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Articolo 192 Codice di procedura penale

(D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447)

[Aggiornato al 30/11/2024]

Valutazione della prova

Dispositivo dell'art. 192 Codice di procedura penale

1. Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati [546 1 lett. e)](1).

2. L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti [2729](2).

3. Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità [210, 238 bis, 500 4].

4. La disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'articolo 371 comma 2 lettera b)(3).

Note

(1) Il principio del libero convincimento del giudice incontra il limite dell'obbligo di motivazione, per soddisfare il quale è tenuto a ricostruire il percorso logico-conoscitivo e a trarne quindi determinate conclusioni.
(2) Non rilevano elementi di natura solo indiziaria a patto che non siano gravi, precisi e concordanti, ovvero consentano di ricostruire il fatto, la vicenda storica oggetto delle indagini, in senso univoco e comunque tale da escludere altre ragionevoli ipotesi.
(3) Trattasi di una sorta di presunzione relativa di inattendibilità delle suddette dichiarazioni, delle quali può tenersi conto solo se sono stati acquisiti altri elementi probatori idonei a comprovarne la credibilità.

Ratio Legis

Secondo una prospettiva di rigorosa tutela della legalità sul terreno probatorio, la norma in esame è atta a ribadire il principio del libero convincimento del giudice.

Spiegazione dell'art. 192 Codice di procedura penale

Per quanto concerne il regime di valutazione delle prove, la norma in oggetto ribadisce innanzitutto il principio del libero convincimento del giudice, in un’ottica di rigorosa tutela della legalità sul piano probatorio. Il principio in esame viene affermato con esclusivo riferimento al momento della valutazione della prova, e può attenere solo alle prove legittimamente acquisite. Va dunque esclusa l’eventualità che il giudice formi il proprio convincimento al di fuori di tale ambito, perché altrimenti significherebbe fare uso di prove per legge non utilizzabili.

Il rispetto del principio di legalità in ordine al momento valutativo fa sì che vi debba essere un preciso raccordo con la motivazione dei provvedimenti adottati dal giudice, nella quale infatti dovrà tenersi conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. In sintesi, dunque, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti rappresenta da un lato un limite intrinseco alla libertà di convincimento del giudice, dall’altro lato si configura come premessa logica irrinunciabile in ordine al successivo controllo sulla formazione di quel convincimento.

Il giudice deve ricostruire il percorso logico-conoscitivo che lo ha convinto a valutare positivamente o negativamente le prove disponibili ed utilizzabili ed a trarne le dovute conclusioni. Difatti, il giudice deve altresì enunciare le ragioni per le quali ritiene non attendibili le prove contrarie.

Ad ogni modo, la norma in commento delimita il libero apprezzamento del giudice in due precisi ambiti: in generale, si esclude che possano essere utilizzati elementi di natura solamente indiziaria, a meno che tali elementi siano gravi, precisi e concordanti.

In secondo luogo, in relazione alle dichiarazioni dei coimputati nel medesimo reato o degli imputati in un procedimento connesso ex art. 12, la norma stabilisce che esse devono sempre essere valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità.

Il medesimo principio vale altresì in riferimento alle dichiarazioni rese dall’imputato in un reato collegato a quello per cui si procede ex art. 371 co.2, nonché in relazione alle dichiarazioni all’imputato che abbia assunto l’ufficio di testimone ex art. 197 bis. Così facendo, il codice opera una presunzione di inattendibilità delle dichiarazioni rese da tali soggetti, permettendone l’utilizzabilità solo quando corroborate da altri elementi probatori.

Massime relative all'art. 192 Codice di procedura penale

Cass. pen. n. 25266/2017

In tema di chiamata di correo, l'esclusione dell'attendibilità per una parte del racconto non implica, per il principio della cosiddetta "frazionabilità" della valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento alle altre parti intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate, a condizione che: non sussista un'interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti; l'inattendibilità non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante; sia data una spiegazione alla parte della narrazione risultata smentita - per esempio, con riferimento alla complessità dei fatti, al tempo trascorso dal loro accadimento o alla scelta di non coinvolgere un prossimo congiunto o una persona a lui cara - in modo che possa, comunque, formularsi un giudizio positivo sull'attendibilità soggettiva del dichiarante.

Cass. pen. n. 24850/2017

In tema di chiamata di correo, quando le dichiarazioni accusatorie siano plurime e sussista il dubbio di artificiose consonanze, al giudice è fatto obbligo di verificare non soltanto se la convergenza non sia l'esito di collusione o di concerto calunnioso, ma anche se non sia il frutto di condizionamenti o reciproche influenze, dovendo egli valutare la sussistenza di fenomeni di allineamento delle indicazioni più recenti rispetto a quelle raccolte per prime. (Fattispecie relativa a due convergenti chiamate in correità, con riferimento alle quali la Corte ha escluso che potesse essersi verificato un fenomeno di allineamento della seconda alla prima, essendo il successivo dichiarante certamente all'oscuro, al momento della sua collaborazione, delle precedenti dichiarazioni rese da un soggetto a lui sconosciuto).

Cass. pen. n. 21977/2017

Le dichiarazioni rese dalla vittima del reato affetta da deficit psichico non sono di per sè inattendibili, ma obbligano il giudice non soltanto a verificarne analiticamente la coerenza, costanza e precisione, ma anche a ricercare eventuali elementi esterni di supporto. (Fattispecie relativa alle dichiarazioni rese da un soggetto con ritardo mentale rilevante, vittima del reato di circonvenzione di incapace).

Cass. pen. n. 20884/2017

Ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, sussiste un effettivo contrasto fra le opposte versioni rese dall'imputato e dalla persona offesa, oggetto di valutazione da parte del giudice anche al fine di verificare l'attendibilità di quest'ultima, solo nel caso in cui sia l'imputato personalmente ad aver fornito la contrastante versione dei fatti, non essendo sufficiente invece una mera prospettazione da parte del suo difensore. (In applicazione di questo principio la S.C. ha rigettato il ricorso dell'imputato, accusato di violenza sessuale, rilevando che la tesi del rapporto sessuale consensuale era stata prospettata dal solo difensore, mentre l'imputato aveva dichiarato invece che il fatto non si era verificato).

Cass. pen. n. 18940/2017

In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, qualora una chiamata in correità riguardi la condotta di partecipazione al sodalizio o di direzione dello stesso, un riscontro esterno individualizzante - idoneo, ai sensi dell'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. a conferire alla chiamata valore di prova -, è costituito dalla partecipazione del singolo chiamato alla consumazione dei delitti fine dell'associazione, atteso che, attraverso tale condotta, si manifesta il ruolo effettivo e dinamico del singolo nel gruppo criminale, e, quindi, la sua adesione ad esso.

In tema di chiamata in correità relativa al delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, i rapporti - consistenti in contatti, relazioni e frequentazioni - del chiamato con altri esponenti della organizzazione criminale e con i soggetti posti in posizione verticistica, sono, in principio, inidonei, da soli, a fondare la pronuncia di responsabilità per il suddetto reato; tuttavia, in presenza di una chiamata ritenuta intrinsecamente attendibile ed in mancanza di un possibile significato alternativo, le relazioni qualificate costituiscono elementi idonei a rappresentare riscontro esterno individualizzante ai sensi dell'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., ed a fondare la pronuncia di affermazione di responsabilità.

Cass. pen. n. 648/2017

In tema di testimonianza del minore vittima di abusi sessuali, il giudice non è vincolato, nell'assunzione e valutazione della prova, al rispetto delle metodiche suggerite dalla cd. "Carta di Noto", salvo che non siano già trasfuse in disposizioni del codice di rito con relativa disciplina degli effetti in caso di inosservanza, di modo che la loro violazione non comporta l'inutilizzabilità della prova così assunta; tuttavia, il giudice è tenuto a motivare perchè, secondo il suo libero ma non arbitrario convincimento, ritenga comunque attendibile la prova dichiarativa assunta in violazione di tali metodiche, dovendo adempiere ad un onere motivazionale sul punto tanto più stringente quanto più grave e patente sia stato, anche alla luce delle eccezioni difensive, lo scostamento dalle citate linee guida.

Cass. pen. n. 48571/2016

In tema di valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni rese da vittima minorenne, la sottoposizione del dichiarante al cd. test di Rorschach non costituisce prova decisiva la cui mancata assunzione integra vizio della decisione ai sensi dell'art. 606, comma primo, lettera d), cod. proc. pen., in quanto il predetto test rappresenta solo uno dei diversi metodi scientifici di indagine psicologica sulla personalità del minore adoperati per stimarne la maturità psichica e la capacità a testimoniare, il cui utilizzo è rimesso alla discrezionalità del perito.

Cass. pen. n. 47304/2015

In tema di valutazione della prova, allorché il chiamante in correità renda dichiarazioni che concernono una pluralità di fatti-reato commessi dallo stesso soggetto e ripetuti nel tempo, l'elemento di riscontro esterno per alcuni di essi fornisce sul piano logico la necessaria integrazione probatoria della chiamata anche in ordine agli altri, purché sussistano ragioni idonee a suffragare tale giudizio e ad imporre una valutazione unitaria delle dichiarazioni accusatorie, quali l'identica natura dei fatti in questione, l'identità dei protagonisti, o di alcuni di essi, e l'inserirsi dei fatti in un rapporto intersoggettivo unico e continuativo.

Cass. pen. n. 47033/2015

In tema di dichiarazioni rese dal teste minore vittima di reati sessuali, la valutazione della sua attendibilità è compito esclusivo del giudice, che deve procedere direttamente all'analisi della condotta del dichiarante, della linearità del suo racconto e dell'esistenza di riscontri esterni allo stesso, non potendo limitarsi a richiamare il giudizio al riguardo espresso da periti e consulenti tecnici, cui non è delegabile tale verifica, ma solo l'accertamento dell'idoneità mentale del teste, diretta ad appurare se questi sia stato capace di rendersi conto dei comportamenti subiti, e se sia attualmente in grado di riferirne senza influenze dovute ad alterazioni psichiche.

Cass. pen. n. 46100/2015

In tema di valutazione della prova testimoniale, la vulnerabilità della persona offesa, nella misura in cui produce fratture non decisive della progressione dichiarativa, emergenti anche a seguito delle contestazioni, e si manifesta attraverso un contegno timoroso, non è un elemento che può, da solo, determinare una valutazione di inattendibilità, dovendo la credibilità dei contenuti essere valutata anche sulla base della comunicazione non verbale, della quale deve essere verificata la coerenza con le cause della vulnerabilità e, segnatamente, con la relazione che lega il dichiarante con l'accusato. (Nella specie, la S.C. ha reputato immune da censure la valutazione della Corte territoriale, secondo cui l'atteggiamento particolarmente agitato ed impaurito del testimone ne avvalorava l'attendibilità, in quanto pienamente coerente con il clima di intimidazione causato dal comportamento dell'imputato).

Cass. pen. n. 38149/2015

La confessione stragiudiziale dell'imputato assume valore probatorio secondo le regole del mezzo di prova che la immette nel processo e, ove si tratti di prova dichiarativa, con l'applicazione dei relativi criteri di valutazione. (Fattispecie in cui le dichiarazioni confessorie dell'indagato erano entrate a far parte del compendio probatorio attraverso un referto medico confermato dalle dichiarazioni di una testimone ritenuta attendibile dai giudici di merito).

Cass. pen. n. 4150/2015

La dichiarazione liberatoria di un coimputato, o comunque di un soggetto che va esaminato ai sensi dell'art. 197 bis c.p.p., deve essere valutata "unitamente agli altri elementi che ne confermano l'attendibilità" (art. 192, comma terzo, c.p.p.), e non costituisce, pertanto, da sola, "prova nuova" agli effetti della richiesta di revisione, bensì mero elemento probatorio integrativo di quelli confermativi.

Cass. pen. n. 47602/2014

In tema di valutazione della prova, il giudice di merito, in base al principio della scindibilità delle dichiarazioni, ben può ritenere veridica solo una parte della confessione resa dall'imputato, e nel contempo disattenderne altre parti, allorché si tratti di circostanze tra loro non interferenti sul piano logico e fattuale, e sempre che giustifichi la scelta con adeguata motivazione.

Cass. pen. n. 602/2014

In tema di prova indiziaria, alla Corte di Cassazione compete il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi, nonché la verifica della completezza, della correttezza e della logicità del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l'elemento indiziario, ma non, anche, un nuovo accertamento che ripeta l'esperienza conoscitiva del giudice del merito.

Cass. pen. n. 46483/2013

In tema di dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, il c.d. "pentimento", collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche ed all'intento di conseguire vantaggi di vario genere, non può essere assunto ad indice di una metamorfosi morale del soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un'intrinseca attendibilità delle sue propalazioni. Ne consegue che l'indagine sulla credibilità del collaboratore deve essere compiuta dal giudice non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona - e quindi sulla genuinità del suo pentimento - quanto sulle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamati in correità, oltre che sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni.

Cass. pen. n. 43311/2013

In tema di valutazione della prova, nell'applicazione del disposto di cui all'art. 192, comma terzo, c.p.p., una causale del delitto specifica ed univoca non costituisce un semplice indizio, ma può fungere da riscontro a dichiarazioni dotate dei requisiti di credibilità ed attendibilità.

Cass. pen. n. 42482/2013

In tema di valutazione della prova indiziaria, il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo.

Cass. pen. n. 40992/2013

In tema di reati tributari, il tribunale del riesame, chiamato a decidere sul sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, non può rideterminare l'ammontare della imposta evasa (nella specie, calcolata induttivamente mediante studi di settore) e, quindi, il "quantum" da sottoporre al vincolo reale trattandosi di valutazione riservata al giudizio di merito.

Cass. pen. n. 40000/2013

In tema di chiamata di correo, è legittima una valutazione frazionata della dichiarazione a condizione, però, che alla parte ritenuta attendibile possa essere riconosciuta una sua autonomia (nel senso che non sia strettamente interconnessa, sul piano fattuale e logico con quella ritenuta falsa o, comunque, non credibile) e soprattutto che sia data una spiegazione alla parte della narrazione risultata smentita - per esempio con la difficoltà di mettere a fuoco un ricordo lontano; con la complessità dei fatti e la possibile confusione degli stessi e persino con la scelta del dichiarante di non coinvolgere un prossimo congiunto o una persona a lui cara - in modo che possa, comunque, formularsi un giudizio positivo sull'attendibilità soggettiva del dichiarante. (In applicazione del principio, la Corte ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva utilizzato solo una parte delle dichiarazioni di un chiamante in correità, senza fornire alcuna spiegazione delle ragioni per le quali l'inattendibilità di un'altra parte di esse non avesse intaccato la credibilità soggettiva del propalante).

Cass. pen. n. 20804/2013

Alla chiamata in correità o in reità "de relato" si applica l'art. 195 cod. proc. pen. anche quando la fonte diretta sia un imputato di procedimento connesso, ex art. 210 cod. proc. pen., o un teste assistito, ex art. 197 bis, cod. proc. pen.

La chiamata in correità o in reità "de relato", anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purchè siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del "thema probandum"; d) vi sia l'indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l'autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse.

Nella valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di accertare l'esistenza di riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale.

Non costituisce riscontro estrinseco ed individualizzante di una chiamata in correità o in reità "de relato" con cui si attribuisce all'accusato il ruolo di mandante di un omicidio l'esistenza di un semplice interesse da parte del predetto alla commissione del delitto. (In motivazione, la Corte ha evidenziato che tale elemento può spiegare, al più, una funzione orientativa nella valutazione della chiamata).

Cass. pen. n. 16981/2013

L'esame testimoniale del minore, vittima di abusi sessuali, non richiede obbligatoriamente l'assistenza di un esperto di psicologia infantile, non essendo quest'ultima imposta dalla legge. (In motivazione, la S.C. ha ricordato che le Carte intenzionali di Noto e Lanzarote raccomandano, più che la presenza dell'esperto, la videoregistrazione dell'esame).

Cass. pen. n. 8057/2013

In tema di reati sessuali, una volta accertata la capacità di comprendere e riferire i fatti della persona offesa minorenne, la sua deposizione deve essere inquadrata in un più ampio contesto sociale, familiare e ambientale, al fine di escludere l'intervento di fattori inquinanti in grado di inficiarne la credibilità. (Fattispecie nella quale la S.C. ha confermato la valutazione dei giudici di merito secondo la quale la narrazione della vittima era stata condizionata da un clima di contrapposizione tra i genitori, che aveva generato il pericolo di possibili costruzioni colpevoliste in danno dell'imputato).

Cass. pen. n. 3256/2013

In tema di reati sessuali, è legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa e l'eventuale giudizio di inattendibilità, riferito ad alcune circostanze, non inficia la credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non esista un'interferenza fattuale e logica tra gli aspetti del narrato per i quali non si ritiene raggiunta la prova della veridicità e quelli che siano intrinsecamente attendibili ed adeguatamente riscontrati. (Nella specie è stata ritenuta legittima la sentenza di merito che, pur condannando gli imputati per il reato previsto dall'art. 609 bis c.p. per effetto delle dichiarazioni della vittima, ha escluso la sussistenza della violenza sessuale di gruppo sul presupposto che alcune di tali dichiarazioni non fossero verosimili).

Cass. pen. n. 1235/2013

La valutazione del giudice in ordine all'attitudine a testimoniare e alla credibilità del minore vittima di reati sessuali deve essere fondata su una perizia e, qualora tale accertamento non sia stato svolto o non abbia rispettato i protocolli generalmente riconosciuti dalla comunità scientifica, devono essere valorizzati altri elementi di prova o di riscontro oggettivi di cui deve essere fornita adeguata motivazione. (Fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto carente di motivazione la sentenza di merito che aveva basato il giudizio di credibilità del minore sul giudizio di esperti che non si erano attenuti alle regole in genere seguite dai periti).

Cass. pen. n. 1234/2013

La capacità a testimoniare e l'attendibilità delle dichiarazioni del bambino in tenera età, vittima di abusi sessuali, devono essere accertate mediante perizia disposta dal giudice secondo i protocolli convalidati dalla comunità scientifica, le cui risultanze non possono essere sostituite dalle valutazioni psicologiche compiute informalmente dagli operatori in servizio presso la comunità in cui la vittima sia ospitata, sicché, in mancanza di detta perizia, il giudice può valorizzare altri elementi di prova o di riscontro oggettivi di cui deve fornire adeguata e puntuale motivazione.

Cass. pen. n. 45860/2012

Sono utilizzabili le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia che abbia avuto contatti, in costanza di collaborazione, con le persone che aveva accusato, offrendo la propria ritrattazione in cambio di denaro, non essendo riconducibile tale ipotesi alle violazioni sanzionate da inutilizzabilità previste dal penultimo comma dell'art. 13 della l. n. 82 del 1991.

Cass. pen. n. 41461/2012

Le regole dettate dall'art. 192 comma terzo cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia altresì costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi).

Cass. pen. n. 34525/2012

Deve considerarsi rispettosa dei principi normativi di cui all'art. 192 cod. proc. pen. l'utilizzazione di convergenti dichiarazioni accusatorie "de relato", purchè le stesse si inseriscano in un quadro probatorio ovvero indiziario comunque apprezzabile, si caratterizzino nello specifico per credibilità ed affidabilità e purchè il rigoroso controllo del sapere dei dichiaranti investa tutti i momenti dell'acquisizione conoscitiva e tutti i personaggi che l'hanno resa possibile. (In motivazione, la Corte ha precisato che negare rilevanza probatoria alla chiamata indiretta riscontrata da chiamata della medesima natura darebbe luogo ad una sorta di valutazione legale della portata probatoria di un fatto comunque rilevante, in contrasto al principio del libero convincimento del giudice).

Cass. pen. n. 16939/2012

Ai fini della valutazione della chiamata in correità, le dichiarazioni "de relato" rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 c.p.p. e non confermate dal soggetto indicato come fonte di informazione, possono costituire elemento indiziario idoneo a fondare la dichiarazione di colpevolezza soltanto se confortate, ai sensi dell'art 192, comma terzo, c.p.p., da riscontri estrinseci certi, univoci, specifici, individualizzanti, e tali da consentire un collegamento diretto ed obiettivo con i fatti contestati e con la persona imputata. Ne consegue che il riscontro ad una chiamata in reità o correità "de relato" non può essere integrato da un'altra chiamata dello stesso tipo priva dei suddetti riscontri, mentre plurime chiamate "de relato" ben possono ritenersi reciprocamente corroborate e idonee a fondare il giudizio di colpevolezza, purchè sottoposte alla verifica di attendibilità, intrinseca ed estrinseca, e supportate da riscontri esterni muniti delle su indicate caratteristiche.

Cass. pen. n. 5905/2012

In tema di valutazione della prova, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d'esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l'ipotesi all'apparenza più verosimile, ponendosi, in caso contrario, tale dato come mero indizio da valutare insieme con gli altri elementi risultanti dagli atti.

Cass. pen. n. 4996/2012

E illegittima la sentenza d'appello che, in riforma di quella assolutoria, condanni l'imputato sulla base di una alternativa, e non maggiormente persuasiva, interpretazione del medesimo compendio probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio, in quanto tale inidonea a far cadere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'imputato.

Cass. pen. n. 4976/2012

Alle indicazioni di reità provenienti da conversazioni intercettate non si applica la regola di valutazione di cui all'art. 192, comma terzo, c.p.p. ma quella generale del prudente apprezzamento del giudice, non essendo esse assimilabili alle dichiarazioni che il coimputato del medesimo reato o la persona imputata in procedimento connesso rende in sede di interrogatorio dinanzi all'autorità giudiziaria. (Nella specie, in adesione al principio, la S.C. ha ritenuto utilizzabile un colloquio privato oggetto di intercettazione nel corso del quale la persona offesa del reato di estorsione aveva rivelato il nome del responsabile del reato fino ad allora tenuto volutamente celato agli inquirenti).

Cass. pen. n. 3882/2012

Gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell'imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano: a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti; b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi.

Cass. pen. n. 649/2012

La valutazione della ricorrenza dell'elemento psicologico del reato richiede ordinariamente il previo esame della condotta, posto che, per ricostruire il fatto psichico interno del soggetto agente, deve farsi ricorso a massime di esperienza che consentano di desumerlo da elementi esterni direttamente accessibili e riscontrabili.

Cass. pen. n. 9239/2010

Non è consentito al giudice desumere, dalla rinuncia dell'imputato a rendere l'interrogatorio, elementi o indizi di prova a suo carico, atteso che allo stesso è riconosciuto il diritto al silenzio e che l'onere della prova grava sull'accusa.

Cass. pen. n. 40731/2009

Il riconoscimento diretto dell'imputato operato dal giudice mediante l'esame dei fotogrammi, estratti dalla registrazione TV a circuito chiuso durante una rapina, può costituire indizio che concorre, con altri elementi di prova, a completare il quadro probatorio di cui all'art. 192, comma secondo c.p.p.

Cass. pen. n. 27862/2009

La massima di esperienza si differenzia dalla mera congettura perché è formulata sulla scorta dell'"id quod plerumque accidit" come risultato di una verifica empirica dell'elemento preso in considerazione. (Nella specie la Corte ha ritenuto che le asserzioni secondo cui, rispettivamente, "non è usuale che il conducente di un'autovettura lasci la propria auto in una pubblica via per un lungo tempo senza chiuderla o, quanto meno, senza portare con sé le chiavi di accensione" e "non è usuale che un ladro, sottratta la vettura ed utilizzata la stessa per la commissione di gravi reati contro la persona, torni a posteggiarla, poche ore dopo, nell'esatto luogo dal quale l'ha presa", rispondano correttamente a massime di comune esperienza).

Cass. pen. n. 42993/2008

Nel giudizio di legittimità il sindacato sulla correttezza del procedimento indiziario non può consistere nella rivalutazione della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi, in quanto ciò comporterebbe inevitabilmente apprezzamenti riservati al giudice di merito, ma deve tradursi nel controllo logico e giuridico della struttura della motivazione, al fine di verificare se sia stata data esatta applicazione ai criteri legali dettati dall'art. 192, comma secondo, c.p.p. e se siano state coerentemente applicate le regole della logica nell'interpretazione dei risultati probatori.

Cass. pen. n. 42990/2008

In tema di prova di delitti maturati nell'ambito d'organizzazione criminale di tipo mafioso, le eventuali smagliature e discrasie, anche di un certo rilievo, rilevabili nelle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia, sia al loro interno, sia nel confronto tra esse, non implicano, di per sé, il venir meno della loro affidabilità, quando, sulla base d'adeguata motivazione, risulti dimostrata la loro complessiva convergenza nei nuclei fondamentali.

Cass. pen. n. 39882/2008

L'indizio ha valore probatorio se il dato di fatto di cui si compone è connotato dal requisito della certezza, che implica la verifica processuale della sua sussistenza.

Cass. pen. n. 37327/2008

In tema di valutazione della chiamata in correità, la verifica dell'intrinseca attendibilità delle dichiarazioni può portare anche ad esiti differenziati, purchè la riconosciuta inattendibilità di alcune di esse non dipenda dall'accertata falsità delle medesime, giacché, in tal caso, il giudice è tenuto ad escludere la stessa generale credibilità soggettiva del dichiarante, a meno che non esista una provata ragione specifica che abbia indotto quest'ultimo a rendere quelle singole false propalazioni.

Cass. pen. n. 5631/2008

Non può essere ritenuto rilevante a fini probatori il fallimento o la mancanza di alibi da parte dell'imputato, in quanto essi costituiscono elementi di segno neutro, inidonei a sorreggere la deduzione indiziaria.

Cass. pen. n. 37878/2007

Ai fini dell'applicazione delle misure cautelari, anche dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 63 del 2001, è ancora sufficiente il requisito della sola gravità degli indizi, posto che l'art. 273, comma primo bis, c.p.p. (introdotto dalla legge citata) richiama espressamente il terzo e il quarto comma dell'art. 192, ma non il secondo comma che prescrive la valutazione della precisione e della concordanza, accanto alla gravità, degli indizi: ne consegue che essi, in sede di giudizio « de libertate» non vanno valutati secondo gli stessi criteri richiesti nel giudizio di merito.

Cass. pen. n. 37147/2007

In tema di reati sessuali, le dichiarazioni accusatorie rese da minori vittime del reato di violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies, c.p.), soprattutto se assunte de relato impongono un esame giudiziale critico improntato a canoni di neutralità e rigore che richiede l'opportuno ausilio delle scienze rilevanti in materia (pedagogia, psicologia e sessuologia), in quanto la loro attendibilità può essere inficiata da suggestioni eteroindotte. (In applicazione di tale principio la Corte, adita in fase cautelare, ha dichiarato inammissibile il ricorso del pubblico ministero in un procedimento a carico di alcuni soggetti, tra cui alcuni insegnanti di un asilo, indagati per presunte violenze ed abusi sessuali in danno di diversi alunni).

Cass. pen. n. 14182/2007

La deposizione della persona offesa dal reato, anche se quest'ultima non è equiparabile al testimone estraneo, può tuttavia essere pure da sola assunta come fonte di prova, ove venga sottoposta a un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva e oggettiva di cui l'ha resa. (Mass. redaz.).

Cass. pen. n. 12874/2007

Le dichiarazioni rese da persone che conversino tra loro se captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata e a loro insaputa - sono liberamente valutate dal giudice secondo gli ordinari criteri di apprezzamento della prova, anche quando presentino valenza accusatoria nei confronti di terzi che avrebbero concorso in reati commessi dagli stessi dichiaranti: infatti, tali dichiarazioni non sono in alcun modo assimilabili a una chiamata in correità, non trovando pertanto applicazione la regola di valutazione di cui al comma 3 dell'articolo 192 del c.p.p. (Mass. redaz.).

Cass. pen. n. 6221/2006

In tema di chiamata di correo, ove le dichiarazioni accusatorie siano plurime e sussista il dubbio di artificiose consonanze, al giudice è fatto obbligo di verificare non soltanto se la convergenza non sia l'esito di collusione o concerto calunnioso, ma anche se non sia il frutto di condizionamenti o reciproche influenze, pur senza alcuna preordinata malafede, dovendo pertanto procedere con particolare severità e scrupolo al giudizio di attendibilità intrinseca.

In tema di chiamata di correo, v'è reciproco riscontro in caso di pluralità di chiamate se si ha convergenza in ordine allo specifico fatto materiale oggetto del narrato. (La Corte ha precisato che non si ha riscontro reciproco se l'una dichiarazione indichi l'imputato come compartecipe di un fatto omicidiario, attribuendogli un determinato ruolo esecutivo, e l'altra dichiarazione lo menzioni invece come compartecipe esecutivo in occasione di un precedente tentativo d'omicidio in danno della stessa vittima, a meno che non si dimostri che il tentativo prima e l'omicidio consumato poi siano stati compiuti, nel medesimo contesto organizzativo e cronologico, dallo stesso gruppo).

In tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, l'esclusione di attendibilità per una parte del racconto non implica, per il principio della cosiddetta « frazionabilità» della valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento a quelle altre parti che reggono alla verifica del riscontro oggettivo esterno, sempre che, però, non sussista un'interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti e l'inattendibilità non sia talmente macroscopica, per accertato contrasto con altre sicure risultanze di prova, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante.

Cass. pen. n. 5060/2006

In tema di valutazione della prova, l'alibi falso, in quanto sintomatico, a differenza di quello non provato, del tentativo dell'imputato di sottrarsi all'accertamento della verità, deve essere considerato come un indizio a carico il quale, pur di per sé inidoneo, in applicazione della regola dell'art. 192 c.p.p., a fondare il giudizio di colpevolezza, costituisce tuttavia un riscontro munito di elevata valenza dimostrativa dell'attendibilità delle dichiarazioni del chiamante in correità, ai sensi del terzo comma dell'art. 192 c.p.p.

Cass. pen. n. 780/2006

In tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, il riscontro individualizzante alla dichiarazione accusatoria, relativa alla partecipazione alla commissione di un reato riconducibile ad un'associazione per delinquere, può essere costituito dal dato dell'appartenenza del chiamato al sodalizio criminoso, purché tale appartenenza sia accertata anche sulla base di elementi diversi ed autonomi. (La Corte nella specie ha rilevato, con pronuncia di annullamento con rinvio, la necessità di verificare se la partecipazione dell'indagato al sodalizio di tipo mafioso, risultante da sentenza di condanna in primo grado, presentasse carattere di autonomia e potesse nel caso concreto essere valutato quale riscontro individualizzante alla chiamata in correità per un attentato incendiario in danno di un soggetto, che si era rifiutato di vendere un'autovettura al cognato di uno dei capi del detto sodalizio).

Cass. pen. n. 43451/2004

In tema di dichiarazioni accusatorie provenienti da soggetti rientranti nelle previsioni di cui all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., l'attitudine delle stesse a riscontrarsi le une con le altre, al fine della loro valutabilità come piena prova a carico dell'imputato, richiede che trattisi di dichiarazioni realmente autonome, nel senso che non si siano reciprocamente condizionate, e che le stesse siano, inoltre, munite di un elevato grado di intrinseca attendibilità, che ne garantisca, la convergenza effettiva, puntuale e specifica. Esse, quindi, pur non dovendo essere completamente sovrapponibili, devono però essere realmente concordanti, in modo da permettere la verifica della loro piena affidabilità relativamente al fatto attribuito all'imputato ed alla di lui penale responsabilità.

Cass. pen. n. 24249/2004

Plurime chiamate in reità «de relato» sono idonee ex art. 192 c.p.p. a costituire riscontro alla chiamata in correità. (Nella specie la Corte ha ritenuto che le testimonianze aventi ad oggetto «confidenze» provenienti dall'imputato possano essere utilizzate come elemento di riscontro ad una chiamata in correità).

Cass. pen. n. 17886/2004

In tema di criminalità organizzata, se per un verso il fatto che taluno occupi una posizione gerarchicamente dominante nell'ambito di un'associazione per delinquere non può costituire elemento di per sé solo sufficiente a far ritenere provata la sua responsabilità in ordine a tutti i reati-fine commessi nell'ambito del programma associativo, per altro verso non può neppure ritenersi che esso sia da considerare del tutto privo di rilevanza ai fini della prova in ordine alla responsabilità del medesimo soggetto relativamente a specifici fatti criminosi, sempre rientranti nell'ambito di quel programma, di cui egli venga accusato da altro partecipe del sodalizio. Nulla impedisce, quindi, che il suddetto ruolo dominante, a condizione che sia stato autonomamente accertato per altra via, possa assumere rilevanza come semplice elemento di riscontro rispetto alle dichiarazioni accusatorie riguardanti quei fatti, una volta che di tali dichiarazioni sia stata anche verificata la intrinseca credibilità, oggettiva e soggettiva.

Cass. pen. n. 16902/2004

In materia di valutazione della prova il giudice può trarre il proprio convincimento da ogni elemento purché acquisito non in violazione di uno specifico divieto: in tal senso anche l'individuazione fotografica cui abbia proceduto la polizia giudiziaria può essere legittimamente assunta come prova, la cui certezza non dipende dal riconoscimento in sè, ma dalla attendibilità della deposizione di chi, avendo esaminato la fotografia dell'imputato, si dice certo della sua identificazione.

Cass. pen. n. 16860/2004

Le dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa, anche se costituita parte civile — da valutare con opportuna cautela e da sottoporre ad un'indagine accurata circa i profili di attendibilità oggettivi e soggettivi — possono tuttavia essere assunte, anche da sole, come fonte di prova.

Cass. pen. n. 11840/2004

Mentre il fallimento dell'alibi non può essere posto a carico dell'imputato come elemento sfavorevole, non essendo compito di quest'ultimo dimostrare la sua innocenza, ma onere dell'accusa di provarne la colpevolezza, l'alibi falso, cioè quello rivelatosi preordinato e mendace, può essere posto in correlazione con le altre circostanze di prova e valutato come indizio, nel contesto delle complessive risultanze probatorie, se appaia finalizzato alla sottrazione del reo alla giustizia.

Cass. pen. n. 7180/2004

In tema di valutazione della prova testimoniale, il giudice, pur essendo indubbiamente tenuto a valutare criticamente, verificandone l'attendibilità, il contenuto della testimonianza, non è però certamente tenuto ad assumere come base del proprio convincimento l'ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso, salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere. In assenza, quindi, di siffatti elementi, il giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza. (Principio affermato, nella specie, con riguardo alla deposizione resa dalla madre di figli minori cui l'imputato, padre degli stessi, aveva fatto mancare, secondo l'accusa, i mezzi di sussistenza).

Cass. pen. n. 45276/2003

In tema di prova del mandato a commettere omicidio, la «causale», pur potendo costituire elemento di conferma del coinvolgimento nel delitto del soggetto interessato all'eliminazione fisica della vittima allorché converge, per la sua specificità ed esclusività, in una direzione univoca, tuttavia, poiché conserva di per sè un margine di ambiguità, in tanto può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di prova della responsabilità, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili, l'esistenza del fatto incerto (cioè la possibilità di ascrivere il crimine al mandante), in quanto, all'esito dell'apprezzamento analitico di ciascuno di essi e nel quadro di una valutazione globale di insieme, gli indizi, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, si presentino chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione.

La chiamata in reità fondata su dichiarazioni de relato, per poter assurgere al rango di prova pienamente valida a carico del chiamato ed essere posta a fondamento di una pronuncia di condanna, necessita del positivo apprezzamento in ordine alla intrinseca attendibilità non solo del chiamante, ma anche delle persone che hanno fornito le notizie, oltre che dei riscontri esterni alla chiamata stessa, i quali devono avere carattere individualizzante, cioè riferirsi ad ulteriori, specifiche circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere, essendo necessario, per la natura indiretta dell'accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa.

Cass. pen. n. 19683/2003

Le dichiarazioni accusatorie rese da imputati dello stesso reato ovvero di reato connesso o interprobatoriamente collegato, per costituire prova, possono anche riscontrarsi reciprocamente, a condizione che siano dotate ciascuna di intrinseca attendibilità, soggettiva ed oggettiva, e (in assenza di specifici elementi atti a far ragionevolmente sospettare accordi fraudolenti o reciproche suggestioni), risultino concordanti sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno che le loro caratteristiche siano tali da far necessariamente ritenere o che il dichiarante, contrariamente al suo assunto, non abbia in realtà partecipato alle vicende i cui particolari sono stati da lui riferiti, ovvero che egli tali particolari abbia dovuto inventare o alterare al riconoscibile fine di sostenere un'accusa che, altrimenti, sarebbe stata insostenibile. Ne deriva che, ove con la sentenza di merito sia stata affermata la responsabilità dell'imputato sulla base della ritenuta sussistenza di una prova del genere anzidetto, non può validamente prospettarsi, in sede di legittimità, come motivo di censura, il solo fatto che le dichiarazioni accusatorie ritenute concordanti presentino in realtà fra loro divergenze e discrasie, quando queste attengano ad elementi di natura circostanziale e non vengano indicate (salvo che siano rilevabili ictu oculi) le ragioni per le quali, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuta attribuire loro una specifica e decisiva rilevanza nel senso sopra illustrato. La mancanza di una tale indicazione rende, quindi, di per sé, inammissibile il ricorso per difetto dei necessari requisiti di specificità.

Cass. pen. n. 1639/2003

In tema di valutazione della prova, le dichiarazioni de relato rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 c.p.p. e non confermate dal soggetto indicato come fonte di informazione, possono costituire elemento indiziario idoneo a fondare la dichiarazione di colpevolezza soltanto se confortate, ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.p.p., da riscontri estrinseci certi, univoci, specifici, individualizzanti, tali da consentire un collegamento diretto ed obiettivo con i fatti contestati e con la persona imputata.

Cass. pen. n. 42851/2002

Non è applicabile ai «testimoni di giustizia» la nuova disciplina prevista dall'art. 16 quater del D.L. 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito nella legge 15 marzo 1981, n. 82), come modificata dall'art. 14 della legge 13 febbraio 2001, n. 45, prevista per i collaboratori di giustizia, che stabilisce a pena di inutilizzabilità, precisi limiti temporali (180 giorni) per la raccolta delle dichiarazioni eteroaccusatorie. (Fattispecie in cui la Corte ha evidenziato la netta distinzione esistente tra le figure del «collaboratore di giustizia» e quella del «testimone di giustizia», in base alla complessiva normativa di riferimento prevista per i secondi, in modo esplicito, nel capo II bis del D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, nonché dalla specifica previsione di cui all'art. 16 bis, comma 1, l.c.).

Cass. pen. n. 37695/2002

L'affermazione con la quale taluno nel corso di una conversazione regolarmente intercettata, dichiarandosi partecipe di un reato, indichi come corresponsabile anche un terzo, non è equiparabile ad una chiamata in correità e, pertanto, pur dovendo essere attentamente interpretata sul piano logico e valutata su quello probatorio, non è però soggetta, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p.

Cass. pen. n. 37108/2002

È legittimamente valutato, come elemento di prova integrativo, il rifiuto ingiustificato dell'imputato a sottoporsi al prelievo necessario per l'esame comparativo del DNA (nella specie sui residui piliferi rinvenuti in un passamontagna utilizzato dall'autore di una rapina a mano armata), in quanto tale rifiuto può essere liberamente apprezzato dal giudice nella formazione del suo convincimento e anche utilizzato come riscontro individualizzante alla chiamata di correo.

Cass. pen. n. 35359/2002

In tema di misure cautelari, l'art. 273, comma 1 bis c.p.p. (introdotto dall'art. 11 della legge 1 marzo 2001, n. 63 in attuazione dei principi del giusto processo), disponendo che nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, atti a legittimare l'applicazione di misure cautelari personali, debbono essere osservate le disposizioni di cui all'art. 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1, c.p.p., implica che le dichiarazioni accusatorie del coimputato o dell'imputato in procedimento connesso debbono essere valutate unitamente agli altri elementi che valgono a confermarne l'attendibilità, anche se non occorre raggiungere quel grado di certezza della prova sulla responsabilità proprio del processo cognitivo in quanto la colpevolezza, ai fini cautelari, può essere sufficientemente configurata a livello di gravità del quadro indiziario e, quindi, non di certezza ma di elevato grado di probabilità di colpevolezza del soggetto sottoposto a misura cautelare. Ne deriva che i riscontri obiettivi delle dichiarazioni accusatorie, pur dovendosi ritenere indispensabili con l'introduzione della novella suddetta, non necessariamente devono raggiungere quel livello di individualizzazione occorrente per la formazione della prova nel giudizio di merito essendo, invece, sufficiente una ricostruzione logica degli stessi che consenta di valutare appieno l'attendibilità del dichiarante e di offrire un quadro storico della vicenda narrata del tutto rispondente al vero ed in cui la posizione dell'accusato trovi collocazioni sintomatiche della sua colpevolezza.

Cass. pen. n. 21088/2002

In tema di misure cautelari, il comma 1 bis dell'art. 273 c.p.p., introdotto dall'art. 11 della legge 1 marzo 2001, n. 63, nello stabilire che nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano, fra le altre, le disposizioni dell'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., comporta soltanto che le dichiarazioni accusatorie provenienti da coimputati o coindagati per il medesimo reato ovvero per reato connesso o interprobatoriamente collegato debbono essere valutate, ai fini del giudizio in ordine alla loro gravità indiziaria, “unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità”, senza che ciò implichi anche la necessità che i detti elementi (c.d. “riscontri”) abbiano anche carattere individualizzante giacché, altrimenti, verrebbe meno la sostanziale differenza tra “prova” richiesta ai fini del giudizio di responsabilità e “indizio grave”, richiesto ai soli fini cautelari.

Cass. pen. n. 22391/2002

Gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell'imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano: a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti; b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi.

Cass. pen. n. 8033/2002

In tema di chiamata in correità, la legge 13 febbraio 2001, n. 45 (che ha modificato il decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito in legge 15 marzo 1991, n. 82) ha semplicemente prescritto di riprodurre o di richiamare (nel verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione), entro 180 giorni dalla data della sua entrata in vigore, le dichiarazioni di coloro che, prima della emanazione della predetta legge, avevano manifestato l'intenzione di collaborare con la giustizia. Ne consegue che dette dichiarazioni sono utilizzabili anche se, non essendo decorso il termine di cui sopra, il predetto verbale non sia stato ancora confezionato.

Cass. pen. n. 3001/2002

La nuova disciplina dettata dall'art. 273, comma 1 bis c.p.p., come novellato dall'art. 11 della legge 1 marzo 2001 n. 63, per la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza richiesti per l'adozione di misura cautelari personali, si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore di tale legge ed anche ai giudizi di cassazione, in quanto l'art. 26 comma 5 della legge n. 63 del 2001 prevede l'applicazione transitoria della precedente disciplina limitatamente al dibattimento. Ne deriva che, alla stregua delle nuove disposizioni, anche nel giudizio di legittimità la valutazione della gravità del quadro giudiziario richiede la verifica di riscontri che consentano di collocare la condotta del chiamato in correità in quello specifico fatto che forma oggetto dell'imputazione provvisoriamente elevata, sia pure di consistenza puramente indiziaria, atteso l'ambito in cui si impone il loro accertamento, che è quello di un giudi937zio dell'apprezzamento dei presupposti indispensabili per la cautela personale e non di un giudizio di cognizione.

Cass. pen. n. 937/2002

In tema di valutazione della prova, l'elemento di riscontro oggettivo ed esterno dell'attendibilità della chiamata in correità, richiesto dall'art. 192, terzo comma, c.p.p., può essere costituito anche dalla deposizione testimoniale resa dal terzo in ordine a circostanze apprese direttamente dal dichiarante, quando quest'ultima apporti autonomi elementi di prova circa l'attendibilità del chiamante diretto sul thema probandum, cioè sul fatto di cui all'imputazione.

Cass. pen. n. 45332/2001

In tema di assegno bancario, in ordine al reato di violazione del divieto di emissione di assegni bancari, di cui all'art. 7 legge 15 dicembre 1990, n. 386 (modificato dall'art. 32 del D.L. 30 dicembre 1999, n. 507), la prova che il traente aveva avuto conoscenza del divieto impostogli con precedente sentenza di condanna non può essere desunta esclusivamente dall'esecutività di quest'ultima, presumendo per avvenuta la sua notifica. Conseguentemente è carente di motivazione la decisione del giudice che, limitandosi a queste circostanze, non faccia riferimento ad ulteriori emergenze (modalità di attuazione della notificazione od altro) idonee a dimostrare che il soggetto era venuto a conoscenza del divieto.

Cass. pen. n. 43980/2001

La regola dettata dal comma 1 bis dell'art. 273 c.p.p. (introdotto dall'art. 11 della legge 1 marzo 2001 n. 63) — secondo cui, nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza richiesti per la sottoposizione di taluno ad una misura cautelare personale, debbono essere osservate, fra le altre, le disposizioni di cui all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p. — trova applicazione anche nei giudizi de libertate pendenti davanti alla Corte di cassazione la quale, pertanto, nel verificare la legittimità della ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, quando questi siano tratti da dichiarazioni rese da coimputati o coindagati, dovrà estendere il proprio esame anche al tema del carattere necessariamente individualizzante che ora debbono assumere, anche ai fini cautelari, gli elementi di riscontro alle suddette dichiarazioni, sia pure nel contesto meramente incidentale del procedimento de libertate ed in termini, quindi, non di certezza ma solo di alta probabilità di colpevolezza del soggetto sottoposto a misura.

Cass. pen. n. 43928/2001

La valutazione di plurime chiamate in correità, quantunque convergenti, deve essere compiuta dal giudice di merito caso per caso, con un prudente grado di flessibilità correlato alla consistenza delle chiamate stesse, tenendo conto sia della solidità della loro riconosciuta attendibilità intrinseca, sia della loro compatibilità all'interno dell'intero quadro probatorio acquisito. Solo all'esito di tale operazione il giudice può stabilire se le chiamate siano autosufficienti, nel senso che l'una costituisce riscontro individualizzante dell'altra, ovvero se, per raggiungere il livello della prova, esse necessitino di un ulteriore elemento confermativo esterno che renda riferibile il fatto di reato al chiamato. (Nella specie la Corte ha censurato il ragionamento del giudice di merito che aveva ritenuto due convergenti chiamate de relato di per sè sole sufficienti ad integrare la prova di colpevolezza del chiamato, indipendentemente dalla disamina dei restanti dati probatori e dalla ricerca di riscontri individualizzanti, imprescindibile a fronte di accuse non aventi natura diretta).

Cass. pen. n. 43303/2001

In tema di valutazione della prova, la deposizione della parte lesa, anche se rappresenta l'unica prova del fatto da accertare e manchino riscontri esterni, può essere posta a base del convincimento del giudice, atteso che a tali dichiarazioni non si applicano le regole di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 192 c.p.p., che presuppongono l'esistenza di altri elementi di prova unitamente ai quali le dichiarazioni devono essere valutate per verificarne l'attendibilità, dovendo peraltro il controllo sulle dichiarazioni della persona offesa, considerato l'interesse del quale può essere portatrice, essere più rigoroso in specie se trattasi di minore e l'esame concerna fatti che possono interagire con i delicati aspetti della personalità come in materia di reati contro la libertà sessuale.

Cass. pen. n. 34534/2001

In tema di valutazione dei gravi indizi di colpevolezza richiesti per l'adozione di misure cautelari personali, la disposizione dell'art. 273, comma 1 bis c.p.p. (introdotta dall'art. 11 della legge 1 marzo 2001, n. 63) che rinvia ai criteri di valutazione della prova di cui all'art. 192, comma 3 c.p.p., si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore di tale legge ed anche nei giudizi di cassazione, atteso che la regola derogatoria stabilita dall'art. 26, comma 5, della legge n. 63 del 2001 è limitata al dibattimento. Ne discende che, anche nel giudizio di legittimità, la gravità del quadro indiziario richiede, oltre alla credibilità intrinseca del dichiarante e l'oggettiva attendibilità di ogni singola dichiarazione, la verifica di riscontri «parzialmente individualizzanti» che consentano di collocare la condotta del chiamato in correità nello specifico fatto dell'imputazione provvisoriamente elevata, restando pur sempre nell'ambito di un giudizio limitato all'apprezzamento dei presupposti indispensabili per la cautela personale e non nel giudizio di cognizione.

Cass. pen. n. 29679/2001

Ai fini dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, il riscontro alla chiamata in correità può dirsi individualizzante quando non consiste semplicemente nell'oggettiva conferma del fatto riferito dal chiamante, ma offre elementi che collegano il fatto stesso alla persona del chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell'attribuzione a quest'ultimo del reato contestato.

Cass. pen. n. 27656/2001

Le dichiarazioni - captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata - con le quali un soggetto si accusa della commissione di reati hanno integrale valenza probatoria. (In motivazione la Corte ha chiarito che dette dichiarazioni non possono avere rilievo probatorio inferiore rispetto alla chiamata in correità che, pur bisognevole di altri elementi che ne confermino la attendibilità, è qualificata dal legislatore quale prova piena).

Cass. pen. n. 7027/2000

La dichiarazione della parte lesa, allorché risulti contrastata da più elementi probatori, deve essere valutata con estremo rigore e il contenuto della stessa, a fronte degli elementi di contrasto, per essere positivamente apprezzato e utilizzato a fini probatori, deve essere sottoposto a verifica dettagliata e non accettato con generica giustificazione argomentativa, specie per l'evidente interesse accusatorio che inevitabilmente è connaturato alla testimonianza resa da persona portatrice di interessi confliggenti con quelli dell'imputato.

La prova indiziaria di cui al secondo comma dell'art. 192 c.p.p. deve essere costituita da più indizi, e non da uno solo di essi, e i molteplici indizi, nel loro insieme, devono essere univocamente concordanti rispetto al fatto da dimostrare, nonché storicamente certi e rappresentativi di una rilevante continuità logica con il fatto ignoto.

Cass. pen. n. 1691/2000

Sono pienamente utilizzabili a fini cautelari le dichiarazioni accusatorie rese da soggetto sentito come persona informata dei fatti che, successivamente e in diverso procedimento, assuma la qualità di indagato in procedimento per reato solo probatoriamente connesso con quello nell'ambito del quale le dichiarazioni accusatorie siano state rese e con questo solo eventualmente suscettibile di riunione. (Fattispecie relativa a un episodio di rissa, seguita a distanza di venti giorni da un tentato omicidio in danno di un partecipe di essa, il cui legame non è stato ritenuto dalla S.C. riconducibile ad ipotesi previste dall'art. 12 c.p.p., bensì, al più, ad ipotesi di collegamento probatorio che può rilevare solo ai fini della disposizione di cui all'art. 192, comma quarto, c.p.p., senza comportare effetti incidenti sulla posizione del dichiarante, esaminato in veste di parte offesa del più grave reato, in relazione al quale la qualità di indiziato che abbia assunto nell'altro procedimento è processualmente ininfluente).

Cass. pen. n. 4888/2000

In tema di valutazione della prova, la chiamata di correo ha valore di prova diretta contro l'accusato, in presenza di tre requisiti, che devono in concreto essere accertati dal giudice di merito e che consistono: a) nell'attendibilità del dichiarante (confitente e accusatore), valutata in base a dati e circostanze attinenti direttamente alla sua persona, quali il carattere, il temperamento, la vita anteatta, i rapporti con l'accusato, la genesi e i motivi della chiamata di correo; b) nell'attendibilità intrinseca della chiamata di correo, desunta da dati specifici e non esterni ad essa, quali la spontaneità, la verosimiglianza, la precisione, la completezza della narrazione dei fatti, la concordanza tra le dichiarazioni rese in tempi diversi, ed altri dello stesso tenore; c) nell'esistenza di riscontri esterni, ovvero di elementi di prova estrinseci, da valutare congiuntamente alla chiamata di correo, per confermare l'attendibilità, al cui esame, peraltro non si può procedere, se persistono dubbi sulla credibilità del dichiarante o sull'attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni. (In ordine al riscontro esterno la Corte ha precisato che esso ha solo la funzione di confermare l'attendibilità intrinseca e la credibilità soggettiva del dichiarante, per cui gli elementi di prova utilizzati a questo scopo possono essere di qualsiasi tipo e natura, sia rappresentativi che logici, purché idonei a quella funzione, e non è necessario che concernano in modo diretto il thema probandum, e tanto meno che consistono in prove autonome della colpevolezza).

Cass. pen. n. 3616/2000

In tema di valutazione della prova, i riscontri alle dichiarazioni rese da coimputato nel medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso possono essere costituiti anche da ulteriori dichiarazioni accusatorie, le quali devono tuttavia caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) per la loro indipendenza - intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente - da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la c.d. convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell'incolpato sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi d'accusa forniti dai dichiaranti, ma deve privilegiarsi l'aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere.

Cass. pen. n. 1631/2000

In tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, la prova logica costituisce il fondamento della prova dell'esistenza del vincolo associativo. Ed invero, occorre procedere all'esame delle condotte criminose, ciascuna delle quali può non essere dimostrativa del vincolo associativo: sicché solo attraverso un ragionamento logico può desumersi correttamente che le singole intese dirette alla conclusione dei vari reati costituisce espressione del programma delinquenziale, oggetto della stessa associazione.

Cass. pen. n. 14272/1999

La chiamata di correità, o in reità, può costituire prova della responsabilità penale solo se intrinsecamente attendibile e positivamente riscontrata attraverso elementi oggettivi. Ed invero, i riscontri non possono essere rappresentati da qualsiasi elemento generico relativo al fatto-reato e all'imputato, bensì sono quegli elementi di qualsiasi natura, storica o logica, che compatibili con le altre emergenze processuali e non caducati da esse, sono almeno idonei, in modo causale e rappresentativo, ad avvicinare l'accusato al reato e a qualsiasi momento dell'iter criminis. Nel consegue, peraltro, che la maggiore o minore esigenza di estensione dei riscontri deriva dalla natura dell'indizio da verificare; sia perché la chiamata in correità, in quanto confessione del fatto proprio e altrui, abbisogna di una verifica meno rigorosa di quella necessaria per controllare la chiamata in reità, sia perché il chiamante si pone in condizioni di non essere smentito quando rende incontrollabile l'accusa con il riferimento a soggetti già deceduti o indicati come sconosciuti.

Cass. pen. n. 13885/1999

In tema di valutazione della prova, gli «altri» elementi di prova, di cui al terzo comma dell'art. 192 c.p.p., non devono necessariamente riguardare la prova in sé della colpevolezza dell'imputato, quanto piuttosto devono costituire un riscontro dell'attendibilità del dichiarante, con riferimento specifico all'imputato ed al fatto delittuoso a lui attribuito.

Cass. pen. n. 9734/1999

Lo stato di ritardo mentale della persona offesa, e il conseguente riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 5 c.p., non esclude che alla testimonianza della medesima sia attribuito pieno valore probatorio qualora il giudice abbia accertato, ed abbia dato congrua motivazione, che la deposizione non è stata influenzata dal deficit psichico.

Cass. pen. n. 9640/1999

Se il requisito della costanza della chiamata in correità viene meno ove il dichiarante scelga la via della ritrattazione, qualora venga invece seguita la regola del silenzio, di per sè neutro, non può per ciò solo ritenersi irreparabilmente minata l'attendibilità della chiamata medesima; prive di significato diverrebbero, viceversa, le regole valutative di cui all'art. 6 L. 7 agosto 1997, n. 267, le quali non escludono a priori la credibilità del dichiarante che, citato nel dibattimento, serbi il silenzio, ma impongono solo riscontri probatori esterni di natura determinata.

Cass. pen. n. 7437/1999

In tema di valutazione della chiamata in correità secondo le regole dettate dall'art. 192, comma 3, c.p.p., ben possono costituire riscontro alla chiamata medesima le plurime dichiarazioni accusatorie, le quali, per poter essere reciprocamente confermative, devono mostrarsi convergenti in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione, indipendenti (nel senso che non devono derivare da pregresse intese fraudolente, da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza) e specifiche (nel senso che la c.d. convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante, ossia le varie dichiarazioni, pur non necessariamente sovrapponibili, devono confluire su fatti che riguardano direttamente sia la persona dell'incolpato, sia le imputazioni a lui attribuite).

Cass. pen. n. 6510/1999

La particolare procedura di acquisizione della prova disciplinata dagli artt. 192 e 210 c.p.p. presuppone, nella persona da esaminare, la qualità di coimputato del medesimo reato ovvero di imputato in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 stesso codice e non può essere utilizzata al di fuori delle ipotesi tassativamente previste da tali norme. Ne discende che legittimamente vengono sentiti come testimoni soggetti, indagati o imputati in altri procedimenti penali, che non siano stati raggiunti da imputazione in concorso, ovvero in connessione ai sensi dell'art. 12 c.p.p.

Cass. pen. n. 1472/1999

In tema di chiamata di correo, non sono assimilabili a mere dichiarazioni de relato quelle con le quali si riferisca in ordine a fatti o circostanze attinenti la vita e l'attività di un sodalizio criminoso, dei quali il dichiarante sia venuto a conoscenza nella sua qualità di aderente, in posizione di vertice, al medesimo sodalizio, trattandosi di un patrimonio conoscitivo derivante da un flusso circolare di informazioni relativamente a fatti di interesse comune agli associati. (Fattispecie in tema di associazione per delinquere dedita a rapine).

In tema di sindacato della Corte di cassazione sulla valutazione delle chiamate di correo operata dal giudice di merito, non è consentito al giudice di legittimità un controllo sul significato concreto di ciascuna dichiarazione e di ciascun elemento di riscontro, perché un tale esame invaderebbe inevitabilmente la competenza esclusiva del giudice di merito, ma gli è conferito solo il compito di verificare l'adeguatezza e la coerenza logica delle argomentazioni con le quali sia stata dimostrata la valenza dei vari elementi di prova, in sè stessi e nel loro reciproco collegamento. Il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire cioè giudice del contenuto della prova, trattandosi di un compito estraneo a quello istituzionalmente affidatogli, anche perché, con il nuovo codice di rito, il travisamento del fatto è stato espunto dai vizi concernenti la motivazione, essendo richiesto che eventuali contrasti siano interni a quest'ultima.

Cass. pen. n. 13671/1998

Nei procedimenti in cui l'ipotesi accusatoria si regge su una pluralità di elementi di carattere indiziario, il giudice di merito è chiamato a una duplice operazione: deve prima valutare tali elementi singolarmente, per stabilire se presentino il requisito della certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti) e per saggiarne la valenza indicativa individuale che di norma (tranne il raro caso del cosiddetto indizio necessario, da cui è logicamente desumibile una sola conseguenza) è di portata solo possibilistica; e deve quindi passare a un esame globale degli elementi cui può essere riconosciuto carattere di certezza, per verificare se la relativa ambiguità indicativa di ciascuno di essi isolatamente considerato possa, in una visione unitaria, risolversi.

Cass. pen. n. 13272/1998

Il vigente art. 192, comma terzo, c.p.p. stabilisce una limitazione della libertà di convincimento del giudice, vietando l'attribuzione del valore di prova alla sola chiamata in correità, quando non sia accompagnata da «altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità», dato che essa proviene da soggetti coinvolti, in grado maggiore o minore, nel fatto per cui si procede, onde è ragionevole il dubbio sull'assoluto disinteresse del chiamante. Pertanto il giudice deve in primo luogo risolvere il problema della credibilità del dichiarante (confidente e accusatore), in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità e alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e all'accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, deve verificare l'intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante alla luce di criteri come quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine, egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni.

Cass. pen. n. 13008/1998

Il terzo comma dell'art. 192 c.p.p. non introduce una deroga o una restrizione quantitativa allo spazio del libero convincimento del giudice, e neppure è volto a porre divieti di utilizzazione, ancorché impliciti, o ad indicare una gerarchia di valore delle acquisizioni probatorie, ma si limita unicamente a indicare il criterio argomentativo che il giudice deve seguire nel portare avanti l'operazione intellettiva di valutazione delle dichiarazioni rese da determinati soggetti.

Cass. pen. n. 3683/1998

Possono costituire riscontro logico della chiamata di correo, idoneo a verificare in senso positivo l'attendibilità del chiamante, i rapporti di frequentazione fra il chiamato in correità, indagato per il reato di associazione per delinquere, con altre persone indagate per il medesimo reato.

Cass. pen. n. 5121/1998

In tema di chiamata di correo, non può definirsi chiamata de relato quell'accusa proveniente effettivamente da un correo nel delitto di cui all'art. 416 bis c.p., il quale proprio per la sua qualità di associato ha precisa e sicura conoscenza degli altri partecipanti al sodalizio, anche se nell'ipotesi in cui l'accusato abbia una posizione preminente nella gerarchia dell'organizzazione, il chiamante non abbia con lui avuto contatti diretti. Se poi tale tipo di chiamata è accompagnata da una voce di riscontro, proveniente da un collaborante, sulla cui intrinseca attendibilità non risulta sollevato alcun dubbio, in epoca e circostanze diverse, l'alta probabilità di commissione del reato (in cui consiste la gravità indiziaria) deve dirsi raggiunta.

Cass. pen. n. 5028/1998

In materia di valutazione della prova, una volta verificata l'attendibilità intrinseca del chiamante in correità, il procedimento argomentativo e, dunque, la motivazione del provvedimento, non può pervenire omisso medio all'esame dei riscontri esterni alla chiamata, occorrendo che, in ogni caso, il giudice persegua un percorso dimostrativo diretto ad accertare se quella singola dichiarazione resa da soggetto attendibile sia a sua volta attendibile, perché se l'attendibilità della dichiarazione venisse riferita al solo riscontro, senza il passaggio alla verifica dell'attendibilità intrinseca, si finirebbe per fare del riscontro il vero indizio da riscontrare.

Cass. pen. n. 8057/1998

Affinché le dichiarazioni parzialmente divergenti rese da due collaboratori ai sensi dlel'art. 192, comma 3, c.p.p. possano ritenersi non in contraddizione e fonte di responsabilità per l'imputato, occorre che il nucleo centrale del racconto non solo coincida ma presenti altresì elementi specifici che, potendo essere conosciuti soltanto da persone che siano state testimoni del fatto o alle quali il fatto è stato raccontato da testimoni diretti, dimostrino una conoscenza «privilegiata», cioè non relativa a notizie di dominio pubblico. Il giudice deve non già fornire la prova negativa della possibilità di conoscere i particolari riferiti attraverso le comuni fonti di informazione, circostanza che sarebbe impossibile da dimostrare, ma indicare gli elementi in base ai quali possa ragionevolmente escludersi che il racconto sia frutto di operazioni manipolatorie di dati di comune esperienza. (Fattispecie di annullamento con rinvio della sentenza di condanna per omicidio volontario basata sulle dichiarazioni di due collaboratori che avevano indicato un diverso movente e modalità di esecuzione in parte diverse).

Cass. pen. n. 7900/1998

In tema di prova testimoniale, trova applicazione il principio della «scindibilità» della valutazione, da intendersi nel senso che il giudice può ritenere veritiera una parte della deposizione e, nel contempo, disattendere altre parti di essa. Tuttavia, in siffatte ipotesi, il giudicante deve dare conto, con adeguata motivazione, delle ragioni che lo hanno indotto a tale diversa valutazione, e deve anche chiarire i motivi per i quali tale diversa valutazione non si risolve in un complessivo contrasto logico-giuridico della prova.

Cass. pen. n. 7530/1998

Il giudice di merito può trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali e riconoscimenti fotografici perché, nell'ambito dei poteri discrezionali che l'ordinamento gli riconosce, può attribuire concreto valore indiziante o probatorio all'identificazione dell'autore del reato mediante riconoscimento fotografico, che costituisce accertamento di fatto utilizzabile in virtù dei principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento.

Cass. pen. n. 5998/1998

In tema di criminalità organizzata di tipo mafioso la qualificazione di un soggetto come «uomo d'onore», proveniente da un appartenente ad una famiglia mafiosa, ha indubbiamente il valore di una notitia criminis ma, perché possa perdere la propria connotazione di generica dichiarazione verbale ed assurgere a dignità di prova alla stregua dei criteri fissati dall'art. 192 c.p.p., così da contribuire alla formazione non arbitraria del libero convincimento del giudice, deve essere assistita, al pari di ogni indizio, dall'acquisizione di altri elementi probatori, di qualunque natura (dati di fatto o concrete regole di condotta, quali la rete di rapporti interpersonali, i contatti, le cointeressenze), obiettivamente ed in maniera univoca apprezzabili come rafforzanti dell'anzidetta notitia criminis ed idonei a «storicizzare» l'accusa nei confronti di ogni chiamato.

Cass. pen. n. 5270/1998

In tema di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni rese da collaboranti, l'interesse a collaborare — che può animare il collaborante, in considerazione della possibilità di beneficiare delle misure previste dalle leggi speciali sui collaboratori di giustizia — non va confuso con l'interesse concreto a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di terzi. Invero, il generico interesse a fruire dei benefici premiali non intacca la credibilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti. (Nella fattispecie, nel ricorso, tra l'altro, si sosteneva che le dichiarazioni accusatorie rivolte contro l'imputato da alcuni collaboranti non potevano ritenersi spontanee e disinteressate in quanto i dichiaranti erano stati allettati a collaborare con la prospettiva della fruizione di vantaggiosi benefici premiali. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha evidenziato che il disinteresse, indicato dai giudici di merito per dedurre la attendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti, si riferiva, appunto, alla mancanza, non di un generico interesse alla collaborazione, ma di un interesse specifico ad accusare il chiamato in correità).

Cass. pen. n. 1515/1998

La chiamata in reità de relato, che rappresenta una fonte indiziaria affine, nella struttura, alla testimonianza indiretta, a differenza della chiamata diretta in reità - la quale può costituire fonte di convincimento circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza qualora la stessa abbia trovato riscontri in elementi esterni che, pur non riguardando in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato, siano comunque tali da rendere verosimile il contenuto della chiamata stessa - può integrare il grave indizio di colpevolezza solo se sorretta da adeguati riscontri estrinseci in relazione alla persona incolpata e al fatto che forma oggetto dell'accusa. Ed invero, quando la dichiarazione del chiamante si riferisce a circostanze non percepite da lui direttamente, non è sufficiente il controllo sulla sua mera attendibilità intrinseca, ma è necessario un più approfondito controllo del contenuto della dichiarazione, mediante la verifica, in particolare, della sussistenza di riscontri esterni individualizzanti.

Cass. pen. n. 1287/1998

Atteso il rilievo che, nell'art. 292, comma 1, lett. c), c.p.p., è attribuito, fra gli elementi da valutare ai fini della motivazione dell'ordinanza applicativa di misura cautelare, al «tempo trascorso dalla commissione del reato», in relazione non solo alle esigenze cautelari, ma anche agli indizi atti a giustificare in concreto la misura disposta, deve ritenersi, nel caso in cui detti indizi siano costituiti dalle dichiarazioni di soggetti rientranti nelle previsioni di cui all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., che quanto maggiore risulti l'intervallo di tempo trascorso dal fatto, tanto minore venga ad essere, a causa dell'inevitabile affievolirsi della memoria dell'evento, l'attendibilità del dichiarante. Di conseguenza, lo spessore dei riscontri esterni alle suddette dichiarazioni dovrà essere, perché queste assurgano al rango di «gravi indizi di colpevolezza», tanto maggiore quanto più lungo risulterà essere il summenzionato intervallo temporale.

Cass. pen. n. 332/1998

Stante l'autonomia del procedimento di prevenzione rispetto al processo penale, il giudice della prevenzione è abilitato a compiere una valutazione degli elementi probatori tratti da procedimenti penali anche in corso. Nell'ambito di tale valutazione, il giudice della prevenzione non è vincolato alla osservanza dell'art. 192 c.p.p., norma che è funzionale all'accertamento della responsabilità penale, potendo egli fondare il proprio convincimento su elementi di minore efficacia probatoria, i quali siano idonei a dimostrare, sul piano indiziario, che il prevenuto sia persona socialmente pericolosa.

Cass. pen. n. 766/1998

In tema di valutazione della prova anche nel nuovo sistema le persone offese o danneggiate dal reato assumono, quando invochino in sede penale l'accertamento del fatto costitutivo del loro diritto al risarcimento o alle restituzioni, la qualità di testimoni con modalità e contenuti che non si differenziano dal ruolo delle deposizioni rese da persone estranee agli interessi coinvolti nel processo penale. Anche nel vigore del nuovo codice di rito, anch'esso ispirato al sistema del libero convincimento del giudice, va riaffermato il principio che alla formazione di tale convincimento possono concorrere anche le testimonianze delle persone offese, costituite parti civili, essendo sufficiente che il giudice ne dimostri la credibilità ponendo in relazione tali testimonianze con altri elementi emergenti dalle risultanze processuali.

Cass. pen. n. 593/1998

In casi di violenza sessuale, il positivo riscontro, riguardo al fatto nella sua obiettività, delle dichiarazioni accusatorie, che quasi sempre sono singole poiché l'aggressore tende ad approfittare di condizioni di solitudine e di minore possibilità di difesa della vittima, rafforzando la loro intrinseca attendibilità non può non proiettarsi in senso favorevole sull'ulteriore riscontro da effettuare in ordine al contenuto invidividuale di dette dichiarazioni, nel senso di una maggiore valenza indiziante.

Cass. pen. n. 474/1998

Non può ritenersi consentito, in caso di plurime chiamate di correità provenienti dalla medesima persona nella stessa vicenda processuale, utilizzare gli elementi di riscontro - accertati nei confronti di un imputato - a conforto delle accuse rivolte anche ad altro imputato. Pertanto se il dichiarante abbia chiamato in correità varie persone per vari reati e se dalle confessioni degli accusati o degli altri elementi di prova sia riscontrata la veridicità di alcune o della maggior parte delle accuse, ciò va considerato ai soli fini del giudizio di intrinseca attendibilità del dichiarante, ma non può valere come altro elemento di prova a conferma di chiamata di correità nei confronti di altro soggetto sprovvisto di riscontri propri, costituendo ciò, altrimenti, palese violazione del principio della valutazione della prova a norma del terzo e quarto comma dell'art. 192 c.p.p. Conseguentemente deve essere attribuita piena attendibilità e valenza probatoria a tutte e soltanto quelle parti della dichiarazione accusatoria che risultano suffragate da idonei elementi di riscontro.

Cass. pen. n. 11957/1997

Ai fini della formazione del convincimento del giudice, non è possibile considerare elemento a carico dell'imputato, e assumere così la rilevanza di indizio idoneo a sorreggere una dichiarazione indiretta priva di ulteriori riscontri, la mancata coltivazione di un alibi equiparando la mancata coltivazione alla prova positiva della sua falsità.

Cass. pen. n. 8962/1997

La valutazione del contenuto della dichiarazione del minore — parte offesa — in materia di reati sessuali, in considerazione delle complesse implicazioni che la materia stessa comporta, deve contenere un esame: dell'attitudine psicofisica del teste ad esporre le vicende in modo utile ed esatto; della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne. Proficuo è l'uso dell'indagine psicologica, che concerne due aspetti fondamentali: l'attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità. Il primo consiste nell'accertamento della sua capacità di recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ricordarle e di esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all'età, alle condizioni emozionali, che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e natura dei rapporti familiari. Il secondo — da tenere distinto dall'attendibilità della prova, che rientra nei compiti esclusivi del giudice — è diretto ad esaminare il modo in cui la giovane vittima ha vissuto ed ha rielaborato la vicenda in maniera da selezionare sincerità, travisamento dei fatti e menzogna. In ogni caso bisogna evitare ogni trauma ulteriore, non strettamente ed assolutamente indispensabile.

Cass. pen. n. 8606/1997

La deposizione della parte lesa può essere assunta, anche da sola, come prova, purché venga sottoposta ad indagine positiva circa la sua attendibilità. Ed invero, alle dichiarazioni indizianti della persona offesa non si applicano le regole di cui ai commi terzo e quarto dell'art 192 c.p.p., che postulano la presenza di riscontri esterni, e tuttavia, atteso l'interesse di cui essa è portatrice, più rigorosa deve essere la valutazione ai fini del controllo di attendibilità rispetto al generico vaglio cui vanno sottoposte le dichiarazioni di ogni testimone ed opportuno appare il riscontro in altri elementi probatori.

Cass. pen. n. 3643/1997

In tema di valutazione del contenuto di intercettazioni telefoniche, il significato attribuito al linguaggio criptico utilizzato dagli interlocutori, e la stessa natura convenzionale di esso, costituiscono valutazioni di merito insindacabili in cassazione. La censura di diritto può riguardare soltanto la logica della chiave interpretativa. Se ricorrono di frequente termini che non trovano una spiegazione coerente con il tema del discorso, e invece si spiegano nel contenuto ipotizzato nella formulazione dell'accusa, come dimostrato dalla connessione con determinati fatti commessi da persone che usano gli stessi termini in contesti analoghi, se ne trae ragionevolmente un significato univoco e la conseguente affermazione di responsabilità è scevra da vizi.

Cass. pen. n. 8402/1997

In tema di valutazione della prova indiziaria, quando dall'indizio, che è un fatto certo dal quale sia possibile inferire la prova di un fatto incerto, sia desumibile più di una conseguenza, il giudice deve applicare la regola metodologica ricavabile dall'art. 192 c.p.p.: egli deve operare un apprezzamento unitario degli indizi previa valutazione di ciascun indizio singolarmente al fine di vagliarne la valenza qualitativa individuale e, determinata in positivo la valenza significativa di ciascun indizio, passare all'esame globale unitario dei vari elementi indizianti attraverso il quale la fisiologica ambiguità di ciascuno di tali elementi può risolversi così che ciascun indizio si sommi e si integri con gli altri e la risultante di tale amalgama determini una chiarificazione univoca che consente di ritenere raggiunta la prova logica del fatto non noto. La prova così raggiunta, se conseguita con rigore metodologico che giustifica e sostanzia il principio del libero convincimento del giudice, non costituisce uno strumento meno qualificato della prova diretta, o storica.

Cass. pen. n. 7322/1997

In tema di attendibilità intrinseca della chiamata in correità, il requisito del disinteresse costituisce uno solo dei criteri con i quali si misura la affidabilità della chiamata, di talché, come la sua presenza non può portare automaticamente a ritenere la stessa attendibile, così la sua assenza non conduce necessariamente ad escluderla. Infatti, la presenza di un interesse nel chiamante, alimentando il sospetto che le sue dichiarazioni ne risultino influenzate, deve indurre il giudice a usare una maggiore cautela, accertando, da un lato, se e quanto quell'interesse abbia inciso sulle dichiarazioni e, dall'altro, applicando con il massimo scrupolo gli altri parametri di valutazione offerti dalla esperienza e dalla logica. (Fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto non illogica la valutazione dei giudici di merito circa il valore “neutro” dell'interesse premiale che poteva avere determinato la scelta di collaborazione del chiamante in correità, sulla base della considerazione che, seppure tale interesse poteva costituire motivo di dubbio circa l'attendibilità della chiamata, per altro verso esso poteva essere visto come garanzia di veridicità, posto che l'accertamento della eventuale falsità delle dichiarazioni avrebbe determinato la revoca dei benefici conseguiti alla collaborazione e quindi vanificato il risultato pratico che aveva stimolato tale scelta).

Cass. pen. n. 1525/1997

In tema di valutazione delle dichiarazioni accusatorie rese da soggetti indicati nell'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., anche ai fini cautelari, il prioritario giudizio di attendibilità intrinseca del dichiarante deve essere fondato su canoni rigorosamente logici e deve essere esteso ad ogni singola dichiarazione, dovendosi solo in un momento successivo passare alla verifica dei c.d. «riscontri», non necessariamente dotati (quando si verta in materia cautelare), di connotazioni «individualizzanti». In tale ottica risulta quindi giustificata anche la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti da un medesimo soggetto.

Cass. pen. n. 6937/1997

In tema di modalità di determinazione del reddito d'impresa per i soggetti ammessi ai regimi forfetari e che si avvalgono della c.d. contabilità semplificata (D.L. 19 dicembre 1984, n. 853 art. 2 comma 9, convertito con modificazioni in L. 17 febbraio 1985, n. 17, esteso all'anno 1988 dal D.L. 14 marzo 1988, n. 70, convertito con modificazioni in L. 13 maggio 1988, n. 154), il criterio presuntivo, stabilito dalla disposizione fiscale, costituisce il fondamento della stessa previsione penale, in quanto non si tratta di un metodo di calcolo seguito in concreto dalla polizia tributaria per individuare il reddito medesimo, ma di un sistema espressamente stabilito dalla legge come contropartita, che serve a bilanciare la particolare facilitazione accordata nella tenuta della contabilità, ridotta all'essenziale. L'interessato, in altri termini, scegliendo questa modalità conosce preventivamente che il suo reddito sarà, poi, valutato sulla base di precise presunzioni. Ne deriva che la previsione tributaria ha valenza sostanziale e non trova applicazione la regola processuale stabilita dall'art. 192 c.p.p. in ordine ai caratteri che devono presentare gli indizi e, quindi, anche le c.d. presunzioni tributarie, utilizzate a fini processuali. (Fattispecie relativa a rigetto di motivo di ricorso con il quale l'imputato aveva dedotto mancanza di prova, in quanto i calcoli presuntivi, validi in sede fiscale, non avrebbero rilevanza nel campo penale).

Cass. pen. n. 6402/1997

È manifestamente infondata, in riferimento all'art. 24, comma secondo, Cost. e all'art. 6, comma terzo, lett. d) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 192 e 513 c.p.p., nella parte in cui esso consente al giudice di acquisire, in determinati casi, gli interrogatori resi dall'imputato di reato connesso al di fuori del contraddittorio delle parti, in quanto, dopo le sentenze n. 254 del 1992, nn. 60 e 381 del 1995 della Corte costituzionale, il testo dell'art. 513 c.p.p. rappresenta la norma base per il recupero dibattimentale di dichiarazioni rese precedentemente al fine di contemperare il rispetto del principio guida dell'oralità con l'esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. (In motivazione, la S.C., nel sottolineare che, ai fini del profilo di legittimità costituzionale della norma in questione, appare del tutto irrilevante la circostanza che penda in Parlamento un disegno di modificazione legislativa di essa, ha affermato che le dichiarazioni rese nel quadro di cui all'art. 210 c.p.p. provengono da una posizione di inviolabilità di difesa e di garanzia posta ad esclusivo presidio del dichiarante e che, pertanto, esse sono sottoposte dalla legge al canone valutativo di cui all'art. 192, commi terzo e quarto, c.p.p., il quale non solo non consente, ma addirittura vieta al giudice di fondare il convincimento di responsabilità penale esclusivamente sulla chiamata in correità, imponendogli di valutarla unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità).

Cass. pen. n. 6182/1997

In tema di prove, la disposizione di cui al terzo comma dell'art. 192 del codice di procedura penale — valutazione delle dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso — non rappresenta un limite al principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, ma costituisce soltanto una indicazione di carattere metodologico: ed invero, nella valutazione delle risultanze processuali, la scelta che il giudice del merito compie in ordine al credito da prestare alle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari legittimamente acquisite al processo, piuttosto che alle divergenti dichiarazioni fatte al dibattimento, non è sindacabile in sede di legittimità quando la scelta sia stata fatta in base ad ineccepibili criteri logici e di metodo e sia suffragata da una motivazione convincente.

Cass. pen. n. 2148/1997

In tema di misure di prevenzione il giudice non deve raggiungere la prova dell'appartenenza ad una associazione mafiosa, ma raccogliere un contesto indiziario univoco sufficientemente indicativo della pericolosità del soggetto.

Cass. pen. n. 5036/1997

Ai sensi dell'art. 192, comma terzo, c.p.p., per ritenere la responsabilità di un imputato sulla base delle dichiarazioni accusatorie di un coimputato o di persona imputata in un procedimento connesso è necessario che le dette dichiarazioni siano suffragate da riscontri obiettivi. Ma non è necessario che i detti riscontri riguardino le singole circostanze riferite dal dichiarante, essendo sufficiente che riguardino la dichiarazione nel suo complesso. Infatti, la citata disposizione richiede che gli «altri elementi di prova», unitamente ai quali il giudice di merito deve valutare le dichiarazioni di cui si tratta, confermino l'attendibilità delle stesse e non le singole circostanze riferite; altrimenti, la prova sarebbe data dai cosiddetti riscontri, e le dichiarazioni delle persone menzionate nell'art. 192, commi terzo e quarto, c.p.p. sarebbero svuotate di quel valore probatorio che il legislatore ha attribuito loro, disponendo che le stesse «sono valutate unitamente agli altri elementi di prova», i quali, peraltro, possono esser costituiti da dichiarazioni di altri collaboranti, dato che il legislatore non ha posto alcuna limitazione a riguardo.

Cass. pen. n. 4946/1997

In tema di valutazione della prova testimoniale, il giudice può fondare il proprio convincimento anche sulla sola deposizione della persona offesa, salvo in tal caso il controllo sulla sua credibilità, da effettuare con ogni necessaria cautela e cioè con un esame particolarmente penetrante e rigoroso attraverso una conferma di altri elementi probatori; di modo che tale testimonianza può essere assunta, da sola, come fonte di prova unicamente se essa veniva sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva.

Cass. pen. n. 4790/1997

In tema di valutazione della prova, la confessione, pur soggetta, come tutte le prove orali, alla verifica di attendibilità, non subisce le limitazioni di cui ai commi terzo e quarto dell'art. 192 c.p.p. e non ha quindi bisogno di riscontri esterni.

Cass. pen. n. 4495/1997

È lecita la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti da un chiamante in correità, per cui l'attendibilità del medesimo, anche se denegata per una parte del suo racconto, non ne coinvolge necessariamente tutte le altre che reggano alla verifica giudiziale del riscontro; così come, per altro verso, la credibilità ammessa per una parte dell'accusa, non può significare attendibilità per l'intera narrazione in modo automatico.

Cass. pen. n. 4473/1997

L'obbligo (o il potere), previsto dall'art. 195 c.p.p., di disporre l'esame delle persone che hanno fornito l'informazione al teste è finalizzato alla ricerca di una convalida e all'ottenimento di un controllo su quanto riferito da colui che rende la testimonianza de relato. Attesa quindi l'identità di ratio, sono sicuramente applicabili alla testimonianza indiretta anche le regole e i principi stabiliti in tema di chiamata in correità dall'art. 192, terzo comma, c.p.p. (La corte ha affermato il principio con riferimento alla fattispecie di dichiarazioni provenienti da soggetto che, ancorché non compreso tra quelli indicati nel citato art. 192 c.p.p., sia comunque imputato in altro processo e collabori con la giustizia).

Cass. pen. n. 655/1997

In tema di valutazione delle dichiarazioni accusatorie, occorre tener presente che le dichiarazioni che attengano alla appartenenza di un dato soggetto a un gruppo criminale, provenienti da un soggetto inserito in una famiglia o cosca mafiosa contrapposta, devono essere valutate alla stregua delle dichiarazioni rese da persona che può riferire circostanze utili alle indagini ai sensi dell'art. 351 comma primo c.p.p. e non quali dichiarazioni di persona indagata di reato connesso o collegato e soggette perciò al criterio di valutazione previsto dall'art. 192 commi terzo e quarto c.p.p. Ciò non toglie naturalmente che la loro attendibilità deve essere vagliata tenendo conto dei particolari motivi che possono aver indotto il dichiarante a riferirle.

Cass. pen. n. 2540/1997

Le dichiarazioni rese dalla vittima del reato, cui la legge conferisce la capacità di testimoniare, possono essere assunte quali fonti di convincimento al pari di ogni altra prova senza necessità di riscontri esterni (non essendo applicabile al caso il canone di valutazione stabilito dall'art. 192 comma terzo c.p.p.); tuttavia il giudice non è esentato dal compiere un esame sull'attendibilità intrinseca del dichiarante, che deve essere particolarmente rigoroso quando siano carenti dati obiettivi emergenti dagli atti a conforto dell'assunto della persona offesa. (Nella specie, relativa ad annullamento di sentenza di condanna per violenza carnale ed altri reati commessi dall'imputato nei confronti della propria figlia, la Suprema Corte ha osservato che la deposizione della persona offesa era stata assunta quale unica fonte di prova senza un controllo sulla credibilità soggettiva della ragazza e sulla coerenza interna del suo racconto: nessuna verifica era stata fatta al fine di stabilire se lo snodarsi dei fatti storici, come riferito dalla stessa, fosse plausibile e realizzabile; i giudici avevano trascurato di esaminare la circostanza, pur di significativo peso e valore, che la persona offesa nutriva aperti sentimenti di odio e rancore verso il padre (già condannato per violenza carnale continuata nei suoi confronti); risultava accertato che l'imputato ostacolasse una relazione della figlia con atteggiamenti vessatori anche nei confronti del presunto amante (da lui inseguito in auto proprio il giorno dei fatti per cui è processo); anche il movente riferito dalla ragazza alla base dell'aggressione sessuale (non sfogo di libidine o desiderio di riagganciare la relazione, ma vendetta per «quell'altra volta») meritava un esame critico e, a tale proposito, le affermazioni accusatorie segnalavano un movente atipico per un reato sessuale, sicché la problematica della ritorsione deve essere affrontata allo scopo di accertare se sia ragionevole la versione di una vendetta così estemporanea e tardiva nei confronti della figlia (che tra l'altro non pare il soggetto che ha attivato il pregresso processo contro il padre); pur tema da indagare è se il movente della vendetta sia conciliabile con i sentimenti di affetto, pur particolari (anche interpretabili come insana gelosia) che legano l'uomo alla ragazza).

Cass. pen. n. 1315/1997

La chiamata di correo, insufficiente da sola per pervenire a un giudizio di colpevolezza, e il riscontro probatorio estrinseco, elemento per sua natura privo della consistenza di prova autosufficiente di colpevolezza, devono integrarsi reciprocamente e formare oggetto di un giudizio complessivo circa la validità della chiamata in correità. Di conseguenza, la deposizione testimoniale del terzo, che riferisce in ordine a circostanze apprese direttamente dal dichiarante, le quali costituiscono oggetto della chiamata in correità, pur non potendo attingere al minimo di sufficienza quale autonoma prova della colpevolezza del chiamato, proprio per la derivazione di conoscenza da un unico referente, ben può costituire, nella globale valutazione del giudice, l'elemento di riscontro oggettivo ed esterno dell'attendibilità della chiamata in correità, in considerazione dell'apporto di conoscenza di elementi certi anche esterni al thema probandum, cioè del fatto di cui all'imputazione.

Cass. pen. n. 3568/1997

In tema di valutazione della chiamata di correo, occorre considerare che la specificità e il dettaglio di tale genere di dichiarazioni devono essere verificati in relazione alla natura del reato addebitato. I dettagli relativi a un concorso morale nel reato o a una associazione per delinquere, fenomeni in larga misura immateriali e privi di manifestazioni esterne ad essi immediatamente riferibili, per loro natura sono necessariamente meno specifici e particolareggiati di quelli relativi a un reato che consti di evento materiale e come tale apprezzabile attraverso i sensi. Nella specie, ai fini della valutazione circa la sussistenza dei gravi indizi per l'applicazione di una misura cautelare relativa all'imputazione di associazione per delinquere di tipo mafioso, è stata ritenuta non mancante di specificità e di dettaglio la dichiarazione di un chiamante che individui i soggetti affiliati all'associazione, ne indichi i capi, e fornisca inoltre elementi di fatto in ordine ai loro rapporti interpersonali.

Cass. pen. n. 10930/1996

Con riferimento alle dichiarazioni provenienti da uno dei soggetti indicati nei commi terzo e quarto dell'art. 192 c.p.p., il codice non introduce una restrizione al principio del libero convincimento del giudice, ma si limita ad indicare i criteri valutativi da adottare quando si tratta di vagliare le loro dichiarazioni. In ogni caso, distinguendo tra chiamata in correità e dichiarazione accusatoria, occorre precisare che il terzo comma dell'art. 192 c.p.p. si riferisce unicamente alla prima. La chiamata in reità può dunque acquistare valenza di prova diretta alla stessa stregua della testimonianza, senza che possa stabilirsi una gerarchia, tra le due fonti probatorie, ma deve naturalmente superare il vaglio di attendibilità che deve essere particolarmente pregnante in relazione al grado di diffidenza che il dichiarante può suscitare. In ogni caso tali dichiarazioni possono concorrere, quale elemento indiziario, nel rispetto del criterio fissato dal secondo comma dell'art. 192 c.p.p. per la valutazione della prova logica, alla formazione del libero convincimento del giudice, che, per il canone fondamentale fissato dal primo comma, è sempre e necessariamente ancorato all'obbligo di motivazione.

Cass. pen. n. 5732/1996

In tema di dichiarazioni accusatorie provenienti da soggetti rientranti nelle previsioni di cui all'art. 192, commi terzo e quarto, c.p.p., l'attitudine di tali dichiarazioni a costituire «gravi indizi di colpevolezza», al fine dell'applicazione o del mantenimento di misure cautelari personali, può prescindere dalla esistenza di riscontri «individualizzanti» (cioè riferibili specificamente al soggetto accusato) in caso di elevata attendibilità intrinseca delle dichiarazioni medesime o di pregnante valore confermativo dei riscontri relativi al fatto nella sua obiettività, dovendosi per converso ritenere necessario il carattere individualizzante dei riscontri quando un affidabile giudizio di attendibilità non sia possibile a causa della presenza, nelle dichiarazioni accusatorie, di errori, contraddizioni o incoerenze.

Cass. pen. n. 10469/1996

In tema di valutazione della prova l'alibi falso, in quanto sintomatico, a differenza di quello non provato, del tentativo dell'imputato di sottrarsi all'accertamento della verità, deve essere considerato come un indizio a carico il quale, pur di per sé inidoneo — in applicazione della regola di cui al secondo comma dell'art. 192 c.p.p. — a fondare il giudizio di colpevolezza, costituisce tuttavia un riscontro munito di elevata valenza dimostrativa dell'attendibilità delle dichiarazioni del chiamante in correità, ai sensi del terzo comma del predetto art. 192 c.p.p.

Cass. pen. n. 8724/1996

La valutazione delle dichiarazioni confessorie dell'imputato ai fini del giudizio di responsabilità a suo carico deve essere condotta e motivata in base ai criteri indicati nel primo comma dell'art. 192 c.p.p., poiché essa si distingue nettamente dalla valutazione della contestuale chiamata in correità effettuata dal medesimo imputato, per la cui valenza probatoria, secondo il disposto del terzo comma dell'art. 192 predetto, non basta la credibilità dell'autoincolpazione in quanto tale, ma occorrono riscontri esterni che suffraghino l'assunto accusatorio del confitente. Ne consegue che la confessione può essere posta a base del giudizio di colpevolezza nell'ipotesi in cui il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l'attendibilità, fornendo le ragioni per cui debba respingersi ogni intento autocalunniatorio o di intervenuta costrizione del soggetto. (In applicazione di detto principio la Corte ha rigettato il gravame con il quale il ricorrente lamentava che mentre la sua confessione era stata ritenuta dal giudice di merito prova di colpevolezza nei suoi confronti, non era stata nel contempo considerata sufficiente a fondare il giudizio di responsabilità dei coimputati).

Cass. pen. n. 8662/1996

Anche un solo indizio può consentire di desumere l'esistenza del fatto ignoto purché sia talmente preciso da necessariamente condurre a questo sul piano logico, senza la mediazione di altri indizi. L'art. 192, comma secondo, c.p.p., infatti non esige che gli indizi siano più di uno ma si limita a richiedere che gli stessi siano gravi, precisi e concordanti, solo quando nessuno degli indizi esistenti, considerato disgiuntamente dagli altri, consenta di risalire al fatto ignoto.

Cass. pen. n. 7627/1996

La causale del delitto, rigorosamente argomentata, può costituire elemento di riscontro individualizzante ad una chiamata in correità intrinsecamente attendibile.

Le chiamate di correo convergenti, una volta che ciascuna di esse abbia passato il vaglio dell'attendibilità intrinseca, divengono concorrenti mezzi di prova di valenza dimostrativa più accentuata rispetto alla chiamata in correità corroborata da «altri elementi di prova», di natura oggettiva che esplichino esclusivamente una funzione di conferma. La valenza della combinazione dimostrativa risulta peraltro attenuata tutte le volte che la «chiamata in correità» sia confermata da una semplice «chiamata in reità».

Perché possa parlarsi di «doppia chiamata» in correità è necessaria una convergenza in ordine allo specifico fatto materiale oggetto del narrato. (Affermando siffatto principio la Cassazione ha escluso la sussistenza degli elementi di conferma di cui all'art. 192 comma terzo c.p.p. con riguardo a due chiamate la prima delle quali collocava l'accusato solo nella fase iniziale del delitto e l'altra solo in una fase successiva).

Cass. pen. n. 4759/1996

La lacuna di un indizio, consistente nella sua possibile alternativa attribuzione, non può essere colmata su basi meramente logiche. Pertanto, in caso di attribuzione alternativa di concorso materiale in furto, commesso da un terzo, a persona non riconosciuta, tra due accertatamente prossime al luogo del reato al momento della sua consumazione, la sola supposizione che una di esse possa aver consentito il contributo dell'altra non risolve le lacune indiziarie, ai fini dell'art. 192, comma 2, c.p.p. Permane, infatti, l'imprecisione dell'indizio circa l'identità del concorrente materiale e, a maggior ragione, non può attribuirsi connotato di gravità alla compresenza dell'altra, per dedurne il contributo morale, in assenza di ogni altro elemento. (Fattispecie in tema di furto aggravato).

Cass. pen. n. 5533/1996

L'accertata inattendibilità di un contesto ritrattatorio non vale di per sé ad attribuire alle originarie accuse di un coimputato valore probatorio a prescindere dalle regole valutative imposte dalla natura del mezzo ed in particolare dall'art. 192 comma 3 c.p.p.; il giudice cioè, pur a fronte di un suddetto contesto, non è esonerato dall'indagine relativa all'attendibilità intrinseca ed estrinseca della primitiva dichiarazione, indagine che anzi, proprio alla luce della comunque rilevata mancanza di costanza da parte dell'accusatore, si impone come particolarmente accurata e rigorosa.

Cass. pen. n. 4727/1996

La chiamata di correo de relato, di per sé valida, esige un più rigoroso controllo dell'attendibilità intrinseca ed estrinseca.

Cass. pen. n. 4108/1996

I riscontri esterni possono essere sia rappresentativi che logici, purché dotati di tale consistenza da resistere agli elementi di segno opposto eventualmente dedotti dall'imputato. Si è inoltre chiarito che essi non debbono consistere né in una prova autonoma della colpevolezza del chiamato, il che renderebbe superflua la chiamata in correità, né necessariamente concernere in modo diretto il thema probandum, essendo invece sufficiente che gli stessi si risolvano in una conferma anche indiretta delle dichiarazioni accusatorie, la quale però consenta, per la sua consistenza di dedurre in via logica, a mente dell'art. 192, comma 3, c.p.p. l'attendibilità di tali fonti di prova. In base a questo principio — applicato all'ipotesi di coesistenza di più chiamate in correità — deve desumersi che qualora un coimputato od un imputato per reati connessi rendano dichiarazioni plurime, l'integrazione probatoria di una di esse può anche derivare dalla sussistenza di elementi di conferma riguardanti direttamente le altre, purché sussistano ragioni idonee a giustificare siffatto giudizio. E tali ragioni possono individuarsi nella stretta connessione risultante tra i fatti oggetto delle dichiarazioni direttamente riscontrate ed i fatti di cui alle ulteriori accuse, per essere, ad esempio, gli uni prodromi degli altri.

Cass. pen. n. 1637/1996

La chiamata di correo, nell'economia del giudizio relativo all'esistenza dei presupposti legittimanti l'applicazione di una misura cautelare personale, è sicuramente un elemento importante, normativamente privilegiato, ma a condizione che, superata positivamente l'attendibilità del dichiarante, si individui qualche riscontro esterno, oggettivo o logico. La verifica dell'attendibilità del chiamante deve essere operata sia sotto il profilo intrinseco (con l'apprezzamento della precisione, della coerenza e della ragionevolezza), sia con la ricerca del grado di interesse del dichiarante in relazione alla specifica accusa, oltre che alla stregua della sua personalità e dei motivi che lo hanno indotto a coinvolgere il chiamato, tenendo conto che lo spessore dell'attendibilità della chiamata va correlato al tipo di conoscenza del chiamante (concorrente o a diretta conoscenza della vicenda ovvero che questa abbia appresa de relato), sia, infine, sotto il profilo estrinseco, riferito ad elementi oggettivi rappresentativi, tra cui anche le dichiarazioni autonome e convergenti di altri soggetti, o logici, che la chiamata stessa, già positivamente verificata ab intrinseco, confermino.

Cass. pen. n. 3501/1996

È da ritenersi riscontro qualsiasi elemento desumibile dagli atti che si ponga, logicamente, nella stessa direzione della chiamata in correità, senza pretendere di costituire da solo la prova.

Cass. pen. n. 22/1996

In presenza di significative divergenze di dichiarazioni rese da due chiamanti in correità, aventi ad oggetto non particolari marginali, bensì il ruolo e il contributo causale asseritamente fornito dall'indagato all'omicidio contestato, ai fini di provvedimenti cautelari personali non è consentito utilizzare la parte coincidente delle due dichiarazioni, per argomentare che l'indagato sarebbe comunque coinvolto come concorrente nel delitto, senza fornire una plausibile spiegazione delle ragioni delle versioni in contrasto e senza rendere conto dei motivi che convincono il giudice dell'attendibilità dei due dichiaranti e delle dichiarazioni rese nella parte che risulta coincidente.

Cass. pen. n. 2246/1996

L'autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione però che gli stessi siano assunti non con l'efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori. Inoltre dette presunzioni hanno il valore di un indizio sicché per assurgere a dignità di prova devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti. (Nella fattispecie il giudice di merito ha fatto emergere l'elemento oggettivo del reato «dal semplice raffronto tra le scritture contabili e le fatture afferenti i beni venduti, il cui costo si rileva di gran lunga superiore a quello contenuto nella dichiarazione» senza indicare se, in tal modo, si superassero le soglie di punibilità stabilite sia quella quantitativa sia quella percentuale).

Cass. pen. n. 2226/1996

In tema di valutazione della prova in un procedimento di natura indiziaria, a fronte della molteplicità degli indizi, il giudice deve procedere, in primo luogo, all'esame analitico di ciascuno di essi, qualificandone i connotati individuali di precisione e gravità, e poi alla sintesi finale, collegandoli tutti ad una sola ipotesi di fatto e collocandoli armonicamente in un unico contesto, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili l'esistenza del fatto incerto, provato secondo lo schema del sillogismo giudiziario.

Cass. pen. n. 1428/1996

L'accertamento della causale del delitto, quando si tratti di elementi probatori di natura soltanto indiziaria, deve essere puntualmente perseguito, in quanto l'identificazione della causale assume, nei processi di carattere indiziario, specifica rilevanza per la valutazione e per la coordinazione logica delle risultanze processuali ai fini della formazione del convincimento del giudice in ordine a una ragionata certezza della responsabilità dell'imputato. (Fattispecie relativa a delitto di strage).

L'esistenza di eventuali imprecisioni della chiamata in correità non è, di per sé, sufficiente ad escludere l'attendibilità del collaborante allorché, alla luce di altri obiettivi riscontri, il giudice di merito valuti globalmente, con prudente apprezzamento, il materiale indiziario e ritenga, con congrua motivazione, di dare prevalenza agli elementi che sostengono la credibilità dell'accusa.

Cass. pen. n. 661/1996

La chiamata in correità richiede un cauto e prudente apprezzamento da parte del giudice di merito, che è tenuto a verificare se sia intrinsecamente attendibile, con riferimento alla sua genuinità, alla veridicità, alla spontaneità, alla costanza ed alla logica interna del racconto, ed inoltre, se sia confortata da riscontri estrinseci ed obiettivi, cioè da fatti storici che, se anche da soli non raggiungono il valore di prova autonoma di responsabilità del chiamato in correità (altrimenti sarebbero essi stessi sufficienti a provarne la colpevolezza), complessivamente considerati e valutati, risultino compatibili con la chiamata in correità e di questa rafforzativi.

Cass. pen. n. 12422/1995

Nei processi indiziari deve ritenersi rilevante, ai fini dell'accusa, l'accertamento della causale del delitto, non già quale ulteriore indizio, ma quale elemento di raccordo e di potenziamento della efficienza probatoria degli indizi; tale obbligo di accertamento della causale, per il giudice di merito, si attenua, peraltro, in misura proporzionale alla ritenuta gravità, precisione e concordanza degli indizi e, quindi, alla loro complessiva efficienza probatoria.

Cass. pen. n. 11084/1995

In tema di chiamata in correità, allorquando il giudice del merito è chiamato a valutare l'attendibilità intrinseca di un collaborante, già ritenuto attendibile in altro procedimento definito con provvedimento irrevocabile, tale apprezzamento, pur rimesso alla libera determinazione del giudicante, non può prescindere dagli elementi di prova già utilizzati nel procedimento esaurito. (Fattispecie relativa al delitto ex art. 416 bis c.p.).

Cass. pen. n. 10141/1995

Mentre il fallimento dell'alibi non può essere posto a carico dell'imputato come elemento sfavorevole, non essendo compito di quest'ultimo dimostrare la sua innocenza, ma onere dell'accusa di provarne la colpevolezza, l'alibi falso, cioè quello rivelatosi preordinato e mendace, può essere posto in correlazione con le altre circostanze di prova e valutato come indizio, nel contesto delle complessive risultanze probatorie, se appaia finalizzato alla sottrazione del reo alla giustizia.

Cass. pen. n. 9712/1995

La sussistenza del delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso può essere desunta, oltre che da prove dirette, anche da indizi precisi e concordanti, nonché dalla causale dei comportamenti delittuosi (reati-fine) in quanto il movente ha non solo la capacità di esaltare gli elementi indiziari di carattere oggettivo facendoli convergere in un quadro indiziario di riferimento, ma è esso stesso dotato dell'autonoma capacità di rilevare ciò che senza la sua identificazione resterebbe privo di significato.

Cass. pen. n. 9090/1995

È perfettamente lecita la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti da un chiamante in correità per cui l'attendibilità del medesimo, anche se denegata per una parte del suo racconto, non ne coinvolge necessariamente tutte le altre, che reggano alla verifica giudiziale del riscontro, in quanto suffragate da idonei elementi di controllo esterno.

Cass. pen. n. 11/1995

In tema di misure cautelari personali, per gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell'art. 273 c.p.p. devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che — contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova — non valgono, di per sé, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell'indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza. (Fattispecie in tema di chiamata in correità, che la S.C. ha ritenuto debba essere valutata alla stregua di qualsiasi altro indizio, sottolineando che la sua fonte, costituita da soggetti coinvolti in vario grado nel fatto per cui si procede, giustifica il dubbio in ordine al disinteresse che la determina e, conseguentemente, la massima di esperienza secondo la quale essa, diversamente dalla testimonianza, non può in nessun caso integrare, di per sé sola, un grave indizio di colpevolezza, se non sia corroborata da riscontri estrinseci idonei a suffragarne l'attendibilità).

Cass. pen. n. 2855/1995

Quando il chiamante in correità addebita a taluno il concorso morale nel reato (sub specie di consenso alla commissione del fatto, prestato nel corso di una riunione deliberativa tenuta dai concorrenti), i riscontri estrinseci alla dichiarazione accusatoria non possono concernere solo le modalità di esecuzione dell'illecito, ma devono anche riguardare la particolare forma di partecipazione all'illecito nella quale il concorso morale si è concretato. (Fattispecie relativa a custodia cautelare disposta nei confronti di un indagato per concorso in tentato omicidio).

Cass. pen. n. 1622/1995

Le dichiarazioni della persona offesa dal reato sono — indipendentemente dalla eventuale concorrente qualifica di coindagato in procedimenti connessi o collegati del soggetto che le rende — assimilabili alla testimonianza, che il legislatore considera un mezzo di prova, attribuendole, ai fini dell'affermazione della responsabilità, una presunzione di attendibilità maggiore della semplice chiamata in correità o in reità, la quale, pur costituendo un «elemento» di prova, esige la concomitanza di altri elementi di eguale valenza, che la corroborino. (Fattispecie relativa a procedimento incidentale de libertate, relativamente al quale la S.C. ha ritenuto che la deposizione della vittima dell'azione criminosa, per quanto rappresenti un quid pluris rispetto all'indizio, ancorché grave, cui è subordinata la prognosi richiesta dall'art. 273 c.p.p., deve essere dal giudice sottoposta a un rigoroso vaglio, al fine di escludere che essa sia effetto di mire deviatrici).

Cass. pen. n. 2845/1995

In tema di misure cautelari, in ordine al valore di riscontro che una dichiarazione accusatoria, resa da collaboratore di giustizia, assume nei confronti di altra chiamata in reità o correità, resa da altro soggetto parimenti qualificato, l'elemento richiesto dall'art. 192, comma terzo, c.p.p., per far assurgere ad elemento probatorio quanto dichiarato dai soggetti indicati ai commi terzo e quarto del citato articolo, può essere costituito da qualsiasi circostanza - non ponendo la legge, in merito, alcuna esclusione che non sia quella, implicita, della sua rilevanza - e, quindi, anche da altra dichiarazione accusatoria, sicché, salva la positiva dimostrazione del previo accordo menzognero tra i due dichiaranti, una dichiarazione in tal modo riscontrata è correttamente utilizzata ai fini di cui all'art. 273 c.p.p.

Cass. pen. n. 7321/1995

Nel nostro ordinamento processuale penale, che non conosce le prove legali e si affida al libero convincimento del giudice, la confessione resa nelle forme di legge è un elemento probatorio da valutare senza alcun limite predeterminato e solo dando conto, nella obbligatoria motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati; i limiti alla formazione del libero convincimento che pongono i commi secondo e terzo dell'art. 192 sono eccezionali e non suscettibili di applicazione analogica, perché mentre è stabilito per legge che gli elementi di prova ricavabili da chiamate in correità non siano autosufficienti e necessitino quindi di verifiche estrinseche, la confessione ben può costituire prova sufficiente di responsabilità del confidente, indipendentemente dall'esistenza di riscontri esterni, perché il giudice nel suo potere di apprezzamento del materiale probatorio prenda in esame le circostanze obiettive e subiettive che hanno determinato ed accompagnato la confessione e dia ragione, con logica motivazione, del proprio convincimento circa l'affidabilità della stessa.

Cass. pen. n. 2328/1995

In tema di valutazione di plurime dichiarazioni accusatorie provenienti da soggetti rientranti nelle categorie di cui all'art. 192, commi terzo e quarto, c.p.p., l'esigenza che le medesime, per costituire riscontro l'una dell'altra, siano convergenti non può implicare la necessità di una loro totale e perfetta sovrapponibilità (la quale, anzi, a ben vedere, potrebbe essa stessa costituire motivo, talvolta, di sospetto), dovendosi al contrario ritenere necessaria solo la concordanza sugli elementi essenziali del thema decidendum, fermo restando il potere-dovere del giudice di esaminare criticamente gli eventuali elementi di discrasia, onde verificare se gli stessi siano o meno da considerare rivelatori di intese fraudolente o, quanto meno, di suggestioni o condizionamenti di qualsivoglia natura, suscettibili di inficiare il valore della suddetta concordanza.

Cass. pen. n. 6024/1995

In tema di valutazioni probatorie, la causale (o movente) — in quanto elemento orientativo della ricerca della prova — costituisce valido elemento sussidiario in presenza di una situazione di incertezza probatoria; ne consegue che l'individuazione della causale stessa non è indispensabile quando sia stata raggiunta la prova certa della responsabilità dell'imputato.

Cass. pen. n. 1381/1995

Gli indizi, che sono le prove indirette del fatto, inseriti in una serie causale costituiscono anelli di una catena di rapporti naturali costantemente uniformi e di comportamenti umani che secondo l'id quod plerumque accidit conducono ad un risultato secondo le leggi della psicologia per cui, in linea di massima, data un'azione, si può formulare un giudizio probabilistico su altre che l'hanno preceduta e che la seguiranno: probabilità che diventa certezza (rilevante per l'affermazione della responsabilità penale) se i rapporti o i comportamenti sono plurimi e convergenti, inequivoci nella loro direzione finalistica e conducenti ad univoca interpretazione da parte del giudice. Attraverso questa si ricostruisce il fatto ignoto (colpevolezza dell'imputato) con un giudizio complessivo dei dati che tenga conto del loro valore intrinseco e delle connessioni tra essi esistenti e che conduca alla prova indiziaria, che viene ad avere normativamente analoga efficacia della prova diretta. In tale contesto, quando nell'iter argomentativo della sentenza la catena viene interrotta con l'innesto di una serie causale autonoma, per sfuggire al vizio dell'illogicità va data da parte del giudice rigorosa e convincente spiegazione — e nella specie ciò è mancato da parte del giudice d'appello — della scelta adottata e del privilegio accordato a soluzioni divergenti dal percorso motivazionale originario conducente coerentemente in direzione della responsabilità dell'imputato.

Cass. pen. n. 4965/1995

L'aggettivo concordante usato dall'art. 192, comma secondo, c.p.p., vuole significare che ciascun indizio deve essere valutato autonomamente, al fine del riconoscimento delle note della certezza e, possibilmente, della gravità, e deve confluire insieme con gli altri in una ricostruzione logica e unitaria del fatto ignoto.

Cass. pen. n. 4503/1995

Il libero convincimento del giudice, che si estrinseca nel momento della valutazione della prova, nel processo indiziario è il corretto risultato di un'operazione logico-induttiva attraverso la quale la massima di esperienza nel sillogismo normativamente imposto dal secondo comma, dell'art. 192 c.p.p., si pone come premessa maggiore, l'indizio è la premessa minore e la conclusione è costituita, nel suo divenire per cristallizzarsi definitivamente, dalla prova del fatto in esame, cui si giunge (stante la naturale inadeguatezza degli indizi) se questi siano gravi, vale a dire resistenti alle obiezioni e perciò convincenti, precisi e cioè non suscettibili di diversa interpretazione, per lo meno altrettanto verosimile, e concordanti vale a dire non contrastanti tra loro o con altri elementi certi.

Cass. pen. n. 736/1995

La regola enunciata dall'art. 192, comma secondo, c.p.p., in base al quale «l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi» — ancorata, sul piano razionale, all'equivocità ontologicamente propria degli indizi, che, secondo la logica corrente, ordinariamente ispirata al generalissimo principio di causalità, sul quale si fonda il procedimento conoscitivo in qualsiasi ramo dello scibile, e che fa sì che gli indizi possano essere posti in rapporto di causalità, diretta od inversa, con una molteplicità o, al limite, con una duplicità di cause o di effetti — sta a significare che l'indizio è, di per sé, isolatamente considerato, inidoneo ad assicurare l'accertamento dei fatti. Esso acquista valore di prova solo se e quando ricorra l'eccezione espressa dal legislatore nella proposizione subordinata, vale a dire quando plurimi indizi, riferibili ciascuno in sé e partitamente considerato ad una molteplicità di cause o di effetti, possano essere tutti significativamente riferiti ad una sola causa e ad un solo effetto loro comune. Nella prassi, dunque, a fronte di una pluralità di indizi, il giudice deve procedere in primo luogo all'esame parcellare di ciascuno di essi, identificandone tutti i collegamenti logici possibili ed accertandone, quindi, la gravità, che è inversamente proporzionale al numero di tali collegamenti, nonché la precisione, che è direttamente proporzionale alla nitidezza dei suoi contorni, alla chiarezza della sua rappresentazione, alla fonte diretta o indiretta di conoscenza dalla quale deriva, all'attendibilità di essa. Deve, da ultimo procedere alla sintesi finale accertando se gli indizi esaminati sono concordanti, cioè se possono essere collegati ad una sola causa o ad un solo effetto e collocati tutti, armonicamente, in unico contesto, dal quale, secondo la legge ed ancor prima, secondo la logica, è possibile desumere l'esistenza o, per converso, l'inesistenza di un fatto.

Cass. pen. n. 2775/1995

In tema di valore probatorio della chiamata di correità, l'art. 192, comma 3, c.p.p. attribuisce alla chiamata del correo valore di prova e non di mero indizio, ma subordina il giudizio di attendibilità della stessa alla presenza di riscontri esterni. Tali riscontri, che debbono aggiungersi alla verifica di attendibilità della chiamata del correo, possono essere di qualsiasi tipo o natura. Il riscontro perciò può consistere in un'altra chiamata di correo poiché ogni chiamata è fornita di autonoma efficacia probatoria e capacità di sinergia nel reciproco incrocio con le altre. Da ciò deriva che una affermazione di responsabilità ben può essere fondata sulla valutazione unitaria di una pluralità di dichiarazioni di coimputati, tutte coincidenti in ordine alla commissione del fatto da parte del soggetto.

Cass. pen. n. 1699/1995

Allorquando la chiamata di correo o la confessione siano seguite da ritrattazione, il giudice del merito è tenuto a sottoporre ciascuna dichiarazione a rigorosa analisi critica in modo da comprendere le ragioni che hanno dato luogo all'una e, poi, all'altra, al fine di esplicitare i motivi per i quali ritenga di attribuire prevalenza alla seconda dichiarazione. All'esito di tale indagine, ove il contrasto permanga ed appaia insanabile, legittimamente il giudice del merito può rifiutare di attribuire ogni rilievo probatorio al complesso delle contrastanti dichiarazioni.

Cass. pen. n. 1343/1995

In tema di processi indiziari, alla Corte di cassazione spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi; la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l'elemento indiziario, ma non un nuovo accertamento, nel senso della ripetizione dell'esperienza conoscitiva del giudice del merito. Ne discende che l'esame della gravità, precisione e concordanza degli indizi da parte del giudice di legittimità è semplicemente controllo sul rispetto, da parte del giudice di merito, dei criteri dettati dal legislatore in materia di valutazione delle prove dall'art. 192 c.p.p., controllo seguito con il ricorso ai consueti parametri della completezza, della correttezza e della logicità del discorso motivazionale.

Cass. pen. n. 118/1995

Gli indizi, per assurgere a valenza probatoria dell'esito del procedimento accertativo della loro sussistenza, debbono possedere i requisiti legislativamente precisati dall'art. 192 comma 2 c.p.p., cioè devono essere gravi, precisi e concordanti. Gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e, quindi, attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile e, perciò, non equivoci; concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi. In particolare, la precisione dell'indizio ne presuppone la certezza. Tale requisito, benché non espressamente indicato dall'art. 192 comma 2 c.p.p., è da ritenersi insito nella previsione di tale precetto. Con la certezza dell'indizio, infatti, viene postulata la verifica processuale circa la reale sussistenza dell'indizio stesso, giacché non potrebbe essere consentito fondare la prova critica (indiretta) su un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito, e non accertato come realmente verificatosi, dal momento che, con la regola di giudizio positivamente codificata, il procedimento probatorio fondato su elementi indiziari per sfociare nella prova del fatto ignoto — oggetto del thema probandum — deve fondarsi su circostanze di sicura verificazione storico-naturale.

Cass. pen. n. 12945/1994

Anche gli elementi su cui si fondano le presunzioni, in materia di accertamento tributario, possono essere valutati in sede penale; ma, per l'autonomia dei due giudizi, l'utilizzazione è possibile solo a condizione che gli elementi predetti debbano, da un canto, poter essere liberamente valutati dal giudice e, dall'altro, rappresentare l'indizio che può giustificare un più penetrante accertamento sempre al fine di verificare la presenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. (Nella specie, relativa ad annullamento di sentenza di condanna perché il fatto non sussiste, l'affermazione di responsabilità riposava sul solo elemento-indizio costituito da una annotazione, rinvenuta in sede di perquisizione di una società e memorizzata su floppy disk, contenente un estratto conto relativo a vendita di pezzi di ricambio al ricorrente).

Cass. pen. n. 12584/1994

Salvo l'obbligo di adeguata motivazione, il giudice di merito ben può ritenere veridica una parte della confessione resa dall'imputato e nel contempo disattendere altre parti allorché si tratti di circostanze fra di loro non interferentesi fatualmente e logicamente: ciò in base al principio della scindibilità della dichiarazione di qualsiasi soggetto.

Cass. pen. n. 3994/1994

Costituisce chiamata in correità di natura diretta e non de relato quella contenuta nelle dichiarazioni di un soggetto che, avendo fatto parte di un'organizzazione mafiosa, riferisca dell'avvenuta presentazione a lui stesso, secondo il rituale mafioso, ad opera di altro aderente al sodalizio, di un terzo soggetto (cioè il chiamato in correità) indicato, nella circostanza, come «uomo d'onore». (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che legittimamente il tribunale del riesame avesse ritenuto indizio grave, ai fini di cui all'art. 273, comma primo, c.p.p., la suddetta chiamata in correità, avuto anche riguardo alla riconosciuta esistenza di elementi di riscontro, costituiti in particolare dalle dichiarazioni di altro «collaborante», di comprovata attendibilità, il quale pure aveva indicato il medesimo soggetto come «uomo d'onore»).

Cass. pen. n. 324/1994

La confessione e la chiamata di correo possono, senza necessariamente divenire inattendibili, attuarsi in progressione e ispessirsi nel tempo, specialmente quando i nuovi dati forniti dal chiamante non risultino in netta contraddizione con quelli in precedenza offerti, ma ne costituiscano un completamento e un'integrazione.

Cass. pen. n. 3519/1994

La documentazione contabile, acquisita nel corso di una ispezione a carico di un contribuente, può costituire valido elemento di prova nei confronti di altro contribuente, al quale l'incartamento si riferisca, quando i dati riscontrati per la loro precisione intrinseca, per la congruità e la completezza, siano ritenuti pienamente attendibili. In tal caso la valutazione compiuta dal giudice del merito, se opportunamente e logicamente motivata, è incensurabile in cassazione.

Cass. pen. n. 653/1994

Le dichiarazioni di un testimone, per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltre che avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, sicché, contrariamente ad altre fonti di conoscenza — come le dichiarazioni rese da coimputati o imputati di reati connessi — non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del teste. (Fattispecie in tema di utilizzazione di un'unica testimonianza per l'emissione di ordinanza di custodia cautelare).

Cass. pen. n. 1982/1994

Nella valutazione delle risultanze processuali, la scelta che il giudice del merito compie in ordine all'attendibilità delle dichiarazioni testimoniali rese nella fase delle indagini di polizia giudiziaria o in sede di interrogatorio davanti al P.M. ed alla attendibilità della ritrattazione delle stesse al dibattimento non è sindacabile dal giudice della legittimità quando il contenuto della ritrattazione, raffrontato con le precedenti dichiarazioni, sia valutato in base ad esatti criteri logici e di metodo e tale giudizio sia suffragato da una motivazione analitica e completa del convincimento e della scelta operata.

Cass. pen. n. 3221/1994

In tema di valutazione dei dati processuali ai fini di un'affermazione di responsabilità in termini di certezza - presupposto necessario per una sentenza di condanna - una chiamata in correità ben può trovare riscontro estrinseco in un'altra: l'art. 192 c.p.p., infatti, nel riconoscere per implicito alle dichiarazioni di un coimputato natura di «elementi di prova», ha posto la sola condizione della presenza di un qualsiasi tipo di riscontro, ivi compreso, anche quello costituito da altra o altre dichiarazioni di analoga fonte. (La Cassazione ha altresì affermato che il principio di cui in massima è a maggior ragione valido per un'affermazione di responsabilità in termini di mera, sia pur qualificata, probabilità, presupposto per l'applicazione delle misure cautelari personali).

Cass. pen. n. 10834/1993

Il sindacato della Corte di cassazione deve limitarsi a verificare la correttezza logico-razionale del ragionamento seguito e delle argomentazioni svolte dal giudice di merito per qualificare come indizio una circostanza, non potendo la Suprema Corte esprimere un nuovo giudizio sull'effettiva gravità, precisione e concordanza degli indizi e, quindi, compiere un nuovo accertamento nel senso di ripetere l'esperienza conoscitiva del giudice di merito.

Cass. pen. n. 9509/1993

In tema di valutazione della prova, la disposizione dell'art. 192, terzo comma, c.p.p. che fa riferimento a dichiarazioni di persone che hanno già assunto la qualità di imputati, non si applica alle dichiarazioni rese dai tossicodipendenti non inquisiti in applicazione dell'art. 80, L. n. 685 del 1975, per le quali occorre soltanto verificare la credibilità, che non può essere ragionevolmente posta in dubbio o svalutata quando essa si presenta precisa e coerente nei riferimenti alle circostanze, ai luoghi ed ai modi di comportamento di persone e quando trova corrispondenza o coincidenza in elementi o in altre informazioni testimoniali acquisiti al processo attraverso un diverso ed autonomo percorso di indagini.

Cass. pen. n. 9105/1993

In tema di chiamata di correo, se è vero che non può essere ritenuto sufficiente l'accertamento dell'attendibilità intrinseca della parola dell'accusatore e che occorre, in relazione alle accuse che quest'ultimo muove, operare una verifica estrinseca, è altrettanto vero che l'elemento di riscontro non deve necessariamente consistere in una prova distinta della colpevolezza del chiamato, perché ciò renderebbe ultronee le dichiarazioni del correo; né l'elemento di riscontro deve necessariamente essere inquadrato in una prefissa tipologia o concernente il thema probandum, in quanto esso deve valere solo a confermare ex estrinseco l'attendibilità della chiamata, dopo che questa sia stata attentamente e positivamente verificata nell'intrinseco.

Cass. pen. n. 7997/1993

La chiamata in correità richiede un cauto, prudente apprezzamento da parte del giudice di merito, che è tenuto a verificare se essa sia intrinsecamente attendibile, con riferimento alla sua genuinità, alla spontaneità, al disinteresse, alla costanza ed alla logica interna del racconto e, inoltre, se sia confortata da riscontri estrinseci od oggettivi, cioè da fatti storici che, se anche da soli non raggiungono il valore di prova autonoma della responsabilità del chiamato in correità, complessivamente considerati e valutati, risultino compatibili con la chiamata in correità e di questa rafforzativi.

Cass. pen. n. 7568/1993

In tema di valutazione della prova, quella della prova testimoniale, pur dovendo essere una valutazione critica non deve tuttavia essere per ciò condotta all'insegna della preconcetta sfiducia nei confronti del teste. In particolare, esclusa la necessità che la testimonianza debba essere corroborata dai cosiddetti «elementi di riscontro» richiesti invece per le dichiarazioni accusatorie provenienti dai soggetti indicati nel comma terzo dell'art. 192 c.p.p., il giudice deve limitarsi a verificare l'intrinseca attendibilità della testimonianza stessa, partendo però dal presupposto che, fino a prova contraria, il teste riferisce fatti obiettivamente veri o da lui ragionevolmente ritenuti tali. Peraltro, l'espressione «fino a prova contraria» non significa che la deposizione testimoniale non possa essere disattesa se non quando risulti positivamente dimostrato il mendacio, ovvero il vizio di percezione o di ricordo del teste, ma solo che devono esistere elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l'una o l'altra di dette ipotesi.

Cass. pen. n. 7561/1993

Ai fini della prova, una dichiarazione resa da un coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso, che può essere diretta non solo ad indirizzare un'accusa globale nei confronti del concorrente nel reato (cosiddetta chiamata di correo) o dell'autore di un reato collegato, ma anche a sostenere una circostanza del reato, può essere assunta come prova anche parzialmente, nei punti riscontrati da altra dichiarazione o da differenti elementi esterni, restando invece inattendibile per legge in quelli non riscontrati.

Cass. pen. n. 2967/1993

I due requisiti della precisione e della concordanza non possono coesistere in ciascun indizio da valutare in quanto, ove uno di essi sia fornito del requisito della precisione, intesa come necessarietà, è possibile utilizzarlo singolarmente, risultando di per sé e da solo idoneo e sufficiente a provare il fatto ignoto. Al contrario, in presenza di più indizi nessuno dei quali munito del requisito della precisione, occorre che essi siano concordanti.

Cass. pen. n. 847/1993

Le dichiarazioni accusatorie de relato provenienti da imputato (o indagato) di reato connesso o collegato possono assurgere alla dignità di indizi gravi di colpevolezza, ai fini dell'emissione di una misura cautelare, solo a condizione che venga controllata, oltre all'attendibilità del dichiarante, anche quella della fonte di riferimento, sì che il giudice, comparando le concordanti o anche contrastanti versioni, possa comunque operare una scelta ragionata, eventualmente anche privilegiando le versioni del collaborante, sempre che di ciò dia contezza con adeguata motivazione.

Cass. pen. n. 1653/1993

La sentenza di condanna può aver luogo solo se le prove raccolte in giudizio diano la certezza della sussistenza del fatto costituente reato e della sua commissione da parte dell'imputato; pertanto non è ammissibile che se un fatto risulti per sua natura difficile da provare ci si debba accontentare di una prova di spessore minore, quale può essere la dichiarazione di un coimputato del medesimo reato non suffragata da riscontri specifici e mirati sull'oggetto proprio che ne confermino l'attendibilità.

In tema di prova, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto dell'art. 192, comma terzo, c.p.p., il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confidente e accusatore) in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici; in secondo luogo deve verificare l'intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni. L'esame del giudice deve essere compiuto seguendo l'indicato ordine logico perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli «altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità» se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa.

Cass. pen. n. 943/1993

In tema di requisiti che gli indizi devono presentare per avere valenza probatoria, la «precisione» dell'indizio significa che il fatto noto deve essere indiscutibile, certo, nella sua oggettività, non essendo logicamente deducibile un fatto ignoto da un fatto a sua volta ipotetico; la «gravità» dell'indizio sta a denotare che il fatto noto deve avere una rilevante contiguità logica con il fatto ignoto; la «concordanza», infine, sta ad indicare che gli indizi, precisi nel loro essere, prossimi logicamente al fatto ignoto, debbono muoversi nella stessa direzione, debbono essere logicamente dello stesso segno. La «precisione» e la «gravità», inoltre, vanno accertate sottoponendo gli indizi a vaglio anzitutto separatamente e, in un secondo momento, soprattutto per quel che riguarda la gravità, congiuntamente, potendo la gravità degli uni acquistare spessore dalla accertata gravità degli altri, mentre la «concordanza» va valutata confrontando gli indizi e ponendo in evidenza se gli stessi sul piano logico convergano o divergano. Va infine rilevato che più sono gli indizi gravi, precisi e concordanti, più facile è il giudizio di probabilità.

Cass. pen. n. 682/1993

L'allegazione di un alibi con contestuale proposizione di elementi atti ad inficiarne la veridicità, costituendo alibi diverso, non può automaticamente ritorcersi quale indizio a carico dell'imputato se non escludendo qualsiasi causale diversa dallo sviamento della giustizia.

Cass. pen. n. 4807/1993

Il termine «indizi» ha significato e valore diversi a seconda che con esso si voglia fare riferimento agli elementi di prova necessari e sufficienti per affermare la responsabilità di un soggetto in ordine ai reati ascrittigli, ovvero a quelli legittimanti una misura cautelare coercitiva come la custodia in carcere. Nel primo caso, infatti, per indizi s'intendono le prove cosiddette logiche o indirette, attraverso le quali da un fatto certo si risale, per massime di comune esperienza, ad uno incerto, mentre nel secondo caso la parola «indizi» fa riferimento anche alle prove cosiddette dirette le quali, al pari di quelle indirette, debbono essere tali da fa apparire probabile la responsabilità dell'indagato circa il fatto o i fatti per i quali si procede.

Cass. pen. n. 9700/1992

Nel caso di procedimento di natura indiziaria il giudice non può prescindere dall'osservanza delle regole di cui all'art. 192, comma primo e secondo, c.p.p., ed in particolare dalla necessità di dar conto della ricorrenza, negli indizi utilizzati per stabilire l'esistenza del fatto-reato (nella specie: omicidio), dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza. Al riguardo deve ritenersi che gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni, e quindi attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile e, perciò, non equivoci; concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi. La precisione dell'indizio, in particolare, ne suppone la certezza, nel senso dell'accertata verificazione storico-naturalistica della circostanza che lo costituisce, per obiettiva esistenza direttamente assodata o per deduzione inequivoca e sicura da altri elementi e per esclusione, per contro, di difforme o antitetica significazione. Il rigoroso ed obiettivo accertamento del dato ignoto, cui è possibile pervenire su base indiziaria, deve essere, pertanto, lo sbocco necessitato e strettamente conseguenziale, sul piano logico-giuridico, delle premesse indiziarie in fatto, con esclusione di ogni altra soluzione prospettabile, in termini di equivalenza o di alternatività. Il giudizio conclusivo, in altre parole, deve essere l'unico possibile alla stregua degli elementi disponibili, secondo i criteri di razionalità dettati dall'esperienza umana.

Cass. pen. n. 6992/1992

È perfettamente legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti da taluno dei soggetti indicati ai commi terzo e quarto dell'art. 192 c.p.p., con attribuzione, quindi, di piena attendibilità e valenza probatoria a tutte e solo quelle parti di esse che risultino suffragate da idonei elementi di riscontro.

In presenza di pluralità di dichiarazioni accusatorie rese da soggetti tutti compresi tra quelli indicati nei commi terzo e quarto dell'art. 192 c.p.p., la eventuale sussistenza di «smagliature e discrasie», anche di certo peso, rilevabili tanto all'interno di dette dichiarazioni quanto nel confronto fra esse, non implica, di per sé, il venir meno della loro sostanziale affidabilità quando, sulla base di adeguata motivazione risulti dimostrata la complessiva convergenza di esse nei rispettivi nuclei fondamentali.

Cass. pen. n. 6935/1992

In considerazione della presunzione di non colpevolezza che accompagna ogni cittadino sino alla condanna definitiva (art. 27, secondo comma, Cost.) solo l'alibi sicuramente falso può essere valutato come indizio a carico dell'imputato, mentre la mancanza di alibi, od il suo fallimento, sono probatoriamente neutri.

Cass. pen. n. 6682/1992

L'indizio è un fatto certo dal quale, per interferenza logica basata su regole di esperienza consolidate ed affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del cosiddetto sillogismo giudiziario. È possibile che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una sola conseguenza, ma di norma il fatto indiziante è significativo di una pluralità di fatti non noti ed in tal caso può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi applicando la regola metodologica fissata nell'art. 192, comma secondo, c.p.p. Peraltro l'apprezzamento unitario degli indizi per la verifica della confluenza verso un'univocità indicativa che dia la certezza logica dell'esistenza del fatto da provare, costituisce un'operazione logica che presuppone la previa valutazione di ciascuno singolarmente, onde saggiarne la valenza qualitativa individuale. Acquisita la valenza indicativa, sia pure di portata possibilistica e non univoca, di ciascun indizio deve allora passarsi al momento metodologico successivo dell'esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, di tal che l'insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto; prova logica che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del cosiddetto libero convincimento del giudice.

Cass. pen. n. 3209/1992

La confessione può essere posta a base del giudizio di colpevolezza dell'imputato nelle ipotesi nelle quali il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l'attendibilità, fornendo ragione dei motivi per i quali debba respingersi ogni sospetto di intendimento autocalunniatorio o di intervenuta costrizione sul soggetto. Quando tale indagine, ovviamente estesa al controllo su tutte le emergenze processuali, nel caso di intervenuta ritrattazione, non conduca a smentire le originarie ammissioni di colpevolezza, dovrà allora innegabilmente riconoscersi alla confessione il valore probatorio idoneo alla formazione del convincimento della responsabilità dell'imputato. (Fattispecie in cui l'imputato, tratto a giudizio direttissimo dopo aver reso confessione del delitto di omicidio alla P.G., al P.M. ed al Gip, aveva ritrattato in dibattimento le precedenti dichiarazioni).

Cass. pen. n. 1048/1992

Le dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall'art. 371, comma 2 lett. b) c.p.p., da valutare unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità, ai sensi dell'art. 192, comma 4, c.p.p., sono quelle rese da imputato di un reato che sia collegato a quello per cui si procede con un vero e proprio rapporto di connessione probatoria, ravvisabile quando un unico elemento di fatto proietti la sua efficacia probatoria in rapporto ad una molteplicità di illeciti penali, tutti contemporaneamente da esso dipendenti per quanto attiene alla prova della loro esistenza ed a quella della relativa responsabilità, o quando gli elementi probatori rilevanti per l'accertamento di un reato, o di una circostanza di esso, oggetto di un procedimento, spieghino una qualsiasi influenza sull'accertamento di un altro reato, o di una circostanza di esso, oggetto di un diverso procedimento.

Cass. pen. n. 11971/1991

Nel sistema processuale previgente, come del resto, in quello attualmente in vigore, l'interrogatorio dell'imputato, pur nella sua essenziale innegabile natura di strumento di difesa, rientra comunque nel novero di mezzi di prova e, in quanto tale, è liberamente valutabile dal giudice con il solo limite, oggi espressamente consacrato nell'art. 192, comma primo, c.p.p. 1988, dell'obbligo di dar conto nella motivazione, come per ogni altro mezzo di prova, «dei risultati acquisiti e dei criteri adottati». Ne consegue che la confessione resa nell'interrogatorio ben può costituire prova sufficiente della responsabilità del confidente, persino indipendentemente dall'esistenza di veri e propri riscontri esterni, purché il giudice, nell'esercizio del suo potere di apprezzamento del materiale probatorio, prenda in esame le circostanze oggettive e soggettive che hanno determinato ed accompagnato la confessione e dia ragione, con adeguata e logica motivazione, del proprio convincimento circa l'affidabilità della stessa.

Cass. pen. n. 925/1991

In tema di omessa dichiarazione dei redditi, l'accertamento induttivo sintetico operato sulla base del cosiddetto redditometro ha soltanto valore di presunzione semplice, non esistendo in diritto penale quella legale: essa pertanto costituisce un indizio che deve trovare riscontro o in distinti elementi di prova o in altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti.

Cass. pen. n. 16661/1990

In tema di valutazione della testimonianza, il sistema introdotto dal nuovo codice di procedura penale, separa nettamente la valutazione della testimonianza ai fini della decisione del processo in cui è stata resa e la persecuzione penale del testimone che abbia deposto il falso, attribuendo al giudice del primo processo il solo compito di dare al pubblico ministero notizia del reato, quando ne ravvisi gli indizi in sede di valutazione complessiva di tutto il materiale raccolto. Ne consegue che la deposizione del teste falso resta parte integrante nel processo in cui è stata resa ed è prova in questo utilizzabile e valutabile in relazione all'altro materiale probatorio acquisito.

Cass. pen. n. 15437/1990

In tema di valutazione probatoria delle dichiarazioni rese da un testimone, successivamente imputato di falsa testimonianza, il principio stabilito dagli ultimi cpv. dell'art. 192 c.p.p. non significa che ogni qual volta vi sia un'imputazione di falsa testimonianza, per ciò solo il teste diventi inutilizzabile come tale e che anche le dichiarazioni precedentemente rese perdano valore probatorio. I principi generali in materia di prova, fissati dall'art. 192 del nuovo c.p.p., vanno contemperati con tutti gli altri principi, aventi anche valenza di diritto sostanziale (artt. 376 e 384, secondo comma, c.p.), presenti nel nostro ordinamento. Le prescrizioni del terzo e quarto comma dell'art. 192 nuovo c.p.p. costituiscono eccezioni ai più generali principi dei commi primo e secondo, e la loro rilevanza va rapportata al momento iniziale dell'assunzione della qualità di teste e non può trovare causa in eventi che si verifichino nel corso della deposizione testimoniale.

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Luca S. chiede
giovedì 31/03/2016 - Puglia
“A seguito di escussione di Ufficiali di p.g. emergeva che le microspie erano state installate in quei ambienti,non dagli ufficiali di p.g. come dichiarato nei loro verbali,ma da ausiliari di p.g. di ditta autorizzata.Inoltre gli stessi operatori di p.g. nei vari atti dichiaravano l'installazione il 20.02.2007, alle ore ore 11.00,mentre la prima attivazione delle microspie risulta il giorno 19.02.2007.Nei vari verbali,vengono citati sempre le stesse date e gli stessi personaggi lor dicendo di aver installato le microspie.Agli atti della Procura e del Tribunale,non risulta alcun verbale che attesti il giorno dell'installazione delle microspie facendo la Procura lo scaricabarile con il Tribunale asserendo di averle li versate ma questo non risulta agli atti.Di tutto questo è stato redatto a cura di un legale,scritto difensivo ai sensi dell'art.121 del c.p.p. evidenziando il tutto ed in particolare la mancanza anche dekl verbale di nomina di ausiliari di p.g. ovvero coloro che materialmente installarono le microspie,dipendenti di ditta privata.Il quesito è questo:Il Tribunale può non accettare quanto di penalmente rilevante è stato depositato?;quanto enucleato,oltre al falso ideologico commesso dagli operatori di p.g.,circa la data di installazione e la omessa comunicazione che non le hanno installate loro,può/deve applicare il Tribunale quanto previsto dallo art.142 c.p.p.?Può il Tribunale convalidare queste nefandezze e altre emerse nell'espletamento delle indagini da parte della stessa p.g. già denunciate,acclarate e dichiarate prescritte dalle stessa
Procura,contestate con opposizione che a distanza dio 2 anni non ne vede la luce. il Tribunale può andare oltre e infischiarsene di quanto evidenziato o ha l'obbligo di fare chiarezza?.Grazie.”
Consulenza legale i 10/04/2016
1. Il Tribunale può non accettare quanto di penalmente rilevante è stato depositato? Può il Tribunale convalidare queste nefandezze e altre emerse nell'espletamento delle indagini da parte della stessa p.g. già denunciate,acclarate e dichiarate prescritte dalle stessa Procura,contestate con opposizione che a distanza dio 2 anni non ne vede la luce. Il Tribunale può andare oltre e infischiarsene di quanto evidenziato o ha l'obbligo di fare chiarezza?
Preliminarmente si ribadisce che il Legislatore garantisce una serie di strumenti processuali volti a contestare la regolarità delle indagini svolte e l'eventuale pronuncia di inammissibilità delle prove; per completezza, ed al fine di evitare di riassumere in maniera necessariamente incompleta i rimedi processuali a disposizione, si rinvia, preliminarmente, alla risposta fornita al quesito n. 14157 (formulato lo scorso 14 settembre 2015, cfr. art 157 del c.p.p.), concernente la medesima questione sottoposta alla nostra attenzione.
In questa sede, occorre evidenziare quale sia il "margine" di valutazione a disposizione del giudice penale nell'accertamento della responsabilità penale; occorre in sostanza evidenziare se il giudice penale disponga di un margine di discrezionalità nella valutazione di quanto emerso dalla realtà processuale.
Il giudice, ai sensi dell'art. 192, comma 1, del c.p.p., "valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati".
In sostanza, il Legislatore vincola il Giudice nella valutazione delle prove imponendogli uno stringente obbligo di motivazione dei provvedimenti adottati; ovvero, vige un obbligo in capo al giudice di spiegare i passaggi logico-giuridici che lo hanno portato ad adottare una decisione piuttosto che un'altra.
Pertanto, la parte, tramite il proprio difensore, ben potrà nell'atto di appello avverso la sentenza di primo grado, chiedere la "riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l'assunzione di nuove prove" (ai sensi dell'art. 603, comma 1, del c.p.p.) e, in ogni caso, potrà contestare le conclusioni della sentenza di primo grado, proprio alla luce delle prove acquisite in primo grado (quindi contestandone la motivazione).
Tra l'altro, la Giurisprudenza ha pacificamente affermato che "Il giudice d'appello non può limitare il proprio sindacato alla tenuta della motivazione della decisione di primo grado ma, nei limiti del devoluto, ha un preciso dovere di rivalutazione delle prove (Fattispecie relativa all'omessa visione da parte della corte d'appello della videoregistrazione in base alla quale l'imputato invocava una diversa qualificazione giuridica della sua condotta)" (cfr. Cassazione Penale, Sez. II, 16 febbraio 2016, n. 8947).
2. Quanto enucleato, oltre al falso ideologico commesso dagli operatori di p.g.,circa la data di installazione e la omessa comunicazione che non le hanno installate loro,può/deve applicare il Tribunale quanto previsto dallo art.142 c.p.p.?
Si ritiene che non sembra essere ravvisabile la nullità del verbale cui all'art. 142 del c.p.p., comma 1, il quale prevede che "1. Salve particolari disposizioni di legge, il verbale è nullo se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto".
La Giurisprudenza ha chiarito che "In tema di nullità del verbale, perché possa ritenersi sussistente un'incertezza assoluta sulle persone intervenute è necessario che l'identità del soggetto partecipante all'atto non solo non sia documentata nella parte specificamente destinata a tale attestazione, ma altresì che non sia neppure desumibile da altri dati contenuti nello stesso, né da altri atti processuali in esso richiamati o ad esso comunque riconducibili (Fattispecie relativa a verbali di sommarie informazioni testimoniali rese alla p.g. sottoscritti dal dichiarante, compiutamente individualizzato e generalizzato, con grafia illeggibile o con firma apocrifa)" (cfr. Cassazione Penale, Sez. VI, 19 febbraio 2013, n. 21699).
Nel caso di specie, dalla ricostruzione in fatto, sembra che in relazione al verbale in questione, non vi sia una "incertezza assoluta sulle persone intervenute", poiché il verbale sembra essere stato redatto in ogni sua parte e sembra attestare la presenza degli ufficiali di polizia giudiziaria al momento dell'installazione delle micro-spie.
Pertanto, non sembra ravvisabile la sanzione della nullità del verbale ex art. 142 del c.p.p., essendo lo stesso contestabile, come è stato correttamente rilevato nelle memorie di cui all'art. 121 del c.p.p. - anche alla luce di quanto dichiarato dagli stessi ufficiali - sotto il profilo della veridicità del contenuto.