Il problema dei rapporti di vicinato nella nuova legislazione
Il problema dei rapporti di vicinato acquista, con le norme contenute in questo articolo, l'aspetto di un problema particolarmente
attinente alla proprietà fondiaria: mentre, in mancanza di qualsiasi norma (come ad esempio sotto la vigenza del codice del 1865), assumeva l'aspetto di un problema di carattere generale, ricollegandosi a quello relativo all'esercizio dei diritti e ai limiti entro i quali tale esercizio deve ritenersi legittimo, specie in concorrenza con l'altrui diritto. Problema assai difficilmente risolvibile.
Non si stenta molto, infatti, a rendersi conto delle difficoltà che implica, senza l'ausilio di norme positive, «
la ricerca di un criterio supremo, che, all'infuori e al di sopra di qualsiasi limitazione specifica, venga a stabilire un limite generale all'esercizio della proprietà e in pari tempo un limite generale di tolleranza, che permetta, per così dire, di irradiare fuori dal proprio fondo ».
Quando si parla di limiti, si presuppone l'esistenza di
norme positive, qualunque sia l'estensione e il carattere di tali limiti e la natura dell'interesse che si vuole proteggere. Limiti che non si ricollegano a norme determinate è una contraddizione in termini: infatti, in sostanza, gli autori tentavano di generalizzare le regole particolari dettate per le c.d. servitù nascenti dalla legge, per estrarre da quelle il preteso criterio generale, senza tener conto della illegittimità di tale procedimento ermeneutico, in contrasto con l'art. 4 disp. prel.
L'autonomia del divieto delle immissioni rispetto al problema dell'abuso del diritto, del divieto degli atti di emulazione e della colpa aquiliana
L'iniziale, insopprimibile difficoltà logica, spiega pure come si potesse fare ricorso al
principio del divieto degli atti emulativi o alle regole riguardanti il quasi delitto civile.
Sotto la vigenza del codice abrogato si incontravano non poche difficoltà ad ammettere l'esistenza del generale divieto di atti emulativi, poiché non pareva legittimo desumerlo dalla teoria dell'abuso del diritto, viziata essa stessa da una intima contraddizione logica e non sorretta da elementi positivi. D'altra parte le disposizioni invocate (art. 544-545, 600-606, 609-610, 612-613, 675, 1723 n. 2 codice del 1865) erano ispirate ad esigenze concrete di natura particolare ed era stato giustamente osservato «
che quando si ammettesse che i citati articoli veramente fossero riferibili all'emulazione, non vi sarebbe prova migliore di queste particolareggiate restrizioni esplicite poste dal legislatore per mostrare l'inesistenza di un divieto di massima, e quindi l'ammissibilità generica dell'emulazione ». Nè si pensava che le limitazioni che la stessa dottrina poneva al divieto degli atti emulativi, specie con il richiedere (come fa il codice attuale) l'intenzione di nuocere al vicino e la mancanza di utilità per il proprietario, non consentivano neppure di porre un problema i cui termini vanno molto al di là di quelli entro cui la dottrina conteneva il divieto degli atti di emulazione. Infine non si pensava che l'assunzione di tale divieto come punto di partenza doveva logicamente condurre alla soppressione del problema dei rapporti di vicinato, che, in definitiva, si riduceva a una duplicazione di quello da cui si prendevano le mosse. Tale esigenza, logica e pratica insieme, ha appunto ispirato al nuovo legislatore due distinte ed autonome disposizioni.
Per quanto riguarda poi il ricorso alle norme sulla
colpa aquiliana, è facile rilevare che esse, anziché offrire un criterio per risolvere il problema dei rapporti di vicinato, presuppongono la risoluzione di tale problema. Infatti perché si possa chiedere il risarcimento del danno occorre che questo sia ingiusto, e cioè che l'atto sia illegittimo; e il problema dei rapporti di vicinato consiste appunto nella determinazione del criterio in base al quale l'atto di esercizio del diritto di proprietà possa considerarsi legittimo, in quanto contenuto nei limiti consentiti dalla legge, ovvero illegittimo, in quanto eccedente tali limiti.
Le varie specie di influenza sul fondo altrui
Bisogna dunque ricorrere ad altri criteri, e infatti, la disposizione che si commenta non offre nessun appiglio alle tesi sopra esposte e criticate.
Per delimitare meglio il campo d'indagine, distinguiamo, sulla scorta di dottrine tradizionali, le
varie specie di atti per mezzo dei quali il proprietario di un fondo può influire sulla proprietà altrui. Rispetto alla loro natura, questi atti possono essere temporanei (od episodici) o duraturi (o permanenti); circa il modo dell'influenza possono essere immediati o mediati; circa gli effetti, possono essere sensibili o meno al vicino; quanto all'oggetto, possono toccare direttamente la cosa o le persone del proprietario; quanto alla qualità delle conseguenze possono essere materiali o immateriali.
La
prima distinzione è priva di importanza: sia temporaneo o permanente il pregiudizio, se è veramente tale e l'atto è illegittimo, deve essere rimosso. Tutt'al più la natura può influire sulla determinazione del danno e sulle statuizioni accessorie tendenti a rimuoverne le conseguenze ed eventualmente a cautelare per l'avvenire colui che l'ha subito.
La
seconda distinzione è invece rilevante, poiché, in base ai principi, le turbative immediate devono ritenersi illegittime. Turbartiva immediata è, infatti, quella che inizia il suo ciclo di influenza e lo compie interamente nella sfera del vicino, mentre è mediata quella che inizia il suo ciclo nella sfera di influenza di un proprietario da cui si estende in quella del vicino. La disposizione in esame si riferisce chiaramente alle turbative mediate: «
il proprietario di un fondo non può impedire.... derivanti dal fondo del vicino ».
Anche la
terza distinzione ha la sua importanza, poiché, infatti, se il vicino non percepisce neppure gli effetti degli atti compiuti dall'altro proprietario nel proprio fondo, viene meno la base pratica (mancando l'interesse) di ogni discussione. Ma a questo proposito è da tenere presente che turbative percepibili possono essere più o meno gravi, e in questo campo il compito del legislatore e dell'interprete consiste nel dosare gli opposti interessi, di modo da stabilire una equilibrata tutela di entrambi, con prevalenza di quello che di tale tutela è più degno, e la determinazione del limite entro il quale la tutela di entrambi deve essere contenuta.
La terza distinzione potrebbe dare luogo ad una
esclusione arbitraria, poiché si potrebbe ritenere tutelabile il vicino solo in relazione alle turbative che toccano la cosa, e non a quelle che riguardano la sua persona. E l'esclusione sarebbe arbitraria poiché il godimento della cosa implica, in fatto, il rapporto della persona con la cosa. E non solo della persona del proprietario, poiché se la cosa viene data in locazione il locatario deve pure goderne, in luogo e in vece del proprietario da cui deriva il suo diritto. Si potrebbe ritenere applicabile il principio per cui, poiché se è vero che si tratta di molestie arrecate da persone che non pretendono di avere diritti sulla cosa locata, non è meno vero che le molestie provengono da persone che ritengono di avere sulla propria cosa diritti che eccedono il limite posto dalla legge, sì da toccare la sfera del diritto del vicino. Si tratta, cioè, di un'attività in cui si esprime l'illegittima imposizione di un limite al diritto altrui.
Naturalmente anche le
persone di famiglia o conviventi con il proprietario hanno diritto alla stessa tutela, poiché fa parte pure delle facoltà costituenti il contenuto della proprietà quella di estendere ad altri il godimento della cosa, senza dire che, per le persone di famiglia, l'esercizio di tale facoltà non è libero, ma imposto dalla legge, che stabilisce particolari obblighi a carico di un coniuge rispetto all'altro, e a carico dei genitori rispetto ai figli, nonché dei figli rispetto ai genitori. D'altro canto la tutela accordata alle persone conviventi con il proprietario è la stessa accordata al proprietario, poiché basterebbe l'interesse di questi affinché gli atti illegittimi del vicino fossero colpiti. Nè si potrebbe ammettere una tutela intermittente, cioè limitata al tempo in cui il proprietario è materialmente presente nel suo fondo (ciò che ave valore pratico rispetto agli atti temporanei), perché bisogna aver riguardo non tanto alle modalità materiali in cui il rapporto si concreta, quanto al rapporto come tale, che non ammette soluzioni di continuità.
L'
ultima distinzione riflette un momento che può ritenersi ormai superato anche in dottrina: da tempo, infatti, si parla anche di immissioni immateriali, oltre che materiali, come punto di riferimento della tutela del diritto di proprietà.
La disposizione in esame contiene un
elenco esemplificativo, che non pare comprensiva tanto delle immissioni materiali quanto di quelle immateriali. Infatti essa considera le immissioni di fumo e di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo vicino, che sono tutte immissioni materiali.
Rimane dunque irrisolta, anzi risolta negativamente, la questione che aveva dato luogo a un numero rilevante di opinioni: quella relativa alla vicinanza di case di tolleranza. Si capiva all'epoca che non si trattava di quegli atti che sollevavano scandalo e, quindi, come delitti o contravvenzioni cadevano sotto la sanzione delle leggi penali o di polizia, ma anche dal semplice fatto dell'eccezionale, anzi anormale frequentazione del locale. Anche se, sottilizzando, si fossero ritenute queste immissioni materiali, per il fatto che, per essere percepite dal senso della vista, presupponevano la vibrazione dell'etere cosmico, o, comunque, la propagazione della luce, non si poteva certo dire che esse erano per natura simili a quelle espressamente indicate nella legge.
La conseguenza che ne derivava era piuttosto grave: mentre, infatti, sotto la vigenza del codice abrogato la mancanza di una norma apposita poteva consentire una certa libertà di interpretazione, in passato l'esistenza della norma poneva dei limiti che non si potevano superare. Appunto per questo la questione veniva risolta in senso negativo.
Qui tuttavia agli inconvenienti pratici poteva ovviare la Pubblica Amministrazione, sia prendendo minute cautele a tutela della pubblica decenza, sia addirittura assegnando determinate zone su cui tali case siano confinate. Però il privato non aveva tutela diretta: egli aveva solo il diritto di denunciare le eventuali infrazioni, per provocare l'applicazione delle sanzioni penali o amministrative, ma non poteva chiedere il risarcimento di danni o cautele personali.
Impostazione del problema del rapporto di vicinato
Torniamo, per l'esatta impostazione delle questioni, al punto di partenza: il compito fondamentale consiste nella ricerca del limite (reciproco) al diritto di proprietà su fondi vicini. I diritti, dunque, vanno considerati in relazione alle
cose cui si riferiscono: trattandosi di fondi contigui, che per semplificare si possono supporre collocati su di un medesimo piano, in teoria sarebbe da ritenere che la sfera d'influenza o limite interno di ciascun diritto sia delimitata dalla figura solida risultante innalzando le perpendicolari, sul piano del suolo, da tutti i punti estremi della figura che di ciascun fondo determina il perimetro. Lungo le varie linee di confine verrebbe così ad innalzarsi uno schermo che dividerebbe la zona di influenza di un proprietario da quello dell'altro, e l'attività legittima di esercizio del diritto da parte di ciascun proprietario dovrebbe fermarsi davanti a questo schermo.
Ma già si è visto in pratica che questo ideale teorico non regge: infatti l'attività che un proprietario esercita nel proprio fondo può estendere la sua influenza al fondo del vicino. Da qui il problema del limite e la proposizione dei diversi criteri per la sua determinazione.
Rimanendo fedeli alla suddetta premessa teorica, si tratta di determinare la zona (necessaria) di influenza o di mancata reattività di un diritto in relazione a certe invasioni (ad esso esterne) provenienti dall'esercizio del diritto di proprietà sul fondo vicino, e reciprocamente la zona legittima di espansione del diritto di proprietà su di un fondo entro la sfera di quello del fondo vicino.
Le varie teorie proposte per la sua soluzione
In astratto può essere indifferente considerare l'uno o l'altro aspetto, perché essi sono reciproci: in concreto, invece, tale indifferenza non sussiste, tant'è vero che alcuni fanno capo a uno di tali aspetti, altri fanno capo all'altro.
Con riferimento alla tendenza più comune, tale divergenza di punti di vista è facilmente riscontrabile.
Si allude alla c.d.
teoria dell'uso normale, secondo la quale ogni proprietario può fare nel suo fondo ciò che è normale per l'uso di quel fondo (non quello che è giusto o utile, si noti bene, ma quello che è normale): se dai fatti che rientrano nella vita normale si produrrà qualche invasione del fondo altrui, questa dovrà essere tollerata (come accade per esempio per il fumo proveniente dal fuoco che si fa per cucinare): ma non vi è questa necessità di tolleranza per gli usi che esorbitano dalla sfera della normalità dell'uso della proprietà.
Fu però osservato che il criterio dell'uso normale è arbitrario e conduce ad applicazioni erronee. Non si capisce, infatti, per quale ragione logica si possa imporre una misura media che può impedire lo sfruttamento più naturale della cosa. E quanto alle applicazioni, come si può qualificare atto normale il tagliare le vene idriche del vicino, con opere nel fondo proprio, pure se esso non si possa reprimere, nè dà diritto a risarcimento dei danni.
La norma in esame procede dal punto di vista opposto e delinea il limite con riferimento alla normale tollerabilità. Il criterio è, in sè, più legittimo, perché non si traduce nella imposizione di una restrizione su basi statistiche allo sfruttamento della cosa, ma, presupposto questo sfruttamento come libero, tende alla tutela dell'interesse del vicino, in relazione al concreto attuarsi dello sfruttamento stesso.
Il criterio della legge, tuttavia, rimane generico e le sue pratiche applicazioni sono rimesse al prudente arbitrio del magistrato: a restringere la genericità del criterio vale il riferimento alla condizione dei luoghi, ma anche la valutazione del peso da assegnarsi a tale elemento è rimessa al prudente arbitrio del giudice. Per la determinazione del vero significato della norma, è necessario avvertire che con l'espressione
condizione dei luoghi si vuole alludere alla condizione materiale piuttosto che a quella sociale, a cui, invece, si fa riferimento alla fine dell'alinea 2.
Il criterio della prevenzione come criterio complementare
Fu pure proposto, sotto la vigenza del codice abrogato, il c.d.
criterio della prevenzione, fondato sulla massima
prior in tempore potior in iure; ma fu giustamente osservato che, in relazione alla questione che ci occupa, non tanto vale il prima o il poi, quanto il criterio che possa armonizzare le proprietà confinanti. D'altra parte quel principio viene, di solito, applicato alla risoluzione di conflitti tra più diritti reali sulla stessa cosa, non tra due diritti di proprietà su cose differenti. Infine «
non è che casualmente vera la sua opportunità pratica ».
Se ne deduce che il criterio della prevenzione non potrebbe essere adottato come criterio generale ed esclusivo, ma ciò non importa necessariamente che esso debba essere del tutto scartato, e non possa, invece, essere utilizzato come criterio complementare. In tal senso, infatti, lo ha adottato il nuovo legislatore, dando al giudice la facoltà di tenere conto della priorità d un determinato uso. Su questa via si era già spinta la giurisprudenza, soprattutto in relazione a certi casi-limite, e a tal proposito è stato autorevolmente rilevato che maggiore dovrebbe infatti essere il rigore nel caso, per esempio, in cui si impiantasse uno stabilimento per la fabbricazione di concimi chimici o altre sostanze simili, e viceversa, più largo dovrebbe essere il trattamento nel caso in cui il reclamante abbia costruito una casa di abitazione in località costituente zona industriale, e perciò ricca di vari stabilimenti.
Ma tra questi casi estremi c'è tutta una gamma ricchissima di situazioni intermedie, sulla quale dovrà esercitarsi il prudente arbitrio del magistrato.
Il prudente arbitrio del giudice
Dalle osservazioni che precedono si rileva che il sistema della uova legge, ispirandosi ad esigenze pratiche e alla necessità di tutelare armonicamente gli interessi in conflitto non ha seguito nessuno dei criteri proposti dalla dottrina, ma ha fissato dei capisaldi, dei punti di orientamento, con riferimento ai vari criteri, e si è affidata al
prudente arbitrio e sensibilità del giudice.
Tuttavia non ha mancato di stabilire una
direttiva di indole generale. Era stato rilevato, in sostanza, che i più acuti casi di conflitto derivavano dell'espansione dell'attività industriale, le cui esigenze sono soverchianti rispetto a quelle del più comune sfruttamento dei fondi ad uso agricolo o civile. L'importanza sociale dell'attività industriale condusse all'affermazione dei criteri troppo rigidi che presiedevano alla tutela del diritto di proprietà. Questo punto non ha perduto di vista il nuovo legislatore, che ha perciò imposto all'autorità giudiziaria un criterio generale che deve presiedere all'applicazione della norma regolante i rapporti di vicinato. Esso consiste nel contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà.
Il criterio è stato opportunamente generalizzato: non si parla, infatti, solo delle esigenze dell' industria, ma, in genere, delle esigenze della produzione. D'altra parte, nella sua massima generalizzazione il criterio predetto si fonda sulla distinzione tra la proprietà, nel suo aspetto statico, come titolo di godimento, comprensivo anche dei titoli che da essa derivano, e il lato dinamico dello sfruttamento produttivo della cosa. Il problema, dunque, si sposta sul piano dinamico dell'effettivo godimento, sul quale si impone al giudice l'obbligo di dosare le esigenze che presiedono, in atto, all'una o all'altra forma di godimento, e di decidere in base a tali esigenze. Per questa via si fa strada non solo quello che si direbbe elemento sociale di valutazione, ma forse un criterio che potrebbe, almeno in largo senso, dirsi corporativo.
La conferma di tale affermazione si ricava da
elementi positivi: anzitutto dall'art.
811 si deduce che i beni in relazione alla loro funzione economica e alle esigenze della produzione nazionale sono sottoposti alla disciplina dell'ordinamento corporativo, ciò che conferma la necessaria dipendenza di tutto ciò che attiene alla produzione dal sistema corporativo. Inoltre, l'organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale (Dich. VII C.d.L.), non può la tutela della produzione, qualunque aspetto sia per assumere, attuarsi con criteri estranei all'ordinamento corporativo.
La norma generale e le norme speciali concernenti i rapporti di vicinato
Sotto l'impero del codice abrogato, pur mancando una norma generale che regolasse i rapporti del vicinato, e dovendosi perciò ricorrere alle norme speciali, anche per desumere il criterio direttivo generale, si tenevano distinte le situazioni rientranti nello schema della norma generale da quelle regolate da norme particolari.
Tale distinzione va mantenuta
a fortiori nel nuovo codice, altrimenti di fronte alle norme specifiche contenute, in massima parte, nelle sezioni VI, VII, VIII e IX del Capo II del presente Libro, non avrebbero più giustificazione le norme contenute nell'articolo in esame. E la distinzione ha una notevole portata pratica: può, infatti, ritenersi ed è stato ritenuto che, quando entrino in applicazione le norme particolari, la rigorosa osservanza di queste metta il proprietario al riparo da ogni azione da parte del vicino. La conferma si deduceva dall'art. 573 ult. capov. del codice abrogato, nel quale si faceva l'ipotesi dell'insufficienza delle distanze prescritte ad evitare il danno e si dava al giudice la facoltà di stabilire distanze maggiori e far eseguire le opere occorrenti a riparare e mantenere riparata la proprietà del vicino. L'
art. 889 del c.c. non ha conservato tale facoltà, e costituisce quindi un indice che convalida la tesi enunciata. Tanto più che l'art. 62 del progetto consentiva all'autorità giudiziaria di fissare distanze non solo maggiori, ma anche minori.
Tuttavia, le relazioni tra la norma generale che regola i rapporti di vicinato e le norme speciali devono essere precisate rigorosamente. Non si deve, infatti, ritenere che le norme speciali deroghino in maniera assoluta a quella generale, escludendone la totale applicazione, ma si deve piuttosto ritenere che alla disciplina dettata dalla norma generale sfugga quel particolare aspetto che le norme speciali hanno regolato. Così, ad es., se sono state osservate le distanze imposte dall'art.
889 per l'apertura di fosse, pozzi, cisterne e simili, il proprietario del fondo vicino non potrà avanzare pretese nè per la rimozione delle opere, nè perché siano stabilite maggiori cautele, nè per ottenere il risarcimento dei danni. Ma, evidentemente, per tutto ciò che non attiene all'apertura di fosse ecc., e alle relative distanze, sarà sempre da applicare la norma generale (o specificamente per altri concreti aspetti, le altre norme speciali).
Contenuto e mezzi della tutela contro le immissioni
Qual è il contenuto della tutela concessa dalla norma in esame e quali sono i mezzi con i quali essa si esplica?
Quanto al
contenuto: sul presupposto del diritto di proprietà del fondo al quale l'influenza degli atti nocivi o intollerabili si estende, spetta la pretesa tendente alla rimozione dell'attività e dell'opera illegittime. Eventualmente l'autorità giudiziaria può stabilire delle cautele, anziché ordinare la rimozione dell'opera o la cessazione dell'attività. Le cautele possono essere stabilite anche al fine di evitare che l'attività possa essere compiuta in divenire, con le stesse conseguenze nocive o intollerabili per il vicino. La prova dell'illegittimità dell'opera o dell'attività deve essere data dall'autore che ne richiede la rimozione o cessazione non solo per il principio generale che governa la distribuzione dell'
onus probandi, ma anche per il fatto che l'attività del proprietario compiuta nel proprio fondo deve presumersi legittima, sia pure
iuris tantum.
Il
mezzo di difesa concesso a tal fine è l'
azione negatoria, poiché il vicino tende a difendere il suo diritto di proprietà contro il tentativo di aggravarlo con un onere anormale. E che si tratti dell'azione negatoria in senso proprio si deduce dal fatto che, esorbitando dal limite legale, l'atto del proprietario confinante non può considerarsi come atto di esercizio del proprio diritto, esso è, quindi un atto libero, e pu dare luogo all'acquisto di una vera servitù ove ne esistano i presupposti.
Ma il vicino può chiedere anche il
risarcimento dei danni: non c'è dubbio che, essendo l'atto dell'altro proprietario illegittimo, il vicino possa chiedere il risarcimento in base alle regole generali della colpa aquiliana, provando s'intende la colpa dell'autore del danno.
In realtà, però, indipendentemente dall'applicazione delle disposizioni sulla colpa aquiliana, la responsabilità del proprietario confinante che ecceda i limiti legali nell'esercizio del diritto di proprietà è di natura oggettiva, perché non riguarda direttamente ed esclusivamente i rapporti personali tra i vari soggetti, ma mira a proteggere immediatamente il diritto di proprietà, e solo mediatamente, di riflesso, la persona del proprietario o di coloro che da lui derivanti diritti di godimento dalla cosa, o con lui partecipano a tale godimento.
D'altra parte, se si ammette nel vicino la pretesa di far rimuovere l'opera o di far cessare l'attività del proprietario confinante, è assurdo non riconoscergli il diritto al risarcimento del danno già verificatosi, poiché, in sostanza, la prima pretesa mira ad eliminare il danno che potrebbe verificarsi in avvenire. E se non è presupposta la colpa per l'eliminazione del danno futuro, non si capisce perché essa debba essere presupposta per il risarcimento del danno passato. In sostanza, se il vicino avesse agito subito, o preventivamente (mediante l'azione di danno temuto) avrebbe conseguito la prima tutela, evitando ogni danno; e non si può paragonare a negligenza capace di compensare la responsabilità del proprietario confinante o configurare come una specie di decadenza il ritardo nel proporre l'azione. Questa, nell'uno o nell'altro senso – come rimozione e come risarcimento – tende alla tutela della proprietà, e non può essere colpita da decadenze non previste dalla legge.