In questo articolo, dopo essersi precisato che l’erede può agire anche contro gli aventi causa da chi possiede a titolo d’erede o senza titolo, si regolano quelli che sono i diritti dei terzi che hanno contrattato con l’erede apparente e si fissano i presupposti perché essi siano rispettati.
Innanzitutto, deve trattarsi di
atti a titolo oneroso perché per questi soltanto vale il principio che tra due parti (erede vero e terzi),
qui certant de damno vitando, deve essere preferita quella che si trova nel possesso dei beni; d’altro canto è la tutela della buona fede che impone tale soluzione; la quale, perciò, è l’opposta se si tratta di negozi a titolo gratuito: qui tra gli eredi veri
qui certant de damno vitando ed i terzi
qui certant de lucro captando vanno preferiti i primi.
In secondo luogo, i terzi devono aver contrattato con l’erede apparente in buona fede, ignorando, cioè, di trovarsi di fronte ad un falso erede, quindi ritenendo che quegli avesse rivestito la qualità d’erede e, come tale, avesse lo ius disponendi. Quindi, il terzo che ha contrattato con l’erede apparente deve essere in buona fede; dunque la buona o la mala fede dell'erede apparente è irrilevante.
In che consiste la buona fede? Nel caso dell’art. 534 la buona fede si sostanzia nella
convinzione di acquistare dall’erede vero, cioè dal
dominus, tanto se tale opinione sia determinata da un errore di fatto quanto da un errore di diritto; né a quest’ultimo concetto contrasta il comune principio che
ignorantia iuris (legis) non excusat, poiché questo è vero solo quando si tenta di evitare le conseguenze che la legge pone a carico di chi ne adduce l’ignoranza.
In quale momento deve sussistere la buona fede? Vale anche qui - sia per il possessore che per i terzi - il principio del diritto romano
mala fides superveniens non nocet, con la conseguenza che sarà necessario accertarne l’esistenza, nel possessore, al momento in cui si è immesso nel possesso, nel terzo, quando ha contrattato con l’erede apparente.
Ma su chi incombe l’
onere di provarla? L’art.
1147 dichiara che la buona fede è sempre presunta, dunque chi allega la mala fede deve darne la prova: da ciò sembra doversi dedurre che all’erede, il quale agisce in
petitio, spetti di provare che il possessore o il terzo siano in mala fede, dal momento che a favore di costoro sta quella presunzione, dettata dall’art.
1147 con efficacia generale e non ristretta al solo possesso. Però siffatta conclusione logica è modificata dagli articoli 534 e
535; dal primo, che al secondo comma esplicitamente pone a carico dei terzi la prova di aver contrattato in buona fede; dal secondo, che, precisando quale possessore debba ritenersi di buona fede, addossa a costui l’onere di provare l’ipotesi voluta dalla legge.
Nei confronti dei terzi che hanno acquistato dall’erede apparente, l’art. 534 non si limita, però, a richiedere la loro buona fede; esso pone l'esistenza di un duplice requisito, senza il quale, anche se acquistato in buona fede, il diritto del terzo può essere attaccato e, cioè, la trascrizione sia del titolo d’acquisto di erede apparente, sia del titolo d’acquisto del terzo da parte dell’erede apparente, di guisa che se entrambe queste trascrizioni mancano o se sono state entrambe o anche una soltanto effettuate dopo la trascrizione della domanda in petitio dell'erede vero, il diritto del terzo cade.
L’art. 534 si applica solo alle convenzioni relative a beni immobili o mobili registrati? Sembra doversi ritenere di sì, poiché per i mobili vale il principio "possesso in buona fede vale titolo", con la conseguenza che il terzo, acquirente in buona fede di cose mobili, è protetto da eventuali attacchi, qualunque sia il suo titolo, tanto, cioè, se oneroso, quanto se gratuito.
Ma, in realtà, non è così, perché l’art.
1153 non potrà essere sempre applicabile; non potrà esserlo in tutti i casi nei quali non si verificano quelli che sono i suoi presupposti, come ad esempio avviene nell’ipotesi in cui il terzo, pur avendo acquistato cose mobili, non ne sia, però, nel possesso materiale, oppure abbia acquistato una
universitas facti, nei cui confronti il principio dell’art.
1153 cessa di avere efficacia.