Nonostante tali istituti svolgano, ognuno, una diversa funzione, sono, comunque, tutti accomunati dal fatto di consistere nella dazione di una somma di denaro da parte di un contraente all’altro, il quale è legittimato a trattenerla, nel caso della caparra, o a percepirla, nel caso della clausola penale, qualora il primo si renda inadempiente.
Dottrina e giurisprudenza si sono, però, interrogate in merito alla possibilità o meno di assoggettare a tassazione le somme percepite e trattenute sulla base di uno dei suddetti titoli. Si rende, quindi, necessario individuare le posizioni da esse assunte con riguardo alla caparra confirmatoria, alla caparra penitenziale ed, infine, alla clausola penale.
LA CAPARRA CONFIRMATORIA
Per quanto riguarda, innanzitutto, la caparra confirmatoria, essa è disciplinata dall’art. 1385 del c.c. Si tratta, in sostanza, di un anticipo sul prezzo totale, da versare a fronte del bene o del servizio che si intende acquistare, il quale non è rimborsabile e svolge, essenzialmente, una funzione risarcitoria. Il Codice Civile dispone, infatti, che se la parte che ha versato la caparra, ossia il compratore, è inadempiente, l’altra, cioè il venditore, può trattenerla e recedere dal contratto; se, invece, ad essere inadempiente è il venditore, egli è obbligato a restituire alla controparte il doppio della somma ricevuta.
L’Amministrazione Finanziaria, a partire dalla Risoluzione Ministeriale n. 1856 del 27 gennaio 1982, si è pronunciata a favore dell’esclusione dalla tassazione per le somme trattenute a titolo di caparra confirmatoria. Secondo essa, infatti, pur costituendo un fatto economicamente rilevante, la ritenzione della caparra confirmatoria non può mai essere soggetta a tassazione in ragione del suo carattere puramente risarcitorio, il quale non la rende configurabile, ai fini fiscali, come un incremento di ricchezza.
Di diverso avviso si è, invece, dimostrata la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 11307/2016, pur esaminando, in concreto, un caso di caparra penitenziale, ha preso posizione in relazione alla tassabilità dell’incasso di somme aventi una componente risarcitoria, come, appunto, nel caso della caparra confirmatoria.
La vicenda sottoposta al vaglio degli Ermellini traeva origine dal ricorso proposto da un contribuente contro un avviso di accertamento ai fini Irpef, da lui ricevuto, legato all’incasso di una somma a titolo di caparra, la quale era stata convenuta all’interno di un preliminare di compravendita da lui stipulato ma, poi, non adempiuto dalla controparte.
Sia i giudici della Commissione Tributaria Provinciale sia quelli della Commissione Tributaria Regionale avevano, però, respinto tale ricorso, ritenendo che la caparra rientrasse nell’ambito di applicazione del comma 2 dell’art. 6 del T.U.I.R., il quale considera redditi anche “le indennità percepite quale risarcimento di danni che consistono nella perdita di diritti”.
Tale posizione è stata, poi, confermata anche dalla Suprema Corte, la quale, pur riferendosi direttamente alla caparra penitenziale, da lei, peraltro, definita “penale”, ha stabilito che, alla luce di quanto disposto dal citato comma 2 dell’art. 6 del T.U.I.R., all’interno dell’incremento patrimoniale che si realizza in capo alla parte non inadempiente, si possono individuare, ai fini fiscali, due diverse componenti risarcitorie: una relativa alla perdita subita ed una relativa al mancato guadagno. Orbene, secondo gli Ermellini quest’ultima è assimilabile al reddito e, quindi, non può che ritenersi assoggettata ad imposizione diretta, in quanto sostitutiva del reddito che è venuto a mancare a causa dell’inadempimento, il quale, qualora questo non si fosse verificato, sarebbe stato tassato ai sensi del comma 1 dell’art. 67 del T.U.I.R.
Gli stessi giudici di legittimità hanno, altresì, precisato che, per quanto concerne, invece, l’assoggettamento ad IVA, essa non rileva se le parti convengono che, dopo l’adempimento, la somma versata a titolo di caparra debba essere restituita. La stessa è, però, soggetta ad IVA qualora sia, invece, imputata in “conto prezzo” per l’adempimento del contratto, costituendo, in tal caso, parte del corrispettivo.
Sempre in relazione all’assoggettamento ad IVA, l’Agenzia delle Entrate, nella propria circolare n. 18/2013, ha precisato, riprendendo un consolidato orientamento della Cassazione, che “la dazione anticipata di una somma di denaro, effettuata al momento della conclusione del contratto, costituisce caparra confirmatoria qualora risulti espressamente che le parti abbiano inteso attribuire al versamento anticipato non solo funzione di anticipazione della prestazione, ma anche quella di rafforzamento e garanzia dell’esecuzione dell’obbligazione contrattuale”.
LA CAPARRA PENITENZIALE
La caparra penitenziale trova la propria disciplina nell’art. 1386 del c.c., il quale prevede espressamente che “Se nel contratto è stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la caparra ha la sola funzione di corrispettivo del recesso. In questo caso, il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuta”.
Tale istituto ha, dunque, natura di corrispettivo per l’esercizio del recesso. Tuttavia, a tal fine, è necessario che esso sia espressamente pattuito poiché, in caso contrario, la somma versata varrebbe come caparra confirmatoria.
Le due figure di caparra sono, infatti, nettamente distinte. Come detto, la caparra penitenziale costituisce il corrispettivo predeterminato del diritto di recesso. La caparra confirmatoria, invece, svolge una funzione di autotutela e di preventiva liquidazione del danno in caso di inadempimento della controparte, senza la necessità, per il contraente adempiente, di dover proporre azione risarcitoria dinanzi all’autorità giudiziaria.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 27129/2019, ha, di recente, avuto modo di pronunciarsi in materia di caparra penitenziale, chiedendosi se essa risulti o meno assoggettata alla tassazione ai fini Irpef, quale plusvalenza.
La vicenda sottoposta agli Ermellini aveva ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento, da parte di un contribuente, a cui era stata contestata, in veste di promittente venditore, una plusvalenza non dichiarata a seguito di un preliminare di vendita di due terreni con destinazione agricola, senza, però, che si giungesse alla stipula del contratto definitivo, poiché il promittente acquirente aveva esercitato il proprio diritto di recesso, legittimando, così, la controparte ad incassare la somma già versata a titolo di caparra penitenziale.
La Cassazione ha, dunque, risolto la questione dichiarando la non tassabilità delle somme trattenute a titolo di caparra penitenziale in quanto queste, non avendo una natura risarcitoria, propria, invece, della caparra confirmatoria, non rientrano nell’ambito di applicazione del comma 2 dell’art. 6 del T.U.I.R. Gli Ermellini hanno, difatti, evidenziato che “non essendo in fatto contestato che nella fattispecie in esame l’incasso da parte del promittente venditore, considerato dall’Ufficio come plusvalenza tassabile, si configuri come corrispettivo del diritto di recesso attribuito alla promittente acquirente e da quest’ultima esercitato, la chiara differenza sul piano testuale tra caparra penitenziale, disciplinata dall’art. 1386 c.c. e clausola penale, di cui all’art. 1382 c.c., anche in relazione alla caparra confirmatoria di cui all’art. 1385 c.c., nonché sul piano semantico, impedisce di considerare la caparra incamerata come risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili in ragione del conseguimento di una plusvalenza”.
LA CLAUSOLA PENALE
La clausola penale, disciplinata dall’art. 1382 del c.c., non è altro che la clausola con cui le parti di un contratto convengono che una di esse, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, sia tenuta a svolgere una determinata prestazione, di solito consistente nel pagamento di una somma di denaro, la quale produce l’effetto di limitare il risarcimento a detta prestazione, qualora non sia stata pattuita la risarcibilità del danno ulteriore.
Dottrina e giurisprudenza si sono, però, da sempre scontrate in ordine alla natura rivestita dalla clausola penale. Se, infatti, da un lato, la giurisprudenza tende ad attribuirle natura risarcitoria, in ragione della sua funzione di liquidazione anticipata del danno da inadempimento (cfr. ex multis Cass. Civ., n. 19702/2011; Cass. Civ., n. 23706/2009); dall’altro, la dottrina propende maggiormente per attribuirle una natura sanzionatoria-punitiva.
Alla luce di quanto sin qui esposto, in relazione anche alla caparra confirmatoria e a quella penitenziale, tali diverse impostazioni non possono che avere conseguenze anche in ordine alla tassabilità o meno delle somme percepite in virtù di una clausola penale. Qualora, infatti, le se attribuisse natura risarcitoria, dette somme, sulla base della citata sentenza n. 11307/2016 della Cassazione, risulterebbero essere assoggettate a tassazione, rientrando nel disposto del comma 2 dell’art. 6 del T.U.I.R., con esclusione, però, dal regime impositivo dell’IVA. Se, invece, le stesse avessero natura sanzionatoria-punitiva, potrebbero non essere tassabili.
In ogni caso la Direzione Regionale del Lazio dell’Agenzia delle Entrate, con la nota prot. n. 37916 del 2017, recante “Criteri di tassazione di alcune fattispecie di negozi giuridici contenuti in atti notarili”, ha stabilito che, qualora si verifichi un inadempimento per il quale sia stata pattuita una clausola penale, è dovuta un’imposta di registro con aliquota pari al 3%, da applicare alla somma prevista come penalità.