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Articolo 1150 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Riparazioni, miglioramenti e addizioni

Dispositivo dell'art. 1150 Codice Civile

Il possessore, anche se di mala fede, ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie.

Ha anche diritto a indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione.

L'indennità si deve corrispondere nella misura dell'aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti, se il possessore è di buona fede; se il possessore è di mala fede, nella minor somma tra l'importo della spesa e l'aumento di valore.

Se il possessore è tenuto alla restituzione dei frutti, gli spetta anche il rimborso delle spese fatte per le riparazioni ordinarie, limitatamente al tempo per il quale la restituzione è dovuta.

Per le addizioni fatte dal possessore sulla cosa si applica il disposto dell'articolo 936. Tuttavia, se le addizioni costituiscono miglioramento e il possessore è di buona fede, è dovuta un'indennità nella misura dell'aumento di valore conseguito dalla cosa [157].

Ratio Legis

La disposizione afferma che al possessore della cosa vanno rese le spese effettuate per la conservazione e la funzionalità della cosa stessa, da parte di chi ne rivendichi la titolarità: ciò in linea con il fine di impedire un ingiustificato arricchimento di chi vanti un diritto sul bene in questione.
L'articolo elenca con precisione quali, fra le spese sostenute dal possessore, sono rimborsabili: quelle necessarie, richieste per le riparazioni ordinarie e straordinarie; quelle utili, affrontate allo scopo di migliorare la cosa; e quelle voluttuarie, per le addizioni alla cosa, restituibili esclusivamente nella quantità corrispondente ad un effettivo miglioramento del bene.
Le spese per le riparazioni ordinarie devono essere rese al possessore di buona fede dal momento della domanda giudiziale in ordine alla restituzione della cosa; al possessore di malafede, invece, da sempre consapevole di compromettere il diritto altrui, le spese sono rimborsabili a partire da quando è cominciato il possesso: egli non acquista, infatti, i frutti percepiti in costanza di possesso e non può, perciò, bilanciare le spese sostenute sino alla domanda giudiziale di restituzione della cosa, con il godimento di essa.
Le spese per le riparazioni devono essere interamente restituite, a prescindere dal fatto che il possessore sia in buona o mala fede.
Le spese per i miglioramenti apportati alla cosa, che risultino presenti al momento della restituzione del bene al titolare del diritto, implicano che il possessore di buona fede riceva un'indennità corrispondente all'aumento di valore (conseguenza delle migliorie) della cosa; al possessore di malafede, invece, compete una indennità uguale alla minor somma tra la spesa sostenuta e l'aumento di valore della cosa.
Le spese per le addizioni, che implichino un reale miglioramento della cosa, sono restituibili nella misura dell'aumento di valore del bene al solo possessore di buona fede. Se da esse non si ricava alcun miglioramento della cosa, si applica, invece, l'art. 936.

Brocardi

Inter expensum et melioratum
Malae fidei possessor

Spiegazione dell'art. 1150 Codice Civile

Innovazioni di forma

Già sotto l'aspetto formale, la disposizione costituisce un notevole progresso rispetto agli art. 704 e 705 del codice del 1865. Mentre, infatti, questi si limitavano a stabilire il diritto del possessore per i miglioramenti, dando cosi adito a controversie varie e specialmente in ordine ai principii regolatori del rimborso della c. d. spese necessarie, la nuova norma dà della materia una disciplina completa ed organica.

Non solo essa prende in considerazione i diritti del possessore in relazione alle varie ipotesi, ma opportunamente precisa anche l'ampiezza di tali diritti, contrapponendo il rimborso delle spese necessarie all' indennità spettante in diversa misura per le spese utili, dichiarando espressamente quando il diritto del possessore è subordinato alla sussistenza del risultato della spesa (spese utili) e quando invece da tale circostanza prescinde (spese necessarie) e facendo in ordine alle addizioni fatte dal possessore un esplicito richiamo alla norma che regola il punto (art. 936 del c.c.).


Riforme sostanziali: distinzione tra spese per riparazioni ordinarie e spese per riparazioni straordinarie

Ma è specialmente dal lato sostanziale che le varie disposizioni contenute nell'articolo meritano di essere segnalate.

a) Il nuovo legislatore ha in primo luogo giustamente considerato che, delle c. d. spese necessarie, ve ne sono alcune (le spese per riparazioni ordinarie), le quali costituiscono, in un certo senso, un onere inerente al godimento della cosa ed ha perciò distinto queste spese da quelle fatte per le riparazioni straordinarie, sancendo rispetto alle seconde il diritto al rimborso integrale a favore di qualsiasi possessore, ed accogliendo invece in ordine alle prime il principio della c. d. compensazione con i frutti.

Questo principio, che risponde appieno all'equità e che non è ignoto alle fonti romane, era stato propugnato da taluni autori in sede di interpretazione del codice del 1865, ma senza fondamento, dato l'assoluto silenzio della legge al riguardo: la sua esplicita codificazione è stata perciò quanto mai opportuna.

La sua portata è chiara: il rimborso delle spese per riparazioni ordinarie non compete al possessore di buona fede, nemmeno se l'ammontare di tali spese superi il valore del frutti, esso spetta invece tanto al possessore di mala fede quanto alto stesso possessore di buona fede per le spese fatte dopo la domanda giudiziale.

b) L'articolo distingue poi tra possessore di buona e di mala fede in ordine all'indennità per le spese utili. Anche questa disposizione è da approvare, non essendovi nessuna ragione per sottoporre allo stesso trattamento due situazioni giuridiche cosi diverse. Naturalmente al possessore di mala fede viene equiparato il possessore di buona fede per le spese fatte dopo la domanda giudiziale.


Concetto di miglioria

È appena il caso di rilevare come, tanto per il nuovo codice quanto per il vecchio, il concetto di miglioria implichi un aumento intrinseco del valore della cosa e non sia quindi da considerarsi tale il maggior valore acquistato dalla cosa per le oscillazioni della moneta, oppure in relazione al basso prezzo cui per avventura essa sia stata acquistata dal possessore, come essa sia altra cosa che non la semplice tra­dizionale coltivazione o manutenzione della cosa, come dia luogo a indennizzo soltanto la miglioria dovuta all'opera dell'uomo e non quindi quella che derivi da eventi naturali, come l'indennizzo sia dovuto anche se trattisi di spesa che il rivendicante non avrebbe effettuato, poiché la legge non consente di valutare la miglioria in relazione alle condizioni personali del rivendicante, ma ne impone un apprezzamento astratto.

È del pari inutile avvertire che l'importo della « spesa » si calcola con riguardo al momento della erogazione e nel computo di esso non si tiene calcolo delle spese che, seppur presupposte per effettuare il miglioramento, non sono in rapporto causale con esso, nè delle spese di conservazione del miglioramento; mentre, per contro, si calcola anche ciò che non si eroga, ma avrebbe dovuto erogarsi se non si fossero impiegati elementi produttivi propri. Infatti « l'aumento di valore » si valuta in rapporto al momento della rivendica, poiché soltanto dell'aumento di valore allora esistente viene ad arricchirsi ii rivendicante, e si determina, non già in base alla differenza fra il valore che la cosa aveva quando passe al possessore e quello che ha quando torna al proprietario - come si è talvolta ritenuto inesattamente - sebbene in base alla differenza fra il valore che la cosa avrebbe se il miglioramento non fosse stato eseguito e quello che essa ha acquistato in causa dell'esecuzione del miglioramento stesso.

Sulle somme che gli competono per le spese fatte, il possessore ha diritto agli interessi dal giorno della domanda e non dal giorno della spesa, poiché il codice civile all’ art. 2028 del c.c. (corrispondente all'art. 1144 del cod. del 1865), che applica il contrario principio, contiene una disposizione eccezionale relativa alla gestione degli affari altrui, laddove, per contro, il possessore, nel fare le spese non ha agito nell'interesse del proprietario, ma nel proprio.


Liberazione da pegni, ipoteche od oneri reali

Non è stata riprodotta una disposizione, inserita nel progetto della Commissione reale (art. 546) e che riconosceva al possessore il diritto a un’ indennità per le spese fatte per la liberazione della cosa da pegni, ipoteche e da oneri reali; e ciò non perché non si sia inteso accogliere il principio, ma perché il dirlo espressamente era del tutto superfluo: le liberazioni accennate, così come la liberazione del fondo da servitù, costituiscono infatti miglioramenti e rientrano quindi nell'ambito dell'art. 1150.


Spese fatte dal precedente possessore

Poiché il diritto al rimborso o all'indennità per spese nasce non dal possesso ma dall'erogazione fatta dal possessore, è chiaro che il possessore attuale non può vantare alcuna pretesa per le spese fatte dal suo autore o da un precedente possessore, tranne, s'intende, nel caso in cui il diritto relativo gli sia stato ceduto da questo.

Il progetto preliminare regolava espressamente il punto all'art. 547, consentendo l'azione ogni qualvolta il possessore dimostrasse di aver rimborsato tali spese: opportunamente però la disposizione non è stata riprodotta dal codice e la disciplina del punto è stata rimessa ai principi generali.


Spese fatte anteriormente all'acquisto della proprietà da parte del rivendicante

È del pari chiaro che il diritto del possessore sussiste anche in relazione alle spese effettuate anteriormente all'acquisto della proprietà da parte del rivendicante e non può essere limitato o pregiudicato per le varie relazioni giuridiche, che, tra i precedenti titolari della proprietà della cosa, si siano potute stabilire.


La disposizione transitoria dell'art. 38

La disposizione transitoria dell'art. 38 delle norme di attuazione non richiede commento, data la chiarezza dei termini in cui è redatta.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

541 Per ciò che concerne i diritti del possessore in ordine alle somme erogate sulla cosa, il codice del 1865, equiparando il possessore di buona e di mala fede, attribuiva per le spese necessarie i1 rimborso integrale (art. 1150 del c.c.) e per le utili la minor somma tra lo speso e il migliorato (art. 705), mentre negava ogni rimborso per le spese voluttuarie. A tale sistema ho sostituito un sistema più organico e razionale. Ho distinto, nell'art. 1150, le spese fatte per le riparazioni ordinarie, quelle fatte per le riparazioni straordinarie e quelle sostenute per i miglioramenti recati alla cosa. Quanto alle prime poiché esse costituiscono in un certo senso un onere inerenti al godimento della cosa, è ovvio che il possessore non può esigerne il rimborso che nel caso in cui sia tenuto alla restituzione dei frutti e limitatamente al tempo per il quale la restituzione sia dovuta; quanto alle seconde, è riconosciuto al possessore, così di buona come di mala fede, il diritto al rimborso integrale; quanto ai miglioramenti, è riconosciuto diritto a indennità nella misura dell'aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti stessi, ovvero nella minor somma tra l'importo della spesa e l'aumento di valore, secondo che il possessore sia di buona o di mala fede. Nel progetto della Commissione Reale era inserita una di sposizione (art. 546), nella quale si riconosceva al possessori il diritto a indennità anche per le spese fatte per la liberazione della cosa da pegni, ipoteche o da oneri reali. La disposizione mi è sembrata superflua, giacché le liberazioni accennate, come la liberazione del fondo da servitù, possono anch'esse, per identità di ratio, ricondursi nell'ambito del secondo e del terzo comma dell'art. 1150. L'ultimo comma dell'articolo in esame prevede l'ipotesi che il possessore abbia fatto addizioni sulla cosa: per queste si applica la disciplina dettata dall'art. 936 del c.c. per le opere fatte da un terzo con maseriali propri su suolo altrui. Per il caso però che le addizioni costituiscano miglioramento si riconosce al possessore di buona fede lo stesso diritto che gli è riconosciute per gli altri miglioramenti, è cioè il diritto a indennità nella misura dell'aumento di valore conseguito dalla cosa. Ho creduto opportuno (art. 1151 del c.c.) concedere al giudice la facoltà di disporre, su istanza de] rivendicante, che il pagamento delle indennità da questo dovute al possessore sia ratizzato. Possono esservi infatti dei casi in cui l'integrale e immediato pagamento riesca per il rivendicante particolarmente gravoso. A tutela dei diritti del possessore è però stabilito che il giudice, nel disporre il pagamento rateale, ordina la prestazione delle relative garanzie.

Massime relative all'art. 1150 Codice Civile

Cass. civ. n. 4909/2023

L'azione generale di arricchimento, che presuppone la locupletazione, senza giusta causa, di un soggetto a danno di un altro, non è invocabile per ottenere il rimborso delle spese sostenute da uno dei coniugi per il miglioramento della casa coniugale, poiché sussiste la causa dello spostamento patrimoniale ed è possibile agire ai sensi degli artt. 1150 e 192 c.c., anche in caso di sopravvenuto decesso del coniuge arricchito, dovendosi in tal caso agire nei confronti degli eredi.

Cass. civ. n. 29924/2022

La previsione di cui all'art. 1150 c.c. - che attribuisce al possessore, all'atto della restituzione della cosa, il diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie ed all'indennità per i miglioramenti recati alla cosa stessa - è di natura eccezionale e non può, quindi, essere applicata in via analogica al detentore qualificato od a qualsiasi diverso soggetto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza d'appello che aveva rigettato la domanda di rimborso delle spese di manutenzione straordinaria relative a un immobile, detenuto dal richiedente dapprima a titolo di locazione e successivamente in virtù di un contratto preliminare di compravendita, sul presupposto che si configurasse una situazione di mera detenzione qualificata, essendo carente l'"animus possidendi").

Cass. civ. n. 12206/2022

La disposizione dell'art. 975,comma 1, c.c., secondo cui l'enfiteuta, quando cessa l'enfiteusi, ha diritto al rimborso dei miglioramenti apportati, nella misura dell'aumento di valore conseguito dal fondo per effetto dei miglioramenti stessi, quali risultino accertati al momento della riconsegna, trova applicazione solo ai miglioramenti che si collocano nell'ambito del rapporto di enfiteusi e che, essendo ancora esistenti alla data della riconsegna, si traducono in un valore economico direttamente o indirettamente riconducibile alla legittima attività dell'enfiteuta (o dei suoi danti causa), e non anche ai miglioramenti realizzati dopo la cessazione del rapporto nel tempo in cui l'enfiteuta abbia conservato di fatto il possesso materiale del bene, per i quali, invece, risultano applicabili i criteri generali previsti dall'art. 1150 c.c..

Cass. civ. n. 39917/2021

Nel giudizio di usucapione intentato dal possessore, cui sia seguita la formulazione di una domanda riconvenzionale volta alla rivendica e alla restituzione del bene, la successiva domanda dell'attore, tendente al riconoscimento, ex art. 1150 c.c., del diritto al rimborso per le spese delle riparazioni ed all'indennità per i miglioramenti deve essere formulata, a pena di inammissibilità, nella prima udienza di trattazione, con conseguente preclusione alla sua proposizione nell'ulteriore corso del giudizio. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO GENOVA, 07/10/2015).

Il diritto all'indennità per i miglioramenti arrecati alla cosa ed esistenti al tempo della restituzione si correla all'incremento attuale ed effettivo che si verifica nel patrimonio del proprietario attore in rivendicazione; ne consegue che il giudicato formatosi sulla demolizione delle opere realizzate dal possessore si riverbera sulla spettanza dell'indennizzo, in considerazione della precarietà dell'aumento di valore conseguito dal fondo rivendicato.

Cass. civ. n. 22730/2019

Ove venga proposta domanda di corresponsione di una somma a titolo di indennità per miglioramenti sulla base degli artt. 192 c.c., 2033 c.c. e 936 c.c., il giudice non può qualificare l'azione ai sensi dell'art. 1150 c.c., giacché il riconoscimento del diritto ivi previsto postula l'allegazione e la prova del possesso del bene da parte del creditore. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva riqualificato la domanda di rimborso delle spese sopportate dal coniuge per la ristrutturazione dell'immobile in proprietà dell'altro coniuge, avanzata ai sensi degli artt. 192, 2033 e 936 c.c., in termini di azione ex art. 1150 c.c., sull'erroneo presupposto che l'attore avesse composseduto il bene ristrutturato per il solo fatto che lo stesso era stato adibito a casa familiare). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO ROMA, 25/11/2016).

Cass. civ. n. 5135/2019

Il coerede che sul bene comune da lui posseduto abbia eseguito delle migliorie può pretendere, in sede di divisione, non già l'applicazione dell'art. 1150 c.c. - secondo cui è dovuta un'indennità pari all'aumento di valore della cosa in conseguenza dei miglioramenti - ma, quale mandatario o utile gestore degli altri eredi partecipanti alla comunione ereditaria, il rimborso delle spese sostenute per il suddetto bene comune, esclusa la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valuta e non di debito di valore. (Rigetta, CORTE D'APPELLO CATANZARO, 18/02/2014).

Cass. civ. n. 16804/2018

In tema di corresponsione di una somma a titolo di miglioramenti, l'inquadramento della domanda nella fattispecie di cui all'art. 1150 c.c. o in quella di cui all'art. 936 c.c. è rimessa al potere-dovere di qualificazione del giudice di merito; ne discende che una volta proposta la domanda di conseguimento dell'indennità per i miglioramenti ai sensi della prima ipotesi, ben può lo stesso giudice, senza incorrere in una "mutatio libelli" non consentita, accogliere la domanda ai sensi della seconda. (In applicazione del principio, la S.C. ha corretto la motivazione della sentenza d'appello la quale, sebbene avesse correttamente affermato che la domanda ex art. 1150 c.c. presuppone la qualità di possessore e quella ex art. 936 c.c. la qualità di terzo, aveva erroneamente concluso che il giudice di primo grado avesse accolto una domanda diversa da quella originariamente proposta in fattispecie nella quale l'azione era stata esperita da due coniugi promissari acquirenti di un immobile detenuto per un certo tempo in vista della stipulazione del contratto definitivo di acquisto, mai concluso posto che il preliminare fu risolto per inadempimento dei medesimi promissari acquirenti).

Cass. civ. n. 28379/2017

La previsione di cui all'art. 1150 c.c.- che attribuisce al possessore, all'atto della restituzione della cosa, il diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie ed all'indennità per i miglioramenti recati alla cosa stessa- è di natura eccezionale e non può, dunque, essere applicata in via analogica al detentore qualificato od a qualsiasi diverso soggetto. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza d'appello con la quale era stata respinta la domanda di rimborso formulata dai promittenti venditori di un immobile, che ne avevano mantenuto il possesso dopo la conclusione del preliminare, seppur pattuendo in quella sede "l'anticipazione dell'effetto traslativo" in favore del promissario acquirente).

Cass. civ. n. 20207/2017

Il credito per l'indennità ex art. 1150 c.c. è un credito di valore, in quanto mira a reintegrare il patrimonio del possessore che ha eseguito i miglioramenti e pertanto il giudice, nel determinarlo, deve tenere conto della svalutazione monetaria.

Cass. civ. n. 8156/2012

Ai sensi dell'art. 1150 c.c., il possessore ha diritto all'indennità per i miglioramenti, purché l'incremento di valore sussista al tempo della restituzione della cosa, in quanto il diritto medesimo prescinde dall'esistenza di un rapporto contrattuale fra le parti e si correla al dato obiettivo dell'incremento di valore secondo criteri di effettività e attualità, traendo il proprietario vantaggio dalla miglioria solo dal momento della reintegrazione nel godimento del bene. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva valutato quali opere indennizzabili una tettoia e un pozzo, nonostante l'una fosse stata costruita con materiali in fibrocemento di amianto, la cui utilizzabilità è stata vietata dalla legge 27 marzo 1992, n. 257, e l'altra realizzata senza autorizzazione del Genio civile, ciò che escludeva, per entrambe, la sussistenza, effettiva e attuale, dell'incremento di valore).

Cass. civ. n. 1904/2012

Il principio secondo il quale la domanda giudiziale fa cessare gli effetti del possesso di buona fede che non siano divenuti irrevocabili ed impedisce quelli ulteriori non attiene soltanto all'acquisto dei frutti, ma si riferisce a tutti i possibili effetti del possesso di buona fede, tra i quali è quello che attribuisce al possessore il diritto di essere indennizzato dal proprietario dell'incremento di valore arrecato alla cosa, che resta, dunque, irrilevante, ove dipenda da opere eseguite dopo la notificazione della domanda. (Fattispecie relativa a migliorie eseguite dal promissario acquirente, in possesso del bene, dopo la proposizione della domanda di risoluzione del contratto introdotta dal promittente venditore).

Cass. civ. n. 6489/2011

Colui il quale abbia acquistato il possesso di un fondo agricolo a titolo di esecuzione anticipata di un contratto preliminare non è possessore di esso, ma mero detentore qualificato. Ne consegue che, dichiarato nullo il contratto preliminare, al promissario acquirente non spetta né il diritto all'indennità per i miglioramenti previsto dall'art. 1150 c.c., né quello di ritenzione previsto dall'art. 1152 c.c., diritti attribuiti dalla legge unicamente al possessore di buona fede, e non anche al detentore, ancorché qualificato.

Cass. civ. n. 17245/2010

La norma dell'art. 1150 c.c., che attribuisce al possessore, all'atto della restituzione della cosa, il diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie ed all'indennità per i miglioramenti recati alla cosa stessa, è di natura eccezionale e non può, dunque, essere applicata in via analogica al detentore; ne consegue che, qualora nella promessa di vendita venga concordata la consegna del bene prima della stipulazione del contratto definitivo, la relazione del promissorio acquirente con il bene si definisce in termini di detenzione qualificata, sicché l'art. 1150 c.c. non si applica a tale ipotesi.

Cass. civ. n. 13259/2009

Il coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese ad eseguire migliorie od ampliamenti dell'immobile di proprietà esclusiva dell'altro coniuge ed in godimento del nucleo familiare, in quanto compossessore ha diritto ai rimborsi ed alle indennità contemplate dall'art. 1150 c.c. in favore del possessore, nella misura prevista dalla legge a seconda che fosse in buona o mala fede, mentre va esclusa l'invocabilità dell'art. 936 cod. civ., in tema di opere fatte da un terzo con materiali propri, difettando nel compossessore il requisito della terzietà.

Cass. civ. n. 743/2009

Al comproprietario e compossessore di buona fede di un immobile, che vi abbia eseguito addizioni costituenti miglioramenti (nella specie, costruendo un fabbricato sul terreno acquistato "pro indiviso"), non si applica la normativa dell'art. 936 cod. civ, nel richiamo fattone all'art. 1150, quinto comma, cod. civ., in quanto tale disciplina postula che autore delle opere realizzate su suolo altrui sia un terzo, non potendo qualificarsi come tale il titolare di un diritto di natura reale, avente ad oggetto il fondo su cui le opere sono state eseguite; a tale comproprietario, per i predetti miglioramenti, non è pertanto dovuta un'indennità nella misura dell'aumento di valore conseguito dal bene ma, dovendo egli essere considerato, secondo i casi, un mandatario degli altri partecipi alla comunione, ai sensi dell'art. 1720 o un utile gestore nel loro interesse, ai sensi dell'art. 2031 cod. civ spetta soltanto il rimborso degli oneri sostenuti.

Cass. civ. n. 11300/2007

Con riferimento alle indennità dovute al possessore ai sensi dell'art.1150 c.c., l'esecuzione di una costruzione senza autorizzazione (e perciò esposta, in mancanza di condono o di sanatoria, al pericolo di demolizione per ordine della competente autorità amministrativa) non realizza un miglioramento indennizzabile, essendo al riguardo necessario un incremento non precario, ma stabile ed effettivo, nel patrimonio del proprietario. Né assume rilievo l'eventualità di una successiva sanatoria dell'abuso, essendo in tal caso esperibile, ai sensi dell'art.2041 c.c., l'azione di arricchimento senza causa, nei limiti della differenza fra la somma dovuta ai sensi dell'art. 1150 c.c. e gli oneri economici derivanti dalla sanatoria.

Cass. civ. n. 4024/2004

In tema di indennità prevista dall'art. 1150 c.c. a favore del possessore, anche se di mala fede, il diritto, astraendo dall'esistenza di un rapporto contrattuale esistente fra le parti, si correla all'incremento di valore attuale ed effettivo del patrimonio del proprietario determinato dai miglioramenti del bene al momento della sua restituzione. Ne consegue che costituisce domanda nuova e, come tale, è inammissibile in appello, la domanda in questo grado proposta, ai sensi dell'art. 1150 c.c., dagli attori che in prime cure avevano chiesto, in relazione al dedotto inadempimento contrattuale, il risarcimento dei danni consistiti nelle spese sostenute per l'esecuzione delle opere che il venditore si era obbligato ad effettuare per il completamento del rustico oggetto della vendita.

Cass. civ. n. 16012/2002

Il diritto del possessore di buona fede ad un indennizzo, secondo la previsione dell'art. 1150 c.c., per i miglioramenti arrecati al bene altrui ed esistenti al tempo della restituzione, si correla all'incremento attuale ed effettivo che si verifica, in conseguenza di tali miglioramenti, nel patrimonio dell'attore in rivendicazione; pertanto ove il miglioramento consista in un'opera necessariamente destinata alla demolizione, deve escludersi la spettanza di tale indennizzo in considerazione della precarietà dell'aumento di valore conseguito dal fondo rivendicato.

Cass. civ. n. 12342/2002

Il diritto ad una indennità per i miglioramenti arrecati alla cosa ed esistenti al tempo della restituzione, il quale si correla all'incremento attuale ed effettivo che si verifica, in conseguenza di tali miglioramenti, nel patrimonio del proprietario, spetta al possessore in ogni caso, ex art. 1150 c.c., avendo la distinzione tra possessore di buona o mala fede rilevanza unicamente ai fini del calcolo della indennità medesima. Ove detti miglioramenti siano costituiti da addizioni, il proprietario, in virtù del disposto dell'art. 936, quarto comma, espressamente richiamato, può obbligare il terzo ad asportarli, salvo che costui le abbia fatte in buona fede o che il proprietario stesso ne fosse a conoscenza e non vi si fosse opposto.

Cass. civ. n. 6777/2001

Nelle controversie riconducibili alle fattispecie regolate dagli artt. 1150 e 936 c.c. nessun indennizzo a carico del proprietario del fondo può essere preteso dal terzo costruttore che abbia realizzato l'opera in violazione della normativa edilizia, autonomamente commettendo nel primo caso, o concorrendo nel secondo, i reati previsti e puniti dagli artt. 31 e 41 della legge n. 1150/42 e 10 e 13 della legge n. 765/67 e ciò non tanto perché possano essere poste in dubbio la sussistenza o l'entità della locupletazione del proprietario del fondo nella prospettiva di un ordine di demolizione da parte della pubblica amministrazione competente, quanto piuttosto perché è da ritenere in contrasto con i principi generali dell'ordinamento ed in particolare con la funzione dell'amministrazione della giustizia che possa l'agente conseguire indirettamente, ma pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era ripromesso di ottenere nel porre in essere l'attività penalmente illecita e che in via diretta gli è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c.

Cass. civ. n. 8834/1997

Al possessore del fondo non spetta indennizzo per addizioni consistenti in edifici abusivamente eretti sullo stesso, non potendo ammettersi alcun indennizzo per lo svolgimento di un'attività illecita anche sotto il profilo penale.

Cass. civ. n. 7985/1997

La previsione normativa di cui all'art. 1150, comma primo, c.c. accomuna, senza distinzioni di sorta, il possessore di mala fede a quello di buona fede quanto al riconoscimento del diritto al rimborso delle spese per le riparazioni straordinarie, al pari di quella di cui al successivo comma quarto, per effetto della quale al rimborso delle spese per le riparazioni ordinarie ha diritto «il possessore (non meglio qualificato sotto il profilo dello status soggettivo) tenuto alla restituzione dei frutti». La distinzione tra possessore di buona e di mala fede rileva, pertanto, in quest'ultima ipotesi, al solo, limitato fine di individuare il dies a quo del dovuto rimborso, che coincide con il (diverso) momento a partire dal quale ciascuno di essi risulti, rispettivamente, obbligato alla restituzione dei frutti (artt. 1148 e 1150 comma quarto c.c.).

Cass. civ. n. 5866/1995

Nel caso in cui un coniuge consegni all'altro una somma di denaro e quest'ultimo la utilizzi per opere di miglioramento della casa coniugale, di sua proprietà, deve presumersi, in mancanza di prova contraria, che la consegna sia stata effettuata in adempimento dell'obbligo di contribuzione di cui all'art. 143 c.c. Tuttavia, essendo stata la somma impiegata in modo da comportare anche l'arricchimento esclusivo del coniuge accipiente, questi è tenuto ad indennizzare l'altro del vantaggio conseguito. (Nella specie, la corte di merito aveva attribuito un'indennità ex art. 1150 c.c.).

Cass. civ. n. 8918/1991

Ai sensi dell'art. 1150 ult. comma c.c., qualora le addizioni sul bene altrui, costituente miglioramento, siano state apportate dal possessore in buona fede, al possessore medesimo spetta un'indennità nella misura dell'aumento di valore conseguito dalla cosa, mentre resta esclusa la facoltà accordata al proprietario dall'art. 936 c.c. (scelta fra il pagamento di detto incremento e l'eventuale minore importo rappresentato dal valore dei materiali e dal prezzo della mano d'opera).

Cass. civ. n. 6278/1990

Al possessore di azioni, il quale aderisca ad un aumento di capitale con denaro proprio, e poi subisca la rivendicazione dei titoli da parte del proprietario, deve riconoscersi l'indennità contemplata dall'art. 1150, secondo e terzo comma, c.c., tenendo conto che detto aumento di capitale, quali siano le modalità con cui venga attuato o le ragioni che lo abbiano determinato, segna un incremento della consistenza economica del bene da restituire al rivendicante. Peraltro, anche se tale indennità, per la buona fede del possessore (da presumersi), debba essere correlata al maggior valore del «pacchetto» azionario, il relativo ammontare non può coincidere con la maggior entità nominale delle azioni (e quindi con l'esborso affrontato per l'aumento di capitale), fino a che il possessore non deduca e dimostri un diverso prezzo di mercato dei titoli stessi.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1150 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Anonimo chiede
lunedì 11/12/2023
“Salve, vorrei avere un vostro parere su quanto segue.
Alla morte di mio padre ho scoperto con grande sorpresa dell'esistenza di 2 testamenti olografi. In quello di mio padre c'era scritto che alla sua morte avrebbe lasciato tutto beni mobili, immobili a mia madre. Ovviamente lo ho impugnato visto che ledeva la legittima ed infatti il 50% è andato a mia madre e il restante 50% a me 25% e l'altro 25% a mia sorella.
Le risparmio ovviamente come si è arrivati a quanto sopra esposto e le vicende successive...tanta cattiveria e tristezza da parte di mia sorella.
Nel settembre 2022 muore mia madre ed ecco spuntare nel suo testamento la "3 figlia" o meglio mia nipote figlia quindi di mia sorella.
Quindi ora il 41,7% a me lo stesso a mia sorella ed il 16,6% a mia nipote.
I lavori sono stati effettuati in accordo con mio padre e dopo che mia sorella aveva lasciato la casa paterna a fronte di grosse discussioni fra mio padre, lei ed il marito, ed hanno goduto per oltre 20 anni dell'affitto dell'appartamento dove aveva vissuto, fornendole la possibilità di acquistare un'altra casa nei dintorni.
Aggiungo che io e mio marito (dal 2008) abbiamo effettuato, in accordo con mio padre unico proprietario allora dell'intero immobile, dei lavori importanti di ristrutturazione e costruzione facendo sì ovviamente che l'intero immobile giovasse e giovi ancora di questo arricchimento.
I costi dei suddetti lavori sono stati totalmente a carico dell'allora mio compagno (marito solo dal 2008) per quasi 250 mila euro!!!
Anche i mq costruiti e pagati da mio marito rientrano purtroppo nella divisione attuale diversamente dagli accordi verbali che erano stati fatti con mio padre. Ora sorella e nipote chiedono di dividere di fatto anche la parte costruita e pagata da mio marito allora compagno.
Le chiedo quindi se è possibile applicare a questa diatriba l'articolo 1150 Codice Civile chiedendo quindi alle eredi il rimborso delle spese sostenute per il miglioramento, le riparazioni straordinarie effettuate che hanno aumentato il valore dell'immobile stesso.
Nel 2003 quando iniziammo i lavori di comune accordo con mio padre proprietario dell'intero immobile che ha firmato anche tutte le autorizzazioni edilizie necessarie, io ed il mio attuale marito NON eravamo sposati ( lo abbiamo fatto nel 2008).
Potrei anch'io come co-erede chiedere il rimborso visto che in parte ho contribuito ai lavori sopra indicati?
La ringrazio anticipatamente per la risposta ed invio

Cordiali saluti.”
Consulenza legale i 14/12/2023
Purtroppo, sulla base di come si sono svolti i fatti esposti nel quesito, il dettato normativo di cui ci si vorrebbe avvalere non può trovare applicazione per le ragioni che qui di seguito si vanno ad illustrare.
Da un punto di vista oggettivo, in effetti, l’obiettivo che con tale norma il legislatore si è prefisso di conseguire è quello di garantire ex post la posizione di chiunque abbia comunque utilmente gestito il bene, riconoscendogli un credito ai rimborsi per le spese affrontate ovvero un’indennità variamente valutata.
Sotto tale profilo, dunque, tale norma sembrerebbe proprio adattarsi al caso di specie.

Non è così, invece, sotto il profilo soggettivo, in quanto colui che domanda il pagamento dell’indennità per i miglioramenti o le addizioni eseguite sulla cosa di altri non può essere che il possessore.
L’espresso riferimento a detta posizione giuridica ed il carattere eccezionale che a tale norma va riconosciuto, ne impediscono, salvo qualche isolata tesi dottrinaria, l’applicazione al semplice detentore o al comodatario.
In tale senso risulta costantemente orientata la giurisprudenza di legittimità, secondo cui appunto l’indennità ex art. 1150 c.c. può essere riconosciuta solo al possessore e non anche al mero detentore della cosa, che possiede alieno nomine (così Cass. civ. Sez. III sent. n. 13316/2015, Cass. civ. Sez. III sent. n. 5948/2005, Cas. Civ. Sez. II n. 12627/1993), né al comodatario, al quale non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportino miglioramenti.
In tal senso si è espressa sempre la Corte di Cassazione, Sez. II civ. sentenza n. 7923/1992, così massimata:
“Il comodato di un alloggio ad uso abitativo costituisce detenzione, non quindi possesso "ad usucapionem", in favore tanto del comodatario quanto dei familiari con lo stesso conviventi. Al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportino miglioramenti, tenendo conto della non invocabilità da parte del comodatario stesso, che non è nè possessore nè terzo, dei principi di cui agli art. 1150 e 936 c.c. ed altresì della carenza, anche nel similare rapporto di locazione, di un diritto ad indennizzo per le migliorie”.

Ebbene, nel caso in esame si ritiene che la posizione di colui che ha deciso di affrontare quelle spese, sicuramente di non scarsa rilevanza, su un immobile di cui non era proprietario, non possa in alcun modo ricondursi a quella del possessore, essendo piuttosto configurabile una situazione di semplice detenzione della cosa, con conseguente difetto del presupposto soggettivo per poter invocare un diritto di credito al rimborso di quelle spese ex art. 1150 c.c.

Neppure si ritiene vi siano i presupposti per avvalersi di quella particolare azione prevista sempre dal nostro ordinamento giuridico ed avente carattere per così dire “residuale”, ovvero l’azione di indebito arricchimento, disciplinata dall’art. 2041 del c.c..
Di tale azione giudiziaria si è occupata proprio di recente la Corte di Cassazione, SS.UU. con sentenza del 05.12.2023 n. 33594, confermandone, per il suo carattere di sussidiarietà ex art. 2042 del c.c., la proponibilità ove una diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo.
Tuttavia, poiché trattasi di azione assoggettata all’ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946 del c.c. (così Cass. 09.11.1993 n. 11061), anche ad essa purtroppo non sarà possibile fare ricorso, considerato che nel quesito si fa riferimento a lavori iniziati nei primi anni successivi al 2000, e dunque risalenti ad un arco temporale che va ben oltre il decennio.

Quanto fin qui osservato, dunque, induce a consigliare di impegnarsi più che in battaglie giudiziarie (il cui esito rischia di essere inevitabilmente negativo), in una pacifica trattativa con gli altri coeredi, volta a farsi riconoscere, senza la minaccia di azioni legali, quanto in buona fede è stato personalmente investito in quel patrimonio ereditario che adesso ci si trova a dover dividere sulla base di quote determinate soltanto per legge.


Ilenia S. chiede
mercoledì 05/06/2019 - Veneto
“Io e il mio ex marito abbiamo convissuto per 5 anni (2009 – 2014 in comunione di beni) insieme alle nostre due figlie nella casa coniugale di mia proprietà. La casa mi è stata donata dai miei genitori al grezzo avanzato e l’abbiamo terminata insieme in costanza di matrimonio spendendo circa 120.000 euro (tutti documentati da fatture, intestate per circa l’80% a me) finanziati per 70.000 attraverso un mutuo ipotecario e per il resto dal nostro conto corrente in comune (il c/c era alimentato circa per 1/3 da me e 2/3 da lui in quanto lui lavorava full time mentre io part time per occuparmi delle nostre figlie). Attualmente siamo divorziati dal 2017, la casa coniugale, come da sentenza, “di proprietà esclusiva della sottoscritta, è rimasta nella proprietà e nella disponibilità della medesima, con i relativi arredi, affinché vi abitassi con le mie figlie”. Ora il mio ex rivendica la ripetizione delle somme da lui spese per il completamento della casa. Aggiungo che dopo la separazione ho riscattato personalmente il mutuo residuo per un importo pari alla metà, cioè 35.000 euro.
Abbiamo tentato di accordarci con esito negativo: io gli ho offerto 20.000 euro mentre lui ne vorrebbe 50/60 mila.
Naturalmente chiedo che cosa dovrei fare, come mi dovrei comportarmi. Ma chiedo anche se la fattispecie dovrebbe essere inquadrata nel diritto ordinario in quanto la richiesta è stata avanzata dopo il divorzio e quindi dover partire da un estimo dell’immobile finito e al grezzo avanzato per valorizzare le migliorie, tenendo conto delle dovute svalutazioni. Oppure per il fatto che l’indebito si sia formato in costanza di matrimonio si debba partire dalle somme spese documentate tenendo conto che la spesa oggetto del contendere sia avvenuta in adempimento dell’obbligo di contribuzione che è sempre nell’interesse collettivo della famiglia e non esclusivo dell’altro coniuge.”
Consulenza legale i 13/06/2019
La questione dell’esistenza o meno di un diritto al rimborso in relazione alle spese sostenute da un coniuge per l’immobile adibito a casa familiare è stata ed è, in realtà, piuttosto dibattuta.
In linea di massima la giurisprudenza recente della Corte di Cassazione tende ad inquadrare questo genere di spese nell’ambito del dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia, di cui all’art. 143 del c.c.
Tra le tante pronunce, si cita Cass. Civ. Sez. I, n. 10942/2015, che così afferma: “in sede di scioglimento della comunione legale tra coniugi, al coniuge non proprietario non spetta alcuna indennità, ai sensi dell'art. 1150 del c.c., per le migliorie apportate, a proprie spese, all'abitazione familiare di proprietà esclusiva dell'altro, quando le opere realizzate risultino finalizzate a rendere l'abitazione più confacente ai bisogni della famiglia e, quindi, l'esborso si riveli sostenuto in adempimento dell'obbligo di contribuzione di cui all'art. 143 c.c.”.
Oppure si è fatto ricorso alla figura della donazione indiretta (che trova il proprio fondamento nell’art. 809 del c.c.), ma sempre nel senso di escludere il diritto al rimborso di quanto versato. Così, secondo Cass. Civ., Sez. III, 24160/2018, “l’attività con la quale il marito fornisce il denaro affinché la moglie divenga con lui comproprietaria di un immobile è riconducibile nell'ambito della donazione indiretta, così come sono ad essa riconducibili, finché dura il matrimonio, i conferimenti patrimoniali eseguiti spontaneamente dal donante, volti a finanziare lavori nell'immobile, giacché tali conferimenti hanno la stessa causa della donazione indiretta”.
Non mancano, tuttavia, recentissime pronunce di segno contrario, secondo cui al coniuge che ha sostenuto gli esborsi spetterebbe l’indennità prevista dall’art. 1150 c.c.
Così è per Cass. Civ., Sez. II, n. 20207/2017, che dà indicazioni anche sulla natura del relativo credito: “il rimborso previsto dall'art. 1150 c.c. ha natura di credito di valore, giacché finalizzato a consentire al possessore di recuperare il valore attuale dello speso, o meglio a reintegrare il proprio attuale patrimonio, non versandosi in presenza di una obbligazione originariamente pecuniaria (bensì, nella specie, di una obbligazione sorta a seguito della rottura del vincolo matrimoniale). La relativa liquidazione va, dunque, assoggettata a rivalutazione annuale, oltre interessi al tasso legale sulle somme via via rivalutate”.
In giurisprudenza si è fatto anche ricorso all’istituto dell’ingiustificato arricchimento, di cui all’art. 2041 del c.c.
Ad esempio, secondo Cass. Civ., Sez. III, n. 14732/2018, “i contributi, in lavoro o in natura, prestati volontariamente da un partner per la realizzazione di una dimora comune e, dunque, non a fondo perduto e non a vantaggio esclusivo dell'altro, non sono sottratti all'operatività del principio della ripetizione dell'indebito. L'azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della causa qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell'adempimento di un'obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente 'more uxorio' nei confronti dell'altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza”.
Concludendo, è evidente che, nella diversità di orientamenti giurisprudenziali, la questione se al marito, nel caso specifico, spetti o meno un rimborso o un’indennità per il contributo dato nella realizzazione della casa familiare è rimessa alla prudente valutazione del giudice.
Vista la disponibilità della moglie, riferita nel quesito, a raggiungere comunque un accordo, si consiglia di insistere per quanto possibile in tal senso, magari mediante il ricorso alla procedura di negoziazione assistita (che potrebbe anzi rivelarsi obbligatoria a seconda dell’importo richiesto dal marito).
In ogni caso, anche volendo ammettere che il marito abbia diritto a una qualche forma di rimborso, questa assumerà la forma dell’indennità di cui all’art. 1150 c.c., ai sensi del quale l’indennità si deve corrispondere nella misura dell'aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti.

Rizzo G. chiede
sabato 01/06/2019 - Estero
“buongiorno avvocati.
mi sto separando dopo 25 anni di matrimonio e abbiamo beni comuni, la mia questione è questa: nel 2000 il padre della mia ex ci aveva detto che potevamo ristrutturare il piano superiore e ho speso circa 100.000 (tutti dal mio stipendio, mia moglie non ha mai lavorato). siamo andati ad abitarvi solo nel 2006 e nel 2013 il padre lo ha donata alla figlia.
che posso fare per riavere almeno una parte dei soldi spessi per la ristrutturazione?
posso fare valere gli art. 1150 c.c. e 936 c.c., considerato che tutte le fatture sono per quella casa?

Consulenza legale i 07/06/2019
Ai sensi dell’art. 1150 del c.c., il possessore, anche se di mala fede, ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie; inoltre egli ha diritto a un’indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione.
Tale indennità si deve corrispondere nella misura dell'aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti, se il possessore è di buona fede; se il possessore è di mala fede, nella minor somma tra l'importo della spesa e l'aumento di valore.
Per quanto riguarda le spese per la ristrutturazione e il miglioramento dell’immobile utilizzato come casa coniugale, occorre dire che la giurisprudenza non sempre ammette l’applicabilità dell’art. 1150 c.c.
Ad esempio, secondo Cass. Civ. Sez. I, 10942/2015, in sede di scioglimento della comunione legale tra coniugi, al coniuge non proprietario non spetta alcuna indennità, ai sensi dell'art. 1150 c.c., per le migliorie apportate, a proprie spese, all'abitazione familiare di proprietà esclusiva dell'altro, quando le opere realizzate risultino finalizzate a rendere l'abitazione più confacente ai bisogni della famiglia e, quindi, l'esborso si riveli sostenuto in adempimento dell'obbligo di contribuzione di cui all'art. 143 del c.c.
Ed ancora, per Cass. Civ., Sez. I, 10942/2015, il diritto del coniuge non proprietario di ottenere una indennità, ai sensi dell'art. 1150 c.c., per le migliorie apportate all'abitazione familiare di proprietà esclusiva dell'altro può essere escluso laddove tali spese siano state eseguite per il soddisfacimento di bisogni familiari.
Non mancano però anche pronunce che si esprimono in senso opposto: ad esempio, Cass. Civ., Sez. II, 13259/2009: “il coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese ad eseguire migliorie od ampliamenti dell'immobile di proprietà esclusiva dell'altro coniuge ed in godimento del nucleo familiare, in quanto compossessore ha diritto ai rimborsi ed alle indennità contemplate dall'art. 1150 c.c. in favore del possessore, nella misura prevista dalla legge a seconda che fosse in buona o mala fede, mentre va esclusa l'invocabilità dell'art. 936 cod. civ., in tema di opere fatte da un terzo con materiali propri, difettando nel compossessore il requisito della terzietà”.
Nel nostro caso, tuttavia, occorre tenere conto di alcuni dati fondamentali.
Infatti,se abbiamo ben compreso la ricostruzione dei fatti fornita nel quesito, quella che è diventata poi casa familiare era inizialmente di proprietà del padre della moglie.
Sempre stando alle informazioni fornite, i lavori di ristrutturazione sarebbero stati eseguiti in un periodo non meglio precisato, compreso tra il 2000 ed il 2006.
Nel 2006 i coniugi sarebbero andati effettivamente a vivere nell’immobile in questione.
La casa sarebbe stata donata dal padre alla figlia solo nel 2013: pare quindi di capire che l’immobile di cui parliamo sia di proprietà esclusiva della moglie. Infatti, ai sensi dell’art. 179 del c.c., comma 1, lett. b), non rientrano nella comunione e sono beni personali del coniugi i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto non è espressamente specificato che essi sono attribuiti alla comunione.
Dunque, nel nostro caso, le spese per la ristrutturazione risultano effettuate in un periodo in cui l’immobile era non solo di proprietà di un altro soggetto, ma non era ancora, tecnicamente, “casa familiare”. Al riguardo si precisa che la legge non dà una definizione di casa familiare, o casa coniugale: tuttavia la giurisprudenza ha avuto occasione di chiarire che per casa familiare deve intendersi “l'immobile che abbia costituito centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi abbiano la disponibilità” (così ad esempio Cass. Civ., Sez. I, 14553/2011). Inoltre, sembra anche di capire che, all’epoca in cui fu eseguita la ristrutturazione, il marito che pagò le spese non aveva neanche il possesso della cosa (l'art. 1150 c.c. è applicabile appunto al possessore).
Tuttavia, vi è anche da dire che nel nostro caso i lavori sono stati indubbiamente eseguiti proprio in vista e al fine della realizzazione di una “casa familiare”, cosa che in effetti poi è avvenuta.
In proposito ci viene in soccorso una recentissima pronuncia della Cassazione, riguardante una vicenda simile a quella oggetto della presente consulenza, anche se relativa a una convivenza more uxorio.
Più precisamente, secondo Cass. Civ., Sez. III, 14732/2018, “i contributi, in lavoro o in natura, prestati volontariamente da un partner per la realizzazione di una dimora comune e, dunque, non a fondo perduto e non a vantaggio esclusivo dell'altro, non sono sottratti all'operatività del principio della ripetizione dell'indebito
Pertanto, secondo la Corte, potrebbe invocarsi nel caso in esame l’azione generale di arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 del c.c.; tuttavia, l’applicabilità della norma va verificata caso per caso, dal giudice.
In ogni caso, la stessa pronuncia ha affermato, in merito alla possibilità di richiamare l’art. 936 del c.c., che tale ultima norma disciplina la particolare eventualità in cui un terzo, che non vi sia in alcun modo legittimato né autorizzato, realizzi un'opera su un fondo altrui: nel nostro caso invece per accordo, sia pure solo verbale, tra le parti, chi ha eseguito i lavori era a ciò autorizzato.
Un altro elemento di incertezza è rappresentato, poi, dal lungo periodo di tempo trascorso dai lavori, e dal pagamento delle relative spese (oltre 10 anni), che pone un problema di prescrizione dell’eventuale diritto all’indennità prevista dalla norma. Infatti è quanto meno dubbio se possa applicarsi l’art. 2941 del c.c., n. 1, che prevede la sospensione della prescrizione tra coniugi (l’immobile all’epoca era di proprietà del suocero).
Il tutto è sicuramente complicato dalla oggettiva difficoltà, se non addirittura dall’impossibilità, di recuperare la documentazione che prova le spese sostenute (a meno che chi pone il quesito, quando parla di fatture, non intenda proprio riferirsi ai documenti fiscali cartacei in senso tecnico).

In conclusione, la situazione presentata nel quesito è abbastanza complessa e non è possibile fornire in questa sede una risposta certa, considerato anche che molte questioni sono rimesse alla valutazione del giudice, valutazione che non è possibile prevedere. Allo stato, una eventuale azione giudiziaria appare rischiosa. Sarebbe chiaramente preferibile tentare di raggiungere un accordo con la controparte, da inserire in una separazione consensuale.