Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale del Riesame di Trieste aveva disposto il sequestro preventivo dei cani di una donna, che era stata indagata per i reati sopra citati.
I vicini di casa della donna, infatti, avevano fatto un esposto, evidenziando alle Autorità competenti che i cani della stessa causavano rumori e cattivi odori, in quanto erano tenuti in cattive condizioni igieniche da diversi anni.
La donna, ritenendo il provvedimento ingiusto, impugnava il medesimo dinanzi alla Corte di Cassazione, denunciando la violazione di legge penale.
Secondo la ricorrente, in particolare, il sequestro preventivo dei cani doveva considerarsi legittimo “solo in caso di loro maltrattamento; al contrario, gli animali di compagnia non possono essere considerati "cose pertinenti al reato", in quanto esseri senzienti”.
La ricorrente evidenziava, inoltre, che l’abbaiare dei cani è un “fatto naturale ed è frutto di istinto insopprimibile”, con la conseguenza che il reato di cui all’art. 659 cod. pen. può ritenersi sussistente “solo se esso sia continuo ed ininterrotto e tale da impedire il riposo notturno”.
Secondo la ricorrente, peraltro, il Giudice “aveva confuso la pluralità dei denuncianti con l'indeterminatezza delle potenziali persone offese, poiché il reato sussiste solo se l'abbaiare dei cani è tale da disturbare un numero indeterminato di persone”.
Quanto al reato di cui all’art. 674 cod. pen., invece, secondo la ricorrente, nel caso di specie, non ne sussistevano i presupposti, in quanto non sussisteva alcun “pericolo per la salute pubblica, che costituisce la ratio dell'incriminazione”. Le emissioni, infatti, “non superavano la normale tollerabilità”, trattandosi “di singoli escrementi presenti nel cortile per un periodo di tempo ignoto”. Del resto, anche il Veterinario Comunale “aveva negato che dalla mancata pulizia del cortile emergessero problematiche di carattere igienico”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
La Corte di Cassazione, in particolare, osservava come gli animali possano costituire oggetto di sequestro preventivo, dal momento che gli stessi, ai fini civilistici, sono considerati delle “cose”.
Secondo la Cassazione, inoltre, “riconoscere i cani come "esseri senzienti" - qualunque portata si voglia attribuire a tale espressione - non muta affatto, in maniera vincolante sul legislatore nazionale e sul giudice, il loro regime giuridico, tenuto conto che, rispetto a determinate specie animali, l'uomo ha sempre riconosciuto una capacità, maggiore o minore, di comprendere e di relazionarsi con l'uomo stesso”.
Precisava la Corte, in proposito, che non può procedersi alla “equiparazione tra le esigenze lecite dell'uomo e quelle dell'animale, così da giungere addirittura a ritenere la condotta umana sproporzionata per essere l'interesse che la muove meno importante della garanzia di benessere dell'animale: gli uomini sono superiori agli animali, sono padroni degli animali e li utilizzano per le loro esigenze, sia pure tentando di evitare loro sofferenze superflue perchè non collegate al soddisfacimento dell'interesse umano”.
Il sequestro, peraltro, osservava la Cassazione, “produce la (non provata) minore sofferenza possibile per gli animali interessati, che non vengono nè uccisi, nè feriti o maltrattati, ma soltanto trasferiti in un diverso luogo di custodia”.
Quanto alla sussistenza dei presupposti del reato di cui all’art. 659 c.p., poi, la Corte di Cassazione chiariva che “la norma incriminatrice impone ai padroni degli animali di "impedirne lo strepito", cosicchè non può essere invocato un "istinto insopprimibile" del cane per sostenere l'insussistenza del reato”.
Per l’integrazione del reato, infatti, “è sufficiente l'idoneità della condotta ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, non occorrendo l'effettivo disturbo alle stesse”.
Quanto, infine, alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 674 c.p., la Cassazione riteneva che il medesimo potesse configurarsi “anche nel caso di emissioni moleste "olfattive" che superino il limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c.”, dal momento che la norma non richiede che “la condotta contestata abbia cagionato un effettivo nocumento, essendo sufficiente che essa sia idonea a molestare le persone”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione riteneva che il sequestro preventivo dei cani, disposto dal Tribunale del riesame fosse pienamente legittimo, trattandosi “di cose pertinenti ai reati contestati la cui disponibilità da parte dell'indagata può protrarre la loro consumazione”, rigettando, pertanto il ricorso proposto dalla donna proprietaria dei cani e condannando la medesima al pagamento delle spese processuali.