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Articolo 67 Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR)

(D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917)

[Aggiornato al 09/10/2024]

Redditi diversi

Dispositivo dell'art. 67 TUIR

1. Sono redditi diversi se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell'esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente:

  1. a) le plusvalenze realizzate mediante la lottizzazione di terreni, o l'esecuzione di opere intese a renderli edificabili, e la successiva vendita, anche parziale, dei terreni e degli edifici;
  2. b) al di fuori delle ipotesi di cui alla lettera b-bis), le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari, nonché, in ogni caso, le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione In caso di cessione a titolo oneroso di immobili ricevuti per donazione, il predetto periodo di cinque anni decorre dalla data di acquisto da parte del donante(1)(5);
  3. b-bis) le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili, in relazione ai quali il cedente o gli altri aventi diritto abbiano eseguito gli interventi agevolati di cui all'articolo 119 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, che si siano conclusi da non più di dieci anni all'atto della cessione, esclusi gli immobili acquisiti per successione e quelli che siano stati adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari per la maggior parte dei dieci anni antecedenti alla cessione o, qualora tra la data di acquisto o di costruzione e la cessione sia decorso un periodo inferiore a dieci anni, per la maggior parte di tale periodo(5);
  4. c) le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di partecipazioni qualificate. Costituisce cessione di partecipazioni qualificate la cessione di azioni, diverse dalle azioni di risparmio, e di ogni altra partecipazione al capitale od al patrimonio delle società di cui all'articolo 5, escluse le associazioni di cui al comma 3, lettera c), e dei soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettere a), b) e d), nonché la cessione di diritti o titoli attraverso cui possono essere acquisite le predette partecipazioni, qualora le partecipazioni, i diritti o titoli ceduti rappresentino, complessivamente, una percentuale di diritti di voto esercitabili nell'assemblea ordinaria superiore al 2 o al 20 per cento ovvero una partecipazione al capitale od al patrimonio superiore al 5 o al 25 per cento, secondo che si tratti di titoli negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. Per i diritti o titoli attraverso cui possono essere acquisite partecipazioni si tiene conto delle percentuali potenzialmente ricollegabili alle predette partecipazioni. La percentuale di diritti di voto e di partecipazione è determinata tenendo conto di tutte le cessioni effettuate nel corso di dodici mesi, ancorché nei confronti di soggetti diversi. Tale disposizione si applica dalla data in cui le partecipazioni, i titoli ed i diritti posseduti rappresentano una percentuale di diritti di voto o di partecipazione superiore alle percentuali suindicate. Sono assimilate alle plusvalenze di cui alla presente lettera quelle realizzate mediante:
  5. 1) cessione di strumenti finanziari di cui alla lettera a) del comma 2 dell'articolo 44 quando non rappresentano una partecipazione al patrimonio;
  6. 2) cessione dei contratti di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b), qualora il valore dell'apporto sia superiore al 5 per cento o al 25 per cento del valore del patrimonio netto contabile risultante dall'ultimo bilancio approvato prima della data di stipula del contratto secondo che si tratti di società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. Per le plusvalenze realizzate mediante la cessione dei contratti stipulati con associanti non residenti che non soddisfano le condizioni di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo, l'assimilazione opera a prescindere dal valore dell'apporto;
  7. 3) cessione dei contratti di cui al numero precedente qualora il valore dell'apporto sia superiore al 25 per cento dell'ammontare dei beni dell'associante determinati in base alle disposizioni previste del comma 2 dell'articolo 47 del citato testo unico;
  8. c-bis) le plusvalenze, diverse da quelle imponibili ai sensi della lettera c), realizzate mediante cessione a titolo oneroso di azioni e di ogni altra partecipazione al capitale o al patrimonio di società di cui all'articolo 5, escluse le associazioni di cui al comma 3, lettera c), e dei soggetti di cui all'articolo 73, nonché di diritti o titoli attraverso cui possono essere acquisite le predette partecipazioni. Sono assimilate alle plusvalenze di cui alla presente lettera quelle realizzate mediante:
  9. 1) cessione dei contratti di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b), qualora il valore dell'apporto sia non superiore al 5 per cento o al 25 per cento del valore del patrimonio netto contabile risultante dall'ultimo bilancio approvato prima della data di stipula del contratto secondo che si tratti di società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni;
  10. 2) cessione dei contratti di cui alla lettera precedente qualora il valore dell'apporto sia non superiore al 25 per cento dell'ammontare dei beni dell'associante determinati in base alle disposizioni previste dal comma 2 dell'articolo 47;
  11. c-ter) le plusvalenze, diverse da quelle di cui alle lettere c) e c-bis), realizzate mediante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso di titoli non rappresentativi di merci, di certificati di massa, di valute estere, oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti, di metalli preziosi, sempreché siano allo stato grezzo o monetato, e di quote di partecipazione ad organismi d'investimento collettivo. Agli effetti dell'applicazione della presente lettera si considera cessione a titolo oneroso anche il prelievo delle valute estere dal deposito o conto corrente;
  12. c-quater) i redditi, diversi da quelli precedentemente indicati, comunque realizzati mediante rapporti da cui deriva il diritto o l'obbligo di cedere od acquistare a termine strumenti finanziari, valute, metalli preziosi o merci ovvero di ricevere o effettuare a termine uno o più pagamenti collegati a tassi di interesse, a quotazioni o valori di strumenti finanziari, di valute estere, di metalli preziosi o di merci e ad ogni altro parametro di natura finanziaria. Agli effetti dell'applicazione della presente lettera sono considerati strumenti finanziari anche i predetti rapporti;
  13. c-quinquies) le plusvalenze ed altri proventi, diversi da quelli precedentemente indicati, realizzati mediante cessione a titolo oneroso ovvero chiusura di rapporti produttivi di redditi di capitale e mediante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso di crediti pecuniari o di strumenti finanziari, nonché quelli realizzati mediante rapporti attraverso cui possono essere conseguiti differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto;
  14. c-sexies)le plusvalenze e gli altri proventi realizzati mediante rimborso o cessione a titolo oneroso, permuta o detenzione di cripto-attività, comunque denominate, non inferiori complessivamente a 2.000 euro nel periodo d'imposta. Ai fini della presente lettera, per "cripto-attività" si intende una rappresentazione digitale di valore o di diritti che possono essere trasferiti e memorizzati elettronicamente, utilizzando la tecnologia di registro distribuito o una tecnologia analoga. Non costituisce una fattispecie fiscalmente rilevante la permuta tra cripto-attività aventi eguali caratteristiche e funzioni(2);
  15. d) le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico e i premi derivanti da prove di abilità o dalla sorte nonché quelli attribuiti in riconoscimento di particolari meriti artistici, scientifici o sociali;
  16. e) i redditi di natura fondiaria non determinabili catastalmente, compresi quelli dei terreni dati in affitto per usi non agricoli;
  17. f) i redditi di beni immobili situati all'estero;
  18. g) i redditi derivanti dall'utilizzazione economica di opere dell'ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, salvo il disposto della lettera b) del comma 2 dell'articolo 53;
  19. h) i redditi derivanti dalla concessione in usufrutto, dalla costituzione degli altri diritti reali di godimento e dalla sublocazione di beni immobili, dall'affitto, locazione, noleggio o concessione in uso di veicoli, macchine e altri beni mobili, dall'affitto e dalla concessione in usufrutto di aziende; l'affitto e la concessione in usufrutto dell'unica azienda da parte dell'imprenditore non si considerano fatti nell'esercizio dell'impresa, ma in caso di successiva vendita totale o parziale le plusvalenze realizzate concorrono a formare il reddito complessivo come redditi diversi(5);
  20. h-bis) le plusvalenze realizzate in caso di successiva cessione, anche parziale, delle aziende acquisite ai sensi dell'articolo 58;
  21. h-ter) la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell'impresa a soci o familiari dell'imprenditore;
  22. i) i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente;
  23. l) i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere;
  24. m) le indennità di trasferta, i rimborsi forfetari di spesa, i premi e i compensi erogati ai direttori artistici ed ai collaboratori tecnici per prestazioni di natura non professionale da parte di cori, bande musicali e filo-drammatiche che perseguono finalità dilettantistiche(3);
  25. n) le plusvalenze realizzate a seguito di trasformazione eterogenea di cui all'articolo 171, comma 2, ove ricorrono i presupposti di tassazione di cui alle lettere precedenti(4).

1-bis. Agli effetti dell'applicazione delle lettere c), c-bis) e c-ter) del comma 1, si considerano cedute per prime le partecipazioni, i titoli, gli strumenti finanziari, i contratti, i certificati e diritti, nonché le valute ed i metalli preziosi acquisiti in data più recente; in caso di chiusura o di cessione dei rapporti di cui alla lettera c-quater) si considerano chiusi o ceduti per primi i rapporti sottoscritti od acquisiti in data più recente.

1-ter. Le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere rivenienti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che nel periodo d'imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all'inizio del periodo di riferimento sia superiore a cento milioni di lire per almeno sette giorni lavorativi continui.

1-quater. Fra le plusvalenze e i redditi di cui alle lettere cter) , cquater) e cquinquies) si comprendono anche quelli realizzati mediante rimborso o chiusura delle attività finanziarie o dei rapporti ivi indicati, sottoscritti all'emissione o comunque non acquistati da terzi per effetto di cessione a titolo oneroso. Fra le plusvalenze di cui alla lettera c-ter) si comprendono anche quelle di rimborso delle quote o azioni di organismi di investimento collettivo del risparmio realizzate mediante conversione di quote o azioni da un comparto ad altro comparto del medesimo organismo di investimento collettivo.

Note

(1) La L. 23 dicembre 2005, n. 266, come modificata dalla L. 27 dicembre 2019, n. 160, ha disposto (con l'art. 1, comma 496) che "In caso di cessioni a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, all'atto della cessione e su richiesta della parte venditrice resa al notaio, in deroga alla disciplina di cui all'articolo 67, comma 1, lettera b), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, sulle plusvalenze realizzate si applica un'imposta, sostituiva dell'imposta sul reddito, del 26 per cento".
(2) Lettera introdotta dalla L. 29 dicembre 2022, n. 197.
(3) Lettera modificata dapprima dalla L. 30 dicembre 2021, n. 234 e, successivamente, dal D. Lgs. 5 ottobre 2022, n. 163.
Il D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, come modificato dal D.L. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni dalla L. 24 febbraio 2023, n. 14 ha disposto (con l'art. 51, comma 1) che "Le disposizioni del presente decreto si applicano a decorrere dal 1° luglio 2023, ad esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 10, 39 e 40 e del titolo VI che si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2022 e ad esclusione delle disposizioni di cui all'articolo 13, comma 7, che si applicano a decorrere dal 1° luglio 2024".
(4) Tale comma è stato modificato dall'art. 1, comma 1121, della L. 30 dicembre 2020, n. 178.
(5) Il comma 1 è stato modificato dall'art. 1, comma 64, lettere a) e b) della L. 30 dicembre 2023, n. 213, che ha modificato la lettera b), introdotto la lettera b-bis) e modificato la lettera h).

Massime relative all'art. 67 TUIR

Cass. civ. n. 15026/2020

Nel processo tributario l'efficacia del giudicato "esterno" presuppone necessariamente l'identità, oltre che del "petitum" e della "causa petendi", anche delle parti dei due giudizi, sicché va esclusa ove ciascun contribuente sia tenuto, secondo la struttura delle obbligazioni divisibili di cui all'art. 1314 c.c., solo per la propria parte "pro quota", non sussistendo il vincolo di solidarietà, con conseguente inapplicabilità dell'art. 1306, comma 2, c.c. (Nella specie la S.C., in causa tra Agenzia delle entrate e un comproprietario di terreno ceduto avente ad oggetto la plusvalenza da cessione di immobile ex art. 67 TUIR, ha escluso l'efficacia di giudicato della sentenza che, nel giudizio tra la medesima Agenzia ed altro comproprietario dello stesso terreno, aveva deciso circa la commisurazione di detta plusvalenza).

Cass. civ. n. 14872/2020

In tema di dichiarazione dei redditi di una società, quale che sia il loro valore di libro risultante dal bilancio regolarmente approvato dall'assembla dei soci con il consenso del collegio sindacale, l'Amministrazione finanziaria può sempre sindacare la deducibilità dei relativi costi (nella specie, quello afferente alle quote di ammortamento del valore dell'avviamento di un'azienda ceduta alla contribuente) ove dimostri che è stato iscritto a bilancio non il valore reale del bene, materiale o immateriale, bensì quello che risulta frutto della violazione del principio fissato dall'art. 2423, comma 2, c.c. in forza del quale l'imprenditore non può inserire poste inesistenti o sopravalutate.

Cass. civ. n. 4659/2020

In tema di determinazione delle plusvalenze di cui all'art. 81, comma 1, lett. a) e b) del D.P.R. n. 917 del 1986 (ora art. 67, comma 1, lett. a e b dello stesso D.P.R., come modificato dall'art. 1 del D.Lgs. n. 344 del 2003), nel caso di opzione per la rideterminazione dei valori di acquisto dei terreni edificabili a norma dell'art. 7 della legge n. 448 del 2001, una volta soddisfatte le condizioni previste da tale disposizione (redazione della perizia giurata di stima e versamento dell'intera imposta sostitutiva o, in caso di pagamento rateale, della prima rata), si determina l'irreversibile perfezionamento dell'obbligazione tributaria, per cui il contribuente non può più ottenere il rimborso delle somme corrisposte, sia che abbia scelto di avvalersi del pagamento in unica soluzione sia che abbia scelto di avvalersi di quello rateale.

Cass. civ. n. 3387/2020

In tema d'IVA, la fornitura al personale dipendente degli indumenti da lavoro da indossare durante l'attività lavorativa non costituisce prestazione di servizi, bensì messa a disposizione di strumenti da lavoro, rientrante tra gli obblighi contrattuali dell'imprenditore sicché, trattandosi di un costo, non costituisce elemento positivo del reddito e, non essendo assoggettabile ad IVA, ne è preclusa la rivalsa nei confronti dei dipendenti.

Cass. civ. n. 2321/2020

In tema di plusvalenze di cui all'art. 67, comma 1, lett. a) e b), del D.P.R. n. 917 del 1986, per i terreni edificabili e con destinazione agricola, l'indicazione, nell'atto di vendita dell'immobile, di un corrispettivo inferiore rispetto al valore del cespite in precedenza rideterminato dal contribuente sulla base della perizia giurata a norma dell'art. 7 della L. n. 448 del 2001 non determina la decadenza del contribuente dal beneficio correlato al pregresso versamento dell'imposta sostitutiva, né la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di accertare la plusvalenza secondo il valore storico del bene.

Cass. civ. n. 23893/2019

Le plusvalenze "immobiliari" di cui all'art. 67, comma 1, lett. a) e b), del D.P.R. n. 917 del 1986, sono di regola imponibili secondo il principio di cassa, ai sensi dell'art. 68, comma 1, dello stesso decreto, in quanto il principio di competenza opera, a norma dell'art. 76 del D.P.R. n. 597 del 1973, per le sole plusvalenze aventi finalità speculative: ne deriva che il momento rilevante ai fini dell'imposizione è, nel primo caso, quello in cui il corrispettivo è percepito, e, nel secondo caso, quello in cui lo stesso corrispettivo è dichiarato nell'atto di cessione.

Cass. civ. n. 17264/2019

In tema di redditi diversi, la fattispecie relativa alle plusvalenze derivanti dalla vendita di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, prevista dall'art. 81 (ora art. 67), lett. b), del TUIR, si pone come regola ad eccezione rispetto a quella contemplata dalla lett. a), della medesima norma, che riguarda esclusivamente le ipotesi in cui il terreno non sia suscettibile di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione, ma sia interessato da interventi obiettivamente considerati di lottizzazione o di esecuzione di opere per l'edificabilità del terreno, ancorché realizzati fuori o in contrasto con i vincoli urbanistici. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha ricondotto alla fattispecie prevista dalla citata lett. b) l'ipotesi della plusvalenza derivante dalla vendita con riserva di proprietà di un terreno che, al momento della cessione, era inserito nella zona B5, in quanto immediatamente edificabile).

Cass. civ. n. 11044/2019

In tema di plusvalenze realizzate mediante la cessione a titolo oneroso di terreni, la possibilità di affrancare quelle eventualmente maturate sui terreni posseduti alla data del 1 gennaio 2002, mediante il pagamento di un'imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, nella misura forfettaria del 4 per cento, ai sensi dell'art. 7 della L. n. 448 del 2001, si riferisce non solo alle ipotesi in cui il terreno successivamente alienato sia stato acquistato per atto tra vivi, ma anche al diverso caso nel quale esso sia stato acquistato per successione e poi lottizzato prima della vendita, atteso che ai sensi dell'art. 81, comma 1, lett. a) (ora art. 67), del D.P.R. n. 917 del 1986, si realizza una plusvalenza tassabile anche nell'ipotesi di alienazione di un terreno acquistato "mortis causa".

Cass. civ. n. 9604/2019

In tema di tassazione delle "stock options", nel regime previgente all'entrata in vigore dell'art. 82, comma 23, D.L. n. 112 del 2008, conv., con modif., in L. n. 133 del 2008, ove non sussistano le condizioni contemplate dall'art. 51 del D.P.R. n. 917 del 1986 per beneficiare del trattamento fiscale agevolato, trova integralmente applicazione la disciplina ordinaria prevista dall'art. 67 del medesimo decreto, sicché, ove il lavoratore si avvalga dell'opzione e, contestualmente, rivenda a terzi al valore di mercato le azioni acquistate, deve essere tassato il maggior valore conseguito con l'esercizio dell'opzione, senza che sia soggetta a tassazione la differenza tra il prezzo pagato e quello ottenuto dalla rivendita, non conseguendo il lavoratore alcuna ulteriore plusvalenza da tale ultima cessione.

Cass. civ. n. 3458/2019

In tema di determinazione del reddito di lavoro dipendente, la disciplina di tassazione applicabile "ratione temporis" alle cosiddette "stock options" va individuata in quella vigente al momento dell'esercizio del diritto di opzione da parte del dipendente, indipendentemente dal momento in cui l'opzione sia stata offerta, atteso che l'operazione cui consegue la tassazione non va identificata nell'attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell'effettivo esercizio di tale diritto mediante l'acquisto delle azioni. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto operanti le disposizioni contenute nell'art. 51, commi 2, lett. g bis), e 2 bis, del D.P.R. n. 917 del 1986, nel testo modificato dal D.L. n. 262 del 2006, conv., con modif., in L. 286 del 2006, vigente al tempo dell'assegnazione delle azioni, meno favorevole, per il contribuente, rispetto al testo vigente al tempo dell'offerta dell'opzione).

In tema di tassazione delle "stock options", l'attribuzione al dipendente da parte della società datrice di lavoro (o di una società appartenente allo stesso gruppo), a titolo gratuito, dell'opzione di acquisto di proprie azioni, da effettuare entro una certa data, assume rilevanza fiscale solo se, esercitata l'opzione, il prezzo di acquisto, fissato al momento della concessione dell'opzione, risulti minore del valore dei titoli al momento dell'acquisto, in modo tale da determinare un guadagno per il beneficiario, che non integra una plusvalenza, ma concorre a formare il reddito di lavoro dipendente, così escludendo l'applicazione della disciplina prevista dall'art. 5 della L. n. 448 del 2001 (cui rinvia l'art. 11 quaterdecies, comma 4, del D.L. n. 203 del 2005, conv., con modif., in L. n. 248 del 2005), che consente, in alcuni casi, di rideterminare il valore di acquisto delle partecipazioni, previo versamento di una imposta sostitutiva, ma solo ai fini della determinazione delle plusvalenze (o delle minusvalenze) di cui all'art. 81 (ora 67) del D.P.R. n. 917 del 1986.

Cass. civ. n. 30406/2018

Nell'ipotesi di affitto di un terreno in parte per uso agricolo ed in parte per uso non agricolo, ai fini della tassazione IRPEF, per la porzione di terreno destinata all'attività agricola il reddito conseguito rientra in quello agrario ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. n. 917 del 1986, mentre la restante parte del reddito va ricondotta alla categoria residuale dei redditi diversi, in virtù dell'art. 67, lett. e), TUIR.

Cass. civ. n. 29575/2018

In tema di plusvalenze realizzate mediante la cessione di terreni edificabili, l'opzione prevista dall'art. 7 della L. n. 448 del 2001 costituisce espressione di una scelta liberamente operata dal contribuente di rideterminare il valore del bene con conseguente versamento dell'imposta sostitutiva nella prospettiva, in caso di futura cessione, di un risparmio sull'imposta altrimenti dovuta, senza che sia richiesto, a tal fine, che detto vantaggio sia conseguito né, peraltro, che la cessione venga effettuata.

Cass. civ. n. 27604/2018

In tema d'imposte sui redditi, non può escludersi l'imponibilità da redditi diversi delle plusvalenze immobiliari, prevista dall'art. 81 (ora 67), comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 917 del 1986, per la sola circostanza che il terreno ceduto si trovi all'interno di zona vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico, dovendosi avere riguardo alla destinazione effettiva dell'area, in quanto la potenzialità edificatoria, desumibile oltre che da strumenti urbanistici adottati o in via di adozione, anche da altri elementi, certi ed obiettivi, che attestino una concreta attitudine dell'area all'edificazione, è un elemento oggettivo idoneo ad influenzare il valore dei terreni e rappresenta, pertanto, un indice di capacità contributiva ai sensi dell'art. 53 Cost. (Nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha annullato la decisione impugnata ritenendo imponibile la plusvalenza, in quanto il terreno, pur inserito, secondo lo strumento urbanistico vigente, in una zona vincolata a fini pubblicistici, al momento della cessione faceva parte di un progetto che, in base al nuovo regolamento urbanistico del Comune, prevedeva la realizzazione di un complesso sportivo e di una multisala, con funzioni commerciali, espositive e culturali).

Cass. civ. n. 26440/2018

In tema di imposte sui redditi, i proventi illeciti, anche ove derivanti da frodi fiscali, devono essere ricondotti alla categoria dei redditi diversi, sebbene non ricompresi nell'elencazione di cui all'art. 67 del D.P.R. n. 917 del 1986, secondo quanto espressamente previsto dall'art. 36, comma 34-bis, del D.L. n. 223 del 2006, conv. in L. n. 248 del 2006.

Comm. Trib. Reg. Basilicata n. 305/2018

La costituzione del diritto di superficie su un terreno agricolo per la realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonte fotovoltaica non muta la natura del terreno che resterà agricolo. L’area destinata all’installazione dei pannelli fotovoltaici non può essere considerata un’area suscettibile di utilizzazione edificatoria in quanto il diritto oggetto di trasferimento concerne un’area agricola. Infatti, l’autorizzazione a costruire un impianto fotovoltaico su tali terreni non comporta la variazione della destinazione urbanistica degli stessi.

Comm. Trib. Reg. Lombardia n. 1897/2018

L’art. 5 del d.lgs. n. 147/2015, al comma 3, nel fornire l’interpretazione autentica degli artt. 58, 85 e 86 del TUIR, stabilisce che per le cessioni di immobili l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro. La norma ha carattere interpretativo e conferma che l’Agenzia delle Entrate non può emettere avvisi di accertamento finalizzati al recupero delle imposte sui redditi solo sulla base della presunzione che il prezzo di vendita corrisponde puramente e semplicemente al valore ai fini dell’imposta di registro, ma dovrà fondarsi su elementi ulteriori.

Comm. Trib. Reg. Campania n. 2611/2018

In tema d’imposte sui redditi, è legittima la ritenuta del 20 per cento, a titolo di IRPEF, effettuata dall’Amministrazione sulle somme da essa versate quale risarcimento del danno derivante da occupazione usurpativa, potendo rientrare anch’essa nell’ambito di operatività dell’art. 11, commi 5, 6, e 7, della 1. n. 413/1991, alla cui stregua sono assoggettabili a tassazione le plusvalenze corri- spondenti, tra l’altro, a somme comunque dovute per effetto di acquisizioni coattive conseguenti ad occupazioni prive di titolo, perché carenti “ab origine” o dichiarate illegittime successivamente.

Cass. civ. n. 1674/2018

In materia di imposta sui redditi, come risulta dal tenore degli artt. 81, comma 1, lett. b) (ora 67) e 16 (ora 17), comma 1, lett. g) bis, del D.P.R. n. 917 del 1986, sono soggette a tassazione separata, quali "redditi diversi", le "plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione", e non anche di terreni sui quali insiste un fabbricato e quindi, già edificati. Ciò vale anche qualora l'alienante abbia presentato domanda di concessione edilizia per la demolizione e ricostruzione dell'immobile e, successivamente alla compravendita, l'acquirente abbia richiesto la voltura nominativa dell'istanza, in quanto la "ratio" ispiratrice del citato art. 81 tende ad assoggettare ad imposizione la plusvalenza che trovi origine non da un'attività produttiva del proprietario o possessore ma dall'avvenuta destinazione edificatoria del terreno in sede di pianificazione urbanistica.

Comm. Trib. Reg. Lombardia n. 254/2018

La vendita di un’area già edificata non può rientrare nelle ipotesi di cui all’art. 81 [recte art. 67], comma 1, lett. b) del d.p.r. n. 917/1986, che assoggetta a tassazione le plusvalenze realizzate a seguito di cessione onerosa di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione. Ai fini dell’applicabilità di detta norma rileva la destinazione edificato- ria originariamente conferita in sede di pianificazione urbanistica ad un’area non edificata. Da ciò discende che la demolizione di un fabbricato già esistente, non riqualifica il terreno come suscettibile di potenzialità edificatoria (potenzialità già posseduta).

Comm. Reg. Val D'Aosta n. 28/2017

La vendita di area già edificata non può rientrare - a fronte di una riqualificazione effettuata dall’Ufficio sulla scorta di elementi presuntivi - nelle ipotesi, sicuramente tassative, previste dall’art. 67 TUIR, il quale assoggetta a tassazione separata, quali redditi diversi, le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione.

Comm. Trib. Prov. Savona n. 397/2017

Non è assimilabile a “prestazioni occasionali ex art. 67, lett. e), del TUIR”, l’attività di collaboratore volontario del Patronato INAPA (Confartigianato), resa in base ad un rapporto disciplinato dall’Accordo di cui alla Circ. Ministero del Lavoro, n. 10/2010, del 30.3.2010, come vistato dalla Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio. Per cui, le somme ricevute dal collaboratore, a titolo di rimborso spese per trasferte ed autostradali, non possono essere qualificate come reddito.

Comm. Trib. Reg. Piemonte n. 1341/2017

La rivalutazione dei terreni edificabili, effettuata ai sensi dell’art. 7 della legge n. 448 del 2001, si considera perfezionata con il versamento dell’intero importo dell’imposta sostitutiva ovvero, in caso di pagamento rateale, con il versamento della prima rata e con la redazione della perizia giurata di stima. L’omessa indicazione del valore nel quadro RM della dichiarazione dei redditi costituisce una mera violazione formale.

Comm. Trib. Reg. Emilia Romagna n. 2350/2017

Produce redditi diversi inquadrati nell’art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR, e conseguentemente assoggettati ad imposta, colui che sistematicamente compra e rivende opere d’arte in un periodo di tempo circoscritto realizzando ingenti proventi.
Non osta alla tassazione del reddito d’impresa commerciale occasionale l’assenza di una organizzazione a tal fine strutturata, il fatto che il contribuente svolgesse questa attività solo in modo “amatoriale” e che la medesima fosse stata rivolta nei fatti ad un novero limitato di clienti (clienti cd. “fidelizzati”).

Cass. civ. n. 13420/2017

In tema d'imposte sui redditi, è legittima la ritenuta del 20 per cento, a titolo di IRPEF, effettuata dall'Amministrazione sulle somme da essa versate quale risarcimento del danno derivante da occupazione usurpativa, potendo rientrare anch'essa nell'ambito di operatività dell'art. 11, commi 5, 6, e 7, della L. n. 413 del 1991, alla cui stregua sono assoggettabili a tassazione le plusvalenze corrispondenti, tra l'altro, a somme comunque dovute per effetto di acquisizioni coattive conseguenti ad occupazioni prive di titolo, perché carente "ab origine" o dichiarato illegittimo successivamente.

Cass. civ. n. 12320/2017

In tema di redditi diversi, la fattispecie relativa alle plusvalenze derivanti dalla vendita di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, prevista dall'art. 81 (ora art. 67), lett. b), del TUIR, si pone come regola ad eccezione rispetto a quella contemplata dalla lett. a), della medesima norma, che riguarda esclusivamente le ipotesi in cui il terreno non sia suscettibile di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione, ma sia interessato da interventi obiettivamente considerati di lottizzazione o di esecuzione di opere per l'edificabilità del terreno, ancorché realizzati fuori o in contrasto con i vincoli urbanistici.

Cass. civ. n. 19465/2016

In tema d'imposte sui redditi, e con riferimento alla determinazione delle plusvalenze di cui all'art. 81 (ora 67), comma 1, lett. a) e b) del D.P.R. n. 917 del 1986, nel caso di cessione di terreni edificabili e con destinazione agricola, la rideterminazione del valore di acquisto sulla base di una perizia giurata di stima, a norma dell'art. 7 della L. n. 448 del 2001, non limita il potere di accertamento dell'Amministrazione finanziaria, come si evince dallo stesso art. 7, comma 6, ai sensi del quale tale rideterminazione costituisce valore normale minimo di riferimento ai fini delle imposte sui redditi, dell'imposta di registro e dell'imposta ipotecaria e catastale. (Principio enunciato in una fattispecie in cui il contribuente ha dichiarato nell'atto di vendita un prezzo inferiore a quello risultante dalla perizia di stima). (cassa con rinvio, Comm. Trib. Reg. Lazio, 04/12/2014).

Cass. civ. n. 16673/2016

In tema di determinazione del reddito d'impresa, il "software" (programma per l'utilizzo degli apparati elettronici) rientra tra le immobilizzazioni immateriali, il cui costo è suscettibile di ammortamento ai sensi dell'art. 68 (ora 103) del D.P.R. n. 917 del 1986, con la precisazione che ove, in base alla specifica previsione contrattuale o legislativa, non vi siano limitazioni all'esercizio del diritto, riconducibile sostanzialmente allo statuto proprietario, si applica il regime di cui comma 1, mentre sono soggette al successivo comma 2 tutte le fattispecie residuali caratterizzate della durata limitata nel tempo dei diritti di utilizzazione attribuiti. (cassa con rinvio, Comm. Trib. Reg. Lazio, 26/05/2011).

Cass. civ. n. 11543/2016

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l'art. 5, comma 3, del D.Lgs. n. 147 del 2015 - che, quale norma di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva - esclude che l'amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro. (rigetta, Comm. Trib. Reg. Lombardia, 23/07/2013).

Cass. civ. n. 22488/2015

In tema d'imposte sui redditi, ed al fine dell'assoggettamento ad imposizione, tra i redditi diversi, ex art. 67, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 917 del 1986, delle plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili posta in essere al di fuori dell'esercizio di imprese, un terreno deve considerarsi lottizzato allorquando sia intervenuta, da parte dell'autorità competente, l'autorizzazione del corrispondente piano di lottizzazione, anche se non sia ancora stata stipulata, tra il comune ed i proprietari, la relativa convenzione urbanistica. (rigetta, Comm. Trib. Reg. Veneto, 10/12/2008).

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Consulenze legali
relative all'articolo 67 TUIR

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

B. F. chiede
lunedì 20/05/2024
“Buongiorno,

nel 2011 ho ricevuto in donazione da mio padre la nuda proprietà di una parte delle sue quote societarie (spa).
Nel 2016 purtroppo lui è morto e nella dichiarazione di successione le quote donate sono state inserite con il "valore fiscale" riportato sull'atto di donazione (maggiore del valore nominale).
Nel 2023 ho venduto tali quote ed ora devo calcolare la plusvalenza eventuale:
Per il calcolo della plusvalenza posso utilizzare il "valore fiscale" di suddette quote o devo usare il valore nominale?
Grazie e cordiali saluti”
Consulenza legale i 21/05/2024
Le plusvalenze derivanti dalle cessioni a titolo oneroso delle partecipazioni (azioni o quote di società) realizzate da soggetti non imprenditori sono disciplinate dagli artt. 67 e 68 del TUIR e vengono definite capital gain. Il capital gain è determinato come differenza tra il corrispettivo percepito dalla vendita e il costo o il valore di acquisto della partecipazione assoggettato a tassazione. Quest’ultimo valore deve essere considerato al lordo di ogni onere inerente la sua produzione (comprensivo di imposta di successione/donazione) e al netto degli eventuali interessi passivi. Qualora la partecipazione sia pervenuta a titolo gratuito, come nel caso della successione, per la determinazione del costo è indispensabile fare riferimento alla dichiarazione di successione presentata. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 68 comma 6 del TUIR, nel caso in cui la partecipazione sia stata assoggettata a tassazione con la successione o nel caso in cui la stessa non sia stata tassata perché sotto franchigia, il costo d’acquisto deve essere assunto quale valore dichiarato ai fini dell’imposta sulle successioni. Nel caso invece di trasferimento di partecipazioni esenti da imposta di successione, ai sensi dell’art.3 comma 4-ter del D.lgs. 346/1990, il costo d’acquisto deve essere assunto quale valore normale alla data di apertura della successione.

M. M. B. chiede
sabato 27/01/2024
“Buongiorno,

la mia domanda riguarda i termini di prescrizione per la plusvalenza immobiliare derivante da vendita di casa acquistata con i benefici prima casa. La casa è stata venduta prima dei 5 anni dall'acquisto.
Servirebbe un chiarimento/approfondimento per capire se si applicano i 5 anni, o, visto che i benefici prima casa si prescrivono dopo 3 anni, anche la tassazione agevolata della plusvalenza viene prescritta dopo 3 anni. Ci sono leggi/sentenze/interpelli in merito?
Inoltre vorrei sapere se spostare la residenza nella casa è un requisito imprescindibile o se avendo atto di vendita di casa dove precedentemente era fissata la residenza, dichiarazione dei redditi che segnala la casa come abitazione principale, utenze intestate, lavoro nel comune dove è situato l'immobile e comunque aver spostato la residenza nella casa da un certo punto in poi è sufficiente per dimostrare l'utilizzo come dimora abituale. Ci sono leggi/sentenze/interpelli in merito?

grazie”
Consulenza legale i 31/01/2024
Per rispondere al quesito è necessario fare chiarezza su due aspetti che devono essere tenuti tra loro distinti: uno è quello legato ai benefici prima casa e l’altro è quello legato alla realizzazione ed eventualmente tassazione della plusvalenza in caso di cessione di un immobile.

L’agevolazione prima casa è disciplinata ai fini dell’imposta di registro dalla nota II-bis allegata al DPR 131/6, art. 1, Tariffa, Parte I, ai fini iva dal n. 21 della Tabella A, parte II, allegata al DPR 633/72 e ai fini delle imposte ipotecaria e catastale dall’art. 69 co.3 della L. 342/2000. La normativa prevede che, al ricorrere di alcune condizioni che non vengono in questa sede riepilogate in quanto non oggetto del quesito, si abbia diritto a delle riduzioni sulle imposte gravanti l’acquisto della prima casa. In questo si sostanza il beneficio. Tuttavia, per il mantenimento di questa agevolazione, è importante non incorrere nelle particolari situazioni che ne determinano la decadenza. Si decade dall’agevolazione nel caso in cui siano state rese dichiarazioni mendaci nell’atto d’acquisto circa i requisiti agevolativi (ad esempio non si è trasferito la residenza entro 18 mesi dall’acquisto) o nel caso di trasferimento dell’immobile prima del decorso di 5 anni dalla data dell’acquisto (salvo non si proceda entro un anno dalla cessione dell’immobile agevolato, all’acquisto di altro immobile da adibire ad abitazione principale).
Per quanto riguarda la decadenza dai benefici prima casa, gli uffici hanno 3 anni per accertare la mancanza dei requisiti (termine decadenziale e non prescrittivo). Per il requisito del mantenimento della proprietà dell’immobile per almeno cinque anni dall’acquisto, il termine di decadenza decorre dalla fine dell’anno successivo alla cessione dell’immobile acquistato. Questo chiarimento è intervenuto con Circolare Agenzia Entrate n.69 del 14.08.2002.
Fatta questa premessa, se l’immobile è stato alienato prima dei cinque anni dall’acquisto, salvo non ne venga acquistato un altro entro un anno e che venga adibito ad abitazione principale, l’agevolazione prima casa viene considerata decaduta. Saranno quindi dovute le maggiori imposte non versate all’atto di acquisto, con relative sanzioni e interessi se dovuti.

Altro aspetto è quello riguardante la determinazione e l’eventuale tassazione della plusvalenza.
Ai sensi dell’art. 67 DPR 917/1986 sono considerate redditi diversi, se non conseguite nell’esercizio di arti e professioni o di imprese/società, “le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione [...] e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari”.
L’articolo introduce una condizione affinché la plusvalenza realizzata non sia da considerare tassata e cioè che l’immobile sia stato adibito ad abitazione principale per la maggior parte del periodo compreso tra l’acquisto e la vendita. Per abitazione principale si deve intendere il luogo in cui il soggetto ha la propria dimora abituale. Per provare al fisco l’esistenza dell’”abitazione principale” è possibile utilizzare un certificato di residenza. In mancanza di trasferimento nell’immobile della residenza, ma in presenza di una “residenza di fatto”, è possibile redigere un’autocertificazione sotto responsabilità penale e, in caso di accertamenti, occorrerà fornire le prove dell’effettiva dimora nell’immobile in oggetto. La Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 218/E del 30.05.2008 ha chiarito che è possibile dimostrare la dimora in luogo diverso da quello risultante dai registri anagrafici “sulla base di circostanze oggettive, quali l’intestazione delle utenze domestiche, l’utilizzo effettivo dei servizi connessi e l’indicazione del domicilio nella corrispondenza ordinaria”.
La mancata dichiarazione e tassazione dell’eventuale plusvalenza realizzata, è soggetta ai termini generali per l’accertamento delle imposte disciplinata dal DPR 600/73. Gli avvisi di accertamento devono essere notificati a pena di decadenza entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.

Pertanto, per la vendita dell’immobile prima che siano trascorsi cinque anni dall’acquisto, posta la decadenza del beneficio prima casa (salvo quanto specificato sopra), sarà necessario verificare se la stessa genera una plusvalenza. Se così fosse, tale plusvalenza non sarà tassabile solamente nel caso in cui il contribuente possa dimostrare di aver avuto in detto immobile la propria abitazione principale (o dei suoi familiari) per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto e la vendita dell’immobile.

Anonimo chiede
giovedì 18/05/2023
“Si chiede se è corretto considerare il permesso a costruire convenzionato disciplinato dall'articolo 28bis del DPR n. 380 una evoluzione della lottizzazione convenzionata normata dall’art 28 della Legge n. 1150 del 1942 e successive modificazioni e, dunque, se a tale istituto possano essere ricondotte – in via analogica – tutte le disposizioni che facciano espresso riferimento ai piani di lottizzazione, ivi compresa quella contenuta all’art. 67 del DPR n. 917/1986.”
Consulenza legale i 26/05/2023
Va chiarito che l’affermazione della giurisprudenza secondo cui il permesso di costruire convenzionato costituisce una versione alternativa e aggiornata della lottizzazione convenzionata (T.A.R. Napoli, sez. VIII, 04 aprile 2022, n. 2281) è da ricondurre esclusivamente in un’ottica di ricostruzione storica e inquadramento dell’istituto sul piano edilizio.
Questo non significa però che ad esso siano automaticamente applicabili le norme in tema di lottizzazione, soprattutto se si tratta di norme di ambito diverso, come l’art. 67, D.P.R. n. 917/1986 che riguarda il tema fiscale ed è stata introdotta prima dell’entrata in vigore del T.U. Edilizia.
Bisogna avere riguardo, invece, alla ratio legis per capire se essa sia riconducibile alla fattispecie che qui interessa.

L’art. 67, comma 1, lettera a), D.P.R. n. 917/1986, menziona le plusvalenze realizzate mediante la lottizzazione di terreni, o l'esecuzione di opere intese a renderli edificabili, e la successiva vendita, anche parziale, dei terreni e degli edifici.
In proposito, la giurisprudenza ritiene che la crescita del valore dell’area perseguita con il piano di lottizzazione è realizzata dal proprietario mediante il sostenimento di spese (ad esempio la realizzazione di opere pubbliche o la cessione di aree) che consentono di ottenere l'edificabilità del terreno (Comm. trib. reg. Milano, sez. XX, 27 settembre 2021, n. 3442).
Anche nel permesso di costruire convenzionato, in effetti, si verifica lo stesso meccanismo, in cui il privato, per poter conseguire il titolo edilizio che gli permette di costruire, si obbliga verso il comune a svolgere opere quali la cessione di aree anche al fine dell'utilizzo di diritti edificatori, la realizzazione di opere di urbanizzazione e la realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale; tutto ciò contribuisce ad aumentare il valore del terreno.

Pertanto, avendo riguardo al contenuto sostanziale dell’art. 67, sembra quindi che il Fisco possa ritenere di applicarla anche al permesso di costruire convenzionato, fermo restando che una risposta definitiva potrebbe essere resa solo conoscendo più a fondo le caratteristiche del caso concreto.

C. M. chiede
domenica 30/04/2023
“Vendo una prima casa + un fondo agricolo cointestato di 1 ht per un valore concordato di € 250000.
Acquisto una nuova prima casa sempre cointestata nel comune attiguo per € 180000.
La differenza va a costituire plusvalenza?
Se si quanto devo versare di tassa in percentuale per la differenza creatasi dei 70000 €.
Grazie della risposta, Cordialmente”
Consulenza legale i 08/05/2023
Ai sensi dell’art. art. 67 del T.U.I.R., le plusvalenze (ovverosia la differenza positiva, generata dalla rivendita di una proprietà realizzata per le cessioni a titolo oneroso di beni immobili, quali fabbricati e terreni agricoli acquistati, costruiti o ricevuti in donazione da non più di cinque anni), sono assoggettate a un'imposta sostitutiva dell'imposta sul reddito, che a partire dal periodo di imposta 2019, è pari al 26%.
In altri termini, ai fini della tassazione all’imposta sostitutiva, la plusvalenza è fiscalmente rilevante, allorquando l’immobile:

• sia stato ceduto a titolo oneroso (atto di compravendita, permuta, conferimento in società);
• sia stato ceduto prima di cinque anni dal momento dell’acquisto o della costruzione;
• non deve essere stato adibito ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari.

Ragionando a contrariis, per ciò che rileva ai nostri fini, non genera plusvalenza l’immobile che sia stato ceduto dopo che siano trascorsi anni 5 fra il primo acquisto e la successiva rivendita e, nel caso in cui l’unità immobiliare sia stata adibita ad abitazione principale, ancorché ceduta prima degli anni 5.

Alla luce di quanto sopra si ritiene che, nel caso specifico, non ricorrano le condizioni previste per l’assoggettamento a tassazione con imposta sostitutiva della cessione, in considerazione della insussistenza dei sopra indicati presupposti.
In base a quanto descritto, l’immobile in oggetto è stato in origine acquistato con le c.d. agevolazioni prima casa e ciò significa che è stato adibito ad abitazione principale.
A ciò si aggiunga che la seconda operazione di compravendita si realizza dopo il decorso di anni 5 dal primo acquisto.
Ne deriva che, tale cessione non genera una plusvalenza tassabile.



L. C. chiede
sabato 29/10/2022 - Lombardia
“La domanda riguarda l'imposta di plusvalenza. Vorrei vendere una casa di due locali in Milano acquistata da mio figlio come prima casa nel 2007. Mio figlio vi ha abitato fino al 2014 e poi l'ha affittata fino al 2020. Nel 2020 me l'ha donata e per me è seconda casa ed ho proseguito nell'affitto. Ora vorrei venderla. Aggiungo che nell'atto di donazione viene indicato un valore della donazione di circa € 58.000. Da qui la domanda: essendo seconda casa e vendendola ad un prezzo ben maggiore, vanno pagate da me le imposte sulle plusvalenze, non essendo ancora passati 5 anni ?”
Consulenza legale i 04/11/2022
La cessione di beni immobili ricevuti in donazione, al ricorrere di determinate condizioni, configura una operazione imponibile a tutti gli effetti, diversamente dalla vendita di fabbricati derivanti da successione, generalmente considerata operazione irrilevante da un punto di vista fiscale.


In quanto tale, la cessione può generare plusvalenza imponibile (calcolata sulla base della differenza positiva tra corrispettivo, ricevuto in ragione della cessione e il costo di acquisto dell’immobile ceduto aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo), solo allorquando, ai sensi dell’art. 67 del T.U.I.R., primo comma, lett. b), la vendita dell’immobile sia realizzata prima che siano trascorsi cinque anni dal giorno in cui il donante ha acquistato l'immobile.
In altri più specifici termini, ai fini del computo del quinquennio per la tassabilità della plusvalenza, deve considerarsi la data di acquisto del fabbricato a uso abitativo da parte del donante, non rilevando, invece, la data in cui il donatario riceve il bene in donazione (Risoluzione 14 febbraio 2014, n. 20/E).


Alla luce di tali premesse, non ricorrono, nel caso di specie, le condizioni per l’imponibilità della cessione dell’immobile in caso di vendita, essendo ormai ampiamente decorso il quinquennio richiesto dalla norma, decorrente dalla data di acquisto dell’appartamento in oggetto da parte di Suo figlio, in qualità di donante (2007).
Qualora dovesse concludere la vendita dell’immobile ricevuto in donazione, l’eventuale plusvalenza realizzata non sarà, dunque, soggetta a tassazione.

A. J. M. chiede
lunedì 21/03/2022 - Lazio
“Buongiorno,
vorrei avanzare un dubbio sull'applicazione della PLUSVALENZA:
- posseggo da piu' di 5 anni il 50% di alcuni beni immobili (A/3, C1, C2 e un adiacente piccolo semi arbor cat1) ereditati dai miei nonni;
- ho comprato lo scorso anno il restante il restante 50% da mio zio;
- in tale periodo non ho avuto presso l'immobile in questione la mia resdenza.

Nell'eventualita' la vendita generasse plusvalenza, supponendo che io abbia comprato ad un valore pari a 100 la parte di mio zio (possesso < 5 anni) e rivendessi tutta la proprieta' (compresa quindi il mio 50% con possesso > 5 anni) ad un valore di 400, come verrebbe calcolata la plusvalenza in questione?

Grazie”
Consulenza legale i 01/04/2022
Ai sensi dell’art. 67, 1°, lett. b), D.P.R. N. 917/1986 è atta a genere plusvalenza la cessione di qualunque immobile, sia esso un fabbricato, qualunque sia la destinazione sua propria, od un terreno, sia esso edificabile, agricolo o né agricolo né edificabile.
Perché la plusvalenza risulti imponibile quale reddito diverso ai sensi dell’art. 67, 1°, lett. B), D.p.r. n. 917/1986, è richiesto che la cessione intervenga entro 5 anni dall’acquisto del venditore; in conseguenza, la cessione dell’immobile oltre i 5 anni non genera mai una plusvalenza fiscalmente rilevante, e non dà luogo ad alcuna imposta a carico del venditore.
La normativa in esame mira a tassare solo ed esclusivamente le operazioni immobiliari potenzialmente speculative, motivo per il quale – a differenza delle plusvalenze derivanti dalla cessione di terreni edificabili – il legislatore ha inteso escludere dal regime impositivo la rivendita di immobili acquistati per successione a causa di morte, indipendentemente da quanto tempo sia trascorso dall’apertura della successione e/o da quando il defunto abbia acquistato il bene e da quale destinazione vi abbia impresso.

Di conseguenza, la cessione di immobili acquistati per successione, legittima o testamentaria che sia – eccettuati però, si ricorda, i terreni edificabili – non dà mai luogo ad alcuna plusvalenza fiscalmente rilevante.

Nel quadro sopra esposto, che costituisce la disciplina ordinaria della tassazione delle plusvalenze immobiliari, si inquadra anche l’art. 1, comma 496, L. 266/2005 che consente al venditore nell’atto notarile di rivendita di corrispondere immediatamente, in luogo dell’irpef ordinaria dovuta fine anno fiscale secondo le aliquote sue proprie, un’imposta sostitutiva da auto-liquidare con un apposito modulo.

L’imposta sostitutiva in esame è utilizzabile solo ed esclusivamente per la cessione di immobili diversi dai terreni edificabili. L’aliquota attualmente vigente per l’imposta sostitutiva di cui all’art. 1, comma 496, L. 266/2005 è del 26%.

La normativa in esame trova evidentemente applicazione pro-quota anche nel caso in cui soltanto parte dell’immobile sia stato acquistato prima dei cinque anni dalla rivendita, dovendosi ovviamente calcolare nella plusvalenza soltanto la parte riferibile all’acquisto infra-quinquiennale.

In effetti, la corte di Cassazione, pronunciandosi in tema di imponibilità della plusvalenza realizzata dalla vendita di un immobile, prima del decorrere dei cinque anni dall’acquisto, adibito in parte ad abitazione principale ed in parte concesso in locazione, chiarisce che l’art 67 non esclude che, ai fini impositivi, si possa e si debba distinguere tra parte immobiliare adibita ad abitazione principale del cedente e dei suoi familiari e parte immobiliare ceduta a qualsiasi titolo ai terzi.
In particolare, chiarisce la Suprema Corte, l’uso promiscuo dell’immobile come sopra definito implica la necessità di distinguere ai fini impositivi la parte che rientra nella previsione agevolativa da quella che invece ne è fuori, con una determinazione dell’imposta sulla scorta di un calcolo percentuale basato su tale rapporto, peraltro facilmente ancorabile – per il profilo quantitativo – ai dati catastali.
Infine, la Corte sottolinea come non sia possibile un’interpretazione diversa in quanto sarebbe distorsivo per il sistema: “basti pensare al caso, sostanzialmente inverso a quello che occupa, in cui di un intero condominio il proprietario cedente (ovvero un suo familiare) abbia occupato soltanto un appartamento, avendolo locato per il resto a terzi. È chiaro che riconoscendo in tal caso l'esclusione ‘per intero’ della plusvalenza lo scopo della norma impositrice sarebbe in concreto elusa”. (Corte di cassazione, con la sentenza n. 37169 del 7 settembre 2016)

Per rispondere concretamente al quesito posto, può sostenersi che sulla scorta del ragionamento svolto dalla Corte di Cassazione, nel caso che ci occupa, a generare la plusvalenza sarebbe soltanto il 50% del valore di vendita, relativo alla parte dell’immobile precedentemente acquistato dallo zio.

Onde evitare successivi problemi con l'Agenzia delle Entrate, sarebbe opportuno far fare, prima della vendita, una perizia che calcoli il valore di vendita delle singole porzioni, al fine di consentire anche al notaio un'esatta liquidazione dell'imposta sostitutiva.


G. I. chiede
lunedì 17/01/2022 - Piemonte
“Buonasera,
avendo chi vi scrive circa un anno fa acquistato un quantitativo considerevole di bottiglie di whisky molto ambite da parte di collezionisti del settore in quanto trattasi di bottiglie in edizioni limitate, il mio quesito si pone pertanto l'intento di ottenere informazioni in ordine al fatto se la vendita eventuale di detti oggetti, che potrebbe avvenire (forse) tra qualche anno, dalla quale, in qual caso, sarà certamente ottenuta una plusvalenza stante il fatto che il solo trascorrere del tempo rende detti beni sempre più rari, possa ingenerare quesiti da parte dell'Agenzia delle Entrate che potrebbe quindi equiparare i ricavi di vendita - che avverrebbero mediante bonifici bancari e con l'intermediario di piattaforme che imprendono in vendita di oggetti da collezione a fronte di un corrispettivo - quali redditi diversi, perciò assoggettabili ad una qualche forma di tassazione?
In breve, il guadagno così ottenuto, dovrà essere oggetto di dichiarazione dei redditi? O vi sono buone possibilità che la giacenza di whisky in questione possa definirsi frutto di un'attività di collezionismo senza fini speculativi ?

Ringrazio”
Consulenza legale i 30/01/2022
A norma dell’art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR, sono redditi diversi “i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente”.
I redditi che derivano dalle attività commerciali esercitate abitualmente sono, invece, qualificati come redditi di impresa, per effetto delle disposizioni di cui all’art. 55 del T.U.I.R., in base al quale, per limitarci al caso che qui interessa, per esercizio di imprese commerciali deve intendersi l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate
nell’art. 2195 del c.c..
Riguardo al requisito della abitualità, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza (sentenze Cassazione 31 maggio 1986, n. 3690 e 29 agosto 1997, n. 8193) e della prassi (risoluzione 20 giugno 2002, n. 204/E), la qualifica di imprenditore commerciale può determinarsi anche da un solo affare in considerazione della sua rilevanza economica e delle operazioni che il suo svolgimento comporta.

La citata risoluzione n. 204/E/2002 afferma, infatti, che “la qualifica di imprenditore deve essere attribuita anche a chi utilizzi e coordini soltanto un proprio capitale per fini produttivi, non essendo necessario che la funzione organizzativa dell’imprenditore abbia a oggetto anche le altrui prestazioni lavorative, autonome o subordinate, o che i mezzi di cui ci si avvalga costituiscano un apparato strumentale fisicamente percepibile, in quanto quest’ultimo può ridursi al solo impiego di mezzi finanziari. Inoltre, è del tutto irrilevante che l’esercizio dell’impresa si esaurisca in un singolo affare, poiché anche la realizzazione di un unico affare può costituire impresa quando implichi il compimento di una serie coordinata di atti economici”; pertanto, l’assunzione della qualifica di imprenditore in seguito all’effettuazione di un unico affare complesso comporta l’attrazione del reddito conseguito nell’ambito del reddito di impresa.

Fatte queste premesse e venendo al caso che qui interessa, occorre rilevare che, per inquadrare correttamente la tassazione sulla vendita di oggetti da collezione, occorre distinguere la figura del mercante di oggetti, che effettua un commercio abituale dei predetti beni; quella del venditore occasionale e quella dell’amatore.
Non vi è dubbio, per effetto delle precedenti definizioni che il mercante di oggetti produce reddito d’impresa, in quanto svolge professionalmente e abitualmente un’attività intermediaria di circolazione dei beni, anche in assenza di un’organizzazione imprenditoriale per trarre profitto (e, quindi, rientra tra le ipotesi di cui all’art. 2195 c.c. prima citato).
L’attività del venditore occasionale, invece, potrebbe dar luogo ad un reddito imponibile, come reddito diverso, ex art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR, nelle ipotesi in cui sussista la connessione di una pluralità di atti preordinati al conseguimento di un reddito. In sostanza può essere soggetta a tassazione l’operazione di colui che compra e rivende gli oggetti da collezione con una finalità speculativa, fermo restando che, per quantoprima detto, in funzione della rilevanza dell’operazione, anche una sola operazione potrebbe essere riqualificata, almeno ai fini fiscali, come attività di impresa (Cassazione, sentenze n. 2711/2006 e n. 8196/2008).
L’attività amatoriale come, ad esempio, quella del privato collezionista che vende i beni della propria collezione, non sarà soggetta ad alcuna imposizione se manca la pluralità di atti collegati e preordinati al conseguimento di un reddito.

Non sempre, comunque, la distinzione tra attività amatoriale e attività d’impresa è scontata e, soprattutto in materia di opere d’arte, numerosi sono i casi, definiti dalla giurisprudenza o dalla prassi, che hanno condotto ad una riqualificazione del venditore come operatore commerciale.
Venendo al quesito, per quanto detto, la risposta non può che trovarsi nella natura e modalità di svolgimento dell’attività di cui si discute, tenendo conto del fatto che, la sussistenza di una pluralità di atti, accomunati da un intento speculativo, potrebbe portare a qualificare il ricavo di detta vendita come reddito diverso e, persino, come reddito di impresa nelle ipotesi in cui non si configuri più come attività occasionale o, in funzione della sua rilevanza economica.

A.P. chiede
venerdì 15/10/2021 - Emilia-Romagna
“In data 5 maggio 2016 è stato permutato un immobile (terreno e piccolo magazzino) con altro immobile (terreno edificabile) dichiarando in atto notarile, con allegata perizia giurata, identico valore per entrambi; e per i quali sono stati totalmente pagati tutti gli oneri previsti, tasse e quant’altro previsto.
In data 9 settembre 2020, lo stesso bene, pervenuto dalla permuta, è stato venduto con una plusvalenza di € 60.000,00 (sessantamila).
La domanda che si sottopone è inerente per come considerare se un bene avuto in permuta è da ritenersi come nuovo acquisto, e quindi la data del 5 maggio 2016 è quella valida per il calcolo dei cinque anni ai fini della tassa sulla plusvalenza.
Oppure si potrebbe interpretare che, essendo stata una permuta vale la data del primo possesso (del bene ceduto in permuta); essendo così trascorsi i cinque anni e quindi non soggetto alla tassazione di plusvalenza
Inoltre, fra le spese deducibili ossia spese che è possibile sottrarre dalla plusvalenza può essere inserita anche la tassa IMU.”
Consulenza legale i 24/10/2021
A norma dell’art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR, sono considerati redditi diversi, se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente, le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione.
Diversamente dalla cessione di immobili, tale plusvalenza si realizza anche se:
- il terreno è stato acquisito per successione;
- è stato acquisito a titolo oneroso da più di cinque anni.
Per “terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria” devono intendersi quelli qualificati come edificabili:
- in base al piano regolatore generale o, in mancanza
- dagli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione.

Dall’esame della disposizione in commento si evince che la norma focalizza l’attenzione sulla situazione esistente al momento della cessione e, pertanto, rilevano la natura e la titolarità del terreno alla predetta data.
Ne deriverebbe che il soggetto passivo che realizza la plusvalenza è quello che ha la titolarità del terreno edificabile al momento della cessione. Conseguentemente, una volta effettuata la permuta, la titolarità del terreno edificabile si trasferisce al nuovo proprietario che diventa, quindi, il soggetto passivo in capo al quale si realizza la plusvalenza, connessa alla cessione dell’immobile.

Poiché per espressa disposizione di legge, la plusvalenza relativa ai terreni edificabili prescinde dal momento dell’acquisizione della titolarità degli stessi e dal periodo di possesso, non rileva se il bene sia stato acquisito nei cinque anni precedenti o antecedentemente a detta data e, quindi, non rileva in ogni caso la situazione del bene con il quale lo stesso è stato permutato. Ciò che rileva è soltanto il fatto che, al momento della cessione, il terreno fosse suscettibile di utilizzazione edificatoria e, in questo caso, la cessione del bene si considererà comunque plusvalente a prescindere dal fatto che lo stesso sia stato acquisito da più o da meno di cinque anni.

Riguardo, poi, alle modalità di determinazione della plusvalenza, occorre fare riferimento alle disposizioni di cui all’art. 68 del T.U.I.R..
In base al comma 1 della citata disposizione, la plusvalenza è costituita dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta in cui avviene la cessione ed il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
Il successivo comma 2, con specifico riferimento ai terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, precisa che il prezzo di acquisto deve essere aumentato di ogni altro costo inerente, rivalutato in base alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati nonché dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili.

Pertanto, con riferimento al secondo quesito deve osservarsi che nel calcolo della plusvalenza rileva la cosiddetta INVIM ma non l’IMU che resta, quindi, a carico di colui che è titolare del bene al momento in cui si realizza il presupposto per l’imposizione.


IVANO S. chiede
lunedì 02/08/2021 - Veneto
“Buongiorno,
Ho ereditato un immobile accatastato A2, dovrei ristrutturare lo stesso, essendoci cubatura residua aumentare la cubatura, ricavarne tre appartamenti e venderli.
Il permesso di costruire dovrebbe essere rilasciato in parte come ristrutturazione e parte come nuova edificazione.
Chiedo se il ricavato della vendita effettuata da persona fisica si può considerare non tassato in base art. 67 TUIR, immobile ereditato, o deve essere tassato diversamente?
Saluti”
Consulenza legale i 29/08/2021
In linea generale, per effetto delle disposizioni di cui all’art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR, danno luogo a plusvalenze le “cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari, nonché, in ogni caso, le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”.

In base alla disposizione in commento, quindi, la cessione di immobili configura l’ipotesi di realizzazione di una plusvalenza tassabile ogni qualvolta in cui:
  • l’immobile è stato ceduto a titolo oneroso, ovvero tramite compravendita, permuta, conferimento in società;
  • si tratta di immobili costruiti o acquistati, tranne quelli acquisiti per successione;
  • sono stati ceduti prima di cinque anni dal momento dell’acquisto o della costruzione;
  • non sono stati adibiti ad abitazione principale da parte del cedente o dei suoi familiari nel caso si tratti di unità immobiliari urbane.
Per il calcolo dei cinque anni occorre fare riferimento alla data di alienazione del bene, indipendentemente dal momento in cui avviene il pagamento del corrispettivo.

Lo scopo della norma è quello di tassare unicamente le operazioni che sottintendano un fine speculativo, che si presume escluso tanto nell’ipotesi in cui l’immobile venga utilizzato come abitazione principale personale o dai familiari del venditore, nel periodo di possesso; quanto nel caso in cui si proceda alla alienazione di un immobile che sia stato in precedenza acquisito per successione, indipendentemente, in questo caso, dal periodo intercorso tra l’acquisizione e la successiva cessione e dalla destinazione dello stesso durante il periodo di possesso.

L’Amministrazione finanziaria ha precisato che la verifica della sussistenza dei predetti presupposti, ai fini dell’esclusione, va effettuata con riferimento al singolo immobile. Più in particolare, in relazione all’ipotesi di esclusione dal realizzo di plusvalenze nel caso di cessione di immobili adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari, nella risposta ad interpello 22.11.2018, n. 83, ha precisato che l’esenzione dalla tassazione per le plusvalenze realizzate per la cessione di un immobile adibito ad abitazione principale non spetta ad un fabbricato destinato a finalità diverse da quelle abitative.

Infatti, la cessione della pertinenza unitamente all’abitazione principale, entro cinque anni dall’acquisto, non genera plusvalenza e quindi non è imponibile, sempreché per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione, l’unità immobiliare urbana sia stata adibita ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari. A diverse conclusioni deve pervenirsi, invece, nel caso in cui la pertinenza venga ceduta separatamente dall’abitazione principale.
Pertanto, la plusvalenza derivante dalla cessione infra-quinquennale del box auto effettuata separatamente dall’abitazione principale costituisce reddito diverso ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera b), del Tuir.

Proprio in considerazione di ciò devi ritenersi che, nel caso di specie, i presupposti per la verifica della realizzazione di un’eventuale plusvalenza tassabile, per effetto della disposizione in commento, debbano essere riscontrati in riferimento a ciascuna delle singole unità immobiliari oggetto di cessione, se queste, ovviamente, vengano separatamente iscritte in catasto.
In tal caso, infatti, sebbene possa escludersi la sussistenza dei predetti presupposti in relazione all’unità immobiliare, ricevuta in successione ed oggetto di semplice ristrutturazione; lo stesso non potrà dirsi in riferimento alle restanti unità immobiliari, oggetto di nuova edificazione.
Per queste ultime, infatti, se costituiscono unità immobiliari a se stanti rispetto a quella ricevuta in donazione ed oggetto di ristrutturazione, si verifica la condizione per la realizzazione della plusvalenza dal momento che:
  • sono cedute prima di cinque anni dal momento della costruzione;
  • non sono state adibite, durante il periodo di possesso, ad abitazione principale da parte del cedente o dei suoi familiari;
  • e, ovviamente, vengono cedute a titolo oneroso, ovvero tramite compravendita, permuta, conferimento in società.

Viceversa, laddove dovessero costituire un’unica unità immobiliare, l’intero immobile si potrebbe considerare ricevuto per successione, seppure oggetto di una ristrutturazione di tipo ampliativo e, pertanto, dovrebbero sussistere i presupposti per l’esclusione disposti dalla medesima lett. b) del comma 1 dell’art. 67 del TUIR.

Resta inteso che, in riferimento ai casi in cui si verificano i presupposti per la realizzazione di una plusvalenza, su richiesta della parte venditrice resa al notaio, in deroga alla disciplina dell’articolo 67, comma 1, lettera b), Tuir, è possibile chiedere l’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’imposta sui redditi pari al 26% (percentuale incrementata dal 20% al 26% dall’articolo 1, comma 695 della legge n. 160/2019 per le cessioni effettuate a decorrere dal 1° gennaio 2020).
Tale facoltà è attuabile all’atto della cessione e su richiesta della parte venditrice resa al notaio, il quale provvederà alla determinazione, alla riscossione e al versamento dell’imposta sostitutiva all’Agenzia delle Entrate.


Tommaso chiede
mercoledì 10/02/2021 - Lombardia
“Buongiorno, espongo il quesito.
Immobile acquistato a febbraio del 2019 con agevolazioni prima casa, nucleo famigliare composto da una sola persona single, lavoratore dipendente che tra viaggio e orario di lavoro è fuori casa dalle ore 7.00 alle ore 19.30 dal lunedì al venerdì.
Trasferimento residenza avvenuto a marzo del 2019 quindi entro i 18 mesi.
A causa di problematiche condominiali (vicini rumorosi che impediscono di dormire e con i quali ci sono pessimi rapporti) l'immobile è stato utilizzato poco solo nel fine settimana per pulizia e posta in attesa di vendita, durante la settimana la permanenza avviene su immobile dei genitori.
Di conseguenze le bollette sono basse (energia circa 15/20 euro al mese - 40/45 kwh mese, gas circa 180 mc all'anno bollette circa 10 euro al mese in estate e circa 20/30 euro al mese in inverno).
Adesso si prospetta la possibilità di vendita quindi prima dei 5 anni con riacquisto entro l'anno di altro immobile da adibire ad abitazione principale proprio per non perdere le agevolazioni prima casa e nella speranza di non avere più problematiche condominiali.
Nel dettaglio si chiede quanto segue:
In base alle ultime sentenze della cassazione il soggetto rischia la tassazione della plusvalenza in caso di vendita prima dei 5 anni sulla base dei controlli dei consumi energetici?
Per le stesse motivazioni rischia un accertamento IMU dal Comune sempre sulla base dei consumi?
Può l'Agenzia delle Entrate far decadere i benefici prima casa sulla base del poco utilizzo dell'immobile?
Ed eventualmente quali accorgimenti si dovrebbero attuare per non incorrere in eventuali accertamenti da parte dell'Agenzia Entrate e/o dal Comune.
Grazie”
Consulenza legale i 16/02/2021

L’acquisto di un immobile con le agevolazioni prima casa implica che:

- il fabbricato che si acquista appartenga a determinate categorie catastale;

- il fabbricato si trovi nel comune in cui l’acquirente ha (o intende stabilire) la residenza o lavora;

- l’acquirente abbia determinati requisiti.

Più in particolare, per usufruire dell’agevolazione “prima casa”, l’abitazione che si acquista deve appartenere a una delle seguenti categorie catastali:

A/2 (abitazioni di tipo civile)

A/3 (abitazioni di tipo economico)

A/4 (abitazioni di tipo popolare)

A/5 (abitazioni di tipo ultra popolare)

A/6 (abitazioni di tipo rurale)

A/7 (abitazioni in villini)

A/11 (abitazioni e alloggi tipici dei luoghi).

Le agevolazioni “prima casa” non sono ammesse, invece, per l’acquisto di un’abitazione appartenente alle categorie catastali A/1 (abitazioni di tipo signorile), A/8 (abitazioni in ville) e A/9 (castelli e palazzi di eminenti pregi artistici e storici).

Le agevolazioni spettano anche per l’acquisto delle pertinenze, classificate o classificabili nelle categorie catastali C/2 (magazzini e locali di deposito), C/6 (per esempio,rimesse e autorimesse) e C/7 (tettoie chiuse o aperte), limitatamente a una pertinenza per ciascuna categoria.

È necessario, tuttavia, che le stesse siano destinate in modo durevole a servizio dell’abitazione principale e che questa sia stata acquistata beneficiando delle agevolazioni “prima casa”.


Altra condizione è che l’abitazione deve trovarsi nel territorio del comune in cui l’acquirente ha la propria residenza. Proprio in considerazione di ciò, se l’acquirente è residente in altro comune, entro 18 mesi dall’acquisto, deve trasferire la residenza in quello dove è situato l’immobile. La dichiarazione di voler effettuare il cambio di residenza deve essere contenuta, a pena di decadenza, nello stesso atto di acquisto.

Riguardo ai requisiti dell’acquirente è necessario che lo stesso non sia titolare, esclusivo o in comunione col coniuge, di diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione, su altra casa nel territorio del comune dove si trova l’immobile oggetto dell’acquisto agevolato; non sia titolare, neppure per quote o in comunione legale, su tutto il territorio nazionale, di diritti di proprietà, uso, usufrutto, abitazione o nuda proprietà, su altro immobile acquistato, anche dal coniuge, usufruendo delle medesime agevolazioni “prima casa”; ovvero, laddove già proprietario di un immobile acquistato con le agevolazioni prima casa, provveda a vendere la casa già posseduta entro un anno dal nuovo acquisto.


Le agevolazioni “prima casa” non spettano quando si acquista un’abitazione ubicata nello stesso comune in cui si è già titolare di altro immobile acquistato senza fruire dei benefici. Questo, anche se si assume l’impegno a vendere l’immobile già posseduto entro un anno dal nuovo acquisto.

Le agevolazioni ottenute quando si acquista un’abitazione con i benefici “prima casa” possono essere perse e, di conseguenza, si dovranno versare le imposte “risparmiate”, gli interessi e una sanzione del 30% delle imposte stesse. Questo può accadere se:

- le dichiarazioni previste dalla legge nell’atto di acquisto sono false;

- l’abitazione è venduta o donata prima che siano trascorsi 5 anni dalla data di acquisto, a meno che, entro un anno, non si riacquista un altro immobile, anche a titolo gratuito, da adibire in tempi “ragionevoli” a propria abitazione principale. Il requisito del riacquisto non è soddisfatto quando si stipula, entro l’anno dalla vendita del primo immobile, soltanto un compromesso, poiché con questo tipo di contratto non si trasferisce il bene;

- non si sposta la residenza nel comune in cui si trova l’immobile entro 18 mesidall’acquisto;

- entro l’anno dall’acquisto del nuovo immobile non viene venduto quello già posseduto, acquistato con le agevolazioni “prima casa”.


Come si evince da quanto prima detto, il trasferimento della residenza è condizione sufficiente per fruire dell’agevolazione. Del resto, sotto questo profilo, occorre considerare che la stessa amministrazione finanziaria riconosce la possibilità di fruire dell’agevolazione persino nel caso in cui l’immobile venga dato in locazione precisando che la locazione non implica la decadenza dai benefici in quanto non si verifica la perdita del possesso dell’immobile.

Diversa è invece la situazione sotto il profilo della plusvalenza.

In base all’art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR, sono redditi diversi “le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari (...)”.

L’amministrazione finanziaria ha precisato che, per interpretare la nozione di “abitazione principale”, si devono richiamare gli articoli 10 e 15 del TUIR. In particolare il comma 3 bis dell'art. 10 del T.U.I.R. definisce abitazione principale “quella nella quale la persona fisica, che la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale o i suoi familiari dimorano abitualmente”; la definizione è funzionale all’individuazione degli immobili per i quali compete la deduzione dal reddito complessivo, di un importo pari all’ammontare della rendita catastale.

Inoltre, il comma 1 lett. b dell’art. 15 del T.U.I.R., ai fini della determinazione della detrazione d’imposta spettante sugli interessi passivi relativi ai mutui stipulati per l’acquisto dell’abitazione principale, considera tale “quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente”.
Per quanto riguarda il significato da attribuire all’espressione “familiari” lo stesso va desunto dall’ultimo comma dell'art. 5 del T.U.I.R., secondo cui ai fini delle imposte sui redditi si intendono, per familiari, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.


Le disposizioni prima citate, al contrario di quelle prese in considerazione al fine di fruire dell’agevolazione “prima casa”, fanno riferimento al concetto di dimora che è costituita dal luogo nel quale una persona abita e svolge in maniera continuativa la propria vita personale (motivo per cui, non viene considerato dimora il luogo in un cui una persona si ferma solo per un breve periodo di tempo, come in una camera d’albergo).

Dal punto di vista giuridico (art. 43 del c.c., comma 2), la dimora si presume sussistente nel luogo in cui si ha la residenza e, pertanto, posto che comunque è stato effettuato il trasferimento della residenza nell’immobile di cui si discute, si presume che nel medesimo immobile si sia stabilita anche la dimora.

Sarà onere dell’amministrazione finanziaria dimostrare, eventualmente, il contrario ma chiaramente, l’esiguità dei consumi non è di per sé sufficiente a fornire la prova che effettivamente l’immobile non sia stato adibito ad abitazione principale durante il periodo di possesso posto che la stessa assume il semplice valore di un indizio che potrebbe essere smentito da tante altre circostanze, quali ad esempio la necessità di trascorrere più tempo presso l’abitazione dei genitori al fine di accudirli o la necessità di spostarsi spesso per viaggi di lavoro.


Si fa, in ogni caso osservare che, dato l’esiguo arco temporale intercorso tra l’acquisto e la rivendita dell’immobile e tenuto conto dell’andamento al ribasso dei prezzi degli immobili, registrato negli ultimi anni, non è detto che si realizzi una plusvalenza dal momento che questa presuppone che l’immobile venga effettivamente venduto ad un prezzo superiore rispetto a quello al quale lo stesso è stato in precedenza acquistato ed al netto di tutti gli oneri di diretta imputazione, quali spese notarili ecc.

Si può in ogni caso valutare di richiedere al notaio, all’atto della cessione, l’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito pari al 26%, in base alle disposizioni di cui all’art. 1, comma 695, della legge n. 160 del 27 dicembre 2019 (legge di bilancio 2020) che ha modificato il comma 496 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266.

Le medesime considerazioni valgono anche ai fini dell’IMU.



Anna M. C. chiede
lunedì 18/05/2020 - Lazio
“Buongiorno,
Sto vendendo un immobile prima dei 5 anni dall'acquisto in comproprietà (io usufrutto) con mio figlio (nuda proprietà).
L'immobile si trova a Verona e sia io che mio figlio abbiamo avuto sempre la residenza anagrafica a Roma.
Di fatto pur mantenendo la residenza a Roma l'immobile è stato adibito a dimora abituale da mio figlio per circa tre anni (più della metà del tempo intercorso dall'acquisto alla vendita).
Le utenze sono state sempre intestate a me (con consumi alti a rispecchiare l'effettivo consumo) ad eccezione dell'abbonamento internet e sky intestate invece a mio figlio.
E' determinante la circostanza del suo rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con qualifica di impiegato presso un azienda di Verona per tutto il tempo della permanenza (da data di assunzione a data di licenziamento).
Ovviamente non avrebbe potuto fare avanti indietro tutti i giorni tra Roma e Verona per due anni e mezzo.
Ha frequentato una palestra con iscrizione a Verona per tutto il tempo di permanenza ovviamente dimostrabile (come?...con una dichiarazione della palestra?).
A supporto della prova oggettiva il suo estratto conto bancario presenta prelevamenti presso sportelli di verona e molte spese quotidiane presso supermercati a Verona con raccolta punti e pagati con carta di credito personale.
Dopo il licenziamento ha percepito la NASPI facendo domanda e ricevendo corrispondenza presso l'indirizzo di Verona da parte dell'INPS.
Sono in prossimità del rogito e vorrei sapere se e cosa dichiarare per non pagare la plusvalenza.
L'imu per Verona è stata pagata come seconda casa da me mentre non sappiamo se per detto periodo l'imu per la prima casa di residenza di Roma di mio figlio è dovuta (ovviamente nel caso affermativo si procederebbe a pagare con ravvedimento operoso l'importo IMU che sarebbe certamente minore della plusvalenza)
Attendo riscontro
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 25/05/2020
A norma dell’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR, costituiscono redditi diversi le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari, nonché, in ogni caso, le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione.
Ovviamente dette plusvalenza rientreranno nella categoria dei redditi diversi nella misura in cui verranno conseguite al di fuori dell’attività imprenditoriale o di lavoro autonomo, poiché, in caso contrario, verranno, in parte o in tutto, attratte all’interno delle citate categorie.

Dal tenore letterale della norma si evince che lo scopo della stessa è quello di assoggettare ad imposizione esclusivamente le plusvalenze di tipo speculativo ed è proprio l’intento speculativo che si presume escluso nell’ipotesi in cui l’immobile venga utilizzato come abitazione principale personalmente o dai familiari del venditore nel periodo di possesso.
Detto orientamento, oltre che dalla disposizione di legge, si ricava dalla risposta fornita dall’Amministrazione in relazione ad un interpello con il quale era stato chiesto se generasse plusvalenza la cessione di una pertinenza dell’abitazione principale.
Sul punto, l’amministrazione ha precisato, nell’interpello n. 83 del 22.11.2018, che la cessione della pertinenza non genera plusvalenza, anche se avviene prima dei cinque anni dall’acquisto, a patto venga effettuata unitamente all’immobile principale, destinato ad abitazione principale e di cui lo stesso è pertinenza, poiché, in caso contrario, genera plusvalenza.

Resta da chiarire quindi, cosa debba intendersi per abitazione, per abitazione principale e per familiari.
In riferimento al concetto di “abitazione”, occorre che l’unità immobiliare sia classificabile in una delle seguenti categorie catastali: A1, A2, A3, A4, A5, A6, A7, A8, A9, A11, così come chiarito con la Risoluzione n. 105/E del 21.5.2007.
Per ciò che riguarda, invece, l’uso della stessa come abitazione principale, il tema è stato affrontato nelle Risoluzioni nn. 136 del 08.04.2008 e 218 del 30.05.2008, in cui viene espressamente detto che per interpretare la nozione di “abitazione principale” si devono richiamare l'art. 10 del T.U.I.R. e l'art. 15 del T.U.I.R..
In particolare l’art. 10, comma 3-bis), definisce abitazione principale “quella nella quale la persona fisica, che la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale o i suoi familiari dimorano abitualmente”.
La definizione è funzionale all’individuazione degli immobili per i quali compete la deduzione dal reddito complessivo, di un importo pari all’ammontare della rendita catastale.
Inoltre, l’art. 15, comma 1, lett. b), ai fini della determinazione della detrazione d’imposta spettante sugli interessi passivi relativi ai mutui stipulati per l’acquisto dell’abitazione principale, considera tale “quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente”.
Occorre, quindi, chiarire il concetto di “dimora”.
Al riguardo, la normativa fiscale non da una definizione di dimora ma rinvia alla disciplina civilistica.
In particolare, in base all’art. 43 del c.c.il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei propri interessi”, mentre la dimora si ha nel luogo in cui la persona abitualmente risiede.
Ne deriva che, al fine di considerare un immobile come abitazione principale non occorre soltanto che in quell’immobile si abbia il domicilio, inteso come sede principale dei propri affari ed interessi (cosa che, nel caso di specie, è certamente verificabile e verificata in riferimento al figlio) ma, al contrario, occorre che sia destinato a dimora abituale, ossia che vi si abbia la residenza, così come civilisticamente intesa.

Per quanto riguarda il significato da attribuire all’espressione “familiari” lo stesso va desunto dall'ultimo comma dell'art. 5 del T.U.I.R., secondo cui ai fini delle imposte sui redditi si intendono, per familiari, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
In definitiva, l’avere mantenuto la propria residenza anagrafica a Roma comporta che l’immobile non possa essere considerato come destinato ad abitazione principale e, pertanto, l’assoggettamento ad imposizione della plusvalenza realizzata.
Resta, invece, la possibilità di chiedere al notaio, in sede di stipula dell’atto di cessione, di applicare, sulla plusvalenza, la tassazione in via sostitutiva con aliquota del 20 per cento.
In tal caso, lo stesso notaio provvederà alla determinazione, alla riscossione e al versamento dell’imposta sostitutiva all’Agenzia delle Entrate, in conformità al provvedimento emanato dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate in data 12.01.2007.
Il versamento dell’imposta sostitutiva segue il criterio del principio di competenza, ovvero l’imposta deve essere versata nell’anno in cui il rogito è stato stipulato, a prescindere dal momento di pagamento del corrispettivo.
Si ricorda che non rientrano nella citata previsione normativa i fabbricati che sono stati acquisiti per successione o donazione.


Mario D. chiede
mercoledì 06/05/2020 - Trentino-Alto Adige
“Oggetto: plusvalenza - interpretazione artt. 67 e 68 TUIR
Fattispecie:
- conto corrente in CHF acceso da soggetto fiscalmente residente in Italia presso una Banca svizzera, sul quale è stato accreditato il corrispettivo (in CHF) di una vendita immobiliare in Svizzera ed a peso del quale sono stati successivamente effettuati vari bonifici a favore di beneficiari svizzeri per prestazioni di servizi;
- la Banca emette ora l'estratto fiscale annuale da utilizzare per la dichiarazione dei redditi, considerando plusvalenze tassabili, da indicare nel quadro RT, tutti detti bonifici, in quanto ritiene che le plusvalenze sulle divise estere (rispetto all’EURO, quindi anche per i CHF) non dipendono dall’origine dei fondi, né dalla presenza di cambi effettuati dal cliente;
- ho obiettato inutilmente che i) l'art. 68 TUIR considera come base imponibile il costo documentato per l'acquisto della valuta il che presuppone necessariamente un cambio che nella specie non vi è stato, perchè è stato accreditato sul conto un importo in CHF già di proprietà del correntista per una vendita immobiliare ed ii) che l'art.67 parla comunque di soli prelievi e non anche di disposizioni a peso del conto tramite bonifico nella stessa valuta. La norma fiscale dovrebbe infatti essere di stretta interpretazione e non può essere estesa per analogia anche ad operazioni diverse dai prelievi in contanti.
Vi chiedo pertanto un Vostro cortese parere in merito che vorrei rimanesse riservato e non pubblicato.
In tale attesa Vi invio cordiali saluti.”
Consulenza legale i 13/05/2020
I redditi diversi rappresentano una categoria residuale in cui il legislatore include una serie di fattispecie impositive non riconducibili in alcuna delle altre categorie reddituali espressamente previsti dall’art. 6 del T.U.I.R..
Presupposto indefettibile della categoria dei redditi diversi è, ovviamente, che i redditi di cui si discute non siano stati conseguiti né nell’esercizio di arti o professioni né nell’esercizio di impresa e di non costituire neppure redditi di capitali ai sensi dell’art. 44 del T.U.I.R..

Il primo gruppo di redditi diversi è costituito dalle plusvalenze, ossia dalla differenza positiva tra il prezzo di cessione di un bene e quello di acquisto dello stesso.
Per effetto delle disposizioni di cui alla lettera c-ter) del comma 1 dell’art. 67 del TUIR, tra le plusvalenze devono includersi quelle realizzate mediante la cessione a titolo oneroso di valute estere, tenendo conto che, per cessione a titolo oneroso si intende anche il prelievo delle valute estere dal deposito o conto corrente.
L’equiparazione alla cessione a titolo oneroso dell’ipotesi in cui le valute estere sono prelevate dal deposito o dal conto corrente deriva dalla considerazione del fatto che “quando la valuta è uscita dal conto corrente o dal deposito non è più possibile stabilire se e in che momento essa è stata successivamente ceduta”, così come espressamente indicato nella Circolare ministeriale n. 165/1998.
Del resto occorre considerare che, in questo caso, la plusvalenza (o anche la minusvalenza) è costituita dalla differenza tra il valore della valuta al minore dei cambi mensili accertati ai sensi del comma 9 dell’art. 110 del T.U.I.R., nel periodo d’imposta in cui la plusvalenza è realizzata ed il valore normale della valuta alla data di effettuazione del prelievo, posto che, per effetto dell’art. 68 del T.U.I.R., le plusvalenze e le minusvalenze su valute sono determinate analiticamente, per ciascuna operazione effettuata, in misura pari alla differenza tra il corrispettivo di vendita ed il valore di acquisto, aumentato di ogni onere inerente alla produzione del reddito, determinati come prima indicato.

La normativa vigente anteriormente al testo unico prevedeva l’imponibilità di tutte le plusvalenze derivanti da operazioni caratterizzate da un intento speculativo, ossia dal fatto che l’acquisto di un bene fosse sin dall’inizio preordinato alla successiva rivendita con il chiaro intento di speculare sulla differenza di valore del bene tra il momento dell’acquisto e quello della vendita.
Di qui, ad esempio, il riferimento ad alcuni elementi quali la brevità del fattore tempo intercorrente tra i due momenti.
L’indeterminatezza del termine speculativo aveva però finito con l’alimentare una serie di controversie, che avevano dato luogo ad una giurisprudenza alquanto ondivaga.
Una delle novità concernenti i redditi diversi nel sistema delineato con l’entrata in vigore del TUIR è costituita dalla soppressione della precedente previsione concernente la presunzione relativa (che cioè ammette la prova contraria) riguardante le plusvalenze conseguite mediante operazioni speculative.
Tale soppressione è stata operata proprio per disancorare la tassabilità dalla verifica dell’intento speculativo ed ha consentito un progressivo allargamento del concetto di plusvalenza e, quindi, delle fattispecie contenute nell’articolo di cui si discute.

Sarebbe stato alquanto problematico accertare di volta in volta quando la disponibilità della valuta sia stata acquisita e mantenuta per finalità d’investimento finanziario e, in considerazione di ciò, il legislatore ha dunque stabilito che tale finalità deve ritenersi esistente, per presunzione assoluta di legge, nelle ipotesi in cui la valuta sia stata ceduta a termine ovvero immessa su depositi o conti correnti, equiparando, come detto, alla cessione a titolo oneroso il prelievo dal conto corrente o dal deposito.
In base al successivo comma 1-ter, le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere rivenienti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che nel periodo d’imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento sia superiore a cento milioni delle vecchie lire (ossia ad € 51.645,69), per almeno sette giorni lavorativi continui.
La disposizione ha chiaramente l’intento di evitare di attrarre a tassazione fattispecie non significative.

Per il calcolo della giacenza complessiva devono essere sommati tutti i controvalori dei depositi e conti intrattenuti anche in valute diverse. Ad esempio: una posizione in franchi svizzeri per un controvalore di 20.000 euro e una posizione in sterline per un controvalore di 40.000 euro formano una posizione complessiva di 60.000 euro.
Nel calcolo della giacenza complessiva bisogna considerare poi anche tutti i rapporti in divisa accesi dallo stesso intestatario in essere presso diversi intermediari.
Pertanto è necessariamente a carico del contribuente, cliente della banca, verificare tale condizione ed eventualmente assolvere all’obbligo dichiarativo.
Resta inteso che, qualora non risulti integrata la condizione precedentemente individuata, non si rendono deducibili neppure le minusvalenze eventualmente realizzate.

La tassazione delle plusvalenze avviene esclusivamente in dichiarazione, mediante compilazione del quadro RT, Sezione I - Plusvalenze assoggettate a imposta sostitutiva del 20%. In base all’articolo 10, co. 1, del D. Lgs. n. 461/1997 e dell’articolo 6 del Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 28 novembre 2003, gli intermediari devono provvedere entro il mese di marzo di ogni anno a rilasciare ai contribuenti una certificazione delle operazioni effettuate nel corso dell’anno precedente.
Le cessioni di valuta, infatti, sono operazioni la cui tassabilità non è ricompresa tra quelle per le quali opera il regime del risparmio amministrato, anche se, a questo proposito, l’ABI ha avuto modo di sottolineare un non perfetto coordinamento tra le norme che riguardano la tassazione dei prelievi di valuta da un conto “valutario” (cioè sul quale è depositata valuta estera) e quelle che riguardano l’impatto dell’“effetto cambio” sulla determinazione dei redditi diversi di natura finanziaria derivanti della negoziazione di strumenti finanziari denominati in currency diverse dall’euro.

Nelle istruzioni alla compilazione del quadro RT, in cui dette plusvalenze devono essere indicate, è precisato che, fra le plusvalenze e i redditi di cui alle lettere c-ter), c-quater) e c-quinquies), del comma 1 dell’art. 67 del TUIR, si comprendono anche quelli realizzati mediante rimborso o chiusura delle attività finanziarie o dei rapporti ivi indicati sottoscritti all’emissione o comunque non acquistati da terzi per effetto di cessione a titolo oneroso (art. 67, comma 1-quater, del TUIR), per cui il calcolo della plusvalenza e la relativa imposizione avvengono anche nel caso di semplice chiusura del conto.
Ne deriva che presupposto dell’imposizione è dunque, prioritariamente la cessione a titolo oneroso della valuta estera nonché il prelievo della stessa, ivi compreso quello effettuato anche in sede di chiusura del conto.

Soffermarsi unicamente sul tema del prelievo non è corretto ed esaustivo, dal momento che, in realtà, la fattispecie di cui si discute - disposizione di bonifico in valuta estera - rientra tra le cessioni a titolo oneroso della stessa, posto che si ha “titolo oneroso” ogni qual vota alla prestazione di un soggetto corrisponde la controprestazione di un altro soggetto, detta corrispettivo o compenso.
Chiaramente la prestazione di un servizio, se la si guarda dal punto di vista del prestatore, costituisce la cessione a titolo onero di una prestazione a fronte del pagamento di un compenso; se, invece, la si guarda dal punto di vista di chi riceve il servizio, è una cessione di denaro a fronte della prestazione di un servizio.
Tenuto conto di ciò, sussistono i presupposti di cui alla lett. c-ter) del comma 1 dell’art. 67 del TUIR e, quindi, correttamente l’istituto di credito include i bonifici nell’ambito della certificazione resa ai sensi dell’art. 10, co. 1, del D. Lgs. n. 461/1997 e dell’articolo 6 del Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 28 novembre 2003.


Angela D. chiede
giovedì 19/03/2020 - Puglia
“Un privato subisce esproprio area ambito P.E.E.P., dopo un lungo contenzioso ottiene sentenza Cass. del quantum indennità di esproprio che vine depositata presso cassa DDPP, che liquida poi all'avente diritto la detta indennità previa trattenuta dell'imposta del 20% ex art. 11 L.413/91. Il privato intende agire in giudizio per ottenere il rimborso dell'imposta del 20%, secondo lui non dovuta.
Domanda: chi é il o i legittimato/i passivo/i ? chi bisogna chiamare in giudizio ?:
L'Agenzia delle entrate oppure il Ministero Economia e finanze oppure l'Agenzia territoriale dello Stato oppure la Cassa DDPP oppure tutti quanti insieme ?
Grazie

Consulenza legale i 23/03/2020
L’art. 67, comma 1, lettera b) del TUIR, dispone che sono redditi diversi le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momenti della cessione.
L’art. 11, comma 5, della legge 413/1991 sancisce, in particolare, che si applicano le disposizioni di cui all’art. 67, comma 1, lettera b) del TUIR anche in riferimento alle plusvalenze derivanti dalla percezione, da parte di soggetti che non esercitano imprese commerciali, di indennità di esproprio o di altre somme percepite in seguito a cessioni volontarie o in caso di procedimento espropriativo.
Il comma 6, del citato art. 11, specifica che le indennità di occupazione e gli interessi dovuti sulle somme di cui al comma 5, sono redditi diversi e concorrono alla formazione del reddito imponibile.
Il successivo comma 7, infine, prevede una ritenuta a titolo d’imposta del 20%, da operarsi a cura degli enti eroganti.

In base all’interpretazione letterale della norma sopra citata, quindi, tutte le somme percepite dal gennaio del 1992, data di entrata in vigore della Legge n. 413/1991, in dipendenza di procedimenti espropriativi, sono assoggettati a imposizione, rilevando, quindi, ai fini della determinazione del reddito complessivo, nella categoria dei redditi diversi.
Inoltre, in base al combinato disposto del quinto e settimo comma del citato art. 11, il presupposto impositivo si realizza all’atto della “percezione di somme” da parte del soggetto passivo e alla “corresponsione” da parte del sostituto d’imposta che è obbligato ad operare una ritenuta alla fonte a titolo di imposta nella misura del 20%.

Quanto detto induce a ritenere che potrebbe non essere del tutto corretto sostenere che l’indennità di esproprio di cui si discute possa non rientrare tra quelle assoggettate ad imposizione nella forma della ritenuta alla fonte in via sostitutiva.
Venendo, tuttavia, al tema sollevato nel quesito si fa rilevare che, nella sostituzione di imposta, il sostituto è un soggetto terzo che viene chiamato ad effettuare il pagamento del tributo “in luogo di altri” (e cioè del contribuente-sostituito) attraverso la trattenuta di una parte delle somme dovute a quest’ultimo (art. 64 del T.U.I.R.).
L’utilizzo della sostituzione di imposta ha soltanto lo scopo di assicurare che la prestazione tributaria sia effettuata da un soggetto (il sostituto) diverso da quello che realizza il presupposto di imposta e soprattutto che subisce l’effetto di depauperamento patrimoniale conseguente all’applicazione del tributo (il sostituito).
Nella sostituzione a titolo di imposta, come nel caso di specie, la ritenuta (qualificata anche come sostituzione propria) estingue il rapporto tributario; pertanto, con il pagamento della ritenuta, l’ente impositore non può rivolgersi in alcun modo al sostituito poiché il rapporto tributario si è esaurito definitivamente.
In particolare, la sostituzione a titolo di imposta comporta l’applicazione di una aliquota fissa su un determinato provento che in tal modo viene sottratto dal reddito complessivo del percipiente.

È, tuttavia, evidente, così come osservato in dottrina (G.M. Cipolla, G. Gaffurri), che il soggetto che rimane effettivamente inciso dal tributo non è il sostituto ma il sostituito, ossia colui che manifesta capacità contributiva, ovvero realizza il presupposto di imposta e la rivalsa, eseguita dal sostituto per il tramite della ritenuta, non fa altro che rendere effettiva l’applicazione del riferito principio.
Si ricorda, per altro, che nella ritenuta a titolo di imposta la rivalsa, ai sensi dell’art. 64 del TUIR, è obbligatoria e non costituisce quindi un mero diritto ma un vero e proprio obbligo per il sostituto.
È evidente che tra sostituto e sostituito possono insorgere delle controversie in ordine all’applicazione della ritenuta o alla determinazione della disciplina della sostituzione di imposta.
In tal caso, in genere, il sostituto verosimilmente sceglierà la soluzione più prudente nell’interesse dell’ente impositore per conto del quale agisce, mentre il sostituito ragionevolmente cercherà la soluzione giuridica più confacente ai propri interessi patrimoniali.
In passato, non è mancato chi ha ritenuto che tali controversie avessero un carattere privatistico, poiché riguardavano fondamentalmente la misura del corrispettivo che il sostituito ritiene di dover percepire al netto della ritenuta fiscale.
Ne discendeva che la giurisdizione naturale di tali controversie avrebbe dovuto essere quella del giudice ordinario riferibile alle varie tipologie di azioni privatistiche (e dunque ad es. il giudice del lavoro per le controversie tra datore di lavoro e lavoratore dipendente). D’altro canto, però, l’elevato grado di competenza tecnica richiesta per il giudizio, essenzialmente di natura tributaria, induceva a spostare la giurisdizione in capo alle commissioni tributarie.

Questo orientamento è stato recepito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che, già con la sentenza n. 22266 del 24 ottobre 2007, a sezioni unite, ha stabilito che è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario la controversia promossa dal sostituito d'imposta nei confronti del sostituto, ai fini delle imposte dirette, per pretendere il pagamento (anche) di quella parte del suo credito che il convenuto abbia trattenuto e versato a titolo di ritenuta d'imposta.
La giurisprudenza della Corte è inoltre altrettanto pacifica nell'affermare che le controversie fra sostituto e sostituito d'imposta, in cui si discuta della legittimità delle ritenute operate dal sostituto ai fini delle imposte dirette, devono essere portate davanti alla giurisdizione tributaria, attraverso l'impugnazione di un atto (in genere di silenzio-rifiuto) dell'Amministrazione (cfr, Cassazione, sezioni unite, n. 418/2007 e n. 22515/2006), mentre la competenza del giudice ordinario può configurarsi solo ove la ritenuta sia pacificamente dovuta all'Erario e però il sostituto l'abbia trattenuta appropriandosene, ossia non l’abbia successivamente riversata (Cassazione, n. 14033/2006).

È altrettanto pacifico che le controversie relative ai rapporti Amministrazione-sostituto-sostituito danno luogo a un'ipotesi di litisconsorzio necessario fra i richiamati soggetti (anzi, fino alla sentenza della Cassazione, a sezioni unite, n. 1057/2007, questo era praticamente l'unico caso di litisconsorzio riconosciuto nel diritto tributario).
Il litisconsorzio si configura però solo quando il sostituito voglia rivolgere la sua pretesa (anche) al sostituto, essendo in questo caso l'Amministrazione litisconsorte necessario; mentre se il sostituito preferisca rivolgersi soltanto all'Amministrazione, non è tenuto a coinvolgere nella controversia il sostituto (così Cassazione, n. 8337/2006, per la quale “l'impugnazione da parte del lavoratore dell'avviso di accertamento relativo all'imposta sul reddito, emesso nei suoi confronti in dipendenza del mancato versamento della ritenuta d'acconto da parte del datore di lavoro, non comporta la necessità di disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti di quest'ultimo, in quanto, indipendentemente dalla possibilità di ravvisare, nel rapporto tra sostituto d'imposta e sostituito, obblighi tributari diversi ed autonomi ovvero un'obbligazione solidale passiva nei confronti del Fisco, non è configurabile tra i due soggetti un litisconsorzio necessario”).

Quello che si suggerisce a questo punto è che, se si ritiene di non rientrare nel campo di applicazione della disciplina di cui al citato art. 11 della Legge n. 413/91, è opportuno chiedere il rimborso della ritenuta subita all’Amministrazione finanziaria e, successivamente, proporre ricorso dinanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale avverso il rifiuto espresso o tacito di quest’ultima di rimborsare l’imposta trattenuta in via sostitutiva dal sostituto.
In presenza di una certificazione della ritenuta operata e versata, non si ritiene proficuo, invece, un coinvolgimento del sostituto nel giudizio instaurato avverso l’Amministrazione finanziaria dal momento che, quest’ultimo, avrebbe assolto ad un obbligo di legge e, in ogni caso, ha ormai riversato la ritenuta operata alla stessa Amministrazione finanziaria.
Il coinvolgimento del sostituto potrebbe essere necessario solo laddove l’Amministrazione finanziaria, nel denegare il rimborso, dovesse far rilevare che il diniego è conseguente alla natura privatistica del rapporto tra sostituto e sostituito.


Daniele T. chiede
mercoledì 19/02/2020 - Puglia
“Buongiorno,
a seguito della lettura del vostro articolo per il quale porgo i miei complimenti, relativo all'ART. 67 TUIR, la presente per avvalermi di una vostra autorevole consulenza per conoscere la risposta al sottoriportato quesito ed i relativi riferimenti normativi e giurisprudenziali che lo determinano.
Sono un privato che in qualità di persona fisica ho acquistato tramite mutuo sette mesi fa un immobile residenziale in Roma che non rappresenta la mia abitazione principale ma solo una seconda casa senza per cui aver trasferito la mia residenza. A seguito dei successivi lavori di frazionamento ho realizzato dallo stesso, due distinti appartamenti regolarmente accatastati per il quale ho ricevuto alcune proposte di acquisto. In caso di vendita, dovendo pagare ovviamente la plusvalenza generata, il mio quesito riguarda i costi inerenti da considerare e quindi da poter detrarre dal calcolo della plusvalenza, in particolare se rientrano in queste spese quelle sostenute per l'acquisto dell'immobile riferite al mutuo (compenso mediazione società creditizia, spese di istruttoria della pratica di muto, spese di perizia, spese notarli per atto di mutuo, imposta sostitutiva del 2%, costi assicurazione incendio e scoppio sul fabbricato, interessi passivi), quelle inerenti il costo di mediazione dell'agenzia immobiliare in fase di acquisto e quelle sostenute durante i lavori di ristrutturazione per l'acquisto di materiale elettrico riguardante apparecchi di illuminazione ovvero plafoniere, lampadari e applique completi di lampade.
Grazie per la disponibilità ed attenzione.
Cordialmente”
Consulenza legale i 25/02/2020
Come già evidenziato nella consulenza n. Q201922613, di cui si riporta il link per ogni ulteriore approfondimento:
https://www.brocardi.it/testo-unico-imposte-redditi/titolo-i/capo-vii/art67.html#commento22613
in applicazione delle disposizioni di cui all’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR, sono considerati redditi diversi, se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente, “le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari”.
Per gli immobili ricevuti in donazione, il predetto periodo di cinque anni decorre dalla data di acquisto da parte del donante.

Il successivo comma 1 dell'art. 68 del T.U.I.R. stabilisce poi che le predette plusvalenze sono costituite dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
Si tratta di una espressione abbastanza generica che si è cercato di rendere maggiormente chiara già nella consulenza prima citata, laddove è stato evidenziato che, sul punto, non si rinvengono specifiche istruzioni di prassi ma, la dottrina è concorde nel ritenere che la plusvalenza debba essere calcolata nel seguente modo:

corrispettivi percepiti – (prezzo di acquisto o costo di costruzione + costi inerenti)

Il costo di acquisto iniziale deve, quindi, essere maggiorato di tutti i costi sostenuti specificamente in relazione all’immobile e, tra questi rientrano sicuramente quelli inerenti all’acquisto, le imposte di registro, quelle ipotecarie e catastali ( l’eventuale imposta sostitutiva), le spese notarili, quelle di mediazione, quelle sostenute per liberare l’immobile da eventuali servitù, oneri ed altri vincoli.
Al solo fine di meglio individuare le eventuali spese incrementative, è stato proposto di fare riferimento alla definizione di cui all’art. 13 del d.P.R. n. 643 del 1972, relativamente al calcolo dell’INVIM, quali possono essere ad esempio eventuali oneri di urbanizzazione primaria o secondaria.
Riguardo alle spese per i mutui è da ritenere che, dal momento che la detrazione di cui al comma 1 lett. b) dell' art. 15 del T.U.I.R. è limitata ai mutui contratti per l’acquisto dell’abitazione principale, le spese per i mutui contratti per l’acquisto di una seconda casa possano essere comunque computate in diminuzione della plusvalenza di che trattasi dal momento che non hanno costituito oggetto di una precedente detrazione.
Non si trova coerente con l’impostazione normativa sopra indicata, invece, l’idea che possano essere detratte le spese connesse all’acquisto di apparecchi di illuminazione ovvero “plafoniere, lampadari e applique completi di lampade” che, indubbiamente, non possono essere considerati un costo specifico per l’immobile in sé considerato.
Sotto questo profilo, è da ritenere, infatti, che la disposizione di cui all’art. 68 non possa che fare riferimento, oltre che agli oneri in precedenza indicati, alle spese di costruzione e di ristrutturazione, effettivamente incrementative del valore dell’immobile e non anche a quelle che vengono sostenute per un mero abbellimento dello stesso.


Giorgio M. chiede
domenica 09/06/2019 - Sardegna
“Buongiorno.
Avrei un quesito da fare in relazione ad una mia vendita di un edificio non abitativo acquistato da meno di 5 anni.
A breve venderò' un immobile non abitativo ( un fabbricato ad uso artigianale e commerciale) e vorrei sapere se nel calcolo della plusvalenza potrei andare a dedurre le spese notarili sostenute per l' accensione del mutuo e gli eventuali spese degli interessi pagati fino ad oggi sempre per questo mutuo. ( il mutuo e' stato fatto solo per acquistare questo immobile).
Inoltre vi chiedo cortesemente di elencarmi eventuali altre spese che magari non conosco e che potrei comunque inserire per dedurre la plusvalenza.
Ho letto un vostro articolo in cui si parlava di plusvalenza e veniva riportato quanto segue:
Ne deriva che il costo di acquisto iniziale deve essere maggiorato dei costi sostenuti specificamente in relazione all’immobile e, tra questi rientrano sicuramente quelli inerenti all’acquisto, le imposte di registro, quelle ipotecarie e catastali, le spese notarili, quelle di mediazione, quelle sostenute per liberare l’immobile da eventuali servitù, oneri ed altri vincoli.
Possono essere considerate anche eventuali spese incrementative, così come definite dall’art. 13 del d.P.R. n. 643 del 1972, relativamente al calcolo dell’INVIM, quali possono essere ad esempio eventuali oneri di urbanizzazione primaria o secondaria.
Riguardo alle spese per i mutui è da ritenere che, dal momento che la detrazione di cui all’art. 15, comma 1, lett. b) del TUIR approvato con d.P.R. n. 917/86 è limitata ai mutui contratti per l’acquisto dell’abitazione principale, le spese per i mutui contratti per l’acquisto di una seconda casa possano essere comunque computate in diminuzione della plusvalenza di che trattasi, dal momento che non hanno costituito oggetto di una precedente detrazione.”
Consulenza legale i 13/06/2019
In linea generale, per plusvalenza si intende l’aumento di valore che un determinato bene subisce in due momenti differenti.
La plusvalenza immobiliare, di cui si discute nel caso di specie, è poi l’aumento del valore di un immobile tra il momento della vendita dello stesso e quello del suo acquisto.
Di per sé questa differenza di valore, se non fosse conseguita nell’ambito dell’esercizio di arti e professioni, ovvero di un’impresa commerciale, potrebbe anche non essere tassata in quanto, se conseguita in un determinato arco temporale, potrebbe essere considerata naturale e fisiologica.
Diviene presupposto per l’applicazione delle imposte nel caso in cui la stessa sia frutto di un’attività di tipo speculativo e questa attività di tipo speculativo si presume per legge quando l’intervallo temporale che intercorre tra l’acquisto di un immobile e la sua successiva vendita è inferiore a cinque anni.

La fattispecie è disciplinata dall’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR. In base a tale norma, sono redditi diversi, se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente, “le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari”.
La presunzione, quindi, non opera, pur nel caso in cui la vendita venga effettuata prima dello scadere del quinquennio, se l’immobile, per la maggior parte del periodo di possesso, è stato destinato ad abitazione personale del cedente o dei suoi familiari.
Per gli immobili ricevuti in donazione, il predetto periodo di cinque anni decorre dalla data di acquisto da parte del donante.
Se si verificano i presupposti di legge, quindi, la differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto concorre alla determinazione del reddito complessivo del cedente, in una delle categorie reddituali in precedenza individuate.

In alternativa alla tassazione piena, il contribuente potrà optare per la tassazione in via sostitutiva. In questo caso, lo stesso contribuente, all’atto della cessione, dovrà richiedere al notaio di applicare e versare, a propria cura, l’imposta sostitutiva del 20% prevista dal comma 496 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Finanziaria 2006), così come modificato dal D.L. 3 ottobre 2006, n. 262.
La predetta norma prevede, infatti, che "In caso di cessioni a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, all’atto della cessione e su richiesta della parte venditrice resa al notaio, in deroga alla disciplina di cui all’articolo 67, comma 1, lett. b), del Tuir, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, sulle plusvalenze realizzate, si applica un’imposta, sostitutiva dell’imposta sul reddito, del 20 per cento".

Il successivo art. 68 del T.U.I.R. individua i criteri di determinazione della plusvalenza.
In base a tale norma, la plusvalenza è costituita dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
La tassazione della plusvalenza avviene, quindi, secondo il criterio di cassa (“percepiti”) e, pertanto, la stessa è imponibile dal momento della percezione del corrispettivo e limitatamente alla parte dello stesso effettivamente incassata.
Ai fini del calcolo del quinquennio, invece, occorre fare riferimento alla data di acquisto dell’immobile e della sua cessione, indipendentemente dal momento di incasso effettivo del corrispettivo di vendita.
La plusvalenza, inoltre, è costituita dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.

Seguendo il dettato normativo, anche le istruzioni alla compilazione della dichiarazione dei redditi (Modello Persone fisiche - fascicolo 2), precisano che la plusvalenza è determinata dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
In relazione a quest’ultimo concetto, l’amministrazione finanziaria non ha fornito specifiche istruzioni ma, la dottrina è concorde nel ritenere che la plusvalenza debba essere calcolata nel seguente modo:

corrispettivi percepiti – (prezzo di acquisto o costo di costruzione + costi inerenti)

Non sussistono esplicitazioni ulteriori rispetto a quella indicata nella risposta al quesito che viene citata .
Il costo di acquisto è, quindi, da intendere come costo di acquisto iniziale maggiorato di costi sostenuti specificamente in relazione all’immobile: quali le imposte di registro, quelle ipotecarie e catastali, le spese notarili, quelle di mediazione, quelle sostenute per liberare l’immobile da eventuali servitù, oneri ed altri vincoli. Possono essere considerate anche eventuali spese incrementative, così come definite dall’art. 13 del d.P.R. n. 643 del 1972, relativamente al calcolo dell’INVIM, quali possono essere ad esempio eventuali oneri di urbanizzazione primaria o secondaria.

Riguardo alle spese per i mutui, alle quali il cliente sembra particolarmente interessato, il principio è quello dell’alternanza tra la detrazione delle stesse in applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 lett. b) dell’art. 15 del T.U.I.R. e la possibilità di portare le stesse ad incremento del costo di acquisto del bene e, conseguentemente, ad abbattimento della plusvalenza.
Dal momento che il bene alienato è costituito da un fabbricato ad uso artigianale e commerciale e tenuto conto che l’alienazione viene effettuata al di fuori dell’esercizio di un’attività di tipo artistico o professionale, ovvero di un’impresa commerciale, è evidente che, in relazione a dette spese, non può essersi fruito del regime di detrazione di cui al citato art. 15 del TUIR e, pertanto, le stesse possono essere computate in diminuzione della plusvalenza di che trattasi.

Si suggerisce da ultimo, anche in considerazione dell’entità degli importi di cui si discute e in assenza di specifiche istruzioni dell’amministrazione finanziaria, di valutare l’opportunità di presentare un'istanza all'Agenzia delle Entrate per ottenere chiarimenti in relazione al caso concreto e personale, facendo ricorso all’istituto dell’interpello di cui all’art. 11, comma 1, lettera a) della legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente).
La procedura va attivata mediante istanza indirizzata alla Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate competente in base al domicilio fiscale del richiedente.
Laddove l’amministrazione finanziaria dovesse condividere la soluzione prospettata o, qualora non si pronunci nei termini di legge e si formi il silenzio assenso sulla soluzione interpretativa indicata, si potranno computare, nel calcolo della plusvalenza, anche gli oneri di cui si discute.
Si ricorda, da ultimo, che il parere espresso dall'Agenzia non vincola il contribuente, che può comunque decidere di non uniformarsi.

FRANCESCO L. chiede
venerdì 22/03/2019 - Liguria
“Gentili Signori,
le penali contrattuali (chieste dopo la risoluzione del contratto domandata dall’affittante e contestata dall’affittuario, prima del fallimento, con l’esercizio della clausola risolutiva espressa per mancato pagamento dei canoni) previste per la mancata restituzione dell’azienda, fatto salvo il risarcimento del maggiore danno, dall’affittuario (come detto ora fallito) all’affittante (persona fisica che ha affittato l’unica azienda) come sono trattate fiscalmente?
Possono essere considerate danno patrimoniale e quindi esentasse, (e non lucro cessante) derivante dalla perdita di valore dell’azienda (pari a zero, dato il fallimento e il patrimonio netto dell’azienda ampiamento negativo)?
Per dimostrarlo è necessaria una perizia?
Nel caso fossero lucro cessante, in capo all’affittante hanno competenza di cassa? Cioè vengono tassate solo se effettivamente incassate? Le spese per la loro riscossione sono costi fiscalmente e completamente deducibili? O c’è un limite? Esempio, penali 50mila euro, oneri dell’avvocato 10mila, parte tassabile 40 mila?
Grazie.”
Consulenza legale i 31/03/2019
La situazione prospettata fa riferimento al caso di affitto dell’unica azienda da parte di un imprenditore persona fisica.
Si chiede quale sia il trattamento, sotto il profilo fiscale, delle somme ricevute dall’affittuario, a titolo di penale, nell’ipotesi di risoluzione anticipata del contratto di affitto di azienda, conseguente ad un qualsiasi inadempimento contrattuale. La penale, così come contrattualmente previsto, dovrà essere corrisposta sia in riferimento al mancato pagamento dei canoni di locazione concordati, sia in relazione al risarcimento di ogni eventuale maggior danno tra cui, nel quesito, si riconduce la perdita di valore dell’azienda determinata da un patrimonio netto negativo (da cui sembra essere derivato il fallimento dell’affittuario).

Si chiede, innanzitutto, se detta penale debba essere considerata danno emergente o lucro cessante con gli effetti che ne derivano sotto il profilo fiscale.
Infatti, a norma dell’art. 6, comma 2, del Testo Unico delle Imposte sui redditi (TUIR), approvato con d.P.R. n. 917/86, “I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti”.
Ne consegue che, in generale, non costituiscono redditi le somme percepite a titolo di risarcimento di un danno consistente in una perdita patrimoniale (c.d. danno emergente), mentre sono tassate le somme che risarciscono un danno consistente nella perdita di redditi (c.d. lucro cessante).
Concorde con questa interpretazione è anche la giurisprudenza di merito tra cui si citano, ex multis, sentenza della Cassazione n. 10972 del 13.05.2009, n. 18369 del 16.09.2005, n. 10419 del 21.10.1998.

Ciò posto si pone, quindi, la necessità di stabilire se le somme incassate dal concedente, nel caso di specie, possano essere ricomprese nel danno emergente o nel lucro cessante.
Al riguardo deve necessariamente farsi riferimento alle previsioni negoziali e, proprio in considerazione di ciò, è stato chiesto di inviare i relativi contratti di affitto di azienda.
L’ipotesi prospetta nel quesito è quella di esercizio della “clausola risolutiva espressa” di cui all’art. 2 del contratto stipulato su delibera del Consiglio di Amministrazione del 16.12.2014 ma, prevista anche nel contratto originariamente stipulato e nel successivo rinnovo autorizzato dal CdA in data 04.04.2011.

In base al citato articolo, infatti, in ipotesi di ritardato o mancato pagamento dei canoni di affitto concordati, il concedente potrà considerare espressamente risolto il contratto di affitto di azienda e, in tal caso, l’affittuaria dovrà pagare al concedente il totale delle mensilità mancanti dalla data dell’inizio del ritardo (o mancato o parziale) pagamento dei canoni, alla data di scadenza del contratto, a titolo di risarcimento del danno subito dal concedente e fatto salvo il risarcimento di danno maggiore.
È, inoltre, precisato che l’ulteriore detenzione dell’azienda oltre il termine da cui il contratto si intende risolto, deve considerarsi “occupazione abusiva di fatto”, per effetto della quale si rende dovuta all’affittante una indennità per ogni giorno di occupazione pari ad € 2.000,00, salvo il diritto del concedente di agire per ottenere il maggior danno ed ottenere il sequestro dell’azienda.

Nel successivo art. 6 è precisato che le somme che si rendono dovute per effetto del citato art. 2 hanno natura di penale, fatto salvo il risarcimento di danno maggiore.
Il contratto prevede, inoltre, l’obbligazione a carico dell’affittuaria, di stipulare apposita polizza fideiussoria bancaria, da produrre entro 30 giorni dalla data di stipula dell’ultimo rinnovo contrattuale, dell’importo di € 132.000,00 a garanzia di tutte le obbligazioni contrattuali assunte dalla stessa e in sostituzione della garanzia personale originariamente offerta dall’affittuaria.
Le predette clausole possono ricondursi nell’alveo delle disposizioni di cui all’art. 1382 del c.c., ossia della clausola penale.
La clausola penale è diretta a fissare in via preventiva e vincolante per le parti del contratto l’ammontare del risarcimento del danno e ha, oltre a quella risarcitoria, la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale, favorendone l’adempimento.
Essa non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva, tanto che qualora l’ammontare fissato venga a configurare, secondo l’apprezzamento del giudice, un abuso o uno sconfinamento dell’autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta.

Può, dunque, affermarsi che la clausola penale costituisce un’anticipata liquidazione della prestazione risarcitoria della lesione subita dalla parte adempiente e, tenuto conto di ciò, le somme che il concedente potrà incassare non possono che essere considerate risarcitorie del danno consistente nella perdita di redditi (di affitto di azienda o di impresa) che il concedente avrebbe potuto conseguire nell’ipotesi di prosecuzione del contratto di affitto di azienda o in caso di gestione diretta della stessa.
È evidente che, con le citate disposizioni negoziali, il concedente ha inteso assicurarsi il diritto alla corresponsione dei canoni di affitto sino alla scadenza del contratto nonché una somma a titolo di indennizzo del mancato guadagno derivante dalla gestione diretta dell’azienda, nell’ipotesi di occupazione abusiva della stessa da parte dell’affittuaria.

Ne deriva che, in applicazione di quanto previsto dal comma 2 dell'art. 6 del T.U.I.R., costituiscono redditi della stessa natura di quelli in sostituzione dei quali sono percepiti e, quindi, tassabili.
Questo vale anche in riferimento all’eventuale indennizzo assicurativo che dovesse derivare dall’escussione della polizza fideiussoria richiesta a garanzia delle obbligazioni contrattuali assunte, dal momento che la norma citata fa riferimento pure alle “indennità conseguite anche in forma assicurativa”.
D’altra parte, non sembra coerente con le previsioni negoziali il riferimento ad un danno patrimoniale connesso alla “perdita di valore dell’azienda” dal momento che, nel contratto originariamente stipulato e nei successivi rinnovi, sembra farsi riferimento solo ad un deterioramento fisico dei beni che costituiscono l’azienda, in riferimento ai quali è espressamente detto che l’affittuaria deve restituire il complesso aziendale nello stesso stato in cui si trova al momento della concessione in affitto, salvo il deterioramento dovuto all’uso, rendendosi responsabile per eventuali deterioramenti dovuti ad un uso improprio delle cose.

Sotto il profilo della responsabilità patrimoniale, invece, è espressamente previsto che "unico responsabile dei rapporti sorti durante il contratto di affitto, ancorché non scaduti alla data di rilascio dell’azienda, è l’affittuaria o suo avente causa, escludendosi ogni responsabilità o subingresso negli stessi da parte del concedente".
Detta disposizione ha valore anche in riferimento alle persone assunte durante il periodo di affitto dell’azienda dal momento che, per espressa previsione dell’art. 5 dell’ultimo rinnovo, tanto in caso di scadenza quanto in caso di risoluzione anticipata, l’affittuaria dovrà consegnare l’azienda libera da persone o da cose che non facevano parte dell’azienda originariamente affittata.
Inoltre, è previsto che il canone di affitto concordato tiene conto anche dell’avviamento e, pertanto, lo stesso non rientra nelle consistenze di inventario di cui all’ art. 2561 del c.c., così come espressamente previsto all’art. 21 del contratto originariamente stipulato.

Chiarita, quindi, la natura reddituale delle penali contrattualmente previste, si pone adesso il problema di stabilire come le stesse debbano essere tassate in capo al percettore-concedente.
Questo in realtà dipende fondamentalmente dal fatto che il concedente consegue queste somme nell’esercizio di una attività di impresa oppure no.
Infatti, così come per i canoni di affitto, anche in riferimento alle penali ricevute in sostituzione degli stessi occorre distinguere tra il caso in cui il concedente ha dato in affitto la propria unica azienda ed il caso in cui continua a svolgere l’attività di imprenditore o perché costituito in forma di società commerciale (di persone o di capitali) o perché imprenditore persona fisica titolare di una pluralità di aziende.
Nel primo caso, il ruolo di imprenditore viene meno e, conseguentemente, i redditi percepiti costituiscono “redditi diversi” assoggettati ad imposizione sulla base delle disposizioni di cui all’art. 67, co. 1, lett. h) del TUIR ed esulano dal regime del reddito d’impresa.

Ai sensi del comma 2 dell’art. 71 del T.U.I.R., il reddito imputabile all’ex imprenditore è pari alla differenza positiva tra l’ammontare percepito nel periodo d’imposta e le eventuali spese sostenute per il mantenimento del complesso aziendale.
L’imputazione del reddito deve avvenire in base al criterio di cassa e, quindi, tenendo conto dei soli canoni effettivamente percepiti nel periodo d’imposta, dedotte le spese come sopra individuate.
Nel secondo caso, invece, la qualifica di imprenditore non viene meno per effetto dell’affitto dell’azienda. Ne consegue che il canone percepito dal concedente nell’esercizio d’impresa, al pari di tutti i componenti reddituali rilevati nel corso del contratto di affitto, viene rilevato per competenza ed attratto nella disciplina propria del reddito d’impresa, sia ai fini delle imposte dirette che dell’Irap.

Venendo, dunque, al caso di specie, sembra configurarsi l’ipotesi di affitto dell’unica azienda. Conseguentemente, le penali incassate, in sostituzione dei canoni di affitto dell’azienda, sono considerate redditi della medesima natura e rilevano secondo il criterio di cassa, al momento della effettiva percezione, così come i canoni di affitto convenzionalmente pattuiti, in applicazione delle disposizioni di cui all’art. 67, comma 1, lett. h) del TUIR.
Come detto, per effetto delle disposizioni di cui all’art. 71, comma 2, del TUIR, il citato reddito è costituito dalla differenza tra l’ammontare percepito nel periodo di imposta e le spese specificamente inerenti alla loro produzione; pertanto, potranno essere computate in diminuzione delle penali percepite, ad esempio, le spese legali eventualmente sostenute per l’incasso delle stesse.

Mauro D. A. chiede
giovedì 17/01/2019 - Campania
“Sono un insegnante di ...omissis..... e vorrei gentilmente avere un parere per la definizione esatta di una plusvalenza che verrebbe a crearsi per la vendita di una casa prima che siano trascorsi i cinque anni dall'atto di acquisto.
La legge stabilisce che la plusvalenza è data dalla differenza del prezzo di acquisto, compresi gli oneri accessori, rispetto al prezzo di vendita.
Volevo sapere che cosa sono gli oneri accessori e se tra gli oneri accessori rientrano le imposte sul registro, le imposte catastali, le imposte ipotecarie, le spese per la intermediazione e le spese notarili, sia per l' atto di acquisto che per l'atto di mutuo.
Ci sono delle circolari dell'agenzia delle entrate che definiscono gli oneri accessori?
Cordiali saluti
Mauro”
Consulenza legale i 21/01/2019
A norma dell’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR approvato con d.P.R. n. 917/1986, sono redditi diversi, se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente, “le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari”. Per gli immobili ricevuti in donazione, il predetto periodo di cinque anni decorre dalla data di acquisto da parte del donante.

Dette plusvalenze concorrono alla determinazione del reddito complessivo tranne nel caso in cui sia stata applicata e versata a cura del notaio, all’atto della cessione, l’imposta sostitutiva del 20% prevista dal comma 496 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Finanziaria 2006), così come modificato dal D.L. 3 ottobre 2006, n. 262.
La predetta norma prevede, infatti, che "In caso di cessioni a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, all’atto della cessione e su richiesta della parte venditrice resa al notaio, in deroga alla disciplina di cui all’articolo 67, comma 1, lett. b), del Tuir, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, sulle plusvalenze realizzate, si applica un’imposta, sostitutiva dell’imposta sul reddito, del 20 per cento".

La ratio della norma di cui all’art. 67 del TUIR è quella di tassare le plusvalenze (differenza positiva tra il prezzo di vendita e il costo di acquisto) realizzate attraverso le cessioni di immobili poste in essere con finalità speculative.
Il legislatore ha previsto che la finalità speculativa delle cessioni in discussione si presume dalla circostanza che l’arco temporale che intercorre tra la data di acquisto o di costruzione dell’immobile e la data di vendita dello stesso sia inferiore a cinque anni.
Tale presunzione viene meno, però, nell’ipotesi in cui la cessione infraquinquennale riguardi un’unità immobiliare urbana che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la vendita sia stata adibita ad abitazione principale del cedente o di un suo familiare.

La tassazione della plusvalenza avviene secondo il criterio di cassa e, pertanto, la stessa è imponibile dal momento della percezione del corrispettivo e limitatamente alla parte dello stesso effettivamente incassata.
Ciò si ricava direttamente dalla disposizione del comma 1 del successivo art. 68 del T.U.I.R. che, inoltre, indica i criteri di determinazione della plusvalenza.
In base a detta norma, infatti, la plusvalenza è costituita dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
Per gli immobili di cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 67 acquisiti per donazione si assume come prezzo di acquisto o costo di costruzione quello sostenuto dal donante.

Anche le istruzioni alla compilazione della dichiarazione dei redditi (Modello Persone fisiche - fascicolo 2), precisano che la plusvalenza è determinata dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
Per gli immobili di cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 67 acquisiti per donazione si assume come prezzo di acquisto o costo di costruzione quello sostenuto dal donante.
Sul punto non sono state rinvenute specifiche istruzioni di prassi ma, la dottrina è concorde nel ritenere che la plusvalenza debba essere calcolata nel seguente modo:

corrispettivi percepiti – (prezzo di acquisto o costo di costruzione + costi inerenti)

Ne deriva che il costo di acquisto iniziale deve essere maggiorato dei costi sostenuti specificamente in relazione all’immobile e, tra questi rientrano sicuramente quelli inerenti all’acquisto, le imposte di registro, quelle ipotecarie e catastali, le spese notarili, quelle di mediazione, quelle sostenute per liberare l’immobile da eventuali servitù, oneri ed altri vincoli.
Possono essere considerate anche eventuali spese incrementative, così come definite dall’art. 13 del d.P.R. n. 643 del 1972, relativamente al calcolo dell’INVIM, quali possono essere ad esempio eventuali oneri di urbanizzazione primaria o secondaria.

Riguardo alle spese per i mutui è da ritenere che, dal momento che la detrazione di cui all’art. 15, comma 1, lett. b) del TUIR approvato con d.P.R. n. 917/86 è limitata ai mutui contratti per l’acquisto dell’abitazione principale, le spese per i mutui contratti per l’acquisto di una seconda casa possano essere comunque computate in diminuzione della plusvalenza di che trattasi, dal momento che non hanno costituito oggetto di una precedente detrazione.

Giancarlo Z. chiede
mercoledì 26/12/2018 - Marche
“Sono proprietario di una quota di una SRL assoggettata a vincolo, vorrei donarla a mio figlio così come è, con il vincolo, naturalmente con il consenso del datore del vincolo. Porrei il valore della donazione lo stesso del vincolo. La donazione creerebbe qualche forma di plusvalenza ? Mio figlio è già socio della stessa SRL, il vincolo si estenderà anche sulla sua quota? In caso di contestazione della donazione ritornerei proprietario della quota con il vincolo ?
Cordialmente”
Consulenza legale i 05/01/2019
Il quesito non fornisce molte informazioni utili ai fini di una risposta puntuale; pertanto, il tema della donazione di partecipazione, così come quello del vincolo, vengono affrontati in generale al fine di offrire un quadro quanto più ampio possibile della materia nell’ambito del quale trovare le risposte alle domande formulate.

La prima questione attiene al valore da attribuire alla quota di partecipazione oggetto della donazione.
La donazione delle quote di partecipazione costituisce una delle modalità attraverso cui effettuare il “passaggio generazionale” dell’impresa.
Riguardo al valore da attribuire alla quota donata si evidenzia che, per le successioni e le donazioni, il valore a cui fare riferimento per determinare l’imponibile soggetto a tassazione, nel caso di azioni, obbligazioni ed altri titoli non quotati, è il cosiddetto “valore di libro”, ossia il valore contabile del patrimonio netto determinato rapportandolo alla percentuale di partecipazione caduta in successione o donata che si assume quale criterio per la determinazione di un valore non “effettivo” ma “convenzionale”.
Si è osservato in dottrina che il patrimonio netto, di cui si diceva sopra ed alla cui nozione rimanda la norma fiscale, è costituito dalla somma del capitale, delle riserve e degli utili non distribuiti, dedotte le perdite non ancora ripianate.

Il riferimento al valore di libro è coerente con le disposizioni di cui all’art. 16 del D.lgs. 346/1990, il quale prevede quanto segue: “La base imponibile, relativamente alle azioni, obbligazioni, altri titoli e quote sociali compresi nell'attivo ereditario, è determinata assumendo:…. b) per le azioni e per i titoli o quote di partecipazione al capitale di enti diversi dalle società, non quotate in borsa, né negoziati al mercato ristretto, nonché per le quote di società non azionarie, comprese le società semplici e le società di fatto, il valore proporzionalmente corrispondente al valore, alla data di apertura della successione, del patrimonio netto dell'ente o della società risultante dall'ultimo bilancio pubblicato o dall'ultimo inventario regolarmente redatto e vidimato, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti, ovvero, in mancanza di bilancio o inventario, al valore complessivo dei beni e dei diritti appartenenti all'ente o alla società al netto delle passività risultanti a norma degli articoli da 21 a 23, escludendo i beni indicati alle lettere h) e i) dell'art. 12”.
Il comma 2 della medesima disposizione stabilisce inoltre che: “in caso di usufrutto o di uso dei beni indicati nei commi 1 e 2 si applicano le disposizioni dell’art. 14 comma 1, lettere b) e c)”.

Ne deriva che, nel caso in cui oggetto della donazione sia la nuda proprietà della quota, il valore di libro dovrà essere rapportato al diritto oggetto di trasferimento. Sarà quindi necessario procedere alla valorizzazione del diritto di usufrutto e, per differenza, alla determinazione del valore della nuda proprietà del titolo, facendo riferimento al prospetto dei coefficienti allegato al DPR 131/1986, così come prevede lo stesso art. 16, comma 2 del TUS prima citato (D. Lgs. n. 346/1990).
Nel caso di specie si parla di una quota di S.r.l. assoggettata a vincolo ma non si precisa quale sia l’effettiva natura di questo vincolo, per cui è difficile fornire una risposta maggiormente precisa al primo dei quesiti formulati.
Non va comunque dimenticato il fatto che, dal punto di vista dell’imposizione indiretta, ai sensi dell’art. 3, comma 4-ter, D.Lgs. 346/1990 in tema di imposta sulle successioni e donazioni, la donazione di partecipazioni societarie gode di un regime di esenzione, come peraltro la donazione d’azienda, laddove siano rispettate le condizioni previste dalla norma.
Il predetto regime di esenzione si applica infatti solo se c’è un rapporto di coniugio o di discendenza (come nel caso di specie) tra donante e avente causa ed è inoltre necessario distinguere tra partecipazioni in società di capitali e di persone.
Nel primo caso l’esenzione spetta solo se si tratta del trasferimento di partecipazioni “…mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’art. 2359 comma 1, n. 1), del Codice civile”. Non è necessario che il pacchetto trasferito sia di controllo, ma è sufficiente che il trasferimento realizzi o integri il controllo in capo al beneficiario (Cfr: Circolare n. 3/E/2008 e Risoluzione n. 446/E/2008).
Nel caso di partecipazioni in società di persone, il tenore letterale della norma e le indicazioni dell’Agenzia portano a concludere che l’imposizione non si realizzi mai, indipendentemente dall’entità del pacchetto partecipativo trasferito.

In entrambi i casi è però necessario che gli aventi causa proseguano l'esercizio dell’attività d’impresa o mantengano un periodo di possesso minimo di 5 anni di detenzione del controllo della società (da rendere con apposita dichiarazione contestuale all’atto di donazione), pena il pagamento dell’imposta nella misura ordinaria, unitamente a sanzioni ed interessi, qualora la condizione venga meno.

Il successivo tema della plusvalenza riguarda, invece, il profilo dell’imposizione sui redditi.
Al riguardo, il primo distinguo fondamentale attiene alla qualifica soggettiva di colui che effettua la donazione:
  • se è soggetto imprenditore e le partecipazioni sono detenute nell’esercizio di impresa, la donazione perfeziona l’ipotesi di “destinazione a finalità estranee” di un bene d’impresa e quindi costituisce ricavo ai sensi dell’art. 85 del T.U.I.R., approvato con d.P.R. n. 917/86, se la partecipazione era iscritta nell’attivo circolante ovvero plusvalenza ex art. 86 del T.U.I.R. se era iscritta nell’ambito delle immobilizzazioni finanziarie. In quest’ultimo caso un regime di maggior favore è possibile laddove il donante possieda i requisiti per l’applicazione del regime di participation exemption di cui all’art. 87 del TUIR.
Rispetto alla donazione d’azienda, per la quale è previsto un regime di neutralità fiscale, la donazione di partecipazioni detenuta da soggetto imprenditore costituisce invece una fattispecie realizzativa.
  • se è soggetto persona fisica che detiene le partecipazioni non in regime di impresa, la relativa donazione non è tassabile, in quanto ai sensi dell’art. 67 del TUIR la tassazione colpisce esclusivamente le cessioni a titolo oneroso.
Riguardo, poi all’estensione del vincolo alla quota del figlio, si evidenzia che il Consiglio nazionale del Notariato ha pubblicato il 02.02.2015 lo Studio n. 836/2014, in cui vengono esaminate, in primis, l’ammissibilità della costituzione di diritti di pegno, usufrutto e sequestro solo su parte della partecipazione di S.r.l. e, successivamente, le modalità di esercizio dei diritti connessi a tale partecipazione, in conseguenza del fatto che la stessa, per quanto unica, in queste circostanze risulta essere in parte libera ed in parte sottoposta a vincoli.

Il tema della possibilità della costituzione di un diritto reale solamente “parziale” sulle quote e, quindi, sulla possibilità di assoggettare a pegno, o di gravare di diritto di usufrutto, solo una parte della partecipazione, è strettamente connesso con quello relativo alla natura “divisibile”, o meno, della partecipazione in S.r.l..
Difatti, a seguito della riforma del 2003, è stata espunta dalla disciplina delle S.r.l. l’esplicita previsione della divisibilità delle quote in caso di alienazione o successione, originariamente contenuta nell’art. 2468 del c.c., il quale ora si limita a richiedere la nomina di un rappresentante comune per l’esercizio dei diritti di eventuali comproprietari della partecipazione.
Conseguentemente, parte della dottrina da ciò aveva dedotto la sopravvenuta decadenza del principio di divisibilità della quota, laddove l’autonomia statutaria non l’abbia espressamente prevista.

Come argomentato dal Notariato, nel predetto studio, la mancata riproduzione dell’esplicita previsione non deve indurre a ritenere che sia venuto meno il principio di divisibilità naturale della partecipazione, in quanto sussistono una molteplicità di argomentazioni, anche di carattere logico-sistematico, che portano a confermare tale posizione.
Il Consiglio tratta dell’ipotesi in cui si verifichi un aumento di capitale a titolo oneroso in presenza di quote gravate da usufrutto, pegno o sequestro e, ritiene che, in questi casi, salva una diversa clausola contrattuale, il vincolo non si estende alle “quote di nuova emissione”, sicché la partecipazione di cui è titolare il debitore può, una volta conclusa l’operazione di aumento, esser solo “parzialmente” gravata dal diritto di garanzia, situazione che si traduce in una sorta di divisione “legale” della quota, all’esito della quale, seppure in presenza di una partecipazione unitaria, una parte di essa risulta soggetta al vincolo (con conseguente attribuzione di alcuni diritti sociali al titolare dello stesso) mentre l’altra (quella accresciuta in sede di sottoscrizione dell’aumento a pagamento) ne risulta libera.

Per altro, la medesima situazione si verificherebbe nel caso in cui un socio, che avesse dato in pegno, usufrutto o sequestro l’intera sua quota, dopo la costituzione del vincolo, acquistasse da altro socio un’ulteriore partecipazione.
Sulla scorta di tali considerazioni, il Consiglio nazionale del Notariato conclude ritenendo ammissibile la costituzione di un vincolo parziale.
Ciò vale anche nel caso di specie in cui l’acquisizione da parte del figlio, altro socio, della partecipazione del padre, si verifica per effetto della donazione, non ritenendo possibile una forma di discriminazione in tale senso tra il caso di acquisto della partecipazione a titolo oneroso ed il caso di acquisizione a titolo gratuito.

Quanto alle modalità di esercizio dei diritti connessi alla partecipazione parzialmente soggetta a pegno, usufrutto o sequestro, il Notariato si limita a ricordare il richiamo contenuto nell’art. 2471 bis del c.c., all’art. 2352 del c.c., relativo alle S.p.A., ove è prevista esplicitamente la possibilità della “diversa pattuizione” tra creditore pignoratizio (o usufruttuario) e socio.
Di conseguenza, il titolare del diritto minore e il socio possono graduare la spettanza del diritto di voto, sia sul piano quantitativo (la percentuale spettante ciascuno) sia sul piano qualitativo (delibere per le quali il voto spetta esclusivamente all’uno od all’altro soggetto).
Seppure la norma richiamata, relativa alle S.p.A., disciplini in maniera abbastanza completa le tipologie di diritti esercitabili e le relative graduazioni e sebbene la dottrina abbia diffusamente esaminato le differenti sfumature connesse all’esercizio di tali diritti, appare senz’altro consigliabile, in presenza di “diritti parziali”, usufruire della possibilità prevista dalla Legge di una pattuizione negoziale anche dell’esercizio dei diritti connessi alle quote, soprattutto in considerazione del fatto che, essendo il ricorso alla costituzione di pegno solitamente rivolto a garantire obbligazioni proprie o di terzi, una regolamentazione in tal senso può accrescere la tutela delle parti, minimizzando il rischio di successive contestazioni.

L’eventuale pattuizione è soggetta alla pubblicità ex art. 2470 del c.c., in modo tale da far valere l’eventuale diversa spettanza del diritto di voto nei confronti della società.
La risposta all’ultimo quesito non può che essere positiva sempre per effetto del principio di divisibilità naturale della partecipazione di cui si è detto sopra.

FRANCESCO L. chiede
martedì 01/05/2018 - Liguria
“Buongiorno,
l'azienda individuale famigliare (unica) è stata affittata, il reddito derivante dal canone percepito dal soggetto titolare l'azienda (il canone include anche gli immobili ove si svolge l'attività aziendale), ai fini fiscali, può essere ripartito sulle teste dei coniugi, titolari in regime di comunione, degli immobili sopra menzionati? almeno per la quota parte del canone imputabile (in via teorica in quanto non formalmente suddiviso, il canone) all'affitto degli stessi?
Il fisco contesta tale ripartizione chiedendo l'imputazione del reddito totalmente al titolare dell'azienda affittata, essendo stata una ditta individuale si tratta di una persone fisica. Ma come si tutela il reddito del coniuge? il quale ha la proprietà degli immobili al 50% ma non ne gode nessun frutto?”
Consulenza legale i 08/05/2018
Si premette che, al fine di dare una risposta esaustiva al quesito, sarebbe necessario conoscere il titolo sulla base del quale la ditta individuale detiene il 50% degli immobili di proprietà del coniuge non imprenditore, poiché questo titolo (comodato, usufrutto, locazione, ecc.) ovviamente, continua ad essere efficace anche nell’ambito della nuova situazione che si crea a seguito dell’affitto dell’azienda.

È infatti evidente che, così come contestato dall’Amministrazione Finanziaria, il reddito che deriva dall’affitto dell’azienda deve essere attribuito al titolare della stessa azienda e, sotto questo profilo, ai fini della corretta classificazione di tale reddito, occorre distinguere tra il caso in cui:
  1. l’affittuario è un imprenditore individuale che affitta una della sue aziende o un ramo della sua unica azienda;
  2. l’affittuario è un imprenditore individuale che affitta la sua unica azienda.
La distinzione è fondamentale poiché, nel primo caso, i canoni maturati nel singolo periodo di imposta (al netto delle spese documentate relative al contratto), nel rispetto del principio della competenza economica, concorrono, come componenti positivi, alla determinazione del reddito di impresa complessivo, che deriva anche dalle altre imprese o dagli altri rami della stessa impresa di cui l’imprenditore è ancora titolare.
Nel secondo caso, invece, il reddito che deriva dall’affitto dell’unica azienda rientra nella categoria dei redditi diversi (art. 67 del TUIR), stante il fatto che, per effetto dell’affitto della sua unica azienda, l’affittuario perde, almeno momentaneamente, la qualifica di imprenditore.

Il discrimine è fondamentale, ad esempio, ai fini dell’IRAP che, nel primo caso, continuerà ad essere applicata anche sui canoni di affitto; nel secondo caso, invece, non potrà più essere applicata.
Probabilmente, in passato, la disponibilità degli immobili era assicurata all’azienda tramite un contratto di comodato d’uso e, pertanto, il coniuge non imprenditore, proprietario del 50% di detti immobili, aveva rinunciato a godere dei relativi frutti a favore dell’attività di impresa dell’altro coniuge.
Il fatto che, nella nuova situazione, il coniuge “imprenditore” abbia concesso in affitto l’azienda a favore di terzi, pone chiaramente la necessità di rivedere il titolo negoziale sulla base del quale la disponibilità degli immobili è assicurata all’impresa, sostituendo il contratto di comodato con un contratto di locazione che, da un lato, continuerà ad assicurare all’azienda la disponibilità dei beni di cui si discute; dall’altro, permetterà al coniuge non imprenditore di godere dei frutti della proprietà del 50% degli immobili.

In questo modo, il coniuge imprenditore che cede in affitto l’azienda, resterà titolare dei canoni di affitto che includerà nel proprio reddito complessivo, come reddito di impresa o come reddito diverso, a seconda di quanto detto prima e, naturalmente, indicherà tra le proprie spese i canoni per la locazione corrisposti all’altro coniuge, in modo tale da essere tassato solo sulla quota dei canoni di affitto di azienda che costituisce un suo effettivo reddito.

L’altro coniuge dichiarerà tra i propri redditi fondiari i canoni di locazione percepiti per effetto del nuovo contratto posto in essere, attribuendo così a se stesso i frutti dei diritti posseduti sugli immobili.

Fabio F. chiede
venerdì 05/01/2018 - Toscana
“Buongiorno
Ho questo quesito "complesso": locazione fra un proprietario persona fisica e me medesimo persona fisica, applicazione della cedolare secca, permesso di subaffitto totale, divieto di cessione.Posso io sublocare a mia volta l'appartamento ad una mia ditta individuale che poi subaffitterà le singole stanze? esempio: io affitto da un privato a 1.500 con cedolare, riaffitto alla mia ditta individuale a 1600(o potrei addirittura affittarlo allo stesso prezzo di 1500??), la mia ditta individuale risubaffitta le singole stanze a 2.500 totali.In sostanza: è possibile fare la sublocazione della sublocazione? Se fosse possibile rischio comunque che come privato visto che affitto a 1500 e ricavo 1600 l'ade può contestarmi attività d'impresa di qualche tipo?se riaffitto allo stesso prezzo non dichiarando niente? al proprietario l'ade può revocare la cedolare secca se io locatario privato risubaffitto ad una (mia) ditta? La situazione più semplice sarebbe fare direttamente il contratto di locazione con possibilità di subaffitto alla mia ditta ma invece che 1.500 € di locazione me ne chiederebbero 2.000 € per compensare la maggior tassazione(i proprietari hanno tutte aliquote irpef fra il 38 e il 43).Premetto che conosco chi lo fa, e ha registrato il contratto di locazione, il contratto fra se stesso e la sua ditta, e i contratti fra la sua ditta e i singoli occupanti delle camere all'ade senza problemi(finora..) ma tutti quelli del settore(commerciale) che ho sentito fino ad ora dicono che non è possibile fare la sublocazione della sublocazione.

Consulenza legale i 20/01/2018
In relazione al primo quesito, ossia alla possibilità di sublocare un immobile locato, nell’ipotesi in cui nel contratto di locazione non sia stata espressamente denegata la facoltà di sublocazione a favore di terzi, la risposta non può che essere positiva: come disposto dall’art. 1594 c.c., il conduttore, salvo patto contrario, ha facoltà di sublocare la cosa locatagli, ma non può cedere il contratto senza il consenso del locatore.

La sublocazione è una nuova locazione contratta dal conduttore con il terzo, il quale è chiamato a godere per un tempo determinato e mediante corrispettivo tutta o parte della cosa che il conduttore originario ha in locazione.
La nuova locazione è distinta dalla precedente ma da questa dipendente, nel senso che il conduttore originario non può trasferire diritti maggiori di quelli nascenti dal primo contratto.

In linea generale la sublocazione è ammessa perché, di regola, il contratto di locazione, anche nei riguardi del conduttore, non è concluso intuitu personae; la persona del conduttore e in particolare il suo grado di abilità e di diligenza vengono in considerazione soltanto nel caso di locazione avente ad oggetto una cosa mobile o un bene produttivo, stante la facilità per questo tipo di beni di deteriorarsi e l'opportunità che il locatore si formi un preventivo giudizio sulle qualità di diligenza di chi deve godere del bene in luogo del conduttore, nel quale soltanto egli può avere espressa fiducia.

Inoltre, non è detto che l'oggetto della sublocazione debba corrispondere a quello della locazione, potendo il nuovo contratto comprendere una parte soltanto della cosa locata e, d'altro canto, potendo il conduttore aggiungervi altri elementi che rientrano nella propria economia, come mobili, riscaldamento, illuminazione.
Il sub-conduttore, comunque, non potrà in ogni modo beneficare di un godimento che eccede i limiti della concessione fatta al conduttore principale e non potrà destinare la cosa ad un uso che sia in contrasto con quello cui la cosa medesima doveva essere destinata secondo il rapporto principale di locazione.

Ne deriva che, quando il contratto di locazione prevede la destinazione ad uso di civile abitazione, la facoltà di subaffittare, anche se espressamente concessa, non rende legittimo nel conduttore l'esercizio dell’attività di affittacamere, importando quest’ultima un mutamento di destinazione della cosa locata, come sembra proprio configurarsi nel caso di specie, dal momento che ci si riferisce al caso di sublocazione ad una ditta individuale che svolge la predetta attività.

Riguardo al secondo quesito, si ritiene che la sublocazione, di per sé, non costituisce attività di impresa, stante il fatto che, l’attività di impresa presuppone un'attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, così come si evince dalla definizione di imprenditore di cui agli artt. 2082 e 2083 del codice civile.

In assenza di un’attività di impresa professionalmente organizzata, il reddito che deriva dalla sublocazione di un immobile rientra, invece, nella categoria dei redditi diversi di cui all’art.67, comma 1, lett. h) del TUIR ed è determinato sulla base del corrispettivo percepito al netto delle relative spese sostenute e documentate.
Pertanto, nell’ipotesi di sublocazione allo stesso prezzo della locazione principale, non sussiste un reddito da dichiarare, poiché il corrispettivo della sublocazione è esattamente pari alle spese sostenute per la locazione principale.
Ovviamente, il reddito della sublocazione non può neanche considerarsi reddito di natura fondiaria, come il reddito del proprietario-primo locatore.

Costituisce, invece, sicuramente attività di impresa quella svolta dalla ditta individuale che subaffitta le camere e, proprio in ragione di ciò, nel caso prospettato, la sublocazione configura un mutamento di destinazione della cosa locata rispetto al contratto di locazione originario che, deve necessariamente prevedere una destinazione ad uso di civile abitazione, dal momento che si tratta di un contratto assoggettato al regime delle cedolare secca.

Questa riflessione permette di introdurre il tema successivo della facoltà dell’amministrazione finanziaria di non riconoscere, nel caso prospettato, l’applicabilità del regime della cedolare secca in capo al proprietario dell’immobile.
Ed invero, nella Circolare n. 26/E del 01.06.2011, par. 1.2, è precisato che il regime della cedolare secca può trovare applicazione solo ed esclusivamente in relazione ai contratti di locazione aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo locati per finalità abitative ed alle relative pertinenze.

Ne deriva che, se il contratto originario non prevede la facoltà di sublocare per scopi diversi da quelli abitativi, siamo in presenza di un contratto di locazione ad uso abitativo e, pertanto, il locatore-proprietario può applicare legittimamente il regime della cedolare secca, ma il locatario non può sublocare alla ditta individuale per l’attività di affittacamere, poiché la sublocazione comporterebbe una diversa destinazione del bene locato rispetto al rapporto principale di locazione.

Se, invece, il contratto originario prevede sin dall’inizio la facoltà di sublocare per l’attività di affittacamere, allora anche la locazione originaria non può considerarsi ad uso abitativo e per finalità abitative e, pertanto, il regime della cedolare secca non può essere applicato.

È appena il caso di precisare che il regime della cedolare secca non può essere in nessun caso applicato al contratto di sublocazione, anche nell’ipotesi in cui sia la locazione che la sublocazione siano per finalità abitative, poiché, come precisato nella Circolare citata e come già detto prima, i redditi derivanti dalla sublocazione rientrano nella categoria dei redditi diversi di cui all’art. 67, comma 1, lett. h) del TUIR e non tra i redditi di natura fondiaria.

Claudio F. chiede
lunedì 25/09/2017 - Puglia
“Buonasera,
Vi scrivo per conto di mia madre, la quale quest'estate ha conosciuto un signore del Regno Unito, scozzese per la precisione.
In segno di gratitudine nei confronti di mia madre per una grande cortesia fattagli, questa persona vorrebbe donarle una somma di denaro.
Considerato il cambio attuale tra la sterlina e l'euro, l'importo della donazione ammonterebbe a circa 65.000 euro (50.000 sterline).
Tale somma verrebbe donata tramite bonifico bancario, attraverso l'azienda di proprietà del donante, sul conto corrente di mia madre.
Ho fatto una ricerca confermando quanto detto dal donante a mia madre, e cioè che la sua azienda ha un fatturato annuo di più di 200 milioni di euro.
L'importo della donazione sarebbe quindi, secondo il mio parere, da considerarsi di modico valore in riferimento al suo patrimonio.
Non lo sarebbe invece in riferimento alle condizione economiche del donatario.
La donazione avverrebbe senza scrittura privata considerato che il donante preferirebbe non dover venire in Italia per sottoscrivere la stessa.
Potreste gentilmente spiegarmi se tutto ciò è legale, non trattandosi di un prestito tra privati ma tra un'azienda ed un privato? Ci sono tasse da pagare? A che tipo di accertamenti possono essere sottoposti sia il donante sia il donatario? Supererebbe mia madre eventuali verifiche del fisco italiano?
Spero di avervi fornito tutte le informazioni necessarie per valutare il caso, rimango a vostra disposizione per qualsiasi dubbio.
Grazie e saluti
Claudio”
Consulenza legale i 15/10/2017
Sotto il profilo dell’imposizione diretta, l’art. 9 della Legge n. 97 del 06.08.2013 aveva introdotto il comma 2 dell’art. 4 del Decreto-legge del 28/06/1990 n. 167, in base al quale, a partire da febbraio 2014, le banche italiane sarebbero state obbligate ad applicare una ritenuta del 20% sui bonifici in arrivo dall’estero a meno che il contribuente non avesse dimostrato che le somme trasferite non erano classificabili nella categoria dei redditi da capitale (cioè come guadagni derivanti da un investimento finanziario) oppure dei redditi diversi (è il caso, ad esempio, delle plusvalenze generate dalla compravendita di un immobile o dei canoni di locazione di un appartamento situato all’estero).

L’onere della prova era stato posto a carico del beneficiario che avrebbe comunque dovuto dare specifiche disposizioni al proprio istituto di credito e dimostrare, anche mediante autocertificazione, che le somme incassate non erano classificabili come redditi da capitale o come redditi diversi, soggetti per l’appunto alla ritenuta.

Il beneficiario avrebbe potuto anche produrre la propria ultima dichiarazione dei redditi dando prova del fatto che non aveva compilato il quadro RW, relativo alle attività ed ai capitali detenuti all'estero e che, pertanto, le somme ricevute non erano riconducibili a frutti di tali attività e capitali.

Il citato comma è stato abrogato a decorrere dal 24 aprile 2014, dall'art. 4, comma 2, del decreto-legge 24 aprile 2014 n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014 n. 89 e, pertanto, a partire dalla predetta data, non è più prevista alcuna ritenuta in entrata sui bonifici ricevuti dall’estero sui propri conti correnti bancari, indipendentemente dall’origine delle somme bonificate.

Sotto il profilo dell’imposizione indiretta, dal momento che la donazione avverrebbe in forma non scritta poiché il donante preferirebbe non dover venire in Italia per la sottoscrizione, la stessa potrebbe essere ricondotta nella categoria delle liberalità indirette di cui all’art. 56 bis del D. Lgs. n. 546/90 - Testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni -.

Le liberalità indirette sono, infatti, atti di disposizione, non formalizzati in atti pubblici, che perseguono le stesse finalità delle donazioni tipiche.

Tali liberalità sono soggette all’imposta sulle donazioni in caso di:
  • accertamento dell’Agenzia delle Entrate, secondo particolari condizioni;
  • registrazione volontaria delle parti.

Per espressa disposizione della norma, sono comunque escluse da tassazione:
  • le liberalità indirette collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari o il trasferimento di aziende che siano già assoggettate all’imposta di registro in misura proporzionale oppure all’IVA (così come disposto dall’art. 1, comma 4 bis del D. Lgs n. 346/90);
  • le liberalità relative a spese non soggette a collazione, tra le quali rientrano ad esempio le spese di mantenimento e di educazione nonché quelle sostenute per malattia (art. 742 c.c.);
  • i comportamenti che le parti non manifestano in atti (ad esempio il pagamento di debito altrui);
  • le donazioni di modico valore, aventi per oggetto beni mobili (art. 783 c.c.).

Riguardo a queste ultime, coerentemente con quanto osservato nel quesito, la modicità deve essere effettivamente valutata anche in rapporto alle condizioni economiche del donante, così come disposto dal comma 2 del citato art. 783 c.c.

Relativamente all’ipotesi in cui sussista un accertamento dell’Agenzia delle Entrate, che comunque non può riguardare le donazioni di modico valore, la tassazione ai fini dell’imposta sulle donazioni è, in ogni caso, subordinata al ricorrere, congiuntamente, delle seguenti due condizioni:
  • l’esistenza di liberalità risulta da dichiarazioni rese dall’interessato nell’ambito di procedimenti diretti all’accertamento di tributi (ad esempio, nel caso di accertamento sintetico per incrementi patrimoniali o “redditometro”, che potrebbero venire effettuati con la somma donata);
  • le liberalità così emerse abbiano determinato (anche cumulativamente con altre) un incremento patrimoniale superiore all’eventuale franchigia con riferimento ad unico beneficiario. Riguardo a quest’ultima condizione, si ritiene opportuno evidenziare che, nell’ipotesi di donazione tra soggetti diversi da coniugi, parenti in linea retta, fratelli, sorelle, altri parenti sino al 4° grado ed affini sino al 3° grado, l’art. 2, comma 48, del D. L. n. 262/2006, convertito dalla legge n. 286 del 24/11/2006, non prevede alcuna franchigia.

ALFREDO C. chiede
martedì 30/05/2017 - Lazio
“un cittadino italiano che possiede in italia un conto corrente in dollari deve dichiararli? se si come?
grazie e cordiali saluti
Alfredo Carboni”
Consulenza legale i 31/05/2017
In tempi di crisi, molte persone ricorrono ad investimenti in valuta straniera. Il conto corrente in valuta straniera è, infatti, una forma di investimento come altre.

Il rendimento di questo tipo di investimenti si calcola in base al Libor, ovvero il tasso variabile a cui le banche si attengono quando comprano e vendono capitali, oppure all’Euribor.

Quale componente negativa bisogna considerare il guadagno della banca. Ovviamente, maggiore è lo spread applicato dalle banche e minore è la convenienza dell’acquisto di un conto in una determinata valuta.

Tali tipi di conto corrente sono oggetto della medesima tassazione sugli interessi dei conti correnti in euro.

In aggiunta si deve considerare la tassazione sulle plusvalenze se nell’anno solare la giacenza complessiva di tutti i depositi e conti correnti in valuta intrattenuti dal contribuente è superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui.

Tale guadagno va riportato nella dichiarazione dei redditi nell’apposito quadro dedicato ai redditi diversi (quadro RT); questo, dunque, è l’unico onere dichiarativo collegato al conto corrente in valuta estera.

Anonimo chiede
lunedì 28/10/2024
“Mia moglie è proprietaria di una casa vacanza. Mio figlio gestisce interamente il business tramite airb&b, ma i proventi netti degli affitti arrivano da airb&b (dopo trattenuta) sul c/c di mia moglie, in quanto proprietaria.
È mia moglie infatti a dichiarare sul suo 730 questo reddito aggiuntivo.
La domanda è:
Può mia moglie donare al figlio tramite bonifici (cifra su cifra, in chiaro) ciascuno di questi proventi, il cui totale si aggira sui 1000-1500 mensili?
Grazie di una risposta o di una diversa soluzione.”
Consulenza legale i 05/11/2024
Il sistema che si è deciso di seguire si fonda su un errore di fondo, ovvero sull’erronea convinzione che i proventi netti degli affitti erogati da Air B&B debbano necessariamente essere accreditati sul conto della proprietaria dell’immobile.
Prima di affrontare tale questione, però, si ritiene opportuno soffermarsi sull’esatta qualificazione giuridica che può essere data ai versamenti finora effettuati dal conto della madre a quello del figlio a mezzo bonifico bancario.
Innanzitutto va sicuramente escluso che un bonifico ricorrente per un importo di euro 1000 / 1500 mensili possa qualificarsi come donazione di modico valore, per la quale la legge non richiede il rispetto di alcuna particolare formalità, nel qual caso risulterebbe pertanto sufficiente utilizzare un semplice bonifico bancario (strumento senza alcun dubbio utile per soddisfare le esigenze di tracciabilità dei movimenti di denaro e soprattutto giustificarsi nei confronti del fisco).

Escluso che possa configurarsi una donazione di modico valore, l’unica qualificazione giuridica che si ritiene possa darsi a siffatti trasferimenti di denaro è quella della donazione rimuneratoria (art. 770 del c.c.).
Ricorre tale fattispecie tutte le volte in cui il donante, spontaneamente e per spirito di liberalità, è indotto a donare spinto da un sentimento di riconoscenza verso il donatario o in considerazione dei suoi meriti ovvero, infine, per rimunerarlo di un servizio reso o soltanto promesso (in questo caso si tratterebbe di un servizio reso).
Occorre precisare che il fine rimuneratorio costituisce soltanto il motivo (seppure essenziale) della donazione, senza in alcun modo assurgere a causa della stessa, rimanendo pur sempre donazione.
In tal senso si esprimono sia la dottrina che la giurisprudenza prevalenti, definendo la donazione rimuneratoria quale attribuzione gratuita, caratterizzata dalla spontaneità e dalla consapevolezza di non esservi in alcun modo costretti (cfr. Cass. civ. Sez. II ordinanza n. 1123/2024, Cass. civ. Sez. II sentenza n. 10262/2016, Cass. civ. Sez. II sent. 5119/2009).

Altra caratteristica di tale forma di donazione è che il motivo rimuneratorio non deve necessariamente risultare dall’atto in cui la stessa si estrinseca, potendo anche essere desunto da elementi estranei allo stesso, con la precisazione che la prova della sua sussistenza incombe sul donante.
Ebbene, trattandosi come si è detto di vera e propria donazione, soggiace a tutte le regole proprie di tale negozio giuridico, ed in particolare è assoggettata all’azione di riduzione ed a collazione e soggiace all’obbligo della forma solenne a pena di nullità (anche se in giurisprudenza, in particolare quella di merito, si ritiene che in talune ipotesi di corrispondenza tra ricevuto e prestazioni eseguite o promesse, la fattispecie debba qualificarsi quale donazione indiretta, a carattere rimuneratorio, come tale non soggetta all'obbligo formale).

Il particolare rilievo che in tale forma di donazione assume il motivo che ha indotto il donante alla liberalità, invece, giustifica la previsione di alcune regole speciali, quali l’inapplicabilità della norma che impone al donatario di prestare gli alimenti al donante (art. 437 del c.c.), l’inapplicabilità della revocazione per ingratitudine e per sopravvenienza di figli (art. 805 del c.c.) e la limitata responsabilità del donante per evizione (art. 797, n. 3 c.c.).
Alla luce delle superiori considerazioni, si ritiene che diversi siano gli inconvenienti a cui si può andare incontro nell’utilizzare il sistema dei bonifici per far sì che i proventi dell’attività svolta vadano a chi effettivamente la svolge, ovvero al figlio.
La soluzione che si vuole qui suggerire, invece, è quella di formalizzare il rapporto tra madre e figlia con un contratto di mandato, con o senza rappresentanza.
Secondo la definizione che ne dà l’art. 1703 del c.c. è tale quel contratto in forza del quale “una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’atra”.
Il successivo art. 1709 c.c., invece, precisa che “Il mandato si presume oneroso”, il che consente alla madre, proprietaria, di corrispondere al figlio un compenso per l’attività svolta, compenso che, sempre secondo quanto risulta dall’art. 1709 c.c., potrà essere liberamente stabilito dalle parti.

In subordine si potrebbe pensare di stipulare tra madre e figlio un contratto di locazione, con facoltà per il conduttore di sublocare l’immobile.
In tal modo, i redditi derivanti dal rapporto con Air B&B non ricadrebbero nella categoria dei rediti fondiari (rimanendo come tali in capo al proprietario ex art. 26 del T.U.I.R., ma rientrerebbero tra i c.d. redditi diversi di cui all’art. 67 comma 1 lett. h) TUIR, potendosi così superare la necessaria imputazione totale in capo al proprietario dell’immobile o titolare di altro diritto reale (si veda in tal senso la risoluzione n. 381/E/2008 dell’Agenzia delle Entrate).


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