Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Vicenza aveva condannato l’imputata alla pena dell’ammenda e al risarcimento del danno alla parte civile “per avere cagionato, quale titolare di una pizzeria, molestia e disturbo agli inquilini residenti negli appartamenti posti al di sopra del locale, a causa degli odori derivanti dalla cottura”.
Giunti dinanzi alla Corte di Cassazione, l’imputata evidenziava l’erroneità della pronuncia, trattandosi, nella specie, “di una delle tante cause proposte dei vicini nei confronti della pizzeria, la quale si era trasferita altrove anche per atti di sabotaggio che aveva subito in ore notturne”.
Il Giudice, in particolare, non avrebbe adeguatamente considerato che “in presenza di molestie di tipo di tipo olfattivo, la valutazione della normale tollerabilità è rimessa al giudice, che la deve effettuare in base al criterio di stretta tollerabilità”.
Inoltre, secondo la ricorrente, “vi sarebbe stato un travisamento dei fatti, perché gli odori caratteristici della pizza erano inidonei a cagionare molestie olfattive vere e proprie, e che le prove le prove orali sul punto risultavano contraddittorie. Nessuno dei testimoni, infatti, avrebbe ritenuto insopportabili le esalazioni, pur avendole percepite”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter accogliere il ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, in particolare, la sentenza impugnata appariva adeguatamente e sufficientemente motivata dal momento che le prove testimoniali risultavano “sostanzialmente convergenti nell’affermare che i cattivi odori derivanti dalla cottura delle pizze nell’esercizio dell’imputata si avvertivano anche a finestre chiuse e comunque sul vano scala e nella zona del garage e, in alcuni orari, invadevano le stanze dei vari appartamenti”.
Tali odori, peraltro, “erano stati percepiti anche dal funzionario della ASL che aveva proceduto all’accertamento dei fatti e, seppure in misura minore, dal tecnico dell’Agenzia regionale per l’ambiente”.
Del tutto correttamente, dunque, il giudice di primo grado aveva “concluso per la sussistenza del superamento del limite delle normale tollerabilità, che funge da criteri di legittimità delle emissioni ai sensi della seconda parte dell’art. 674 del c.p.”.
In sostanza, secondo la Cassazione, il criterio fondamentale per ritenere o meno integrato il reato di cui all’art. 674 del c.p. è quello della “normale tollerabilità”, che impone ai soggetti di sopportare un certo livello di immissioni, potendosi avanzare le proprie rimostranze solo laddove le stesse superino una certa soglia di disturbo, divenendo, appunto intollerabili.
Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione rigettava il ricorso proposto, confermando la sentenza resa dal giudice di primo grado e condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali.