La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata dopo che la moglie e i tre figli del de cuius avevano deciso di citare in giudizio l’ex moglie di uno di questi ultimi, la quale aveva acquistato un appartamento utilizzando del denaro fornitole interamente dai suoceri.
Gli attori, in particolare, dopo aver dedotto il fatto che l’operazione avesse realizzato una donazione indiretta da parte dei genitori nei confronti del figlio, ex marito della convenuta, con un’intestazione meramente fittizia in favore di quest’ultima, avevano, altresì, ritenuto che dovesse venire in rilievo l'esistenza, tra i coniugi, di un patto fiduciario, il quale, però, era, poi, venuto meno a causa della loro separazione.
Essi, dunque, avevano chiesto, in via principale, un accertamento della proprietà dell’immobile a favore dell’ex marito della convenuta e, in ogni caso, la pronuncia di una sentenza costitutiva ex art. 2932 del c.c. In subordine, nell’ipotesi in cui non fosse stato ritenuto sussistente un patto fiduciario, chiedevano, poi, la condanna della convenuta alla restituzione di un importo non inferiore a quanto corrisposto a titolo di prezzo della compravendita, stante l’assenza di un titolo di tale attribuzione.
Le istanze attoree venivano, però, rigettate all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito. La Corte d’Appello, in particolare, contrariamente a quanto affermato dagli attori, riteneva che sussistesse, in realtà, una donazione indiretta del bene da parte dei suoceri in favore della nuora, la cui esistenza comportava, necessariamente, l’assorbimento della subordinata domanda di arricchimento ingiustificato.
Rimasti soccombenti, gli originari attori ricorrevano dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando, innanzitutto, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 132, n. 4, del c.p.c., nonché degli artt. 769 e 2727 del c.c., ritenendo che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere sussistente una donazione indiretta, senza, però, indicare le ragioni idonee a dimostrare l’intento liberale perseguito dai suoceri della convenuta, nel versare, a suo favore, le somme occorrenti per l’acquisto dell’immobile, considerato, peraltro, che il legame esistente tra di essi non giustificava alcuna presunzione in relazione alla sussistenza dell’animus donandi.
Con un secondo motivo di doglianza, i ricorrenti eccepivano, poi, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 del c.c., ritenendo che i giudici di secondo grado avessero, altresì, errato nel qualificare l’operazione come una donazione indiretta, semplicemente per il fatto che la scrittura unilateralmente redatta dalla convenuta non avrebbe potuto dimostrare né un riconoscimento di debito, né un’intestazione fiduciaria del bene. Gli stessi osservavano, infatti, come la scrittura provenisse dall’accipiens, con la conseguenza che non era idonea a fornire alcuna indicazione in ordine all’animus del solvens.
Si denunciava, altresì, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1366 del c.c., sostenendo che la Corte territoriale avesse del tutto trascurato di considerare il fatto che i dati rinvenibili nel complessivo comportamento delle parti e dal contenuto delle scritture intercorse tra le stesse fossero incompatibili con la sussistenza di un fine liberale.
Con un quarto motivo di doglianza, i ricorrenti rilevavano, infine, come lo scopo che, secondo la convenuta, sarebbe stato perseguito dai suoceri, ossia quello di assicurare alla famiglia del figlio un’abitazione adatta a crescervi i nipoti, fosse incompatibile con l’attribuzione della piena proprietà alla sola nuora, alla quale veniva, così, consentito di disporne in via esclusiva.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Nell’analizzare congiuntamente i motivi di ricorso proposti, gli Ermellini hanno sottolineato come, nell’economia della motivazione della sentenza impugnata, assuma un rilievo determinante la ritenuta sussistenza di una donazione indiretta in favore dell’originaria convenuta, dal momento che essa costituisce un titolo idoneo a paralizzare qualsiasi pretesa dei ricorrenti, finalizzata alla rimozione dell’arricchimento realizzato dalla controparte.
Come più volte ribadito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, infatti, “la donazione indiretta si identifica in ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso dal fine di liberalità e abbia lo scopo o l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario” (cfr. ex multis Cass. Civ., SS.UU., n. 9282/1982).
La stessa Cassazione ha, peraltro, recentemente ribadito che “nella donazione indiretta la liberalità si realizza, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via indiretta, l'effetto dell'arricchimento del destinatario, sicché l'intenzione di donare emerge non già, in via diretta, dall'atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall'esame, necessariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse” (cfr. Cass. Civ., n. 4682/2018).
Nel caso di specie, i giudici d’appello hanno ritenuto che la donazione indiretta fosse stata dimostrata dal fatto che la dazione di denaro fosse stata effettuata come mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto dell’immobile.
Gli Ermellini hanno, tuttavia, evidenziato come la pronuncia citata dai giudici di merito, abbia, in realtà, valorizzato il suddetto criterio soltanto per distinguere la donazione indiretta dell’immobile dalla donazione diretta del denaro elargito, ancorché successivamente utilizzato per l’acquisto del bene, non, quindi, per trarre dalla mera finalizzazione della dazione di denaro la conseguenza della certa sussistenza dell’intento liberale.