sulla invenzione, conformemente all'attestato rilasciato, nonché la sostituzione del vero inventore al falso nella titolarità e nel godimento della invenzione, con l'obbligo per l'Amministrazione di procedere alle corrispondenti annotazioni nei suoi registri.
La rivendicazione delle cose mobili. Limiti. Differenze tra il vecchio ed il nuovo codice.
Quando il proprietario di una cosa mobile la trasferisce validamente a titolo di proprietà, l'acquirente ne diventa proprietario nel momento stesso che apprende il possesso della cosa. Chi acquista
a non domino diventa proprietario mediante il possesso, subordinatamente a
due condizioni: 1) se è in buona fede, se cioè ignora, non per sua colpa grave, di ledere il diritto altrui nel momento in cui riceve la consegna della cosa; 2) se acquista in virtù di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà. Di conseguenza, chi è in possesso della cosa mobile perché l'ha acquistata dal proprietario ovvero dal non proprietario, ma in concorso nelle due ora accennate condizioni, non può essere utilmente convenuto con l'azione di rivendicazione, anche se la sua buona fede, esistente all'atto dell'acquisto, sia venuta successiva-mente a mancare. È questo il contenuto dell'
art. 1140 del c.c. che riconsacra il principio che in tema di beni mobili il possesso vale titolo.
Le
differenze tra il vecchio ed il nuovo codice sono le seguenti. L'art. 707 codice del 1865 riservava l'applicazione del principio solo a favore del terzo possessore di buona fede. Il nuovo codice ha tolto la limitazione, pertanto
l'acquirente è protetto anche contro l'azione di rivendicazione proposta da chi gli trasferì la cosa. Ma qui, a quanto sembra, l’ innovazione è soprattutto formale perché, tra i diretti contraenti, il venditore non proprietario, a norma dell’
art. 1478 del c.c. (cpv. art. 59 vecchio cod. di commercio), non può opporre all'acquirente il difetto di proprietà, ma è obbligato a procurargli l'acquisto della cosa, ed il compratore diventa proprietario nel momento in cui il venditore acquista dal titolare la proprietà della cosa. E, per altro, come già implicitamente si è detto, non si può prescindere dalla considerazione degli elementi di esistenza e di validità del negozio giuridico di trasferimento. Nè, secondo i casi, è irrilevante la causa della consegna della cosa. In quest'ultima ipotesi, per i principi generali, dovrebbe anche ammettersi, quando ne ricorrano gli estremi, la
condictio indebiti contro chi ha ricevuta una cosa che non gli è dovuta.
Al contrario è sostanziale e profonda l'altra
seguente innovazione. Per gli art. 708, 709 e 2164 del vecchio codice, in caso di furto o smarrimento, il proprietario poteva rivendicare la cosa da chiunque, entro il triennio previo il rimborso del prezzo, se il possessore aveva acquistato la cosa in una fiera o negli altri modi indicati nell'art. 709. L'art. 57 cod. comm. aveva già intaccato il sistema del codice civile, perché aveva limitata la rivendicazione dei titoli al portatore solo contro coloro che li avessero rubati o ritrovati, ovvero li avessero ricevuti conoscendo il vizio della causa del possesso. L'art.
1140 del nuovo codice parifica la perdita volontaria alla perdita involontaria del possesso: chi acquista la cosa
a non domino, dovunque e da chiunque la acquisti, ne diventa proprietario col possesso, se acquista in buona fede e mediante titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà. È indifferente che il proprietario abbia smarrito la cosa, sia stato della stessa derubato, l'abbia consegnata perché vittima di una truffa, l'abbia affidata per uno scopo determinato ed il consegnatario, abusando della fiducia, l'abbia per suo conto alienata. L'acquirente diventa sempre proprietario e l’azione di rivendicazione contro di lui rimarrebbe senza risultato. Viceversa, chi acquista in mala fede o senza titolo astrattamente idoneo, non diventa proprietario, e rimane esposto all’azione di rivendicazione non solo se ha acquistato dal ladro, dal ritrovatore o da chi abbia abusato della fiducia, ma anche da qualsiasi altro possessore che non sia proprietario. Solo se acquista da chi è diventato proprietario diventa, mediante il possesso, anch’egli proprietario, essendo irrilevante la sua buona o mala fede, come si desume dagli artt. 335 E 341.
Ciò è confermato inoltre dall’
art. 1154 del c.c.: a chi acquista conoscendo l’illegittima provenienza della cosa o del titolo al portatore non giova l’erronea credenza che il suo autore o un precedente possessore ne sia diventato proprietario. Nel giudizio di rivendicazione, com’è chiarito nella relazione ministeriale (n. 203), il rivendicante deve provare il furto, lo smarrimento, l’abuso di fiducia e la conoscenza che ne aveva il convenuto al momento dell’acquisto; il convenuto deve provare che fu sanato il vizio della circolazione.
Le norme fin qui esaminate
non si applicano alle universalità di mobili: la deroga al principio che per i mobili il possesso vale titolo ed il ritorno alla regola della rivendicabilità di tutte le cose sono posti nell’art.
1156: nella spiegazione di tale ultimo articolo si dirà quali sono le universalità di mobili. Per i mobili iscritti in pubblici registri questa norma prevede la stessa deroga: si tratta di una innovazione a cui, in tempi recenti, sono stati sottoposti alcuni beni mobili, in considerazione della loro natura e del servizio che rendono. Per le universalità di mobili, quindi, e per i mobili soggetti ad iscrizione, quando il rivendicante ha dimostrato di essere proprietario, il convenuto che ha acquistato
a non domino, nonostante la presunzione di buona fede che accompagna il suo possesso e l’esistenza del titolo idoneo, deve restituire le universalità di mobili o la cosa mobile iscritta nel registro, salvo che non possa utilmente dedurre qualche eccezione che valga a far respingere l’azione indipendentemente dalla tutela prevista per l’acquisto delle cose mobili.
L'usucapione delle cose mobili
In mancanza del titolo idoneo, chi acquista a non domino beni mobili o titoli al portatore può diventare proprietario con l’usucapione. Il caso non era previsto dal vecchio codice, però la dottrina,
in via di interpretazione (art. 710 e 2135) ammetteva l’usucapione anche per i beni mobili, subordinatamente al decorso del lungo termine di trent’anni.
Il nuovo codice statuisce che
l’usucapione dei beni mobili, in mancanza del titolo, si compie col decorso di cinque o venti anni, a seconda che il possesso sia stato acquistato in buona o in mala fede (
art. 1161 del c.c.). Pertanto, in questi casi, il rivendicante prima dei vent’anni deve dimostrare che il convenuto ha acquistato in mala fede, dopo i vent’anni deve dimostrare, unica dimostrazione ancora concludente, che il convenuto ha acquistato il possesso in modo violento o clandestino (
art. 1163 del c.c.).
Chi acquista
a non domino in buona fede e
con titolo idoneo a trasferire la proprietà un bene mobile iscritto in pubblici registri, per il quale bene non si applica, come si è visto, la regola che il possesso vale titolo, deve trascrivere il titolo per usucapire. L'usucapione si compie col decorso di tre anni dalla trascrizione (
art. 1162 del c.c.). In caso di rivendicazione, se il convenuto eccepisce la usucapione, poiché la buona fede è presunta, il rivendicante deve dimostrare la mala fede. Il convenuto deve provare che ha acquistato con titolo idoneo e che ha trascritto il titolo.
Per tutti i mobili, infine, è da notare che il proprietario può agire, quando ne ricorrano le condizioni, anche con
l'azione di spoglio, a norma dell'
art. 1168 del c.c.. Se l'azione di rivendicazione, quantunque non proposta, sarebbe proponibile, l'azione possessoria, se accolta, rimettendo il proprietario nel possesso della cosa, produce il medesimo risultato dell'azione di rivendicazione. L'autore dello spoglio dovrà poi, se vanta il diritto di proprietà sulla cosa, prendere l'iniziativa di proporre l'azione di rivendicazione addossandosi l'onere di provare che il vantato diritto di proprietà veramente sussiste.
Posizione delle parti nel giudizio di rivendicazione. Onere della prova
Il giudizio di rivendicazione segue le
forme ordinarie: se sorgono contestazioni circa il possesso o la detenzione da parte del convenuto, il rivendicante deve innanzi tutto dimostrare che il convenuto possiede o detiene la cosa. Il rivendicante deve inoltre dare la prova del suo diritto di proprietà, e può darla con tutti i mezzi di prova ammessi dalla legge, in relazione alla natura della cosa che forma l'oggetto dell'azione e nei limiti di ammissibilità di ciascun mezzo di prova. Non basta che egli dimostri di avere un diritto poziore a quello del convenuto: questi ha il possesso in suo favore, perciò se l'attore non dà la prova del suo diritto di proprietà, la domanda deve essere respinta, anche quando il possesso del convenuto non sia avvalorato da alcun titolo.
La
prova della proprietà è agevole negli acquisti a titolo originario, è invece difficile negli acquisti a titolo derivativo, poiché attraverso i titoli di acquisto anteriori si dovrebbe risalire fino all'acquirente a titolo originario
(probatio diabolica). Perciò, negli acquisti a titolo derivativo, in mancanza di altri elementi concorrenti che accompagnati al titolo diano la prova piena della esistenza del diritto, il rivendicante può dedurre l'acquisto per usucapione dimostrando che egli ed i suoi autori (
art. 1146 del c.c.) hanno posseduto per il tempo necessario ad usucapire.
Il convenuto può innanzitutto
resistere passivamente attendendo che l’attore dimostri il titolo di proprietà: tale resistenza potrebbe eventualmente bastare perché, come si è detto, se all’attore la prova non riesce, la domanda deve essere rigettata. Il convenuto inoltre può proporre tutte le
eccezioni idonee ad elidere o paralizzare il diritto dell’attore: per es. può dimostrare che egli è il proprietario, che il diritto di proprietà vantato dall’attore non sussiste, che è proprietario un terzo, che egli ha sulla cosa un diritto reale di godimento (es.: usufrutto, uso o abitazione), o di garanzia (pegno), e non è tenuto a restituire la cosa, che un rapporto obbligatorio ancora gli assicura la detenzione della cosa (locazione, comodato, anticresi). Però il convenuto proporrebbe inutilmente l’eccezione di prescrizione dell’azione, perché, se a sua volta non ha usucapito, tale eccezione non gli gioverebbe. La proprietà non si perde per non uso ed è imprescrittibile il diritto del proprietario di agire a difesa della stessa.
Effetti della sentenza di condanna
Come per il diritto romano e per il codice del 1865, se la domanda di rivendicazione è accolta, la cosa deve essere
restituita cum omni causa. Il nuovo codice, uniformandosi alla tradizione, distingue tra
possesso di buona e di mala fede: il possessore di buona fede fa suoi i frutti naturali separati ed i frutti civili maturati fino alla domanda giudiziale. Per il periodo successivo, fino alla restituzione della cosa, risponde dei frutti percepiti e di quelli che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia (
art. 1148 del c.c.). Il possessore di mala fede risponde dei frutti naturali e civili percepiti e percipiendi dal giorno del possesso. In relazione all’ art. [[n821]], comma 2, l’art.
1147, con una nuova disposizione, prevede che il possessore restituendo i frutti indebitamente percepiti, ha diritto, nei limiti del loro valore, al rimborso delle spese necessarie fatte per la loro produzione e raccolta. La disposizione si applica tanto per i frutti naturali quanto per quelli civili.
Circa il rimborso delle spese fatte dal possessore per la conservazione della cosa, il vecchio codice (art. 1150) distingueva tra le spese necessarie, utili e voluttuarie. Le spese necessarie ed utili dovevano essere rimborsate anche al possessore di mala fede, ai sensi dell’art. 705. Il rimborso era invece negato per le spese voluttuarie, mentre per i miglioramenti era stabilito che il possessore di buona o di mala fede aveva diritto alla minor somma tra lo speso e il migliorato.
Il nuovo codice parla più precisamente di
spese per la conservazione e spese per il miglioramento della cosa, con riguardo alla buona o alla mala fede del possessore. Distingue, perciò, le spese per le riparazioni da quelle per i miglioramenti, e suddivide le riparazioni in ordinarie e straordinarie. Il rimborso delle spese per le riparazioni straordinarie è sempre dovuto. Le spese per le riparazioni ordinarie, com'è detto nella relazione ministeriale (n. 200), costituiscono in un certo senso un onere inerente al godimento della cosa. Il possessore, di buona o di mala fede, posto che l'art.
1150 non distingue, ha diritto al rimborso delle stesse subordinatamente alla condizione che egli restituisca i frutti, e limitatamente al tempo per il quale la restituzione è dovuta. Il rivendicante, ottenendo la restituzione dei frutti, consegue quella utilità che avrebbe conseguito se la cosa fosse rimasta in suo potere. Ed è giusto che limitatamente a quel periodo sopporti le spese che avrebbe fatte per ottenere il medesimo risultato.
I miglioramenti sono indennizzabili purché sussistano al tempo della restituzione: il possessore di buona fede ha diritto ad una somma corrispondente all'aumento di valore conseguito dalla cosa. II possessore di mala fede ha diritto alla minor somma tra l'importo della spesa ed il risultato utile.
Per le addizioni (ult. comma dell' art.
1150 in relazione all' art. 126), il pagamento della indennità per i miglioramenti (
art. 1151 del c.c.) e per il diritto di ritenzione che spetta al possessore di buona fede, si rinvia al commento dei rispettivi articoli.