(massima n. 1)
La regola enunciata dall'art. 192, comma secondo, c.p.p., in base al quale «l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi» — ancorata, sul piano razionale, all'equivocità ontologicamente propria degli indizi, che, secondo la logica corrente, ordinariamente ispirata al generalissimo principio di causalità, sul quale si fonda il procedimento conoscitivo in qualsiasi ramo dello scibile, e che fa sì che gli indizi possano essere posti in rapporto di causalità, diretta od inversa, con una molteplicità o, al limite, con una duplicità di cause o di effetti — sta a significare che l'indizio è, di per sé, isolatamente considerato, inidoneo ad assicurare l'accertamento dei fatti. Esso acquista valore di prova solo se e quando ricorra l'eccezione espressa dal legislatore nella proposizione subordinata, vale a dire quando plurimi indizi, riferibili ciascuno in sé e partitamente considerato ad una molteplicità di cause o di effetti, possano essere tutti significativamente riferiti ad una sola causa e ad un solo effetto loro comune. Nella prassi, dunque, a fronte di una pluralità di indizi, il giudice deve procedere in primo luogo all'esame parcellare di ciascuno di essi, identificandone tutti i collegamenti logici possibili ed accertandone, quindi, la gravità, che è inversamente proporzionale al numero di tali collegamenti, nonché la precisione, che è direttamente proporzionale alla nitidezza dei suoi contorni, alla chiarezza della sua rappresentazione, alla fonte diretta o indiretta di conoscenza dalla quale deriva, all'attendibilità di essa. Deve, da ultimo procedere alla sintesi finale accertando se gli indizi esaminati sono concordanti, cioè se possono essere collegati ad una sola causa o ad un solo effetto e collocati tutti, armonicamente, in unico contesto, dal quale, secondo la legge ed ancor prima, secondo la logica, è possibile desumere l'esistenza o, per converso, l'inesistenza di un fatto.