I soggetti in relazione ai quali possono prodursi eventi idonei a determinare l'interruzione del processo sono:
-
la parte: attore o convenuto, costituito o contumace;
-
il suo rappresentante legale;
-
il difensore che la assiste.
Per parte deve intendersi chiunque agisca o sia chiamato in giudizio, destinatario come tale degli effetti della sentenza che verrà pronunziata all'esito del procedimento; nessuna rilevanza può assumere il fatto che la qualità di parte sia stata acquisita originariamente oppure per intervento coatto o volontario.
Passando ad esaminare gli eventi interruttivi, la norma dispone, in primo luogo, che il processo può interrompersi se “
sopravviene la morte oppure la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti”.
Due sono, dunque, i tipi di eventi che possono colpire una delle parti in causa, astrattamente idonei a determinare l'interruzione: la morte e l'incapacità sopravvenuta.
Per
morte ci si riferisce, evidentemente, al fenomeno naturale che può interessare una delle parti che sia un soggetto fisico, ed anche ai fenomeni che, colpendo la persona giuridica coinvolta nel processo, ne siano l'equivalente.
Alla morte naturale viene normalmente equiparato il caso della morte presunta di una delle parti (
art. 58 del c.c.).
Con riferimento, invece, al caso della
sopravvenuta perdita della capacità di stare in giudizio e di cessazione della rappresentanza della parte incapace, ci si riferisce alle varie ipotesi di incapacità legale, assoluta o relativa (
interdizione,
inabilitazione,
fallimento) e di rappresentanza legale, imposta, come tale, direttamente dalla legge.
Non determina, invece, l'interruzione del processo la semplice incapacità naturale in cui eventualmente versi una delle parti, almeno finché manchi il relativo provvedimento giudiziale di interdizione o nomina del rappresentante provvisorio.
Ulteriore causa di interruzione del processo civile è la morte o la perdita di capacità del legale rappresentante della parte.
Si tratta del caso in cui venga meno, o risulti processualmente menomato il rappresentante legale della parte incapace: il
tutore dell'interdetto, o il
curatore dell'inabilitato.
Non costituisce, invece, causa di interruzione del processo l'evento che interessi il rappresentante volontario della parte.
Può anche verificarsi che l'interruzione trovi la sua ragione nella cessazione della rappresentanza legale, come nel caso del raggiungimento della maggiore età per il minore, della revoca dell'interdizione o dell'inabilitazione, del ritorno dello
scomparso, dell'assente e del morto presunto, o della chiusura del fallimento.
L'
art. 110 del c.p.c. disciplina la cd.
successione nel processo proprio per il caso in cui una delle parti venga meno “per morte o altra causa”.
Ora, se nessun dubbio può sorgere in relazione al fenomeno naturale della morte, mentre più dubbia è l'ipotesi in cui la parte venga meno “per altra causa”.
Infatti, mentre nel primo caso viene imposta la prosecuzione del processo nei confronti del
successore universale, nel secondo caso si rende necessario innanzitutto individuare il fenomeno a cui la norma ha inteso riferirsi.
Si ritiene che il legislatore abbia voluto riferirsi non alla parte intesa come persona fisica, ma a fenomeni successori che possano interessare la
persona giuridica che sia parte in giudizio.
La norma, dunque, si applica a condizione che:
-
l'ente si estingua;
-
a tale estinzione si accompagni un fenomeno di successione a titolo universale.
L'estinzione dell'ente originario costituisce il presupposto indispensabile per l'applicazione degli artt. 110 e 299 ss.
Si è in passato ritenuta idonea ad interrompere il processo sia la
fusione di società in senso stretto (il caso in cui due società cessano di esistere e ne nasce una terza) sia la fusione per incorporazione, per effetto della quale l'intero patrimonio della società incorporata viene trasmesso all'incorporante.
Tali principi, tuttavia, sono stati posti in dubbio già a seguito della modifica della disciplina della fusione realizzatasi con il D.Lgs. 16.1.1991, n. 22, il quale ha inserito nel codice civile l'
art. 2504 bis del c.c., stabilendo al 1° co., che “
la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte” (non veniva, dunque, recepito quanto indicato all'art. 19, lett. a), Dir. n. 78/855/CEE, secondo cui la fusione produce
ipso iure il trasferimento universale, tanto tra la società incorporata e la società incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell'intero patrimonio attivo e passivo della società incorporata alla società incorporante).
Malgrado ciò, si continuò a considerare il fenomeno della fusione come un caso di estinzione dell'ente, accompagnato da successione universale, e così, anche dopo la riforma, restava ferma l'attitudine di tale evento ad interrompere il processo civile nel corso del quale esso si fosse verificato.
L’art. 110 c.p.c., invece, non trova applicazione quando l'ente sia posto in
liquidazione, alla quale non consegue l'estinzione della persona giuridica, ma la continuazione dell'ente con il suo legale rappresentante
pro tempore nella persona del liquidatore, per l'adempimento delle pregresse obbligazioni.
Né si ritiene che determini l'applicazione della disciplina dell'interruzione del processo il caso della
trasformazione della società, rimanendo la società sempre la medesima ancorché differentemente organizzata.
In attuazione della delega di cui alla L. 3.10.2001, n. 366, il Governo ha poi promulgato il D.Lgs. 17.1.2003, n. 6, il cui art. 6 modifica la disciplina riguardante la trasformazione, la fusione e la scissione delle società di capitali.
E’ stato intanto modificato l’
art. 2498 del c.c., disponendosi che la società trasformata non subentra nei rapporti processuali dell'ente trasformato, bensì li prosegue.
Ciò conferma che il fenomeno della trasformazione non determina l'interruzione del processo, in coerenza con la constatazione che non si ha qui una vera e propria estinzione del soggetto originario.
L’art. 2504 c.c., invece, disciplina gli effetti della fusione, stabilendosi anche qui che la società che risulta dalla fusione o quella incorporante proseguono in tutti i rapporti anche processuali delle società partecipanti alla fusione.
Sicché appare evidente che, come per il caso della trasformazione, anche per la fusione di enti il legislatore delegato abbia voluto evitare che i rapporti processuali già pendenti fossero interrotti ai sensi degli artt. 299 ss.
Pertanto, non può più ritenersi valido quell’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale che riconnetteva l'interruzione del processo al caso della fusione di società.
Il processo non si interrompe, ma prosegue nonostante la costituzione di una nuova società per fusione degli enti originari o l'incorporazione di una società in una o più altre (
art. 2501 del c.c.).
La fusione, dunque, si risolve in una vicenda meramente modificativa dello stesso soggetto giuridico che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo.
Più complesso è il caso della
scissione, a seguito della quale una società assegna l'intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, ovvero, nel caso di scissione parziale, l'ente assegna anche ad una sola società, solo parte del suo patrimonio (
art. 2506 del c.c.).
Dispone il terzo comma dell’art. 2506 c.c. che “
la società scissa può, con la scissione, attuare il proprio scioglimento senza liquidazione, ovvero continuare la propria attività”, mentre il terzo comma dell’
art. 2506 quater del c.c. stabilisce che “
ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”.
Ebbene, si ritiene sia da escludere che la fattispecie della scissione possa essere ricondotta nell'ambito di applicazione dell'art. 110 o 111 c.p.c.
Essa si sostanzia, in concreto, in una sorta di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, che non è in grado di riflettersi necessariamente sul processo, determinandone l'interruzione.
Indubbiamente, si avverte l'esigenza che la scissione avvenuta nel corso di un processo non pregiudichi in alcun modo la controparte, e proprio per tale ragione potrebbe eventualmente applicarsi l’ultimo comma dell’art. 111 c.p.c., e, dunque, ritenere che la sentenza eventualmente pronunciata soltanto fra le parti originarie produca i suoi effetti anche nei confronti degli enti beneficiati (con l'ulteriore e menzionata previsione dell'art. 2506 quater c.c.).
In alternativa, può comunque riconoscersi l'interesse della parte estranea all'evento a coinvolgere i nuovi soggetti nel processo al fine di ottenere una sentenza valida anche in loro danno; d’altro canto, anche le società che hanno beneficiato della scissione possono scegliere di intervenire volontariamente nel processo.
Nulla impone, invece, che il contraddittorio sia preceduto dall'applicazione degli artt. 299 ss.
La disciplina degli artt. 299 ss. non trova applicazione, invece, per gli eventi che interessano la cd. rappresentanza organica (è tale, ad esempio, la morte del legale rappresentante di un ente munito di personalità giuridica).
Con riferimento agli enti non riconosciuti, si discute se sia idonea a interrompere il processo la morte o sopravvenuta incapacità del loro legale rappresentante, almeno nei casi in cui lo statuto non preveda un meccanismo che ne assicuri la continuità della rappresentanza e la regolare prosecuzione del giudizio.
Alla tesi positiva, fondata sulla constatazione che l'evento colpisce il soggetto destinatario degli atti processuali, non riferibili all'ente per la sua incapacità, si contrappone quella negativa, la quale si fonda sul presupposto che l'ente può comunque provvedere alla tempestiva sostituzione del suo rappresentante e che, pertanto, l'incapacità dell'organo non si risolve nell'incapacità dell'ente.
Una volta verificatosi l'evento interruttivo, ed avendo la parte interessata posto in essere l'atto di volontà cui è connessa l'effettiva interruzione del processo, questa si verifica indipendentemente da un formale provvedimento giudiziale, il quale assume natura meramente dichiarativa.
L'interruzione è dichiarata con
ordinanza, modificabile e revocabile dal giudice
a quo ai sensi del secondo comma dell’
art. 177 del c.p.c..
Anche se il provvedimento dovesse essere emesso in forma di
sentenza, non sarebbe impugnabile in
appello o in
cassazione, in quanto non pronuncia sulla pretesa sostanziale fatta valere in giudizio, né definisce il processo, ma importa soltanto un temporaneo stato di quiescenza dello stesso, fino alla
riassunzione o, in mancanza di questa, fino alla
estinzione (ha, quindi, carattere ordinatorio o preparatorio).
L'ordinanza con la quale il giudice eventualmente respinga l'istanza di riassunzione, essendo priva del carattere di decisorietà, non è impugnabile neanche con ricorso straordinario in cassazione ex
art. 111 Cost.. .
Per quanto concerne l’applicabilità dell’istituto dell’interruzione nel processo esecutivo, deve osservarsi che il libro III del codice di rito non contiene alcuna norma volta a disciplinare gli eventi (potenzialmente) interruttivi che si verifichino nel corso dell'esecuzione forzata, mentre una specifica disciplina viene dettata per la sospensione e l'estinzione del processo esecutivo.
Il processo esecutivo, in sostanza, è costruito per dar modo al
creditore, munito del
titolo esecutivo, di procedere senza ostacoli nel cammino che la legge gli traccia per raggiungere la soddisfazione del suo diritto.
Il debitore non assume in alcun momento la posizione di
convenuto, è soltanto un soggetto passivo dell'esecuzione, non già il legittimo contraddittore di chi il processo di esecuzione ha intrapreso nei suoi confronti.
In quanto tale egli deve solo preoccuparsi della legalità ed opportunità degli atti esecutivi posti in essere nel procedimento che lo coinvolge, e tale limitata posizione è protetta con i residuali istituti delle opposizioni di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c.
Qualora uno degli eventi di cui all'art. 299 si verifichi prima della
litispendenza(è questo il caso, ad esempio, della
notificazione della citazione ad un soggetto già morto), in tali casi non può operare la disciplina dell'interruzione, poichè non può aversi stasi di un giudizio ancora non pendente.
Pertanto, il decesso della parte attrice avvenuto prima della notificazione dell'atto introduttivo comporta, secondo la regola generale del n. 4 dell'
art. 1722 del c.c., l'estinzione del
mandato conferito al difensore, e la
nullità dell'intero giudizio, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
In caso di morte o di perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti, in un processo già pendente, occorre, invece, distinguere se tali eventi siano avvenuti prima o dopo la sua
costituzione.
Se avvenuti prima, si ha l'immediata interruzione del processo.
Nel secondo caso, disciplinato dal successivo
art. 300 del c.p.c., il processo rimane interrotto al momento dell'evento, solo quando la parte si sia costituita personalmente; altrimenti l'effetto è subordinato al fatto che il procuratore dichiari o notifichi alle altre parti ciò che è accaduto al proprio rappresentato.