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Articolo 907 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Distanza delle costruzioni dalle vedute

Dispositivo dell'art. 907 Codice Civile

Quando si è acquistato il diritto(1) di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare(2) a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell'articolo 905.

Se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.

Se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia.

Note

(1) Il proprietario e coloro che possono validamente esercitare la relativa servitù, hanno il diritto di vedute dirette.
(2) Il termine "fabbricare" corrisponde, in questo caso, a costruire qualsiasi manufatto, che abbia le caratteristiche dell'inamovibilità e della stabilità, atto, quindi, ad evitare l'esercizio della veduta. La dottrina reputa che il rispetto della distanza legale minima debba valere anche per gli alberi, considerato che le fronde, nell'impedire la veduta, sono da considerare alla stregua di una costruzione vera e propria.

Ratio Legis

L'art. 907 presuppone che l'acquisto del diritto alla veduta sul fondo del vicino venga logicamente prima dell'esercizio della facoltà di costruire. La disposizione si esprime analogamente presenta all'art. 873, anche se differenti sono i fini che i due articoli perseguono.
Quest'ultimo, stabilendo, infatti, specifiche distanze, intende evitare la formazione di intercapedini dannose, l'altro mira, invece, a tutelare il diritto di veduta.

Spiegazione dell'art. 907 Codice Civile

Precedenti dell'art. 907. Diritto comune in Germania, in Italia, in Francia. Diritto francese. Codice sardo (art. 614). Codice italiano del 1865 (art. 590)

Sulle orme del codice sardo (art. 614) e del vecchio codice (art. 590), il nuovo codice ha voluto risolvere testualmente con la disposizioni di cui all'art. 907 le vecchie questioni dibattutesi fin nel campo del diritto comune in Germania, in Francia e in Italia, e continuate in Francia sotto l'impero del codice francese che mancava di una disposizione testuale al riguardo. Con l'aggiunta poi dei due capoversi dell'art. 907, che mancavano nell'art. 590 del vecchio codice, ha voluto determinare più compiutamente il contenuto della servitù di veduta diretta, eliminando così annose questioni in materia.

Fu molto controverso per il diritto romano il concetto della servitus luminum e della servitus ne luminibus officiatur. Alcuni ritennero che queste due locuzioni non comprendessero che una sola servitù, ma prevalse poi l'opinione secondo cui si trattava di due servitù distinte: che la servitus luminum fosse il diritto di aprire finestre in un muro altrui, o comune, o anche proprio contiguo al fondo vicino; e la servitus ne luminibus officiatur fosse invece il diritto di impedire al vicino di intraprendere nel suo fondo opere che oscurassero o diminuissero la luce.

La pratica del diritto comune in Germania e in Italia riconobbe nell'apertura delle finestre nel muro proprio un semplice esercizio del diritto di proprietà, e che l'apertura di finestre nel muro altrui o comune (servitus luminum) non implicasse in sè la servitus ne luminibus officiatur.

Nel diritto comune in Francia da una parte si richiese l'acquisto di una servitus luminum per poter aprire finestre sul fondo del vicino, dall'altra si ritenne che la servitus luminum comprendesse fino ad un certo punto il diritto di inibire al vicino la costruzione di opere dirette a impedire l'esercizio della servitù acquistata.

La questione è stata ed è tuttora controversa sotto la vigenza del codice francese, che manca di una disposizione testuale al riguardo. Alcuni hanno sostenuto che, acquistato il diritto ad avere una finestra a distanza minore della legale, si è liberati dall'obbligo della distanza legale, ma non si acquista un diritto contro il vicino per esigere il rispetto della veduta. Altri invece sostengono che l'acquisto del diritto di tenere una finestra a distanza minore della legale importa l'acquisto di una servitù sul fondo del vicino, ma sono discordi sul contenuto di tale servitù, e cioè sulla distanza che deve osservare il vicino nel fabbricare sul suo fondo.

Il codice sardo per togliere queste controversie introdusse la seguente disposizione (art. 614): « Colui il quale ha per convenzione acquistato il diritto di avere finestre prospicienti il fondo del vicino, non può impedirlo dal fabbricare alla distanza fissata dagli art. 572, 594 e 595 (tre metri), salvo che vi sia un titolo contrario, o dopo opposizione abbia avuto luogo la prescrizione trentennale; ma se il diritto ad avere finestre prospicienti sul fondo del vicino non e acquistato che col mezzo della prescrizione, il proprietario di questo fondo può sempre fabbricare sul suo terreno ed innalzare la fabbrica a suo arbitrio ».

Come si vede, il legislatore sardo seguì una via intermedia tra le opposte opinioni della dottrina francese. Il semplice decorso del periodo prescrizionale libera il proprietario della finestra dall'obbligo di osservare la distanza legale, ma non gli fa acquistare nessun diritto di servitù sul fondo vicino: il proprietario di questo resta quindi libero di fabbricare come vuole, con la facoltà anche di chiudere la finestra appoggiandovi il suo edificio. Invece se il diritto di avere finestre prospicienti sul fondo del vicino si è acquistato per convenzione, o per prescrizione dopo un atto di opposizione, il proprietario del fondo vicino non può fabbricare a meno di tre metri di distanza. Può essere obbligato anche a lasciare una distanza maggiore, se ciò risulti dal titolo, ed anche per prescrizione, se volendo il vicino fabbricare alla distanza di tre metri, il proprietario della finestra si sia opposto e siano passati trent'anni dalla opposizione.

Il codice italiano del 1865 volle risolvere anch'esso testualmente le questioni sorte nella dottrina francese, e lo fece in misura più radicale del codice sardo, disponendo all'art. 590 che « Quando per convenzione od altrimenti siasi acquistato il diritto di avere vedute dirette o finestre a prospetto verso il fondo vicino, il proprietario di questo non pile fabbricare a distanza minore di tre metri ».

Con tale disposizione si fece un passo più avanti del codice sardo. Quando si sia acquistato, non importa in qual modo, il diritto di avere vedute dirette sul fondo vicino, il proprietario della veduta non solo si affranca dall'obbligo di osservare la distanza legale, ma acquista anche il diritto a che il vicino nel fabbricare osservi la distanza di tre metri. La citata disposizione dell'art. 590 è poi passata nel nuovo codice (art. 907, primo comma).


Vari modi di acquisto del diritto di avere vedute dirette sul fondo vicino: convenzione, testamento, destinazione del padre di famiglia, prescrizione

L'art. 907, riferendosi all'acquisto del diritto di avere vedute dirette sul fondo del vicino, fa espressa menzione soltanto della convenzione, e poi con la locuzione « od altrimenti » fa un riferimento generale ai possibili modi di acquisto.

Oltre che per convenzione, ii diritto di avere una veduta diretta sul fondo vicino può nascere per testamento e può nascere anche per destinazione del padre di famiglia.

Tutti sono d'accordo nel ritenere che il diritto di avere vedute dirette sul fondo vicino possa acquistarsi anche per prescrizione. Non tutti, però, convengono sulla natura di tale prescrizione: infatti alcuni credono inapplicabile nel caso la prescrizione acquisitiva e fondano l'acquisto sulla prescrizione estintiva del diritto che ha il vicino di esigere l'osservanza del metro e mezzo prescritto dall'art. 905 Si ritiene, fondandosi sui precedenti dell'art. 907, che si tratti di prescrizione acquisitiva: il diritto riconosciuto al proprietario della veduta dall'art. 907 non è una semplice servitù negativa ne luminibus officiatur, ma risulta storicamente dalla fusione di questa con la servitus luminum che è apparente. Ed il risultato di questa fusione è una servitù che possiamo chiamare di veduta diretta, che presenta i requisiti idonei per la prescrizione acquisitiva.


La zona di rispetto di tre metri dev'essere osservata anche ai lati della veduta diretta

La distanza di tre metri è prescritta dall'art. 907 primo comma limitatamente alle vedute dirette. Sotto l'impero dell'art. 590 vecchio codice, che conteneva un' analoga disposizione, era sorta una importante discussione per sapere se e quale distanza dovesse osservarsi per le vedute laterali e oblique: infatti, disponendo l'art. 590 la zona di rispetto di tre metri unicamente per le vedute dirette, non poteva tale disposizione valere per le vedute laterali e oblique.

Ora di vedute laterali e oblique ve ne sono di due specie: vi sono vedute laterali e oblique per sè stanti, e vi sono vedute laterali e oblique che si esercitano contemporaneamente a una veduta diretta, ai due lati della medesima (art. 900, n. 3).

Per le vedute laterali e oblique per sè stanti la questione non ha ragione di essere perché, data la loro speciale ubicazione, non è possibile per il vicino ostruirle con fabbriche. Infatti, non trovandosi esse in un muro di confine o parallele al confine, il vicino potrà rendere comune il tratto di muro che prospetta il suo fondo (artt. 874 e 875) e contro di esso potrà fabbricare liberamente non si troverà mai in condizione di chiudere la veduta laterale ed obliqua, che è situata in un muro non suscettibile di comunione.

Nel caso invece di vedute oblique non per sè stanti ma esercitantisi da una stessa finestra contemporaneamente ed ai lati della veduta diretta sopra un medesimo fondo, era di grande importanza pratica, sotto il vecchio codice, vedere se nemmeno in tale caso il fatto di avere queste vedute oblique imponesse al vicino l'obbligo di osservare una certa distanza: infatti in caso contrario, il proprietario limitrofo, pur essendo costretto dall'art. 590 ad osservare la distanza di tre metri di fronte alla finestra (veduta diretta) avrebbe avuto il diritto di fabbricare ai lati della medesima, sino agli stipiti sopprimendo le vedute oblique.

Alla questione furono date sotto l'impero dell'art. 590 vecchio codice le soluzioni più disparate. Secondo alcuni — ed è questa l'opinione preferibile — non vi era l'obbligo di osservare alcuna distanza, e quindi il proprietario latistante poteva appoggiare la fabbrica sino agli stipiti della finestra. Secondo altri, una distanza doveva essere osservata: chi richiedeva mezzo metro, chi un metro, chi tre metri, chi una distanza da determinarsi caso per caso dall' autorità giudiziaria. Altri, infine, ritenevano che, in questo caso speciale di contemporanea esistenza di vedute dirette ed oblique da una stessa finestra, l'esistenza della veduta diretta, di per se sola valesse ad escludere del tutto l'acquisto della comunione del muro e il conseguente appoggio ai lati della finestra: il vicino avrebbe dovuto mantenere indietro la sua fabbrica alla distanza di tre metri dal muro in cui era aperta la veduta diretta.

La giurisprudenza della Cassazione del Regno dopo qualche incertezza si era ormai affermata nel senso che i tre metri di distanza richiesti dall'art. 590 come zona di rispetto per la veduta diretta dovessero osservarsi non solo di fronte, ma anche ai due lati.

E questa soluzione è stata testualmente sancita dal nuovo codice, al secondo comma dell'art. 907, disponendo « Se la veduta (diretta) forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita ». Con questa aggiunta l'annosa controversia, così vivamente dibattuta nella dottrina e nella giurisprudenza, è stata definitivamente risolta con grande vantaggio dell'edilizia.


E anche al di sotto della soglia

Altra questione, connessa alla precedente, era sorta sotto la vigenza dell'art. 590 vecchio codice, per sapere se e quale distanza dovesse osservarsi nel fabbricare al di sotto della soglia della veduta diretta. Anche qui le soluzioni date erano diverse: alcuni, partendo dal principio che prospectus etiam ex inferioribus locis est, escludevano del tutto la possibilità di fabbricare al di sotto della veduta; altri ritenevano che la fabbrica dovesse arrestarsi a tre metri al di sotto della soglia; altri infine che si potesse raggiungere con la fabbrica l'altezza della soglia.

Anche per tale questione il nuovo codice ha adottato la soluzione prevalsa da tempo nella giurisprudenza della Cassazione, statuendo una zona di rispetto di tre metri anche al di sotto della soglia. Dispone infatti l'art. 98, terzo comma: « se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette e oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia ».


Contenuto normale della servitù di veduta. Zona di rispetto di tre metri in linea orizzontale, laterale e verticale. Non è sufficiente la distanza di tre metri in linea obliqua

Con le disposizioni contenute nei tre commi dell'art. 907 viene delimitato con precisione il contenuto normale della veduta diretta, in una zona di rispetto di tre metri: in linea orizzontale di fronte, in linea verticale al di sotto della soglia, e in linea laterale ai due lati della veduta.

Ciò è stato sintetizzato in alcune sentenze dicendosi che la distanza di rispetto per la veduta diretta e di tre metri in tutti i sensi: tale espressione è corretta se viene riferita ai tre sensi suddetti, e cioè orizzontale, verticale e laterale.

Non sarebbe invece esatta se intesa anche in linea obliqua, come accaduto in qualche sentenza, che ritenne legittima la costruzione distante dalla veduta metri tre in linea obliqua. L'errore fu rilevato dalla Cassazione osservando che il codice quanto al modo di misurare la distanza di rispetto per le vedute fa riferimento alla linea di separazione dei due fondi (art. 905 del c.c.). E quindi la distanza di tre metri va fatta in linea orizzontale, a qualunque altezza dal suolo si trovi la veduta: il che vale quanto dire che la costruzione deve essere elevata a distanza non minore di tre metri, dal muro in cui è aperta la veduta. E ad ulteriore conferma della tesi, la Cassazione giustamente rilevava che la distanza di tre metri tra la veduta e la linea di separazione dei due fondi « è un'esigenza derivante dal contenuto stesso della servitù di prospetto, che si esercita direttamente sul fondo, a carico del quale e stata costituita ed acquistata, onde è in rapporto a questo fondo che deve rimanere osservata la distanza che la legge ritiene necessaria per l'esercizio di detta servitù ».

Per escludere che possa essere sufficiente agli effetti della distanza legale richiesta dall'art. 907 la distanza di tre metri in linea obliqua tra la finestra e la parte più vicina della fabbrica, un ulteriore argomento a sostegno può derivarsi, sotto altro profilo giuridico, dalla disposizione dell'art. 873. Detto articolo dispone in metri tre la distanza minima legale tra fabbricati, da misurarsi in linea orizzontale e non in linea obliqua tra i piani reali o virtuali dei muri perimetrali dei due edifici fronteggianti. Si ha qui una coincidenza - che è stata ripetutamente rilevata - tra la distanza legale di tre metri prescritta dall'art. 907 in difesa delle vedute dirette e la distanza di tre metri prescritta dall'art. 873 come intercapedine minima nelle costruzioni. È a quel modo che la distanza legale tra le costruzioni di cui all'art. 873 va misurata in linea orizzontale e non in linea obliqua, perciò allo stesso modo deve escludersi che la distanza legale dell'art. 907 possa essere misurata in linea obliqua.


Possibilità di deroga in più al contenuto normale della servitù di veduta diretta

Abbiamo detto nel numero precedente che con le disposizioni contenute nell'art. 907 viene delimitato il contenuto normale della veduta diretta in una zona di rispetto di tre metri in linea orizzontale, verticale e laterale: ma tale contenuto normale può nella pratica variare in più come può variare in meno.

Una variazione in più può risultare anzitutto dal titolo costitutivo della servitù, stabilendosi che il vicino non possa fabbricare, davanti, ai lati, al di sotto, a distanza minore di cinque, di dieci e più metri. Può stabilirsi perfino che per rispetto alla veduta il vicino non possa fabbricare affatto, o non possa fabbricare oltre una determinata altezza, di fronte, ai lati, al di sotto: in tal caso il contenuto della servitù di veduta si allarga fino a concretare la diversa servitus non aedificandi o altius non tollendi.

Una variazione in più può risultare anche per destinazione del padre di famiglia, poiché dallo stato in cui il proprietario pose e lasciò le cose, può risultare insufficiente la distanza legale prescritta dall'art. 907. Certo, in questo caso, non sarà facile in pratica provare che tale insufficienza risulti dalla destinazione del padre di famiglia, e quale maggiore zona di rispetto debba essere lasciata nel caso concreto. Ma non vi è ragione di escluderne teoricamente la possibilità: se, ad es., l'unico originario dovizioso proprietario di grandioso palazzo e di non meno grandioso parco adiacente, abbia lasciato un salone-pinacoteca che prenda dai balconi sul parco la necessaria luce, deve ritenersi costituita per destinazione una zona di rispetto per i balconi, maggiore della normale dei tre metri, e tale da assicurare alla pinacoteca la necessaria luce. E lo stesso va detto per assicurare a una grandiosa e lussuosa veranda costituita nel centro architettonico del castello il prospetto sul parco e il sole alla serra del giardino pensile.


Possibilità di deroghe in meno

Dobbiamo ora vedere se sia ammessa una deroga in meno alla distanza di rispetto prescritta dall'art. 907. La Corte di Cassazione ha avuto occasione di affermare la tesi affermativa sotto la vigenza del vecchio codice, rilevando che « nè l'art. 590 nè alcuna altra norma di legge prescrive che non si possano costituire servitù di prospetto se questo non si può esercitare fino a tre metri di distanza in tutte le direzioni ». Anche qui verrà ripetuta l'indagine singolarmente per i tre possibili modi di costituzione della servitù: titolo, destinazione del padre di famiglia e prescrizione.

Nulla impedisce di costituire per titolo (convenzione o testamento) una servitù di veduta a contenuto più ristretto di quella regolata dall'art. 907: non solo è possibile derogare alla distanza dei tre metri ai lati e al di sotto della soglia, per cui non può sorgere alcuna difficoltà, ma è possibile derogarvi anche di fronte, quantunque così si venga a formare una intercapedine minore dei tre metri prescritti dall'art. 873 per la distanza legale delle costruzioni. Infatti, tutti sono d'accordo nel ritenere che la prescrizione dell'art. 873 non è di ordine pubblico e quindi può essere derogata dalle parti interessate, salve contrarie disposizioni dei regolamenti edilizi.

Lo stesso deve dirsi per la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, che forma appunto oggetto della citata sentenza della Cassazione. Nella specie si trattava di una fabbrica iniziata dall'originario unico proprietario dei due fondi poi divisi (fabbricato e cortile) nel cortile del fabbricato e destinata naturalmente ad essere ultimata. Data la poca altezza che il balcone e le finestre del fabbricato avevano sul cortile (m. 4,75) la costruzione iniziata sul cortile e appoggiata al muro perimetrale del fabbricato non poteva necessariamente mantenersi a tre metri al di sotto del balcone e della soglia delle finestre, e difatti fu portata col tetto fino all'altezza del balcone e del davanzale delle finestre. La Cassazione ritenne che in questo caso la servitù di veduta restasse limitata nel suo contenuto a seguito della stessa destinazione del padre di famiglia da cui aveva avuto origine, in quanto per la posizione delle cose lasciata dal proprietario risultava che la veduta non potesse godere della normale zona di rispetto al di sotto del balcone e delle finestre, ma solo davanti o ai lati. Rilevò la Corte che, nonostante questa parziale limitazione nel contenuto, la servitù non cessava di essere di prospetto, poiché l'apertura permetteva di affacciarsi in alcune direzioni, se non in tutte.

Infine la limitazione al contenuto della servitù può aversi anche quando essa sia sorta per prescrizione, se fin dal suo sorgere la zona di rispetto dei tre metri era limitata dall'esistenza a meno di tre metri di fabbriche di fronte, o dai lati, o al di sotto.

Concludiamo l'argomento rilevando che mentre la variazione in più del contenuto normale della servitù è teoricamente illimitata, potendo giungere alla esclusione di qualsiasi fabbrica in tutte le direzioni — nel qual caso estremo la servitù di veduta diretta si identifica con la servitus non aedificandi — la variazione in meno ha invece necessariamente un limite: deve restare cioè la possibilità dell' affaccio almeno in qualche direzione. Se il comodo e normale affaccio fosse impedito in tutte le direzioni, verrebbe meno la servitù di veduta per trasformarsi in semplice servita di aria e di luce.


Misurazione della distanza

Per la misurazione della distanza dei tre metri l'art. 907 (comma 1) si richiama alla norma stabilita dall'art. 905, a cui si rimanda.

Va solo aggiunto che gli sporti che ai sensi degli art. 905 e 907 devono computarsi per la misurazione della distanza di tre metri richiesta di fronte alla veduta diretta sono quelli che, come i balconi, sono congiunti alle finestre per agevolare la veduta. Invece non sono comprese negli articoli suddetti le altre opere esteriori che sono accessioni, dell'edificio e non della finestra, oppure che costituiscano sporti della finestra, non servono per veduta ma per altro scopo (sciorinarvi panni, tenervi vasi di fiori ecc.). Pertanto tali sporti non impongono l'obbligo della distanza di tre metri misurata dalla loro linea esteriore, e basta che la nuova fabbrica del vicino disti tre metri dalla faccia esteriore del muro dove è aperta la finestra.


Le costruzioni vietate innanzi alla veduta. Quid iuris delle piantagioni

L' art. 907 vieta al proprietario vicino di fabbricare a distanza minore di tre metri. Alcuni, attaccandosi strettamente alla parola della legge, argomentano che la distanza suddetta non sia più obbligatoria quando non si tratta di fabbrica, ma di altra opera di struttura diversa (un tavolato, uno steccato, ecc.) quantunque di carattere stabile e qualunque sia il pregiudizio che ne possa venire alla veduta.

Noi siamo contrari a tale interpretazione dell'art. 907 che, benché fondata sulla lettera della legge, ne viola lo spirito. Infatti la veduta viene meno qualunque sia la struttura dell'ostacolo che vi si frappone.

E in questo senso si è pronunciata la Cassazione, statuendo che l'espressione « fabbricare » usata dalla legge comprende qualsiasi opera, qualunque ne possa essere la mole e la forma, e non soltanto le costruzioni in muratura, ma ogni altra che comunque ostacoli l'esercizio di una veduta diretta, come uno steccato in legname, un' antenna e in genere qualsiasi soprastruttura che si elevi dal suolo con carattere di stabilita come ad es., i pali eretti a sostegno di un pergolato.

Tra le costruzioni vietate innanzi alle vedute deve annoverarsi il semplice alzamento di un muro già esistente ed anche la costruzione di muri di cinta, arrecando i detti muri nella loro estensione in lunghezza e in altezza, ostacolo e limitazione della veduta. Pertanto, pur essendo il diritto di chiudere il proprio fondo con un muro di cinta un diritto imprescrittibile, tuttavia, se il vicino abbia acquistato per convenzione o altrimenti, e quindi anche per prescrizione, una servitù di veduta, il proprietario vicino che voglia recingere il fondo, deve costruire il muro osservando la distanza stabilita dall'art. 907.

Giustamente è stato escluso che la distanza legale di tre metri per il caso che voglia fabbricarsi di fronte a una veduta diretta possa pretendersi quando il vicino voglia aprire una veduta nel proprio muro preesistente, posto a distanza inferiore ai tre metri da detta veduta, ma a più di un metro e mezzo dal confine, ai sensi dell'art. 905.

Qualche dubbio può nascere sulla liceità o meno di piantare davanti alla finestra degli alberi, i quali, benché piantati alla distanza di cui all'art. 892, possono protendere i loro rami a meno di tre metri dalla veduta del vicino. Certo la questione non si può risolvere, per la liceità di tali piantagioni, sulla semplice considerazione che la distanza legale dell' art. 892 è stata osservata: infatti l'art. 892 mira a prevenire i danni che verrebbero al fondo limitrofo dal protendersi dei rami e dalla immissione delle radici, e non a quello che può provenirne al diritto di veduta del vicino, quindi la questione deve decidersi in base all'art. 907. E si ritiene generalmente che si possa risolvere nel senso della liceità in genere delle piantagioni, anche se qualche ramo venga ad invadere la zona di rispetto dell'art. 907, e sempre che tale invasione non giunga ad ostacolare dannosamente la veduta.


Inapplicabilità del divieto dell'art. 907 quando tra i due fondi intercede una via pubblica

La disposizione dell'art. 907 ha carattere assoluto, quindi la distanza da esso prescritta deve essere osservata anche quando si può provare che, nella particolarità del caso, le costruzioni non rechino alcun nocumento al vicino.

Si può applicare quando, tra l'edificio in cui sono aperte le vedute e il fondo su cui la veduta si esercita, intercede la via pubblica? Si è sostenuta la tesi affermativa adducendo che l'art. 907 non stabilisce questa eccezione: nè la si può ricavare dall'ultimo capoverso dell'art. 905 che permette l'apertura di vedute dirette sul fondo fronteggiante senza l'obbligo di osservare la distanza legale, allorquando tra i due fondi vi è una via pubblica, perché l'art. 905 stabilisce una servitù diversa da quella contemplata nell'art. 907.


L'art. 907 è applicabile anche alle vedute aperte iure proprietatis a un metro e mezzo di distanza dal confine, a norma dell'art. 895?

Per esaurire l'argomento ci restano ad esaminare alcuni casi in cui risulta controversa l' applicabilità dell' art. 907 oppure se si debba osservare davanti alla veduta la distanza di rispetto prescritta dall'art. 907.

Anzitutto, l'art. 907 è applicabile anche al caso in cui nessuna servitù di veduta si sia propriamente acquistata a carico del fondo vicino, e i1 proprietario si sia limitato ad aprire la veduta diretta alla distanza di un metro e mezzo dal confine prescritta dall'art. 905? Dovrà anche in questo caso il vicino tenersi, fabbricando, alla distanza di tre metri come prescritto dall'art. 907?

Si potrebbe rilevare in senso contrario che l'art. 907, parlando di diritto acquistato, si riferisce a un diritto che non si ha, e che perciò si acquista, mentre il diritto di veduta diretta alla distanza di un metro e mezzo a norma dell'art. 905 compete iure proprietatis, ed essendo inerente al dominio e già contenuto nella proprietà: non si acquista, ma solo si esplica e si esercita dal proprietario.

Ma è agevole rispondere che la disposizione dell'art. 907 è generale e quindi applicabile a tutte le vedute dirette aperte sul fondo vicino a norma di legge. Fra queste quindi rientrano, oltre le vedute aperte a titolo di servitù immediatamente sul confine o a distanza minore di un metro e mezzo, anche quelle aperte alla distanza legale di un metro e mezzo dal confine a norma dell'art. 905. Vuol dire che in questo caso, la zona di rispetto stabilita dall'art. 907 invece di avere carattere di vera e propria costituisce una semplice limitazione legale della proprietà fronteggiante la veduta. Come l'art. 905 impone una limitazione legale al proprietario della veduta obbligandolo ad osservare la distanza di un metro e mezzo dalla linea di confine, così analoga limitazione legale impone l'art. 907 al proprietario fronteggiante, obbligandolo ad osservare la distanza di tre metri nei confronti della veduta diretta aperta a norma di legge.


Inapplicabilità dell'art. 907 alle luci irregolari

Sotto il vecchio codice una questione vivamente dibattuta fu quella se l'art. 907 fosse applicabile alle luci irregolari, cioè alle luci mancanti, in tutto o in parte, dei requisiti di legge. La questione si collegava alla vexata quaestio della distinzione tra luci e vedute e ne costituiva anzi l'applicazione pratica più importante.

Nel nuovo codice la questione deve considerarsi risolta a seguito della disposizione dell'art. 902 per cui « un'apertura che non ha i caratteri di veduta e di prospetto e considerata come luce, anche se non sono state osservate le prescrizioni indicate dall'art. 901 ».

Ora, come è ormai ius receptum nella giurisprudenza e come testualmente statuito dall'art. 900, un'apertura ha i caratteri di veduta sempre quando renda possibile un comodo e normale affaccio sul fondo vicino. Quindi un'apertura, anche se munita di inferriata e di grata metallica fissa, deve considerarsi veduta se dà luogo a un comodo e normale affaccio, e come tale, in applicazione dell'art. 907 le compete la zona di rispetto dei tre metri.

Se invece si tratta di apertura praticata a un' altezza tale da non rendere possibile il comodo e normale affaccio, essa deve considerarsi quale semplice luce, anche se non munita di inferriata e di grata fissa: e come tale si sottrae all' applicazione dell'art. 907 e può essere ostruita sia con l' appoggio della fabbrica del vicino, previo acquisto della comunione, sia con la semplice fabbrica in aderenza, a norma dell'art. 904 Eccetto che non si tratti di servitù di luce irregolare debitamente acquisita per titolo o per destinazione del padre di famiglia, come sarà esplicato nel paragrafo seguente.


Inapplicabilità alle aperture per servitù di aria

Vivamente dibattuta sotto la vigenza del vecchio codice fu la questione se fra le due categorie disciplinate dagli art. 901 (luci) e 905-906 (vedute) dovesse riconoscersi una terza categoria intermedia: le cosiddette servitù di aria, esercitantisi da un'apertura posta a tale altezza da non consentire l'esercizio della veduta, ma senza invetriata fissa e quindi tali da garantire il passaggio dell'aria.

Che una tale servitù di aria potesse costituirsi per titolo era da tutti ammesso, perché i proprietari possono stabilire sopra i loro fondi o a beneficio di essi qualunque servitù. Era invece controverso se una servitù di aria potesse stabilirsi per prescrizione e per destinazione del padre di famiglia. La dottrina era discorde: la Cassazione del Regno, che in un primo tempo aveva escluso la prescrizione, ma aveva ammesso la costituzione per destinazione del padre di famiglia, nelle sue ulteriori decisioni le aveva escluse entrambe.

Nel nuovo codice la questione si presenta in termini alquanto diversi, poiché, essendo stato soppresso il requisito della vetrata fissa, le luci servono normalmente anche al passaggio dell'aria (art. 900 del c.c.) e non si può quindi parlare di servitù di aria nello stesso senso in cui se ne parlava sotto il vecchio codice.

Se ne può invece parlare in un senso diverso, in quanto cioè esista un' apertura mancante in tutto o in parte, dei requisiti di legge: ma allora trattasi di luce irregolare e vale quindi quanto per le luci irregolari si e detto nel numero precedente con le precisazioni che seguono.

Se la luce irregolare consente un comodo e normale affaccio, essa è sostanzialmente una veduta, la quale è suscettibile di acquisto, oltre che per titolo (convenzione e testamento), anche per prescrizione e per destinazione del padre di famiglia, con la conseguenza di rendere applicabile la disposizione dell'art. 907.

Se invece la luce irregolare non ha i caratteri di veduta, per la esplicita disposizione dell'art. 902 non può acquistarsi per prescrizione il diritto di mantenerla in condizione di irregolarità, e il vicino, da una parte, avrà sempre il diritto di esigere che essa sia resa conforme alle prescrizioni di legge (art. 902 capov.) e, dall'altra, potrà in ogni tempo chiuderla appoggiandovi il suo edificio, previo acquisto della comunione del muro (art. 874 del c.c.), o fabbricandovi in aderenza (art. 877 del c.c.). In questa ipotesi pertanto, trovano applicazione l'art. 904 e l'art. 907 resta fuori applicazione.

Ma l'art. 907 resta fuori applicazione anche quando la luce sia stata costituita in condizione di irregolarità per titolo o per destinazione del padre di famiglia: infatti il contenuto della speciale servitù così costituita è inconfondibile con quello della servitù di veduta diretta disciplinata dall'art. 907, e va mantenuto quindi nei più ristretti limiti in cui l'ha costituito il titolo o la destinazione. La luce pertanto non potrà sopprimersi non trovando applicazione nel caso l' art. 904, ma non potrà nemmeno trovare applicazione tutta la zona di rispetto prescritta dall'art. 907.


Inapplicabilità alle vedute aperte iure proprietatis sotto le antiche legislazioni
In alcuni degli ex-Stati italiani (Stato pontificio, Toscana, Lombardo-Veneto) non era prescritta alcuna distanza per l' apertura di vedute, e quindi ognuno poteva iure proprietatis aprirle anche sul confine della sua proprietà, salvo al vicino il diritto di chiuderle o di oscurarle fabbricando sul confine del proprio fondo. Ora ci si chiede se queste vedute aperte sotto l'impero di una legislazione che le permetteva, obblighino oggi il vicino a fabbricare a distanza non minore di tre metri, in applicazione dell'art. 907.

Alcuni ritengono che l'art. 907 sia applicabile anche ad esse, altri lo ritengono inapplicabile. Vi ha infine chi ritiene inapplicabile l'art. 907 alle vedute aperte esattamente sul confine, ed applicabile a quelle aperte a distanza minore di un metro e mezzo.

L'opinione maggioritaria ritiene che l'art. 907 non sia applicabile in nessun caso. Cominciamo dalle vedute aperte direttamente sul confine: trattandosi di finestre aperte iure proprietatis e non iure servitutis, il vicino aveva secondo la legislazione preesistente, il diritto di chiuderle appoggiandovi il proprio edificio, così come avviene attualmente per le luci (art. 904 del c.c.). Lo stesso diritto egli può quindi esercitare anche ora, continuando l'antica legislazione ad avere efficacia anche dopo l'entrata in vigore della nuova. In conseguenza l'art. 907 non trova applicazione nei confronti delle finestre aperte iure proprietatis, e il vicino potrà chiuderle sia col semplice fabbricarvi in aderenza, sia appoggiandovi l'edificio, previo acquisto della comunione del muro (art. 904 del c.c.).

Si ritiene che l'art. 907 sia parimenti inapplicabile quando le nostre siano aperte non esattamente sul confine, ma a distanza minore di un metro e mezzo dal medesimo. In contrario si osserva che in tale caso le finestre non si potevano far chiudere in base alle leggi preesistenti potendo tutto al più il proprietario vicino oscurarle fabbricando sul confine, ma non chiuderle, distando esse dal medesimo. Ora, come la finestra doveva restare sotto la legge vecchia, deve restare anche sotto l'impero della legge nuova perché si tratta di un diritto quesito e l' art. 907 sarebbe applicabile.

L'argomento non sembra fondato. Se sotto le leggi preesistenti non era possibile chiudere la finestra, ciò era non già perché si fosse acquistato il diritto di tenerla aperta verso il fondo del vicino, ma perché questi non aveva il diritto di fabbricare oltre il proprio confine. Ciò posto, poiché l'art. 875 toglie oggi tale impedimento, niente osta a che il proprietario del fondo valendosi dell'art. 875 acquisti la comunione del muro e chiuda le finestre appoggiandovi il suo edificio, così come le leggi preesistenti gliene davano il diritto per le finestre al confine.

Diverso è il caso delle finestre aperte sotto le leggi preesistenti a distanza di un metro e mezzo o maggiore, ma minore di tre metri. Benché anche esse fossero state aperte iure dominii, e non dessero quindi origine a nessun diritto di servitù, tuttavia dal momento in cui è entrato in vigore il codice italiano del 1865, esse restarono comprese nella disposizione dell'art. 587 (attuale art. 905). E quindi è obbligatoria di fronte ad esse la distanza di tre metri (v. sopra).

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

427 Meno sensibili sono le innovazioni introdotte in tema di vedute o prospetti. Si è lasciata immutata la distanza di un metro e mezzo per le vedute dirette, precisando, tuttavia, che la distanza va osservata anche per le terrazze, per i lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino (art. 905 del c.c.). Per le vedute laterali od oblique, invece, soppressa l'inopportuna eccezione contenuta nel secondo comma dell'art. 588 del codice del 1865, la distanza è stata elevata a settantacinque centimetri (art. 906 del c.c.), sembrando insufficiente la distanza di mezzo metro stabilita dal codice anteriore. Si è inoltre precisato (art. 907 del c.c.) che, quando si è acquistato il diritto di avere una veduta diretta verso il fondo del vicino, il proprietario di questo deve osservare, nel fabbricare, la distanza di tre metri non soltanto di fronte, ma anche al di sotto della finestra; se poi questa forma nello stesso tempo veduta obliqua, deve altresì osservare la distanza di tre metri dai lati di essa.

Massime relative all'art. 907 Codice Civile

Cass. civ. n. 12202/2022

La disposizione dell'art. 907, terzo comma, c.c., secondo cui le nuove costruzioni in appoggio al muro devono rispettare la distanza di tre metri dalla soglia delle vedute preesistenti, deve essere intesa nel senso che tale distanza opera, anche in senso verticale, nei riguardi delle costruzioni sottostanti non solo le finestre ma anche i balconi con riguardo al loro piano di calpestio. Ed infatti, ai fini della disposizione anzidetta, il termine costruzione non va inteso in senso restrittivo di manufatto in calce o in mattoni o in conglomerato cementizio, ma in quello di qualsiasi opera che, qualunque ne sia la forma e destinazione, ostacoli l'esercizio di una veduta. È altrettanto pacifico che la distanza di tre metri dalle vedute prescritta dall'art. 907 c.c. per le nuove costruzioni, al pari di ogni altra distanza prescritta dalla legge per disciplinare i rapporti di vicinato, ha carattere assoluto, essendo stata predeterminata dal legislatore in via generale ed astratta, senza che al giudice sia consentito alcun margine di discrezionalità sia nella valutazione della esistenza della violazione della distanza, sia nella valutazione relativa alla dannosità e pericolosità della posizione della nuova costruzione rispetto alla veduta del vicino.

Cass. civ. n. 36122/2021

Il diritto al rispetto delle distanze delle vedute ha natura assoluta, senza che risulti discriminante distinguere tra costruzioni in appoggio e costruzioni in aderenza.

Cass. civ. n. 23184/2020

L'eliminazione delle vedute abusive può essere realizzata non solo mediante la demolizione delle porzioni immobiliari per mezzo delle quali si realizza la violazione lamentata, ma anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui o attraverso l'arretramento della costruzione, che il giudice può disporre, in alternativa alla demolizione, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, essendo tale decisione contenuta nella più ampia domanda di demolizione. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO FIRENZE, 04/12/2018).

Cass. civ. n. 5732/2019

Il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell'edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino che, direttamente o indirettamente, pregiudichi tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l'art. 907 c.c. il bilanciamento tra l'interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, poiché luce ed aria assicurano l'igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita. (Rigetta, CORTE D'APPELLO BOLOGNA, 30/01/2015).

Cass. civ. n. 26263/2018

Il divieto di costruire a distanza inferiore a tre metri da una preesistente veduta, stabilito dall'art. 907 c.c. a salvaguardia di tale diritto, riguarda in genere una "fabbrica" realizzata a distanza inferiore da quella prevista dalla legge, di qualsiasi materiale e forma, idonea ad ostacolare stabilmente l'esercizio della "inspectio" e della "prospectio" e, quindi, anche i muri di cinta, i quali - secondo la previsione di cui all'art. 878, comma 1, c.c. - sono soltanto esentati dal computo della distanza tra costruzioni su fondi finitimi di cui all'art. 873 c.c. e non anche dall'osservanza delle distanze stabilite a tutela delle vedute. (In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte di merito aveva negato che una vetrata fosse «di impedimento alle vedute attoree», argomentando, fra l'altro, in base all'art. 878 c.c. che non è invece applicabile in materia di distanza dalle vedute).

Cass. civ. n. 11287/2018

La titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell'azione volta ad ottenere l'osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all'art. 907 c.c. e, come tale, va accertata anche d'ufficio dal giudice, salvo che da parte del convenuto vi sia stata ammissione, esplicita o implicita, purché inequivoca, della sussistenza di tale diritto.

Cass. civ. n. 15244/2017

Il diritto di veduta sancito dall’art. 907 c.c. intende assicurare, attraverso l'esercizio della "inspectio" e della "prospectio", la piena e completa visione del fondo servente in ogni direzione, sia in orizzontale, che in verticale, che, eventualmente, in maniera obliqua, ed impone, pertanto, che la distanza della nuova costruzione dalla preesistente veduta sia misurata in maniera radiale, non rilevando in senso contrario che la conformazione fisica dei luoghi impedisca la veduta cd. "in appiombo".

Cass. civ. n. 26383/2016

Posto che nella disciplina legale dei "rapporti di vicinato" l'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione "pareti finestrate" contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 - il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti - non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come "vedute", senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette "lucifere".

Cass. civ. n. 16808/2016

La disciplina sulle distanze delle costruzioni dalle vedute, di cui all'art. 907 c.c., ha natura giuridica, presupposti di fatto e contenuto precettivo diversi da quella delle distanze tra costruzioni, di cui all'art. 873 c.c., poiché la prima mira a tutelare il proprietario del bene dall'indiscrezione del vicino, mentre la seconda è volta ad evitare la formazione di intercapedini dannose, sicché incorre nel vizio di extrapetizione il giudice che, a fronte di una domanda che denuncia la violazione delle distanze tra le costruzioni, condanni il convenuto per la violazione dell'art. 873 c.c.

Cass. civ. n. 19429/2013

Il divieto di fabbricare a distanza minore di tre metri dalle vedute, sancito dall'art. 907 c.c., intende assicurare al titolare del diritto di veduta aria e luce sufficienti all'esercizio della "inspectio" e della "prospectio", sicché il giudice di merito, pur in presenza dell'accertata violazione della distanza, è tenuto a valutare specificamente se l'opera edificata (nella specie, un'inferriata di recinzione) ostacoli l'esercizio della veduta.

Cass. civ. n. 12051/2013

In tema di distanze delle costruzioni dalle vedute, agli effetti dell'art. 907 cod. civ., il divieto di fabbricare opere in pregiudizio dell'esercizio di una servitù di veduta, supponendo una modifica dell'assetto dei luoghi richiedente un'attività costruttiva, non può estendersi alla creazione di barriere naturali, quali le siepi vive, cui è applicabile la diversa disciplina prevista dall'art. 892, primo comma, n. 3, cod. civ.

Cass. civ. n. 955/2013

Il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell'edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino (nella specie, un pergolato realizzato a copertura del terrazzo del rispettivo appartamento), che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l'esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l'art. 907 c.c. il bilanciamento tra l'interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l'igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita.

Cass. civ. n. 79/2013

In tema di distanza delle costruzioni dalle vedute, l'obbligo del proprietario di non fabbricare a distanza minore di tre metri dai lati della finestra da cui si esercita sia la veduta diretta che la veduta obliqua, ai sensi dell'art. 907, secondo comma, c.c., sussiste solo nel caso in cui la duplice veduta sia aperta verso lo stesso fondo.

Cass. civ. n. 20699/2012

Per effetto delle limitazioni previste dall'art. 907 c.c. a carico del fondo su cui si esercita una veduta (sia che questa sia stata aperta "jure servitutis", sia che venga esercitata "jure proprietatis"), deve osservarsi un distacco di tre metri in linea orizzontale dalla veduta diretta, da rispettare eventualmente anche dai lati della finestra da cui si esercita la veduta obliqua, dovendosi osservare analogo distacco anche in senso verticale per una profondità di tre metri al di sotto della soglia della veduta. Nel caso di veduta diretta e obliqua, la distanza minima di tre metri "sotto soglia", prescritta dal terzo comma dell'art. 907 cit., non va, peraltro, considerata solo in linea perpendicolare rispetto al davanzale della finestra, ma si estende in basso anche obliquamente rispetto ai punti estremi di tale davanzale.

Cass. civ. n. 11729/2012

Al proprietario del fondo gravato da una servitù di veduta è vietato costruire a meno di tre metri dal lato inferiore dell'apertura dalla quale si esercita la veduta, distanza che va rispettata sia nella sua proiezione orizzontale, sia in quella verticale. La violazione di tale distanza minima di rispetto, tuttavia, comporterà per il proprietario del fondo servente non già l'obbligo di demolire la nuova costruzione, ma solo di arretrarla sino a quando sia ripristinata la suddetta distanza minima.

Cass. civ. n. 4608/2012

La distanza minima di tre metri che, ai sensi dell'art. 907 c.c., deve separare il fondo del titolare d'una servitù di veduta dalla costruzione realizzata dal proprietario del fondo servente, deve sussistere non solo tra la veduta e la parte di costruzione che le sta di fronte, ma anche tra la prima e la parte di costruzione che si trova lateralmente o al di sotto di essa (nella specie, il proprietario di un terrazzo a livello, posto al di sotto di un ballatoio il cui proprietario era titolare del diritto di veduta, aveva realizzato una tettoia sporgente rispetto alla proiezione verticale del ballatoio. Il proprietario di quest'ultimo aveva perciò chiesto la demolizione della tettoia, ma il giudice di merito l'aveva accordata solo "fino alla distanza di metri tre dal margine esterno" del ballatoio. La S.C., applicando il principio di cui alla massima, ha cassato tale decisione).

Cass. civ. n. 22954/2011

In tema di distanze legali, l'obbligo di tenere la nuova costruzione a distanza di tre metri dalla soglia della veduta obliqua esistente nel fabbricato del vicino trova applicazione, a norma dell'art. 907, terzo comma, c.c., non solo in caso di costruzione in appoggio, ma anche nell'ipotesi (di specie) di costruzione in aderenza al muro sul quale si apre detta veduta.

Cass. civ. n. 12033/2011

L'obbligo di costruire a non meno di tre metri dalle vedute dirette aperte nella costruzione esistente sul fondo vicino, di cui all'art. 907 c.c., ha natura assoluta e va osservato anche quando l'erigenda costruzione non sia tale da impedire di fatto l'esercizio della veduta, mentre una valutazione circa l'idoneità dell'opera ad ostacolare il diritto di veduta può venire in rilievo soltanto quando si intenda erigere un manufatto diverso da una costruzione in senso tecnico. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto irrilevante, ai fini dell'esonero dal rispetto della distanza minima prescritta dall'art. 907 c.c., la circostanza che l'erezione di un muro di cinta, da intendersi quale costruzione in senso proprio, non avesse impedito l'esercizio del diritto di veduta al proprietario del fondo vicino).

Cass. civ. n. 7772/2011

La servitù di veduta o prospetto, goduta dal proprietario di un edificio sul sottostante tetto a piano inclinato dell'edificio contiguo, impedisce qualsiasi innalzamento del tetto, che incida negativamente sull'esercizio del diritto di veduta nella sua naturale espansione, anche se la distanza tra il fondo dominante e quello servente, per una situazione di fatto consolidata, risulti già inferiore ai limiti stabiliti dalla legge.

Cass. civ. n. 11956/2009

In materia di luci e di vedute, il diritto di proprietà di un immobile fronteggiante il fondo altrui non può attribuire, in assenza di titoli specifici (negoziali o originari, come l'usucapione), anche l'acquisto della servitù di veduta; ne consegue che una situazione di mero fatto - che si sia concretizzata nell'esistenza, a distanza inferiore di quella prescritta dall'art. 905 c.c., di aperture che consentano la "inspectio" e la "prospectio" nel fondo confinante - non è di per sé suscettibile di tutela in via petitoria, al fine di pretendere, da parte del vicino che edifichi sul proprio fondo, l'osservanza delle distanze previste dall'art. 907 c.c.

Cass. civ. n. 21501/2007

In tema di violazione delle norme sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, ai sensi dell'articolo 907 c.c., per costruzione deve intendersi l'opera destinata per la sua funzione a permanere nel tempo, e, tuttavia, il carattere di precarietà della medesima non esclude la sua idoneità a costituire turbativa del possesso della veduta come in precedenza esercitata dal titolare del diritto.

Cass. civ. n. 22838/2005

Il principio secondo cui in materia di condominio trovano applicazione le norme sulle distanze legali (nella specie con riferimento al diritto di veduta) non ha carattere assoluto, non derogando l'art. 1102 c.c. al disposto dell'art. 907 c.c., giacché, dovendosi tenere conto in concreto della struttura dell'edificio, delle caratteristiche dello stato dei luoghi e del particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, il giudice di merito deve verificare, nel singolo caso, se esse siano o meno compatibili con i diritti dei condomini. (Nella specie, gli attori avevano chiesto la rimozione di una tenda installata dalla convenuta nel balcone di sua proprietà, lamentando la lesione del diritto di veduta laterale dai medesimi esercitato dal balcone di loro proprietà ubicato a fianco di quello della convenuta; la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda, aveva ritenuto l'inapplicabilità delle norme sulle distanze in materia di vedute sul rilievo che i due balconi si trovavano a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 907 c.c.).

Cass. civ. n. 5764/2004

In tema di distanza delle costruzioni dalle vedute, se la ratio dell'art. 907 c.c., il quale fa divieto di fabbricare a distanza minore di tre metri dalla veduta del vicino, è quella di assicurare al titolare del diritto di veduta sufficiente aria e luce consentendogli l'esercizio dell'inspectio e della prospectio, l'accertamento e la valutazione della idoneità della costruzione a non ostacolare la fruizione di tali beni, nonché a non determinare modifica sostanziale di qualsivoglia altra situazione di godimento in cui si esplica il potere riconosciuto al titolare di veduta, richiedono al giudice una motivazione congrua e adeguata. (In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza del tribunale perché la motivazione del giudice di appello si esauriva nella mera ripetizione dell'apprezzamento espresso dal giudice di primo grado, laddove tale apprezzamento — riguardante una tettoia di materiale plastico di spessore sottile e di colore trasparente — era stato contestato e messo in discussione, con il gravame).

Cass. civ. n. 12479/2002

In tema di distanze tra costruzioni, il disposto di cui all'art. 907, comma secondo, c.c., postula, per la sua applicazione, l'esistenza di una veduta diretta, ovvero di una veduta diretta che formi anche una veduta obliqua, non anche solo obliqua (e, tanto meno, soltanto laterale).

Cass. civ. n. 16117/2001

Il divieto di costruire a distanza inferiore a tre metri dalle vedute del vicino sussiste, se la costruzione appoggia sul muro su cui si apre la veduta, ancorché eretta su suolo pubblico, perché per l'esclusione del suddetto obbligo, a norma dell'art. 879, secondo comma, c.c., è necessario che la costruzione e la veduta siano separati da una pubblica via, non nel medesimo lato di essa.

Cass. civ. n. 4712/2001

L'obbligo di rispettare le distanze per l'apertura di vedute sul fondo vicino non viene meno se la presenza di muri divisori o altre barriere impediscono in concreto l'affaccio sul medesimo.

Cass. civ. n. 15394/2000

Le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale nel caso in cui esse siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative all'uso delle cose comuni (art. 1102 c.c.), cioè nel caso in cui l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile un'applicazione complementare; nel caso di contrasto, prevalgono le norme relative all'uso delle cose comuni, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra il singolo condomino ed il condominio stesso, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (nella specie, si trattava della installazione, in appoggio al muro condominiale ed in prossimità della finestra di un condomino, della canna fumaria di un locale di altro condomino adibito ad esercizio di pizzeria).

Cass. civ. n. 13012/2000

Il proprietario o condomino il quale realizzi un manufatto in appoggio o in aderenza al muro in cui si apre una veduta diretta o obliqua esercitata da un sovrastante balcone, e lo elevi sino alla soglia del balcone stesso, non è soggetto, rispetto a questo, alle distanze prescritte dall'art. 907, comma terzo, c.c. nel caso in cui il manufatto sia contenuto nello spazio volumetrico delimitato dalla proiezione verticale verso il basso della soglia predetta, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario del piano di sopra. Infatti, tra le normali facoltà attribuite al titolare della veduta diretta od obliqua esercitata da un balcone è compresa quella di «inspicere» e «prospicere» in avanti e a piombo, ma non di sogguardare verso l'interno della sottostante proprietà coperta dalla soglia del balcone, non potendo trovare tutela la pretesa di esercitare la veduta con modalità abnormi e puramente intrusive, ossia sporgendosi oltre misura dalla ringhiera o dal parapetto.

L'art. 907 c.c. in tema di distanze delle costruzioni dalle vedute è applicabile anche nei rapporti tra condomini di un edificio non derogando l'art. 1102 c.c. al disposto del citato art. 907 c.c.

Cass. civ. n. 4976/2000

In ipotesi di nuova costruzione, l'obbligo della distanza in verticale di 3 metri dalla soglia delle vedute esistenti nel fabbricato del vicino va osservato in ogni caso, senza alcuna distinzione tra costruzioni in appoggio e costruzioni in aderenza.

Cass. civ. n. 1832/2000

Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui al terzo comma dell'art. 907 c.c., relativa alla distanza minima di tre metri in linea verticale da osservarsi nel caso dell'esistenza, nel muro del fabbricato altrui, di una veduta diretta, all'ipotesi della costruzione da realizzarsi in appoggio va equiparata quella della costruzione da realizzarsi in aderenza.

Cass. civ. n. 13196/1999

Anche nell'ambito di un condominio si rendono configurabili e tutelabili l'esistenza e l'esercizio di una servitù di veduta a favore della singola porzione di proprietà esclusiva ed a carico di un'altra.

Cass. civ. n. 6897/1999

In tema di distanze legali il limite di tre metri stabilito dall'art. 907 c.c. è inapplicabile allorquando le vedute esistenti sull'immobile vicino siano state aperte a distanza minore, cioè a titolo di servitù. In tal caso, colui che esegue le nuove opere, è obbligato a non ledere tale diritto, mentre può legittimamente eseguire sulla sua proprietà tutte le innovazioni che con esso non contrastino.

Cass. civ. n. 5390/1999

Le vedute implicano il diritto ad una zona di rispetto che si estende per tre metri in direzione orizzontale dalla parte più esterna della veduta e per tre metri in verticale rispetto al piano corrispondente alla soglia della veduta medesima, sicché ogni costruzione che venga a ricadere in questa zona è illegale e va rimossa.

Cass. civ. n. 4526/1998

L'obbligo di costruire rispettando la distanza stabilita dall'art. 907 c.c. dalla veduta diretta del vicino sussiste anche se tra i due fondi vi è un'intercapedine o la costruzione di un terzo, che non ne pregiudica però l'esercizio, perché tale norma non richiede che i predetti fondi siano confinanti, e perché tale obbligo viene meno soltanto se tra di essi vi è una strada o piazza pubblica.

Cass. civ. n. 12299/1997

L'obbligo di osservare la distanza di tre metri dalle vedute dirette aperte nella costruzione eretta sul fondo finitimo di cui all'art. 907 c.c., integrando gli estremi di un divieto assoluto (e, come tale, indipendente dalla esistenza e dalla misura di un concreto nocumento all'esercizio della veduta medesima), va osservato anche quando la erigenda costruzione sia costituita da un muro di cinta, essendo l'esonero dal rispetto delle distanze legali previsto per questo manufatto (art. 878 c.c.) espressamente limitato a quelle di cui all'art. 873 c.c., onde il dovere del proprietario, che intenda proteggere il fondo dalle indebite intrusioni altrui con un muro, di erigerlo a distanza legale dalle vedute del vicino, aperte tanto iure proprietatis quanto iure servitutis.

Cass. civ. n. 2180/1997

In relazione al principio secondo cui l'obbligo del proprietario del fondo vicino di non fabbricare a distanza inferiore ai tre metri dai lati della finestra da cui si sia acquisito il diritto di esercitare sia veduta diretta che veduta obliqua (art. 907, secondo comma, c.c.) sussiste solo nel caso in cui la duplice veduta si eserciti sullo stesso fondo, non osta all'unicità del fondo l'esistenza di più particelle catastali e la diversità delle relative destinazioni d'uso, se sussiste un'unitaria destinazione economico sociale del bene, tenuto conto della conformazione, ubicazione, funzione e reciproca interrelazione delle varie componenti immobiliari, alla luce anche dell'atto di acquisto. (Nella specie la sentenza impugnata, annullata dalla S.C. perla violazione dei principi suindicati, aveva dato preminente rilievo alla destinazione catastale di una particella ad abitazione e dell'altra a vigna, senza considerare la configurabilità di una casa con vigna come bene unitario).

Cass. civ. n. 1261/1997

La veduta laterale, che ricorre quando il confine del fondo del vicino ed il muro dal quale si esercita la veduta formano un angolo di 180 gradi, può essere esercitata, oltre che di lato, anche in basso, verticalmente, assumendo, così, le caratteristiche della veduta in appiombo, che deve, perciò, considerarsi espressamente ammessa dal codice civile che, proprio per specificare i limiti normali di tale veduta (e della veduta obliqua in basso), impone a colui che vuole appoggiare la nuova costruzione al muro da cui si esercita la veduta di arrestarsi almeno a tre metri sotto la soglia della medesima (art. 907 c.c.). Ricorre, conseguentemente, la servitù di veduta in appiombo tutte le volte in cui, per i maggiori contenuti della zona di rispetto prevista nel caso concreto, essa determini, per il fondo sul quale si esercita verticalmente, una restrizione dei poteri normalmente inerenti al diritto di proprietà delineati dalle norme sulle distanze, risolvendosi così in un peso imposto a tale fondo per il vantaggio (utilità) del fondo dal quale la veduta si esercita, come nel caso delle vedute esercitate anche verticalmente dai proprietari dei singoli piani di un edificio condominiale dalle rispettive aperture fino alla base dell'edificio.

Cass. civ. n. 3109/1993

Il condomino che abbia trasformato il proprio balcone in veranda, elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, non è soggetto, rispetto a questa, all'osservanza delle distanze prescritte dall'art. 907 c.c. nel caso in cui la veranda insista esattamente nell'area del balcone, senza debordare dal suo perimetro, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario del balcone sovrastante, giacché l'art. 907 citato non attribuisce a quest'ultimo la possibilità di esercitare dalla soletta o dal parapetto del suo balcone una inspectio o prospectio obliqua verso il basso e contemporaneamente verso l'interno della sottostante proprietà.

Cass. civ. n. 1598/1993

Ai fini dell'art. 907 c.c., il quale fa divieto di fabbricare a distanza minore di tre metri dalla veduta del vicino, il concetto di fabbricare non riguarda esclusivamente i fabbricati in calce o mattoni e cemento, cioè le opere che abbiano le caratteristiche di un edificio o di una fabbrica in muratura, ma comprende ogni opera avente il carattere della stabilità ed una certa consistenza, indipendentemente dalla natura del materiale con cui è stata realizzata, dalla forma e dalla destinazione di essa, sempre che l'opera diversa dal fabbricato in senso proprio e tecnico ostacoli l'esercizio della veduta del proprietario del fondo vicino. Pertanto la fissazione di una rete plastificata con collegamento precario alla parete sottostante la veduta non realizza un manufatto idoneo ad incidere negativamente sull'esercizio del diritto di veduta, ove, secondo l'apprezzamento del giudice del merito, non comporti un ostacolo alla fruizione di aria e luce nella zona di rispetto, né una modificazione sostanziale di qualsivoglia altra situazione di godimento in cui si esplica il potere riconosciuto al titolare del diritto di veduta dall'art. 907 cit.

Cass. civ. n. 2873/1991

Le disposizioni sulle distanze delle costruzioni dalle vedute si osservano anche nei rapporti fra condomini di un edificio, non derogando l'art. 1102 c.c. al disposto dell'art. 907 stesso codice. Tuttavia non può considerarsi «costruzione» vietata da quest'ultima disposizione una tenda di tela scorrevole con comando a manovella, pure se situata a distanza inferiore a tre metri dal balcone o dalla finestra del piano sovrastante, ancorché siano necessari per farla funzionare dei sostegni fissi, atteso che tale tenda, non pregiudica permanentemente la prospectio né diminuisce l'aria e la luce al condomino del piano sovrastante.

Cass. civ. n. 11705/1990

A norma dell'art. 907 c.c., la veduta diretta gode di una zona di rispetto di tre metri, sia in linea orizzontale che verticale, con la conseguenza che, nel caso di costruzioni in appoggio o in aderenza al muro nel quale la veduta si apre, detta costruzione deve arrestarsi in altezza a tre metri della soglia della soprastante veduta e tale distanza deve essere rispettata anche in linea orizzontale, con riferimento al punto di arresto della costruzione in altezza.

Cass. civ. n. 1268/1989

Il divieto di fabbricare a distanza inferiore a tre metri dalla veduta diretta del vicino (art. 907 c.c.) riguarda le costruzioni - non in appoggio o in aderenza - che raggiungono o superano in altezza il livello della veduta, mentre non opera per le costruzione che non eccedono detto livello, le quali, solo se appoggiate al muro in cui è aperta la veduta diretta, devono arrestarsi almeno tre metri sotto la sua soglia ai sensi del terzo comma del citato art. 907, restando in diversa ipotesi soggette solo alla disciplina dell'art. 873 c.c. in tema di distanze tra le costruzioni.

La trasformazione di un tetto in terrazza, anche se comporti un leggero innalzamento del livello di quota dei fabbricati, non è idoneo in sé e per sé ad alterare il contenuto di una servitù di veduta in precedenza esercitata sul tetto, a meno che il titolare di essa non provi che un uso abnorme del terrazzo o l'innalzamento del fabbricato abbiano in concreto modificato, riducendolo, il suo diritto.

Cass. civ. n. 4209/1987

A norma dell'ultimo comma dell'art. 907 c.c., secondo cui se si vuole appoggiare una nuova costruzione al muro, in cui vi sono vedute dirette ed oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia, quando la veduta è esercitata da un balcone anzi che da una finestra, per soglia deve intendersi il piano di calpestio del balcone stesso, sicché da questo e non dal margine superiore della ringhiera del balcone stesso operano i limiti di distanza previsti dalla citata norma).

Cass. civ. n. 1058/1986

L'eccezionale non computabilità ai fini delle distanze può riguardare solo gli oggetti di modeste dimensioni e aventi funzione meramente decorativa o di rifinitura; pertanto, la costruzione di una soletta in cemento armato, sporgente in corrispondenza di un'apertura dei muri perimetrali di un edificio, è sufficiente a far nascere a favore del preveniente il diritto verso il vicino al rispetto delle distanze, di cui agli artt. 873 e 907 c.c., quando tale soletta costituisca la base di una balconata da rifinire.

Cass. civ. n. 4512/1985

La sussistenza di una veduta, anche al fine dell'assoggettamento della costruzione del vicino alle distanze fissate dall'art. 907 c.c., deve essere riconosciuta in presenza di una situazione che consenta di esercitare la inspectio e la prospectio sul fondo di detto vicino, mentre resta in proposito irrilevante che tale esercizio non sia ameno (nella specie, trattandosi di affaccio su un angusto cortile), ovvero fornisca al fondo dominante una ridotta utilitas (nella specie, in relazione alla sua destinazione non abitativa).

Cass. civ. n. 3859/1985

Qualora il proprietario esclusivo del terrazzo a piano attico di edificio condominiale agisca, in via possessoria, per denunciare che altro condomino, collocando una canna fumaria in aderenza al muro perimetrale e prolungandola oltre la ringhiera di detto terrazzo, ha arrecato pregiudizio al suo godimento di veduta, l'indagine sulla legittimità del fatto denunciato, nei limiti in cui sia consentita nel giudizio possessorio, va condotta con riferimento all'art. 907 c.c. (distanza delle costruzioni dalle vedute), non all'art. 1102 c.c. (uso della cosa comune), tenuto conto che la suddetta domanda è rivolta a tutelare il possesso del singolo appartamento, non il compossesso di un bene condominiale.

Cass. civ. n. 4384/1982

Qualora sia stata aperta una veduta a distanza minore di un metro e mezzo dal confine del fondo vicino, il proprietario di quest'ultimo, ove intenda costruire, non è esonerato dall'obbligo (ex art. 907 c.c.) di mantenere il fabbricato a distanza non minore di tre metri, misurata a norma dell'art. 905 c.c. potendo soltanto agire — quale titolare di un diritto soggettivo al rispetto della distanza legale — per l'eliminazione della veduta. In quest'ultimo caso il proprietario che abbia aperto la veduta può opporre il diritto di arretrare la stessa fino al limite della distanza, anche mediante mezzi tecnici correttivi, idonei a rendere l'arretramento effettivo, permanente e controllabile dall'esterno, con la conseguenza che solo ove non si verifichi tale ultima situazione, il proprietario del fondo vicino potrà osservare —rispetto al fabbricato nel quale era stata aperta la veduta — la distanza prevista dall'art. 873 c.c., da misurare cioè tra i muri perimetrali, salvo le ulteriori soluzioni in base al principio della prevenzione.

Cass. civ. n. 3742/1982

Con riguardo a fabbricati in aderenza od appoggio sul confine fra due fondi, la sopraelevazione dell'uno, che non venga effettuata sul filo della preesistente costruzione, deve osservare dall'altro fabbricato, indipendentemente dal superamento o meno del livello di quest'ultimo, il distacco minimo previsto dal codice civile o dai regolamenti locali. Pertanto, ove tale sopraelevazione venga illegittimamente attuata con un arretramento della precedente linea costruttiva inferiore al distacco suddetto, deve escludersi la facoltà di aprire una veduta sulla sopraelevazione medesima (salvo il suo acquisto iure servitutis), mancando la prescritta distanza rispetto alla costruzione del vicino, e, correlativamente, deve escludersi che detta veduta, ove realizzata, possa essere invocata per imporre al vicino di rispettare, nella propria successiva sopraelevazione, la distanza prevista dall'art. 907 c.c.

Cass. civ. n. 1425/1982

L'art. 907 c.c. — essendo diretto a prevenire od eliminare, a salvaguardia dell'igiene e della sicurezza pubblica, intercapedini eccessivamente anguste, così da assicurare aria e luce in quantità sufficiente, ed avendo come ulteriore specifica ratio la tutela dell'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo avente carattere di stabilità — concerne le sole opere idonee ad incidere negativamente su tali finalità.

Cass. civ. n. 1225/1982

La norma dell'art. 907 c.c. che stabilisce il divieto di costruire a distanza inferiore a tre metri dalle vedute del vicino, non è applicabile nel caso in cui i fondi vicini siano separati da una strada pubblica.

Cass. civ. n. 3457/1978

Il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino rende illegittima da parte del proprietario di questo la costruzione di qualunque manufatto a distanza minore di quella fissata dall'art. 907 c.c., che intralci non solo la possibilità di guardare (inspicere) e di affacciarsi (prospicere) sul fondo stesso, ma anche quella di ricevere da esso luce ed aria. Deve perciò ritenersi illegittima l'installazione di vetro traslucido a distanza inferiore a quella legale.

Cass. civ. n. 4719/1977

La convenzione con la quale il proprietario di un fabbricato consenta al vicino di aprire vedute a distanza inferiore a quella legale, costituisce una servitù di veduta in favore del fondo confinante, e non una servitù in favore di quel fabbricato, avente ad oggetto il diritto di mantenerlo a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 907 c.c., dal momento che tale ultima servitù presuppone la posteriorità della costruzione rispetto alla veduta.

Cass. civ. n. 4554/1976

Quando si è acquistato il diritto di avere una veduta verso il fondo vicino, il proprietario di questo, ove intenda costruire, deve rispettare le distanze previste dall'art. 907 c.c., la cui deroga può essere consentita solo in forza di conforme servitù prediale, a carico del fondo dal quale si esercita la veduta. La costituzione contrattuale di tale servitù richiede un patto che ne specifichi chiaramente gli estremi, e, pertanto, non può essere desunta dalla sola circostanza della concessione della comproprietà del muro perimetrale su cui si apre la veduta.

Cass. civ. n. 3763/1976

L'obbligo, posto dall'art. 907, secondo comma, c.c., a carico del proprietario del fondo vicino, di non fabbricare a distanza inferiore a tre metri dai lati della finestra dalla quale si esercita la veduta obliqua, concerne la sola ipotesi in cui la veduta obliqua coesista con la veduta diretta sullo stesso fondo e non anche il caso in cui la veduta obliqua incida su di un fondo diverso da quello sul quale si esercita la veduta diretta. In quest'ultima ipotesi trova applicazione la diversa norma di cui all'art. 906 c.c. e la distanza da osservarsi è solo quella di settantacinque centimetri dal più vicino lato della finestra obliqua.

Cass. civ. n. 56/1976

La norma di cui al terzo comma dell'art. 907 c.c. secondo cui, quando si è acquistato il diritto di aprire jure proprietatis o jure servitutis vedute dirette sul fondo vicino, le costruzioni erette su quest'ultimo debbono rispettare la distanza di tre metri — in senso verticale al di sotto della soglia della veduta, è applicabile anche nel caso in cui la costruzione non realizzata in appoggio al muro in cui è aperta la veduta, sorga a meno di tre metri, in senso orizzontale, dalla veduta stessa; in tal caso, la distanza in senso verticale va calcolata come se la costruzione fosse stata eseguita in appoggio, con la conseguenza che la demolizione può essere disposta soltanto per la parte di essa che idealmente proiettata sul muro in cui si apre la veduta, invada lo spazio di tre metri calcolato in senso verticale al di sotto della soglia della veduta medesima.

Cass. civ. n. 1927/1974

L'art. 907 c.c., nella parte in cui prescrive una distanza verticale di tre metri dalla soglia della veduta per le nuove costruzioni, presuppone che queste ultime siano appoggiate al muro in cui è aperta la veduta; diversamente si applicano le distanze previste in via orizzontale e laterale.

Cass. civ. n. 1598/1974

L'apertura di un balcone non costituisce «costruzione», ai sensi dell'art. 907 c.c. ma è disciplinata dagli artt. 905, 906 c.c.

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Consulenze legali
relative all'articolo 907 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

G. Z. chiede
sabato 21/09/2024
“Buongiorno,
ho un appartamento sito al primo piano in un condominio. Il condomino, che ha una appartamento al piano terra e sottostante al mio, ha installato un gazebo nel suo giardino con il voto favorevole dell’assemblea condominiale, in cui aveva chiesto genericamente l'autorizzazione ad in stallare un gazebo. A questa assemblea condominiale io non ho potuto partecipare. Il gazebo in questione, a mio avviso, non rispetta l'art. 907 sul diritto di veduta in quanto la distanza del suo gazebo dal mio poggiolo è di circa 1 metro e dalla mia finestra di circa 2 metri.
Inoltre, il gazebo, mi crea un problema di sicurezza, perché anche se il gazebo non è ancorato a terra, ha dei pesi alle basi dei quattro lati, è una struttura molto robusta, e un malintenzionato può accedere al mio poggiolo arrampicandosi sulla struttura del gazebo.
Penso anche che vi sia un problema di "decoro architettonico" in quanto il gazebo è brutto da vedere e quando la tenda non viene stesa, si vede la struttura del gazebo con i tubolari. Il gazebo è visibile non solo dagli altri appartamenti posti ai 1° e 2° piani, ma anche dalla strada pubblica.
Ho fatto presente al condomino in questione le irregolarità del suo gazebo, ma a tutt'ora non ha intenzione di toglierlo.
Chiedo un V/s parere in merito e cosa posso fare per far valere i miei diritti.
Vi ringrazio e auguro una buona giornata

Consulenza legale i 27/09/2024
Sulla base di quello che lei riferisce nel quesito non è scontato che si possa raggiungere l’obbiettivo della rimozione del gazebo. Se si analizza la giurisprudenza in materia sia in tema di distanze ma anche quella più specifica in materia di luci e vedute, si evince come per i giudici la costruzione idonea a violare la normativa sulle distanze luci e vedute, è quella che presenta uno stabile ancoraggio al terreno. Difficilmente, quindi, in un contenzioso il giudice considererà violata tale normativa in presenza di un semplice gazebo: in questo senso, vi sono innumerevoli sentenze sia delle corti di merito che del giudice di legittimità che danno torto al condomino che ha adito il giudice proprio sostenendo la violazione delle norme sulle distanze legali. Ad esempio in Cass.Civ ord. n. 9004/20 del 15.05.2020 si dice che il manufatto non ancorato al suolo non può considerarsi costruzione ai sensi della normativa delle distanze legali.

Purtroppo, i medesimi dubbi permangono anche se si affronta il problema dal punto di vista del decoro architettonico dello stabile. “In tema di condominio, per <>, ai fini della tutela prevista dall'art. 1120 cod. civ., deve intendersi l'estetica dell'edificio, costituita dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico” (Sez. 2, Sentenza n. 27551 del 14/12/2005, Rv. 585767 - 01)

Il gazebo può senza dubbio apportare quella alterazione alle linee del fabbricato che possono integrare una lesione al decoro: in questo senso Cass.Civ. n. 24305 /08, ha chiarito come il condominio possa ordinare al proprietario di rimuovere il gazebo che sia stato collocato sul terrazzo condominiale, laddove le sue caratteristiche estetiche non siano in armonia con quelle del terrazzo stesso. E’ anche vero però che affinché vi possa essere una effettiva lesione del decoro è necessario che la costruzione che la causa abbia degli effettivi caratteri di stabilità (un pergolato una tettoia), proprio perché la lesione deve avere dei caratteri permanenti: non è scontato quindi che il giudice adito possa scorgere tale lesione in un gazebo privo di ancoraggio a terra.

Ovviamente quanto detto non significa che non si possa tentare di radicare un contenzioso, certo che nel farlo si deve tener presente la giurisprudenza non nettamente favorevole alle ragioni dell’autore del quesito. Tra l’altro, trattandosi di materia condominiale una causa come quella descritta deve obbligatoriamente essere preceduta dalla instaurazione di una procedura di mediazione ex D.Lgs. n.28/10: questa è la sede sicuramente ideona in casi analoghi per giungere ad un accomodamento bonario di liti di questa natura, la quale, sicuramente, può essere anche il punto di caduta perfetto per la vicenda descritta.


G. Z. chiede
mercoledì 06/03/2024
“Premesso che si tratta di un immobile trifamiliare, due proprietari al piano rialzato e un solo proprietario al primo piano, non e costituito nessun condominio.
Il mio appartamento "A" è stato diviso in modo che la finestra del mio bagno (veduta ) si affacciasse nel giardino privato del vicino. Originariamente sul parte sinistra della mia finestra persisteva una scala che dava l'accesso in casa al proprietario dell'appartamento "B". Le misure originarie dal pavimento del giardino privato dell'appartamento "B" fino alla soglia della finestra (veduta) dell'appartamento "A" erano di circa 2.50 metri. Il nuovo proprietario dell'appartamento "B" essendo disabile ha eliminato la scala e ha costruito una rampa in cemento in aderenza al muro comune di circa 10 metri di lunghezza, alzando il livello del giardino di circa 0.80 mt. e riducendo il livello da 2.50 metri a un 1.70. dalla soglia della mia finestra "veduta". Chiedo e possibile realizzare una costruzione (rampa per disabili) sotto una finestra di un bagno senza rispettare la privacy , senza rispettare una distanza legale dalla rampa alla soglia della mia finestra, in disprezzo delle norme di sicurezza in quanto il livello da 2.50 è stato ridotto a 1.70 mt agevolando eventuali furti, senza considerare che la costruzione possa incidere su un deprezzamento dell'appartamento in caso di vendita. In conclusione i proprietari dell'appartamento "B" oltre alla rampa che si sono costruiti per accedere nell'appartamento "B" hanno una seconda alternativa di accedere nell'appartamento tramite un ascensore dal garage di proprietà esclusiva. Chiedo in alternativa alla rampa si poteva montare una sistema meccanizzato vicino alla scala già esistente mantenendo lo stesso livello di 2.50 mt dal suole del giardino fino alla soglia della finestra? evitando di ledere la mia tranquillità e privacy e sicurezza.”
Consulenza legale i 13/03/2024
Per dare una risposta al presente quesito è necessario richiamare l’art. 907 c.c. in tema di distanza delle nuove costruzioni dalle vedute e l’art. 3 della L.13/1989.
Quest’ultimo articolo infatti stabilisce che in tema di eliminazione delle barriere architettoniche è possibile derogare alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi ma non alla normativa codicistica, tra cui l’art. 907 c.c., ad eccezione della circostanza in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni sia interposto uno spazio o area di proprietà o uso comune.

Nel caso di specie sembra che la rampa per disabili sia stata costruita sul giardino di proprietà privata del vicino e quindi che non ci sia nessun’area comune interposta per cui si possa affermare che si possa derogare alle distanze codicistiche ex art. 907 c.c. (Cass. civ. n. 21645/2017).
Il vicino quindi nella costruzione della nuova rampa avrebbe dovuto rispettare la distanza prevista dalla legge di tre metri sotto la soglia della veduta.

Infatti, sebbene la precedente scala pare fosse costruita comunque ad una distanza inferiore rispetto a quella legale di tre metri, la nuova rampa avrebbe dovuto rispettare quanto meno le misure, l’ingombro e la distanza del precedente manufatto come previsto in tema di distanza tra le costruzioni ai sensi dell’art. 873 del c.c. (Cass. civ. n. 15041/2018).

Si ritiene, quindi, che il proprietario con diritto di veduta sul fondo del vicino possa introdurre un’azione di riduzione in pristinoai sensi dell’art. 872 del c.c. chiedendo che la rampa sia quanto meno abbassata al medesimo livello della scala esistente in precedenza (Cass. civ. n. 11271/1990).

M. C. chiede
venerdì 29/12/2023
“Buongiorno,
sono possessore di un appartamento al 3° piano in una nota località balneare ligure. Dal mio balcone si godeva di una certa panoramica vista mare, peraltro sito a circa 700 mt di distanza. Qualche anno fa il mio vicino ha ristrutturato la sua palazzina, sopralzandola di 1 piano e così facendo mi ha precluso del 70% circa la vista mare, del quale rimane solo uno scorcio.
Considerando che oltre alla mancanza di godimento della vista il valore del mio appartamento è verosimilmente diminuito, mi sono rivolto ad un legale del posto. Il mio obiettivo a questo punto non è tanto far demolire quanto costruito ma quantomento ottenere un ristoro economico.
Premesso che le distanze di legge sono state rispettate, questi mi ha prospettato la difficoltà di far valere il solo aspetto paesaggistico, a meno che siano state commesse delle violazioni urbanistiche dalla controparte e su queste eventualmente far leva per ottenere ristoro. E’ stato fatto un accesso agli atti dai quali forse è emersa una piccola difformità ma non è stato ben approfondito.Abbiamo attivato una mediazione che si è conclusa con totale chiusura della controparte.
Ora vorrei capire se a vs giudizio è corretto e sia opportuno procedere in giudizio o le mie possibilità di aver riconosciuta la ragione siano scarse. Purtoppo il mio legale è stato molto vago a riguardo.
E non ho ancora capito se esista una servitù di panorama per usucapione e come questa si possa esercitare.
Grazie e saluti”
Consulenza legale i 03/01/2024
La valutazione fattuale dal collega che la sta assistendo pare essere assolutamente corretta.
Bisogna tenere ben distinto il diritto di veduta dal diritto al panorama.
Il diritto di veduta consiste nella facoltà del proprietario alle c.d. inspectio e prospectio nel fondo vicino, che si concretizzano nella pratica nella possibilità di guardare e sporgersi sulla proprietà altrui. Questo diritto è riconosciuto dall’art.907 del c.c. e si sostanzia nel divieto di fabbricare ad una distanza inferiore a tre metri dalla veduta. Da quel che si è potuto capire non pare che nel caso specifico le distanze prescritte da tale norma siano state violate: il diritto di affaccio sul fondo altrui non è stato quindi in alcun modo pregiudicato dall’ innalzamento di nuovi piani e nuove fabbriche sul fondo adiacente.

Diverso dal diritto di veduta è il diritto di panorama. A differenza del diritto di veduta che trova un suo diretto riconoscimento in una norma del codice civile, il diritto di panorama è un istituto giuridico teorizzato dalle pronunce della giurisprudenza che si sostanzia nel diritto di godere di un bel panorama dalla propria abitazione, come ad esempio una vista del mare oppure di una catena montuosa. Come ha nuovamente precisato e ribadito anche una recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 17922 del 22.06.2023, il diritto di panorama non è altro che un diritto di servitù ex artt. 1027e ss. del c.c., il quale pone a carico del proprietario del fondo servente l’obbligo di non sopraelevare la sua costruzione al fine non precludere la vista del paesaggio che si può godere dal fondo dominante (servitus altius non tollendi). Esso è quindi una servitù negativa, poiché impone al proprietario del fondo servente un obbligo di non fare una determinata cosa; inoltre ai sensi dell’art. 1061 del c.c. il diritto di panorama, è tipicamente una servitù non apparente, in quanto per il suo esercizio non è necessario installare sul fondo servente particolari opere o manufatti, ed è questo l’aspetto che più di tutti impedisce che le ragioni dell’autore del quesito possano trovare soddisfazione in un ipotetico giudizio.

L’art. 1031 del c.c. precisa, infatti, che le servitù, in cui come abbiamo già detto rientra il diritto di panorama, possono costituirsi (tra gli altri casi qui non rilevanti), o volontariamente, quindi solitamente per mezzo di un rogito notarile sottoscritto tra i proprietari dei due fondi confinanti, oppure per usucapione: tuttavia il già citato art. 1061 del c.c. precisa come le servitù non apparenti non possono essere acquisite per usucapione.
Per tale motivo, nel caso specifico, l’unico modo per l’autore del quesito per far valere un valido diritto di panorama nei confronti del fondo del vicino sarebbe quello di essere in possesso di un rogito notarile, sottoscritto dal proprietario del fondo a lui confinante, oppure da un suo precedente dante causa che gli riconosca tale diritto, ma, come spesso accade, tale rogito non è mai esistito e pertanto nessun diritto di panorama si è mai concretamente costituito. Per questo motivo una ipotetica azione giudiziaria promossa dall’autore del quesito nei confronti del vicino che ha effettuato la sopraelevazione vedrebbe un esito poco felice.


P. S. chiede
domenica 22/10/2023
“Buongiorno.

Il mio appartamento dispone di un balcone su quale si affacciano due porte finestre. Una di queste è scarsamente efficiente poiché si apre su una porzione "chiusa" del balcone delimitata da un lato dal vano ascensore e da un altro dalla parete della proprietà vicina. Proprio per questi motivi aria e luce provengono soprattutto dalla seconda porta-finestra.

Quest'ultima è proprio in corrispondenza del balcone del vicino, disposto perpendicolarmente al mio, sul quale lo stesso ha installato le tende da sole.

L'appartamento del vicino si sviluppa su due piani: quello inferiore adibito a zona giorno, quello superiore a zona notte.
Il balcone con le tende da sole serve le camere da letto o comunque locali le cui persiane rimangono SEMPRE chiuse.

La distanza fra il vetro della mia porta-finestra e il telaio della tenda è di circa 2,5 mt.

Di fatto
1) le tende vengono stese oltre un metro al di là del parapetto.
2) le medesime rimangono aperte 7 giorni su 7, 24 ore su 24 (anche la notte, anche con maltempo).

Il disagio deriva
a) nella eccessiva apertura che determina un "invadenza visiva" permanente della sagoma della tenda stessa
b) dal fatto che la tenda è permanentemente aperta

Tale disagio sarebbe tollerabile se almeno una delle due condizioni fosse eliminata.

Infatti ho chiesto al vicino se, per favore, fosse possibile limitare l'apertura a poco oltre tale parapetto, sembrando ragionevole compromesso tra la mia necessità di luce e visuale e la necessità del vicino di proteggersi dal sole, ovvero se fosse possibile mantenerle aperte solo per alcune ore del giorno (non 24 ore al giorno); la richiesta è caduta nel vuoto.....

Ho contattato via mail etelefono l'amministratore chiedendo un parere
sulla situazione sopra esposta ma non ha mai risposto.


Vi sarei grato di una vostra valutazione e consiglio sul da farsi.

PS dispongo di fotografie che meglio rappresentano quanto esposto.

In attesa vs. riscontro ringrazio e porgo distinti saluti”
Consulenza legale i 31/10/2023
Per il corretto inquadramento giuridico della fattispecie in oggetto, è necessario analizzare l’art. 907 c.c. in tema di distanze delle costruzioni dalle vedute.
La legge stabilisce che il proprietario non possa fabbricare a distanza di tre metri dal fondo del vicino con diritto di veduta.

La giurisprudenza ha ritenuto che le tende da sole rientrino nella categoria di costruzioni a cui si applica la disposizione di legge in oggetto perché nel concetto deve essere ricompresa l’opera che “qualunque sia la forma e determinazione ostacoli l'esercizio di una veduta” (Cass. civ. n. 5618/1995; Cass. civ, n. 12202/2022).

In linea di principio, quindi, anche la tenda deve essere posta a distanza almeno di tre metri, in modo da non limitare il diritto di veduta del proprietario.

Nel caso di specie ci troviamo però in ambito condominiale e sebbene sia stato ritenuto che la disposizione di legge sia applicabile anche in un questa circostanza, sono necessarie alcune precisazioni.

La giurisprudenza ha affermato che l’applicabilità dell’art. 907 c.c. nei rapporti tra condomini, non è principio assoluto perché bisogna tenere conto nel concreto dello stato dei luoghi e della struttura condominiale; il giudice di merito quindi dovrà valutare caso per caso se sia o meno compatibile(Cass. civ. n. 3582/2001; Cass. civ. n. 22838/2005).
Infatti, all’interno di un Condominio non sempre è possibile garantire la distanza di tre metri per come sono strutturati gli edifici e in questo caso l’art. 907 c.c. non troverà applicazione.
Inoltre, ci sono diversi interessi e diritti delle parti che devono essere messi a confronto e che devono trovare un equilibrio.
Ad esempio, come nel caso riportato nella pronuncia della Cassazione n. 22838/2005 e molto simile alla fattispecie descritta nel quesito, la tenda viene ritenuta svolgere una funzione di tutela della privacy del condomino.
Proprio per questo motivo la Corte nella sentenza ritiene che il posizionamento e l’utilizzo della tenda non abbiano natura emulativa ai sensi dell’art. 833 del c.c..

Nel caso di specie pare che i balconi siano posti ad una distanza inferiore di tre metri e parrebbe quindi che l’art. 907 c.c. non sia applicabile.
È però rilevante, a parere dello scrivente, analizzare le modalità di utilizzo della tenda.
Infatti, il condomino lamenta non tanto il posizionamento della tenda che non potrebbe essere spostata ad una distanza diversa proprio per la struttura dell’edificio condominiale, quanto il fatto che rimanga aperta tutto il giorno e che sporga oltre al limite del balcone.

Se è dubbio il fatto che trovi applicazione l’art. 907 c.c. e che quindi il condomino possa introdurre un’azione di rimessione in pristino del proprio diritto di veduta, a parere dello scrivente, è sostenibile che l’attuale utilizzo della tenda costituisca unatto emulativo ai sensi dell’art. 833 c.c.

Infatti, non sembra che in concreto abbia un’utilità specifica per il condomino la permanente e totale apertura della tenda. Anzi, il fatto che sia stato più volte chiesto di limitare la stesura ma l’invito non sia mai stato accolto senza giustificazione, costituisce un ulteriore sintomo del carattere emulativo del gesto.
L’atto emulativo infatti è tale quando sono presenti due elementi: l’assenza di utilità per chi lo compie e l’intenzione di nuocere al vicino (Cass. civ. n. 13732/2005).

In conclusione, sebbene sia evidente l’utilità pratica della tenda per il vicino condomino, si ritiene che la modalità di apertura attuale non ne abbia e che anzi rechi una molestia al proprietario che vede la sua visuale ridotta in maniera rilevante.
Il proprietario dell’appartamento potrà quindi valutare se intraprendere un’azione giudiziaria per far cessare l’atto emulativo ai sensi dell’art. 833 c.c.

D. S. chiede
venerdì 15/09/2023
“Buongiorno,

sono il Tecnico incaricato dalla proprietà del mappale 67. Trattasi di immobile abbandonato destinato al piano terra a depositi ed al piano primo ad abitazione. Volendo procedere con il recupero dell'intero edificio ai fini residenziali sarebbe utile ai fini architettonici aprire delle finestre/porte finestre verso il mappale 290 (di terzi). Sulla parete a Nord (lato corto) esistono già delle aperture (sia al piano terra che primo) che affacciano sul mappale 290 e vorremmo aprirne altre sul lato Est (lato lungo) sempre verso il mapp. 290. Attualmente tale parete da terra a cielo è priva di aperture.
Lungo quest'ultimo lato è però presente una lingua di terra di proprietà graffata al nostro mapp. 67 di misura imprecisata (non si trovano atti in merito) e non delimitata in alcun modo. Oltretutto inaccessibile ai nostri clienti (proprietari mapp. 67).
La domanda è:
1) essendoci una lingua di terra di proprietà tra il nostro fabbricato ed il fondo del vicino (ed essendoci già altre finestre affaccianti sul fondo terzo anche se su altra parete, come detto sopra) è possibile aprire delle vedute verso il fondo altrui anche se la larghezza della lingua di terra dovesse essere inferiore a 1,5 metri?
2) bisogna convenzionarsi con il vicino?
3) il Comune, in sede di presentazione del progetto, può impedire in qualche modo di realizzare le aperture?

Ringrazio per l'attenzione e porgo distinti saluti”
Consulenza legale i 29/09/2023
Al fine di rispondere ai quesiti sottoposti occorre soffermarsi sulla disciplina normativa in tema di apertura di nuove vedute. Inoltre, si precisa preliminarmente che, dalla visione della mappa catastale, parrebbe che sul mappale 290 non insistano edifici e che, quindi, detto parere tiene conto di tale circostanza nel fornire la risposta richiesta.

In particolare, le vedute sono distinte in:
- dirette: quando la visione è ortogonale - in questo caso la distanza prescritta per la loro apertura è di 1,50 metri dal fondo contiguo o tetto (cfr. art. 905 c.c.);
- oblique: quando la visione laterale è possibile senza la necessità di sporgersi - in questo caso va osservata la distanza di 75 cm, la quale deve misurarsi dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto (cfr. art. 906 c.c.);
- laterali: quando la visione laterale è possibile soltanto sporgendosi - anche in questo caso va osservata la distanza di 75 cm, la quale deve misurarsi dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto (cfr. art. 906 c.c.).

Nel caso di specie viene in rilievo l’art. 905 c.c. che prescrive il divieto di aprire una veduta diretta sul fondo del vicino a meno di 1,5 metri di distanza tra la faccia esteriore dell’immobile e l’altrui proprietà.

L’apertura di vedute a distanza inferiore rispetto al limite stabilito dalla legge costituisce una servitù di veduta che si acquista per convenzione o anche, trattandosi di una servitù apparente, per usucapione o destinazione del padre di famiglia ai sensi dell’art. 1031 del c.c..

Nel caso di specie, il proprietario di un immobile vuole aprire nuove vedute dirette sul fondo del vicino ad una distanza di difficile misurazione e che potrebbe essere inferiore a 1,5 metri.

L’edificio ha già alcune vedute sul fondo vicino ma sul lato nord, diverso al lato est dove si vorrebbe aprirle con l’opera di ristrutturazione.
Inoltre, non è specificato se le aperture già esistenti sula lato nord siano poste ad una distanza inferiore rispetto a quella di legge e quindi se sia già sorta una servitù di veduta gravante sul fondo del vicino.

In ogni caso, la giurisprudenza ha stabilito che quando sussistono più vedute che non rispettano la distanza di 1,5 metri, ognuna di esse è idonea a costituire un’autonoma servitù (Cass. civ. n. 1391/1982).

Dunque, indipendentemente dall’esistenza di preesistenti aperture sul lato nord (sia che siano a distanza di legge sia a distanza inferiore), sul lato est il proprietario non potrà aprire nuove finestre a meno di 1,5 metri di distanza dal terreno vicino, salvo la costituzione di una servitù.
Ciò significa che i due proprietari dovranno accordarsi per la costituzione di una servitù di vedute tramite un atto scritto come previsto dall’art. 1350 del c.c. (Cass. civ. n. 9576/2006).

Infine, in risposta all’ultimo quesito, il Comune non potrebbe contestare, in sede di presentazione del progetto, il mancato rispetto delle distanze di legge se espressamente derogate mediante la costituzione di una servitù di veduta o più servitù come sopra descritto e, dunque, in presenza di un accordo espresso con il vicino.


S. T. chiede
martedì 06/12/2022 - Marche
“Buonasera,
sto ristrutturando una villetta bifamiliare, con muro adiacente ad un'altra identica, la mia villetta è a sud, quella adiacente a nord, con vista sopraelevata verso il paese ed il mare.
Nella ristrutturazione abbiamo chiuso con un muro il lato del balcone a nord verso il vicino, per questioni di privacy e sicurezza. Dal balcone è infatti possibile guardare all'interno delle rispettive abitazioni e scavalcare con facilità, cosa che reputo voluta da chi ha costruito all’epoca le abitazioni per questioni di parentela stretta.
Siamo ancora in fase di ristrutturazione ed abbiamo appena completato la finitura del muro, ed il vicino mi ha telefonato dicendo che quel muro, pur comprendendone e condividendone le esigenze di privacy, riduce la visuale a sud e gli fa perdere “il diritto di veduta”: preferirebbe quindi una tenda o un rampicante.
Preciso:
- Che il nostro geometra ha aveva avuto un incontro con i vicini per trovare la soluzione estetica migliore, ma che già in quell’occasione aveva ricevuto il rifiuto di prolungare il muro condiviso;
- che il muro che abbiamo eretto è quindi totalmente sopra la nostra proprietà;
- che la visuale lato sud è stata ripristinata solo nel 2021, dopo che ho abbattuto, per ragioni di sicurezza, due piante che impedivano totalmente la visuale (ma che il vicino mi ha detto di non ricordare…).
- che il muro è ormai fatto e con tutte le autorizzazioni necessarie, per non avendo ancora chiuso i lavori di ristrutturazione. Quindi qualora il vicino mi chieda di rimuoverlo, posso eventualmente rispondere che lo farò solo dopo accertate da un giudice le ragioni di entrambi o devo rimuoverlo immediatamente?
Grazie

Se necessario allego documentazione fotografica.”
Consulenza legale i 13/12/2022
La norma giuridica che nel caso in esame deve essere presa in considerazione è l’art. 907 c.c., secondo cui, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, la quale va misurata secondo i criteri dettati dall’art. 905 del c.c..
In giurisprudenza è stato precisato che “il divieto di costruire a distanza inferiore a tre metri da una precedente veduta, stabilito dall’art. 907 c.c. a salvaguardai di tale diritto, riguarda in genere una fabbrica realizzata a distanza inferiore da quella prevista dalla legge, di qualsiasi materiale o forma, idonea ad ostacoilare stabilmente l’esercizio della inspectio e della prospectio, e quindi anche i muri di cinta, i quali – secondo la previsione di cui all’art. 878 comma 1 c.c. – sono soltanto esentati dal computo della distanza tra costruzioni su fondi finitimi di cui all’art. 873 c.c. e non anche dall’osservanza delle distanze stabilite a tutela delle vedute” (così Cass. civ. Sez. II ordinanza n. 26263/2018).

Ora, il diritto di veduta, che il titolare del diritto esercita mediante la possibilità di visione frontale, laterale e verso il basso sul fondo altrui, si può acquisire nei seguenti diversi modi, e precisamente:
a) per contratto scritto;
b) per testamento: è questo, ad esempio, il caso in cui il testatore imponga all’erede o al legatario di un fondo l’onere di costituire una servitù di veduta in favore del fondo finitimo;
c) per usucapione, ma solo per le servitù apparenti per le quali esistano opere visibili e permanenti destinate all’esercizio della servitù, che in questo caso si acquisterà per effetto del possesso pacifico, continuato ed ininterrotto per almeno venti anni;
d) a seguito di pronuncia dell’autorità giudiziaria, la quale assumerà la natura di sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.;
e) per destinazione del padre di famiglia, la quale ricorre tutte le volte in cui si sia in presenza di opere naturali o artificiali di natura permanente, che rilevano in modo non equivoco l’esistenza del peso gravante sul fondo servente.

Nel caso di specie, stando a come la vicenda risulta tratteggiata nel quesito, si ritiene che il vicino possa in effetti vantare una servitù di veduta costituita per destinazione del padre di famiglia, considerato che, prima della realizzazione del muro contestato, esisteva soltanto un più piccolo muretto divisorio, il quale consentiva di affacciarsi all’interno delle rispettive abitazioni e persino passare all’interno della proprietà altrui con facilità.
Tuttavia, trattandosi di situazione inserita in un contesto condominiale, occorre prendere atto del fatto che vengono in rilievo interessi diversi e molteplici, destinati molto spesso a generare un conflitto tra i diversi partecipanti, proprio per la natura stessa del condominio, costituito da più appartamenti di proprietà esclusiva all’interno di un unico edificio.
Tale situazione rende necessario effettuare un bilanciamento tra gli opposti interessi dei condomini, tutti egualmente meritevoli di tutela legale e giuridicamente significativi sul piano del diritto soggettivo.

In linea generale ed astratta può dirsi che la norma sopra citata, ossia l’art. 907 c.c., abbia già operato un bilanciamento tra l’interesse alla riservatezza del vicino ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, considerato che luce ed aria assicurano l’igiene degli edifici e soddisfano i bisogni primari di chi vi abita.
Tuttavia, nel momento in cui sorge in concreto un conflitto tra i condomini, come appunto accade nel caso di specie, si pone la necessità di decidere quale interesse debba cedere il passo all’altro, pur trattandosi di interessi entrambi meritevoli di tutela.

Significativa al riguardo è la sentenza n. 246/2021 della Corte d’Appello di Palermo, la quale, nel decidere un caso di lamentata lesione del diritto di veduta di un condomino, ha ritenuto prevalente il diritto alla privacy del vicino.
Il caso esaminato dalla Corte è proprio analogo a quello di specie, in quanto la proprietaria di un appartamento facente parte di un fabbricato condominiale proponeva ricorso al Tribunale di primo grado esponendo che nell’appartamento dei vicini, proprietari di un appartamento adiacente al suo, era stato collocato nel balcone a confine delle rispettive proprietà un pannello divisorio che non consentiva la veduta laterale, asserendo che la collocazione di tale pannello, oltre ad impedire il passaggio della luce, si poneva in violazione delle norme in tema di vedute.
Ebbene, sia il giudice di primo grado che la Corte d’Appello rigettavano la domanda attrice, ritenendo che l’apposizione di quel pannello divisorio (elemento assimilabile in tutto al muro oggetto del caso in esame) corrispondesse all’esercizio del diritto di proprietà e che in ogni caso debba essere riconosciuta prevalenza al diritto costituzionalmente protetto dei vicini di proteggere la propria riservatezza personale e familiare (c.d. diritto alla privacy).

In considerazione di quanto detto, pertanto, deve ritenersi priva di fondamento la richiesta dei vicini di abbattere il muro realizzato perché di ostacolo all’esercizio del loro diritto di veduta laterale, diritto che nel caso di specie può ritenersi costituito per destinazione del padre di famiglia.
In difetto di positivo e volontario riscontro a detta richiesta, i vicini non potranno fare a meno di ricorrere all’autorità giudiziaria, dinanzi alla quale si potrà far valere il proprio diritto non solo alla tutela della privacy, ma anche alla tutela della sicurezza della propria abitazione, che verrebbe sicuramente inficiata da un muretto divisorio attraverso cui terzi estranei potrebbero facilmente accedere all’interno del proprio immobile.

Si ritiene, invece, che non possa essere di ausilio l’addurre quale prova a sostegno delle proprie pretese la circostanza che fino a qualche tempo prima (e precisamente fino all’anno 2021) esistevano sui luoghi in contestazione due piante che impedivano in ogni caso la visuale laterale.
Infatti, mentre secondo parte della dottrina il rispetto della distanza va imposto anche per gli alberi, che per la densità di rami e foglie impediscano l’esercizio della veduta, secondo la giurisprudenza, invece, il divieto di fabbricare opere in pregiudizio dell’esercizio della servitù di veduta suppone una modifica dell’assetto dei luoghi attraverso un’attività costruttiva e, pertanto, non può estendersi alla creazione di barriere naturali, quali gli alberi o le siepi vive, per le quali invece trova applicazione il disposto di cui al primo comma, n. 3 dell’art. 892 del c.c. (in tal senso Cass. civ. Sez. VI, ordinanza n. 12051 del 17.05.2013).

E. A. G. S. chiede
venerdì 07/10/2022 - Lazio
“Buongiorno,
avrei necessità di una vostra consulenza a seguito di alcuni "fastidi" provocati dal mio confinate a seguito dell'installazione di una pergotenda.
Premetto che la pergotenda (< 24 mq), che dovrebbe essere un'opera di edilizia libera, è interamente installata nella mia proprietà su di un terrazzo che confina, con un muro, con il mio vicino. Inoltre la tenda è motorizzata e quindi è possibile farla scomparire all'interno del suo vano. Aggiungo, la distanza fra i pali della pergotenda ed il muro di casa sua è di oltre 4 metri, ma nonostante questo il mio confinate lamenta la perdita della vista oltre la mia proprietà (di fatto vedrebbe una parte della mia casa e null'altro). In tutto questo, la parere della sua casa che è posizionata difronte alla mia pergotenda, non è dotata di finestre ed è totalmente cieca. Nello stesso spazio antistante la parete appena menzionata vi è un piccolo vialetto, dove di norma il mio confinante parcheggia la sua auto ed un cancello che regola, appunto, l'accesso alla sua proprietà.
Sinceramente, prima di installare la pergotenda mi sono informato su eventuali vincoli architettonici o paesaggistici essendo residente nel comune di Roma, ma fortunatamente nel mio quartiere non esiste nulla a riguardo. Inoltre, sapevo bene che simili strutture sono installabili liberamente, anche perchè totalmente aperte su tutti e 4 i lati.
Se fosse possibile, vorrei fornirvi alcune foto, per meglio comprendere la situazione in quanto la sola descrizione da me fatta potrebbe risultare non sufficiente. Così come eventuali nuove informazioni nel caso quelle riportate non dovessero essere esaustive.
Sinceramente non credo di aver operato al di fuori delle regole, ma in modo deciso vorrei evitare qualsiasi tipo di discussione dimostrando, appunto, di aver agito nella legalità.
Ringrazio anticipatamente.
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 14/10/2022
Occorre premettere che non ci si soffermerà, in questa sede, sulla questione della regolarità del manufatto realizzato sotto il profilo urbanistico ed edilizio, dal momento che, per esprimere una valutazione di questo tipo, sarebbe necessario l’ausilio di un tecnico, oltre alla conoscenza del regolamento edilizio comunale vigente.
Tuttavia, la circostanza che l’opera in questione sia stata in ipotesi realizzata in conformità della normativa di carattere amministrativo non esime dalla necessità di valutarne la legittimità pure sotto il profilo civilistico - specificamente, rispetto alla disciplina delle distanze legali -, trattandosi di due aspetti distinti e tra loro indipendenti.

Ora, la giurisprudenza ormai costante ha affermato che "ai fini dell'osservanza delle distanze legali nelle costruzioni, prescritte dall'art. 873 del c.c. e dalle norme di questo integrative, alla nozione di "costruzione" deve essere ricondotto, avuto riguardo alle finalità della disciplina di regolare i rapporti intersoggettivi di vicinato assicurando in modo equo l'utilizzazione dei fondi limitrofi, qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i requisiti della solidità e della immobilizzazione al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad una preesistente fabbrica” (così ex plurimis Cass. Civ., Sez. II, 05/01/2000, n. 45).
Ancora, Cass. Civ., Sez. II, 26/06/2000, n. 8691 afferma che “ai fini dell'osservanza delle distanze legali di cui all'art. 873 c.c. e alle norme integrative dei regolamenti locali, deve intendersi "costruzione" qualsiasi opera che pur difettando di una propria individualità abbia tuttavia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo a nulla rilevando che tale collegamento al suolo avvenga mediante mezzi meccanici i quali consentano mediante procedimenti o manovre o procedimenti inversi una nuova mobilizzazione e l'asportazione del manufatto”.
Nel caso oggetto del quesito, dunque, occorre verificare, mediante la consulenza di un tecnico, che la pergotenda realizzata rispetti effettivamente la normativa sulle distanze legali di cui all’art. 873 c.c. o quella maggiore eventualmente stabilita dai regolamenti locali.

Rimane da esaminare la questione del rispetto dell’eventuale servitù di veduta - che pare essere l’oggetto delle lamentele del vicino - secondo quanto previsto dall’art. 907 del c.c., che impone una distanza minima di tre metri.
Anche sotto questo profilo la giurisprudenza ha chiarito che "la violazione del diritto di veduta del proprietario di un'unità immobiliare si determina quando viene realizzata una "fabbrica", a distanza inferiore a quella prevista dalla legge, di qualsiasi materiale e forma, idonea ad ostacolare stabilmente l'esercizio della"inspectio" e della "prospectio" nonché di godere di luce ed aria dalla veduta” (così Cass. Civ., Sez. II, 30/01/2008, n. 2209): nella fattispecie, ad esempio, la Corte aveva escluso la violazione dell'art. 907 c.c. per effetto della “installazione, all'estremità laterale di un balcone, di una parete, vetrata, di sottili dimensioni”.
Si tratta, tuttavia, di valutazione che va compiuta caso per caso e che, laddove insorga una controversia, spetta ovviamente al giudice: “rientra nell'apprezzamento discrezionale del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, stabilire - se nell'ambito dei rapporti di vicinato - opere quali tettoie, tendaggi fissi, estensibili o detraibili, con intelaiatura fissata stabilmente al suolo, costituiscano costruzioni, o a queste possano equipararsi, e se impedendo o limitando - per la struttura, dimensione o conformazione - le vedute in appiombo esercitate dal vicino, debbano rispettare la distanza di tre metri prevista dall'art. 907 c.c.” (Cass. Civ., Sez. II, 06/11/2003, n. 16687).

Dunque, anche per verificare l’eventuale violazione di una servitù di veduta, appare imprescindibile l’ausilio di un tecnico, tenendo presente che il computo delle distanze va effettuato sulla base dei criteri di cui al medesimo art. 907 c.c.
Naturalmente, pregiudiziale all’accertamento della eventuale violazione è quella della esistenza stessa di un diritto di veduta; si veda in proposito Cass. Civ., Sez. II, sentenza 10/05/2018, n. 11287, secondo cui “la titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell'azione volta ad ottenere l'osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all'art. 907 c.c. e, come tale, va accertata anche d'ufficio dal giudice, salvo che da parte del convenuto vi sia stata ammissione, esplicita o implicita, purché inequivoca, della sussistenza di tale diritto”.

GIULIANO B. chiede
giovedì 13/05/2021 - Abruzzo
“sono proprietario di una casetta vecchia di almeno 100 anni - da demolire per costruire un nuovo fabbricato - a nord questa casetta ha 4 finestre ed e' costruita a cm. 5 dal confine costituito da una rete metallica sorretta da paletti in cemento armato
Il confinante recentemente ha tolto la rete metallica ed i paletti sul confine ed ha realizzato un muro di cemento armato alto 2 mt. attaccato al muro della casetta tanto da non poter togliere le tavole utilizzate per la costruzione del muro attaccato alla casetta oscurando in tal modo completamente le finestre - l'ufficio tecnico del comune da me interpellato mi ha detto che al confinante e' stato rilasciato permesso a costruire di un fabbricato e non per costruire un muro di cinta sul confine ed inoltre che detto muro di cinta poteva essere realizzato ma non dovevano esserci le finestre - ho letto l'art. 907 del c.c. che stabilisce che un muro di cinta può essere realizzato ad una distanza di 3 mt. e 3 mt. sotto la soglia - è il caso di rivolgersi al giudice per far abbattere detto muro o vi è un'altra soluzione. ringrazio per la risposta.”
Consulenza legale i 20/05/2021
Il richiamo all'art. 907 c.c., fatto nel quesito, risulta corretto e pertinente.
Infatti tale norma stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri. Tale distanza deve essere misurata secondo i criteri dell'art. 905 c.c.
La giurisprudenza anche recente ha precisato che "il divieto di costruire a distanza inferiore a tre metri da una preesistente veduta, stabilito dall'art. 907 c.c. a salvaguardia di tale diritto, riguarda in genere una "fabbrica" realizzata a distanza inferiore da quella prevista dalla legge, di qualsiasi materiale e forma, idonea ad ostacolare stabilmente l'esercizio della "inspectio" e della "prospectio" e, quindi, anche i muri di cinta, i quali - secondo la previsione di cui all'art. 878, comma 1, c.c. - sono soltanto esentati dal computo della distanza tra costruzioni su fondi finitimi di cui all'art. 873 c.c. e non anche dall'osservanza delle distanze stabilite a tutela delle vedute" (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza n. 26263/2018).
La medesima pronuncia appena citata, dunque, chiarisce anche i rapporti tra art. 907 c.c. e art. 878 c.c. (ai sensi del quale, ai fini del computo delle distanze legali, non si tiene conto del muro di cinta e di ogni altro muro isolato che non abbia un'altezza superiore ai tre metri).
Da ultimo, la S.C. precisa che "il divieto di fabbricare a distanza minore di tre metri dalle vedute, sancito dall'art. 907 c.c., intende assicurare al titolare del diritto di veduta aria e luce sufficienti all'esercizio della inspectio e della prospectio, sicché il giudice di merito, pur in presenza dell'accertata violazione della distanza, è tenuto a valutare specificamente se l'opera edificata ostacoli l'esercizio della veduta" (così Cass n. 19420/2013). Peraltro, stando a quanto riferito nel quesito, nel nostro caso sembrerebbe verificato anche tale presupposto.
Va detto che, sempre in base alle informazioni fornite, il muro in questione risulterebbe costruito in assenza di titolo abilitativo (sarebbe cioè abusivo); pertanto, segnalando la situazione al Comune, quest’ultimo dovrebbe adottare gli opportuni provvedimenti.
Va detto, però, che non è opportuno riporre eccessivo affidamento sull’aspettativa di una demolizione ordinata dal Comune. Comunque, parliamo di due piani diversi di tutela: la Pubblica Amministrazione, infatti, in casi come questo, agisce per ottenere l’osservanza della normativa edilizia e urbanistica; il privato, invece, a tutela di interessi privatistici.
Si consiglia, pertanto, di rivolgersi ad un legale che, esaminata la questione, possa inviare una diffida al vicino. Naturalmente, laddove non si ottenga la demolizione del manufatto illegittimo (perché edificato in violazione dell’art. 907 c.c.), sarà inevitabile esperire, prima, la mediazione obbligatoria di cui al D. Lgs. 28/2010 e, laddove anche questa non sortisca esito positivo, ricorrere al giudice.
Occorre tenere presente, però, che, a tutela del diritto di veduta (che costituisce oggetto di una vera e propria servitù) è possibile utilizzare, in alternativa alla tutela c.d. petitoria (cioè esercitata dal proprietario, o titolare di altro diritto reale, in quanto tale) anche le azioni possessorie, ovvero - a seconda del ricorrere dei diversi presupposti - l’azione di reintegrazione o di spoglio (art. 1168 c.c.) o l’azione di manutenzione (art. 1170 c.c.).
Le azioni possessorie non richiedono il preventivo esperimento della mediazione, ma devono essere esercitate entro l’anno, rispettivamente dallo spoglio o dalla turbativa.
Anzi, secondo talune pronunce, la tutela possessoria sarebbe in certi casi l’unica via percorribile: si veda Cass. Civ., Sez. II, 22/05/2009, n. 11956 (“in materia di luci e di vedute, il diritto di proprietà di un immobile fronteggiante il fondo altrui non può attribuire, in assenza di titoli specifici (negoziali o originari, come l'usucapione), anche l'acquisto della servitù di veduta; ne consegue che una situazione di mero fatto - che si sia concretizzata nell'esistenza, a distanza inferiore di quella prescritta dall'art. 905 cod. civ., di aperture che consentano la "inspectio" e la "prospectio" nel fondo confinante - non è di per sé suscettibile di tutela in via petitoria, al fine di pretendere, da parte del vicino che edifichi sul proprio fondo, l'osservanza delle distanze previste dall'art. 907 cod. civ.”).
Tuttavia, nel nostro caso, la costruzione sulla quale si aprono le vedute risulta esistere da moltissimi anni, per cui è probabile che il diritto di veduta sia stato acquistato per usucapione.

Mario R. chiede
domenica 08/11/2020 - Toscana
“Gentile redazione,

richiedo un vostro parere su un quesito di natura legale, i cui dettagli vi verranno illustrati attraverso un mio allegato.

Chiedo gentilmente di mantenere i nomi ed i riferimenti a persone/luoghi in maniera generica, così come da me illustrato nel quesito.

Cordiali saluti”
Consulenza legale i 18/11/2020
In via generale, nell’ordinamento non vige alcun divieto per il proprietario di un immobile di sopraelevarlo, in modo da non pregiudicare il panorama visibile da altro fondo, posto che tale facoltà costituisce una delle molteplici espressioni del diritto di proprietà (Cassazione civile, sez. II, 19 marzo 2013, n. 6823).
Vi sono però due eccezioni a tale principio: la sussistenza di una servitus altius non tollendi costituita a favore del fondo vicino e la realizzazione della sopraelevazione in violazione delle norme urbanistiche.
Quanto alla prima ipotesi, la giurisprudenza riconduce la servitù di panorama nell'ambito delle norme del Codice Civile inerenti alle distanze, alle luci ed alle vedute (artt. 900 – 907 c.c.), nella quale l'utilitas è rappresentata dalla particolare amenità di cui il fondo dominante viene ad essere dotato per il fatto che essa attribuisce ai suoi proprietari il godimento di una particolare visuale, esclusa essendo la facoltà del proprietario del fondo servente di alzare costruzioni o alberature - quand'anche per altri versi consentite - che pregiudichino o limitino tale visuale. La servitù in questione è una servitù negativa, perché conferisce al suo titolare non la facoltà di compiere attività o di porre in essere interferenze sul fondo servente, ma di vietare al proprietario di quest’ultimo un particolare e determinato uso del fondo stesso.
Trattandosi di una servitù negativa, non apparente, la regola generale vuole che essa non sia acquisibile per usucapione o destinazione del padre di famiglia (art. 1061).
Tuttavia, si registra la presenza di una pronuncia, resa proprio in tema di diritto di panorama, che afferma che tale servitù può essere acquistata, oltre che negozialmente, anche per destinazione del padre di famiglia o per usucapione, necessitando sia della destinazione conferita dall'originario unico proprietario o dell'esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, sia di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta (Cassazione civile, sez. II, 27 febbraio 2012, n. 2973).

Nel caso di specie, però, dalla ricostruzione dei fatti illustrata nel quesito e nei documenti allegati non sembra allo stato ravvisabile la sussistenza di tale servitù, posto che nulla emerge in tal senso dall’atto di donazione o dalle volontà testamentarie espresse dalla precedente proprietaria, né è nota la presenza di opere del tipo descritto nella sentenza da ultimo citata.
Peraltro, i due fondi sono di proprietà di soggetti diversi da meno di vent’anni.

In merito alla violazione delle norme urbanistiche, va preliminarmente segnalato che la giurisprudenza considera la questione prettamente sotto il profilo del diritto al risarcimento del danno.
In particolare, è stato affermato che “il pregiudizio consistente nella diminuzione o esclusione del panorama goduto da un appartamento e tutelato dalle norme urbanistiche, secondo determinati standard edilizi a norma dell'art. 872 c.c., costituisce un danno ingiusto, come tale risarcibile, la cui prova va offerta in base al rapporto tra il pregio che al panorama goduto riconosce il mercato ed il deprezzamento commerciale dell'immobile susseguente al venir meno o al ridursi di tale requisito” (Cassazione civile, sez. II, 18 aprile 1996, n. 3679).
Sulla stessa linea di pensiero si pone la giurisprudenza amministrativa, secondo cui, dal momento che il panorama costituisce un valore aggiunto di un immobile che ne incrementa la quotazione di mercato e che corrisponde a un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, la sua lesione derivante dalla sopraelevazione o costruzione illegittima di un fabbricato vicino determina un danno ingiusto risarcibile, la cui prova deve essere offerta in base al rapporto tra il pregio che al panorama goduto riconosce il mercato e il deprezzamento commerciale dell'immobile susseguente al venir meno o al ridursi di tale requisito (Consiglio di Stato, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 362).
Il presupposto fondamentale per poter validamente chiedere un risarcimento, però, è il verificarsi del fatto dannoso, ossia l’accertamento della presenza di opere eseguite abusivamente, che abbiano pregiudicato il cosiddetto diritto di panorama (ma nel caso specifico esse sono state solo preannunciate, ma non ancora eseguite).

Tanto premesso, dall’esame dei numerosi documenti allegati al quesito, tenendo conto soltanto di quelli strettamente concernenti l’edificio denominato CDB, pare in effetti che siano presenti alcune incongruenze tra quanto affermato dal Comune e la reale situazione edilizia-urbanistica dell’immobile.
In particolare, confrontando la nota comunale dell’ottobre 2018 e del febbraio 2020 con i precedenti atti (anche sanzionatori) emessi dallo stesso Ente e dalla Soprintendenza, nonché con le rilevazioni del CTU, sembra che effettivamente l’immobile non fosse presente nella sua consistenza attuale prima del 1967.
Indipendentemente dalla pre-esistenza del fabbricato prima della suddetta data, rimane poi il problema dei successivi importanti lavori di ristrutturazione oggetto dell’ordinanza sanzionatoria del 2009, che paiono essere stati eseguiti senza alcun titolo abilitativo (né ordinario, né in sanatoria).
Tuttavia, secondo quanto noto allo scrivente, gli atti comunali con i quali è stata data risposta negativa alle richieste di accertamento degli abusi non sono stati impugnati ed è ormai scaduto il termine per poter sollevare davanti al TAR contestazioni in merito.

Dato che la situazione è abbastanza intricata e che il Comune non sembra particolarmente ricettivo, si potrebbero al momento concentrare gli sforzi e chiedere mediante un accesso agli atti di prendere visione dei provvedimenti autorizzativi eventualmente emessi soltanto in relazione alla CDB e soltanto per i lavori di ristrutturazione di cui all’ordinanza del 2009.
Una volta chiarito definitivamente tale fondamentale aspetto, in caso di assenza di titolo abilitativo, si potrebbe invitare il Comune a reprimere gli abusi sulla CDB e, nell’ipotesi di ulteriore inerzia, agire con un ricorso avverso il silenzio ex artt. 31 e 117, c.p.a., in qualità di proprietario confinante.

Per quanto riguarda i lavori di ampliamento prospettati da Caio, comunque, rimane fermo che in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione (ex multis, T.A.R. Napoli, sez. VI, 12 maggio 2020, n. 1718).
Pertanto, laddove il vicino desse inizio ai lavori di ampliamento, è consigliabile attivarsi immediatamente (anche nell’ipotesi in cui Caio si munisse di un regolare titolo abilitativo) da un lato sollecitando il Comune a svolgere una verifica circa lo stato dell’immobile, dall’altro impugnando innanzi al TAR il nuovo eventuale titolo abilitativo rilasciato a Caio sulla base della giurisprudenza da ultimo citata.
In tal caso, infatti, le nuove circostanze di fatto sopravvenute (ossia la realizzazione di nuove opere) consentirebbero di riaprire i termini, senza tema di vedersi dichiarare l’inammissibilità di un eventuale ricorso.
Nell’ipotesi in cui venisse accertata l’illegittimità della sopraelevazione, inoltre, sarebbe possibile chiedere anche il risarcimento del danno.

Infine, sul piano civilistico si segnala la denuncia di nuova opera di cui all’art. 1171 c.c., che è indipendente dai rimedi amministrativi sopra illustrati e che permette di ottenere un provvedimento cautelare di sospensione dei lavori avviati da vicino.
È opportuno tenere a mente, comunque, che tale facoltà presuppone sia che le opere siano già iniziate e non ancora concluse, sia la probabile esistenza di un pregiudizio a carico del ricorrente, che non può consistere nel solo “diritto al panorama”, bensì in un vulnus ulteriore al diritto di proprietà, come ad esempio la violazione delle norme civilistiche sulle distanze.


Paolo V. chiede
giovedì 23/04/2020 - Umbria
“Trattasi di proprietà immobiliare sita in zona A – centro storico di una piccola Frazione del Comune di omissis. I strumenti urbanistici locali, in queste zone del PRG, derogano al Codice Civile le norme che regolano la proprietà ed i diritti tra i vicini.

La mia proprietà è stata realizzata in aderenza ad un altro corpo di fabbrica ed è suddivisa su due livelli piano terra e piano primo, come analogamente l’altro immobile in aderenza.

Per identificare le proprietà andrò a semplificare con le seguenti lettere (vedi allegato schema delle proprietà):

- A – 100% di mia proprietà

- B – 100% di proprietà del mio vicino

- C – vano scale in proprietà comune: 50 % di mio possesso e l’altro 50 % del mio vicino

Tra i due fabbricati in aderenza è stato mantenuto nel tempo uno spazio vuoto perimetrato su tutti e 4 lati e lasciato a cielo aperto, adibito a chiostrina, inoltre all’interno di esso è presente un terrazzo (vedi stato attuale).

Sia la chiostrina che il terrazzo sono in piena proprietà di A come 2 facciate più il 60 % di una terza, mentre la restante facciata e la porzione rimanente presentano diritti differenti (vedi allegato schema delle proprietà).

Inoltre come rappresentato nello stato attuale sono presenti delle finestre sulla chiostrina con le seguenti caratteristiche:

- Finestra n. 1: 65 x 90 cm è situata la piano primo e di proprietà di C (in comune tra me ed il mio vicino vano scale), tale finestra presenta le caratteristiche di veduta del C.C.;

- Finestra n. 2: 35 x 35 cm è situata a piano terra di proprietà di B (100% del mio vicino), tale finestra presenta le caratteristiche di luce irregolare del C.C., in quanto presente un’inferriata e non consente l’affaccio.

- Finestra n. 3: 85 x 130 cm (vedi stato attuale) è situata a piano terra di proprietà di A (100% di mio possesso), tale finestra presenta le caratteristiche di veduta del C.C. e sarà demolita a seguito degli interventi del presente parere legale.

- Finestra n. 4: 85 x 130 cm è situata a piano primo di proprietà di A (100% di mio possesso), tale finestra presenta le caratteristiche di veduta del C.C.;

Sono presenti altre 2 finestre sulla chiostrina con caratteristiche di veduta, ma credo non interessanti per il caso in esame, essendo di proprietà di A.

Tale situazione è consolidata da più di venti anni senza modifiche ed è regolare dal punto di vista urbanistico.

Arrivati al caso in esame, è intenzione di A realizzare un wc all’interno della chiostrina di sua proprietà al disotto del terrazzo esistente aggravandone di pochi cm la sua larghezza per le necessità del servizio igienico (vedi stato di progetto). Si precisa che comunque tutte le pareti in aderenza al nuovo wc sono al 100 % di A (di mio possesso - vedi schema delle proprietà).

Pertanto in questa situazione A può edificare il wc in progetto senza chiedere il permesso a B?

Oppure B vanta dei diritti nei confronti di A nella realizzazione del wc?

E’ chiaro che do per scontata l’approvazione del titolo abilitativo, in questa fase è solo una questione di diritti tra vicini.

Mie considerazioni:

Presumibilmente la distanza di tre metri tra fabbricati è derogata perché si configurano come due costruzioni in aderenza (A e B) e pertanto non vi è una distanza minima all’interno della chiostrina, essendo un ampliamento di una costruzione in aderenza.

Il mio dubbio più grande è la distanza dalla finestra n. 1 di proprietà C rispetto al nuovo wc ai sensi dell’art. 907, ossia 3 ml sotto la soglia ed ai lati. Il problema è che non sono in piena condizione del 907 vista l’articolazione della proprietà e il coinvolgimento di A (mio proprietà) sulla finestra n. 1 di proprietà C (in comune con il mio vicino), ma data la situazione potrei per estensione riferirmi all’art. 906 C.C. e dunque rispettare i 75 cm dalla finestra (caso rispettato nell’ipotesi di progetto – vedi per le distanze schema della proprietà).

Inoltre si precisa che nessuna finestra coinvolta gode di diritti di veduta o luce, assegnati da atti oppure da sentenze, è semplicemente una situazione esistente da più di 20 anni e tali finestre sono da me considerate come vedute o luce irregolare.

Attendo Vostre notizie sul parere legale.

Grazie per la collaborazione.”
Consulenza legale i 30/04/2020
L’art. 907 c.c. stabilisce una distanza minima che le costruzioni devono osservare dalle vedute aperte sul fondo del vicino.

Non ogni apertura presente sul fondo del vicino è soggetta a tale prescrizione sulle distanze, ma soltanto quelle che sono qualificabili come vedute ex art. 900 c.c. e che cioè consentano le cosiddette inspectio et perspectio, vale a dire le possibilità di affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza (ex multis, Cassazione civile, sez. II, 10 febbraio 2020, n.3043).
La violazione del diritto di veduta del proprietario di un'unità immobiliare si determina soltanto quando venga edificata una costruzione di qualsiasi materiale e forma, purché idonea ad ostacolare stabilmente l'esercizio della inspectio e della prospectio, nonché di godere di luce ed aria dalla veduta (Cassazione civile, sez. II, 30 gennaio 2008, n.2209).

Per poter invocare l’osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all'art. 907 c.c., inoltre, è necessaria la titolarità di un diritto di veduta preesistente alla realizzazione delle nuove opere, circostanza che può essere accertata anche d'ufficio dal Giudice, salvo che da parte del convenuto vi sia stata ammissione, esplicita o implicita, purché inequivoca, della sussistenza di tale diritto (Cassazione civile, sez. II, 10 maggio 2018, n.11287; Cassazione civile sez. II, 16 febbraio 2017, n.4192).

Si tratta di un diritto reale che, come tale, si acquista secondo una delle modalità tipiche stabilite dagli artt. 1031 e ss. c.c., ossia –per quanto qui interessa- per atto tra vivi o per usucapione.

Circa l’usucapione della servitù in discorso, è stato affermato che essa possa considerarsi validamente costituita quando sussista il requisito dell’esercizio ultraventennale e quando l’opera dalla quale si esercita la veduta o il prospetto sia obiettivamente visibile da parte del proprietario del fondo servente (Cassazione civile, sez. II, 17 novembre 2014, n.24401).

Nel caso di specie, il fatto che non esista un atto tra vivi che preveda il diritto di veduta per quanto riguarda la finestra n.1 non è sufficiente ad escludere l’esistenza di tale diritto, posto che l’opera dalla quale si esercita l’affaccio possiede le caratteristiche della veduta, è visibile dal fondo servente e, secondo quanto si legge nel quesito, è presente da più di venti anni.

Il fatto che la finestra 1 sia in comunione tra il soggetto che intende costruire l’ampliamento e un terzo (C), inoltre, non sembra sufficiente ad escludere la necessità del rispetto delle distanze previste dall’art. 907, c. 3. c.c..

Infatti, il principio nemini res sua servit trova applicazione soltanto quando un unico soggetto sia titolare sia del fondo servente e sia di quello dominante e non anche quando il proprietario di uno di essi sia comproprietario dell'altro, giacché in tal caso l'intersoggettività del rapporto è data dal concorso di altri titolari del bene comune (Cassazione civile sez. II, 06 agosto 2019, n.21020; Cassazione civile sez. II, 03 ottobre 2000, n.13106).

Non pare, infine, possibile richiamarsi al disposto dell’art. 905 c.c., poiché la norma riguarda una situazione diversa dal presente caso, ossia l’apertura di nuove vedute e non la costruzione di nuovi fabbricati.

In conclusione, qualora sorgano eventuali contestazioni da parte di C, sussiste il serio rischio che venga dichiarata la violazione dell’art. 907 c.c..

Va ora affrontata la questione dei rapporti con il proprietario confinante B.

In primo luogo, non derivano particolari problemi dalla presenza nel cortile/chiostrina della finestra 2 sulla parete di proprietà di B, in quanto tale apertura per le sue caratteristiche non consente l’affaccio e non può dare luogo ad alcun diritto di veduta tutelabile ex art. 907 c.c..

Inoltre, il possesso di luci irregolari, sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del vicino, non può condurre all'acquisto per usucapione della relativa servitù, trattandosi di una [servitù negativa e non apparente (Cassazione civile, sez. II, 09 novembre 2018, n.28804; Cassazione civile, sez. II, 17 giugno 2004, n.11343; Cassazione civile, sez. II, 04 gennaio 2002, n.71; Cassazione civile, sez. II, 05 luglio 1999, n.6949 ).

A diversa conclusione, invece, sembra doversi pervenire per quanto riguarda l’applicabilità delle norme sulle distanze tra costruzioni (art. 873 c.c.).

È vero che la costruzione in aderenza è consentita anche in caso di addizione ad un’opera preesistente (Cassazione civile sez. II, 12 ottobre 2017, n.23986), ma bisogna anche considerare che si può parlare di aderenza solo quando le due costruzioni combacino perfettamente da uno dei lati, in modo che non rimanga tra i due muri, nemmeno per un breve tratto o ad intervalli, uno spazio vuoto, ancorché totalmente chiuso (Cassazione civile sez. II, 04 maggio 2012, n.6768).
Secondo la giurisprudenza, inoltre, ai fini dell'obbligo delle distanze legali tra costruzioni, non rileva la funzione riservata dai proprietari agli spazi esistenti tra edifici vicini, ma solo la loro oggettiva idoneità a costituire intercapedini vietate dalla legge; pertanto, tali distanze devono essere osservate anche nell'ipotesi in cui lo spazio tra edifici vicini abbia funzione di cortile, costituendo questo, se largo meno della distanza minima prescritta, un'intercapedine vietata (Cassazione civile, sez. II, 28 maggio 1984, n.3270).
Ancora, è stato chiarito che quando una costruzione sia stata realizzata non già lungo una linea retta, ma lungo una linea spezzata, ora coincidente con il confine, ora no, il vicino prevenuto deve rispettare le distanze imposte dalla legge e dai locali regolamenti edilizi, computate dalle sporgenze e dalle rientranze dell'altrui fabbrica quindi potrà costruire in aderenza solo in quei tratti in cui l'edificio del preveniente si trova sul confine (Cassazione civile, sez. II, 20 marzo 2015, n.5658; Cassazione civile sez. II, 05 dicembre 2001, n.15367).

Nel nostro caso, l’intervento è previsto proprio nello spazio libero tra i due edifici e non comporterebbe l’espansione in aderenza all’edificio di proprietà del vicino B, ma semplicemente una riduzione tale spazio libero fino ad una distanza minore di quella legale.
Pertanto, il progetto, per come descritto nel quesito, pare poter essere realizzato soltanto con il consenso del vicino e purché non esistano altre norme pubblicistiche di PRG o del regolamento edilizio che ostino all'intervento edilizio, posto che queste ultime non possono essere derogate nemmeno con l’accordo dei proprietari interessati (Cassazione civile sez. II, 02 marzo 2018, n.5016).


Stefano M. chiede
martedì 21/11/2017 - Lombardia
“Buongiorno, vorrei porvi il seguente quesito:
l'abitazione del mio vicino di casa si trova a mt. 1,50 dal confine e sulla facciata prospiciente il confine con la mia proprietà vi sono due finestre, le cui soglie dei davanzali si trovano a circa mt. 1,70 dal piano del cortile, posso erigere un muro di cinta sul confine e quindi ad una distanza di mt. 1,50 dal suo fabbricato, stando sotto il livello delle soglie, cioè con altezza massima del manufatto di mt. 1,70? non credo che pregiudichi il diritto di veduta, che considero comunque profondamente sbagliato, quando la veduta è esclusivamente una corte privata.”
Consulenza legale i 26/11/2017
L’art. 886 c.c. prevede che il confinante possa costringere il vicino a contribuire economicamente alla costruzione del muro di cinta perimetrale idoneo a separare le rispettive case, i cortili e i giardini posti negli abitati, fino all’altezza di 3 metri massimo, fatta eccezione per l’esistenza di eventuali regolamenti e normative locali che impongano altezze inferiori.
Fatta salva la normativa pubblica in materia di nuove costruzioni ed altezze, dunque, la norma in parola conferisce la possibilità di innalzare un muro a delimitazione del confine di proprietà, senza il consenso del vicino ed anzi con il suo contributo economico.

Tuttavia va considerata altresì la normativa sulla distanza delle costruzioni dalle luci e dalle vedute altrui, sulla quale è bene preliminarmente fare alcune precisazioni terminologiche.
Le luci sono quelle aperture nel muro dell’edificio che danno passaggio alla luce e all’aria, ma non consentono di affacciarsi sulla proprietà del vicino. Ad esempio è definibile “luce” una finestra con grata fissa ed alta più di due metri, oppure il classico lucernario.
Mentre le vedute oltre alla luce ed all’aria, consentono al proprietario di guardare ed affacciarsi sporgendo il capo: più specificatamente le vedute conferiscono al proprietario di inspicere, ovverosia di guardare nel fondo del vicino, e di prospicere e cioè di affacciarsi con lo sporgere il capo (Cass. civ., n. 480/2003; Cass. n. 6820/1983).
In buona sostanza la veduta è la finestra dalla quale il proprietario del fondo ha possibilità di guardare ed affacciarsi sporgendo il capo, in modo tale da poter osservare ciò che ha di fronte (veduta diretta) e sui lati (veduta obliqua).

L’art. 907 c.c. sancisce che quando si è acquistato il diritto di veduta non è più consentito al vicino di costruire a distanza inferiore ai 3 metri, calcolandoli dal punto in cui si erige alla parte più esterna della veduta e per tre metri in verticale rispetto al piano corrispondente alla soglia della medesima (Cass. II, n. 5390/1989). Questo perché chiaramente la nuova costruzione limiterebbe la veduta altrui sul proprio fondo.
Nel caso specifico, esclusa la possibilità di costruire un muro più alto di 1 metro e 70 cm che sicuramente lederebbe l’altrui diritto di servitù, occorrerebbe per prima cosa verificare la distanza tra la finestra ed il confine.
Se inferiore a tre metri allora il muro non potrà essere realizzato senza violare l’altrui diritto. Se invece è superiore ai 3 metri, potrebbe procedersi con la delimitazione perimetrale.
In questo caso, dalle foto allegate, è possibile già avvedersi che la distanza tra veduta e confine è sicuramente inferiore ai tre metri, motivo per il quale non è consentito erigere il muro.

Sempre in proposito di servitù di vedute, occorre fare un’altra precisazione importante.

La servitù consiste nel peso imposto sopra un fondo per l'utilità di un altro fondo, appartenente a diverso proprietario.
Vi è dunque un fondo (fondo dominante) che ha una maggior utilità rispetto ad un altro fondo (fondo servente).
Se invece sussistesse una reciproca veduta sul fondo altrui, allora non dovrebbe ritenersi sussistente alcuna servitù. Se non vi è un fondo dominante, e non vi è un fondo servente, mancano gli stessi presupposti della servitù, poiché la soggezione di veduta è reciproca.

Non sussistendo i presupposti per la configurabilità di una servitù in senso lato, non sarebbe dunque possibile invocare l’applicabilità della normativa sulla servitù di veduta e sul rispetto delle distanze. Sul punto si riprende l’eloquente dictum della Suprema Corte: “il muro divisorio tra due immobili non può dar luogo all'esercizio di una servitù di veduta, sia perché ha solo la funzione di demarcazione del confine e/o di tutela del fondo, sia perché è inidoneo a costituire una situazione di soggezione di un fondo all'altro, tipica delle servitù, sussistendo invece una reciproca possibilità di affaccio da entrambi i fondi confinati” (Cass. 6927/2015).
Occorrerà dunque valutare semmai quest'altro profilo (la reciprocità di vedute) per poter escludere la sussistenza della servitù altrui.

LEONARDO S. R. chiede
mercoledì 12/07/2017 - Lombardia
“Buongiorno, i miei genitori sono proprietari di un immobile, il cui bagno affaccia sul cortile di un'altra proprietà. I proprietari di tale cortile, per preservare la loro privacy, hanno costruito un ripostiglio mobile in legno davanti alla finestra del bagno dei miei genitori (una struttura con pannelli di legno, profonda circa 1,5 mt e con i pannelli laterali che appoggiano sul muro perimetrale).
Trattandosi di una struttura mobile, che tuttavia non viene mai tolta, posta sulla loro proprietà, possono i miei genitori richiedere la rimozione di questo ripostiglio? Se è necessario, posso farvi avere una fotografia di tale ripostiglio.

Vi ringrazio e Vi porgo i miei cordiali saluti.

Consulenza legale i 20/07/2017
La questione da lei posta riguarda l'assoggettabilità di una "struttura mobile" alla normativa dettata dalla legge in tema di "distanze delle costruzioni dalle vedute", di cui all'art. 907 c.c.

Va osservato, infatti, che, l'art. 907 c.c., prevede che il proprietario del fondo vicino non possa "fabbricare a distanza minore di tre metri" dalla veduta diretta altrui (nella specie, la finestra del bagno dei suoi genitori).

La stessa disposizione precisa, peraltro, che, laddove si voglia appoggiare la nuova costruzione al muro in cui si trovano le vedute, la stessa "deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia".

Appare di tutta evidenza quello che è lo scopo fondamentale della norma di cui all'art. 907 c.c., che è stata introdotta dal nostro legislatore al fine di garantire al proprietario di uno stabile munito di veduta (finestra) che non vengano frapposti ostacoli che impediscano l'esercizio del diritto di veduta stesso.

La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza n. 19429 del 2013, ha precisato, che "il divieto di fabbricare a distanza minore di tre metri dalle vedute, sancito dall'art. 907 c.c., intende assicurare al titolare del diritto di veduta aria e luce sufficienti all'esercizio della 'inspectio' e della 'prospectio'": ciò significa che le costruzioni erette sul fondo del vicino devono garantire allo stesso di potersi affacciare e di poter guardare attraverso la propria finestra.

Occorre, ad ogni modo, chiarire il concetto di "fabbricare", richiamato dal legislatore, onde chiarire se anche una "struttura mobile", come quella da lei descritta, possa dirsi assoggettata al rispetto della norma sopra citata.

In proposito, è d'aiuto una pronuncia del Tribunale di Salerno (sentenza n. 818 del 12 aprile 2012), la quale, richiamando a diverse sentenze della Corte di Cassazione (n. 5618/1996, n. 12097 del 1995, n. 11199 del 2000 e n. 25501 del 2007), ha chiarito che la "costruzione rilevante ai sensi dell'art. 907 codice civile non va intesa in senso restrittivo di manufatto in calce, mattoni o in conglomerato cementizio, ma può essere costituita da qualsiasi opera che, qualunque ne sia la forma e determinazione, ostacoli l'esercizio della veduta".

Nel caso di specie, dalla fotografia da lei fornita, pare che, effettivamente, la struttura mobile costruita dai vicini dei suoi genitori pregiudichi il diritto di veduta degli stessi attraverso la propria finestra.

Di conseguenza, si ritiene che la costruzione stessa possa ritenersi illegittima, in quanto non rispettosa dei limiti posti dall'art. 907 c.c.


Wilma M. chiede
venerdì 29/04/2016 - Piemonte
“Domanda:: Stim.mo Avvocato dello studio Brocardi
>
>Le espongo il mio problema e La ringrazio per quanto potrà fare.
> Abito in un condominio di n.4 alloggi non formalmente costituito.
Il mio alloggio è ubicato al piano primo. Il condomino dell'alloggio
> sottostante al mio, situato al piano terreno ha costruito, nel mese di maggio 2015, una tettoia libera ai lati e con copertura rigida, ad uso legnaia, nel suo giardino di proprietà esclusiva.
> La tettoia è una struttura precaria,non ancorata al terreno, ma
solo appoggiata ed è costituita di paletti di legno con copertura in plastica e telo verde.
> Il tetto della tettoia protende sotto un balcone di mia proprietà per circa 80cm e dista dal mio sottobalcone circa 50 cm. Il condomino può fare questo anche senza il mio consenso? Per non subire una lesione del mio diritto di veduta a quale distanza il condomino
dell'alloggio sottostante dovrebbe lasciare libero uno spazio da tutti i lati del mio balcone in questione? Posso chiederne la rimozione e il rispetto delle distanze anche se si tratta di una struttura precaria e non soggetta a vincoli edilizi?
La ringrazio per la Sua cortese attenzione
> Wilma M.”
Consulenza legale i 17/05/2016
Il codice civile, all’art. 907, tutela il diritto di veduta nei confronti del proprietario del fondo vicino che fabbrichi a distanza inferiore a 3 m dalla veduta stessa (in questo caso, un balcone).

Tale ultima distanza, che va rispettata rispetto ad ogni lato del balcone se quest’ultimo consente anche vedute laterali, si misura dalla sporgenza più esterna dello stesso (dalla balaustra o parapetto).

Il discrimine per l’applicazione dell’articolo in questione è quello dell’individuazione esatta delle caratteristiche del nuovo “fabbricato”: la giurisprudenza, infatti, ritiene che il rispetto delle distanze sia dovuto solamente nei casi in cui sia impedito in forma permanente il diritto di godere di aria, luce e visuale: “Il contenuto della servitù di veduta di cui all'art. 907 c.c. non va inteso restrittivamente come il diritto a non avere, entro il raggio di tre metri, impedimenti o ostruzioni permanenti di qualsiasi tipo alla fruizione di luce, aria e visuale, bensì come il diritto di avere, entro lo stesso spazio, libera la visuale da qualsiasi stabile e duraturo ostacolo, anche se questo non rivesta, di per sè, i caratteri della costruzione vera e propria (nella specie, l'ampia tenda realizzata da un condomino, ben ancorata al muro in modo da durare anni, viola palesemente il diritto di veduta del vicino)” (Corte appello Firenze, sez. I, 25 settembre 2010, n. 1373).

In particolare, vengono ritenute costruzioni suscettibili di costituire il predetto ostacolo permanente non solamente e necessariamente le opere in muratura, ma anche tutte quelle che, indipendentemente dal materiale con cui sono costruite, abbiano il carattere della stabilità: “Se oggetto del divieto imposto al vicino dall'art. 907 c.c. è il fabbricare, cioè costruire stabilmente sul suolo un manufatto di qualsiasi forma o destinazione che ostacoli la veduta, ivi comprendendosi non solo le opere che abbiano caratteristiche di un edificio o di una fabbrica in muratura, ma ogni opera che abbia il carattere della stabilità e di una certa consistenza e, dunque, anche tavolati, steccati, tettoie in plastica e simili, non possono ritenersi tali le tende scorrevoli di stoffa. (Nella specie è stato rigettato il ricorso promosso dal condòmino che si era lamentato dell'installazione, a distanza inferiore di quella prevista dalla legge, di una tenda collocata soltanto per determinati periodi di tempo e agilmente rimuovibile, sciogliendo il cordino che la legava all'intelaiatura)” (Tribunale Genova, sez. III, 09/12/2009).

Come si vede nella pronuncia appena richiamata, il manufatto dev’essere di una certa consistenza e soprattutto stabile nel senso di duraturo nel tempo. Secondo alcune sentenze, infatti, non rileverebbe la precarietà “materiale” dell’opera stessa, nel senso che non basta questo (la precarietà materiale) per rendere legittimo il manufatto: “Ai fini del rispetto della distanza delle costruzioni dalle vedute, costituisce "costruzione" qualsiasi opera, di qualunque natura, che si elevi stabilmente dal suolo e che ostacoli l'esercizio della veduta (…), senza che il carattere di precarietà della medesima possa escludere la sua idoneità a costituire turbativa del possesso della veduta come in precedenza esercitata dal titolare del diritto, ed ancorché la stessa difetti di una propria individualità e rappresenti un semplice accessorio del fabbricato. Infatti ai fini dell'art. 907, c.c., inteso a preservare l'esercizio delle vedute (anche in appiombo) da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (…) Inoltre, le norme sulle distanze delle costruzioni dalle vedute si osservano anche nei rapporti tra condomini di un edificio, in quanto l'art. 1102, c.c., non deroga al disposto dell'art. 907, c.c.” (Tribunale Bari, sez. I, 01 dicembre 2009) ed ancora la Cassazione civile (sentenza sez. II, 12 dicembre 2007, n. 21501): “In tema di violazione delle norme sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, ai sensi dell'art. 907 c.c., per costruzione deve intendersi l'opera destinata per la sua funzione a permanere nel tempo, e, tuttavia, il carattere di precarietà della medesima non esclude la sua idoneità a costituire turbativa del possesso della veduta come in precedenza esercitata dal titolare del diritto.

Quello che conta, in definitiva, è che l’opera costruita dal vicino non comporti un ostacolo alla fruizione di aria e luce nella zona di rispetto delle distanze, né una modificazione sostanziale di qualsivoglia altra situazione di godimento in cui si esplica il potere riconosciuto al titolare del diritto di veduta (Cassazione civile, sez. II, 09 febbraio 1993, n. 1598).

Alla luce di tutto quanto sopra esposto e considerato, si può ritenere, ad avviso di chi scrive, che anche se la tettoia realizzata dal vicino non può propriamente dirsi “costruzione stabile” (se è solo appoggiata al terreno, in effetti, può essere rimossa abbastanza agevolmente) né, sicuramente, opera che richiede permessi di costruire o altra autorizzazione, sembrerebbe comunque possedere quelle caratteristiche di durevolezza nel tempo e una conformazione materiale tale da dover essere vincolata al rispetto delle distanze di legge.

In tal caso, sarà possibile chiedere la rimozione o la demolizione dell’opera costruita in violazione delle distanze di legge. E’ bene evidenziare, tuttavia, a tal proposito che - sempre secondo la giurisprudenza - laddove sia possibile, il rimedio della demolizione dovrebbe essere l’ultima opzione, ovvero è preferibile adottare in alternativa e come prima scelta tutti quegli accorgimenti che consentano di contemperare il diritto del vicino di costruire con il diritto di veduta.

Nel caso particolare che ci occupa, pertanto, laddove possibile, si potrà optare per l’arretramento della tettoia a distanza di legge o lo spostamento della medesima in altra zona del fondo vicino che non sia sotto il balcone.

Va ribadito, comunque (non potendo chi scrive visionare la situazione reale dei luoghi) che - al di là ed indipendentemente dalle caratteristiche della tettoia - si dovrà valutare come prima cosa soprattutto se quest’ultima vada a turbare nel concreto ed effettivamente il diritto di veduta del proprietario del balcone, dal momento che i giudici – pur nel rispetto delle indicazioni e dei principi sopra richiamati nelle varie pronunce di giurisprudenza - valutano sempre sulla base della situazione di fatto, che varia caso per caso.


Paola D. chiede
mercoledì 16/09/2015 - Lazio
“Nel 1930 circa fu costruito dal proprietario costruttore, a ridosso delle fondamenta del suo stabile eretto nel 1920 circa, un magazzino abusivo sfruttando la metà di un cortile condominiale tra due palazzi (l'altro non di sua proprietà). Furono chiuse le finestre dell'appartamento del portiere del suo stabile, mentre il lastrico solare del locale fu fatto finire a 40 cm dalle finestre sovrastanti del piano primo. Il costruttore e i proprietari degli appartamenti piano primo -dopo vari litigi- si accordarono di fatto per fare del lastrico il terrazzo degli appartamenti e furono aperte porte finestre e messi parapetti e ringhiere. Ma le porte finestre furono ricondotte a finestre nel 1980 per via dei ladri e il lastrico rimase non accessibile se non che con scale esterne per la pulizia. Accatastato nel 1943, il magazzino C2 è stato poi venduto nel tempo e nel 2014 a un cittadino straniero che con DIA e SCIA sta trasformando il C2 in 2 appartamenti A2 e il lastrico in terrazzo aprendovi 2 punti di sbarco nuovi per l'accesso di persone etc. e trasformando in punti luce due vecchi lucernai preesistenti. Il nuovo proprietario del magazzino/A2 chiede anche lo spostamento dei condizionatori degli appartamenti in quanto posti sotto le finestre a meno di 3 metri. Le finestre però sono a 40 cm dal lastrico costruito originariamente a meno di 3 mt...
Quali sono i rimedi in sede civile e/o urbanistica vista l'inerzia del Municipio?”
Consulenza legale i 21/09/2015
Il quesito descrive un magazzino, dal 2014 di proprietà di Tizio, il quale intende apportarvi delle modifiche importanti.
Si presupporrà d'ora in poi la validità dei titoli edilizi concessi per la richiesta di variazione edilizia dell'immobile.

Ci si chiede, quindi, se il nuovo proprietario del magazzino possa chiedere lo spostamento dei condizionatori degli appartamenti del primo piano, in quanto posti a meno di 3 metri.

Analizziamo prima di tutto la normativa.
Per l'installazione di un impianto di climatizzazione si deve tenere conto di almeno due elementi:
- delle distanze legali tra le costruzioni;
- delle eventuali immissioni prodotte dai macchinari e la conseguente tutela del vicino.

Quanto alla collocazione degli impianti, è necessario il rispetto delle distanze in verticale o in appiombo, ai sensi dell'art. 907 del c.c.. Secondo questa norma, quando si appoggia la nuova costruzione - tale può essere considerato il condizionatore - al muro in cui esistono vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia.

Nel caso di specie, le aperture di due nuovi punti di sbarco, definibili "vedute", avverrebbe ad una distanza inferiore ai tre metri rispetto ai preesistenti condizionatori. Va sottolineato che, però, almeno dal 1980 fino al 2014 il lastrico solare non sembrava presentare alcuna apertura considerabile "veduta" ai sensi di legge. Non potevano definirsi "vedute" i due lucernari, posto che per veduta si intende solo quel tipo di apertura che consente di affacciarsi sul fondo finitimo comodamente (senza rischio) e che permette di sporgere il capo oltre l'apertura stessa per vedere in tutte le direzioni (prospicere in alienum). Il lucernario è, invece, una semplice "luce", cioè una apertura sul fondo del vicino che dà passaggio alla luce e all'aria, ma non permette di affacciarsi.

D'altro canto, il posizionamento dei condizionatori così vicino al lastrico solare è stato in qualche modo "obbligato" dal fatto che le finestre degli appartamenti al primo piano erano già aperte (esistevano sul preesistente edificio del 1920) quando negli anni trenta venne costruito il magazzino con il lastrico solare a soli 40 cm da esse.

Sembra, quindi, potersi affermare che il nuovo proprietario non ha diritto a chiedere lo spostamento delle macchine esterne per il condizionamento degli appartamenti del primo piano, sulla base delle norme sulle distanze legali, in quanto non sussiste il fondamentale presupposto dell'art. 907 sopra citato, cioè l'anteriorità dell'acquisto della veduta (intesa come affaccio dal basso all'alto sul lastrico solare) sul fondo del vicino rispetto all'esercizio, da parte di quest'ultimo, della facoltà di costruire (i condizionatori, preesistenti).

Per quanto riguarda il problema delle immissioni di rumore e condensa, si deve guardare all'art. 844 del c.c., secondo il quale "Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi". Tale norma stabilisce un onere di "sopportare" le immissioni provenienti da un immobile altrui fino ad un livello di normale tollerabilità.
Come si può determinare, quindi, se il livello di tollerabilità è ecceduto?
L'unico soggetto abilitato a stabilirlo è il giudice: egli deve valutare la tollerabilità delle immissioni, di qualsiasi tipo esse siano, tenendo conto del modo in cui vengono in essere e degli interventi che ne sono causa. Di norma, il giudice nomina un consulente che possa aiutarlo nella decisione, che coinvolge aspetti prettamente tecnici. In materia di immissioni la competenza è del giudice di pace (art. 7 del c.p.c.).

Circa eventuali risvolti penali legali al rumore dei condizionatori, la giurisprudenza ha escluso che tale rumore possa configurare il reato previsto e punito dall’art. 659 del c.p. (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) se non è tale da disturbare la tranquillità pubblica e quindi un numero indeterminato di persone ("[...] non sussiste allorquando i rumori arrechino disturbo, come nel caso di specie, ai soli occupanti di un appartamento, all'interno del quale sono percepiti, e non ad altri soggetti abitanti nel condominio in cui è inserita detta abitazione ovvero nelle zone circostanti: infatti, in tale ipotesi non si produce il disturbo, effettivo o potenziale, della tranquillità di un numero indeterminato di soggetti, ma soltanto di quella di definite persone, sicché un fatto del genere può costituire, se del caso, illecito civile, come tale fonte di risarcimento di danno, ma giammai assurgere a violazione penalmente sanzionabile", Cass. pen., 11.1.2012 n. 270).

Si dovrà, infine, valutare se lo stillicidio derivante dalla condensa dei condizionatori costituisca un problema o sia già risolto mediante opportuna canalizzazione del liquido.

Per ciò che concerne la validità dei titoli edilizi concessi per la richiesta di variazione edilizia dell'immobile, nulla di specifico si può dire in questa sede. Un tecnico dovrebbe valutare l'adeguatezza e congruità della documentazione presentata da Tizio al comune per ottenere la DIA e la SCIA.
Ciò che appare certo è sicuramente che Tizio ha acquistato l'immobile "con tutti i diritti e le servitù attive e passive inerenti (ivi comprese anche quelle non apparenti derivanti dall'esistenza dei servizi e delle relative canalizzazioni ed opere accessorie)" e "nello stato di fatto e di diritto in cui si trova" (vedi atto notarile di acquisto del 2014). Tizio avrebbe quindi dovuto tenere conto dello stato dei luoghi prima di presentare un progetto di variazione "disturbato" da elementi preesistenti accanto all'immobile di sua proprietà.

Lorenzo C. chiede
mercoledì 17/12/2014 - Liguria
“Ho una casa con il giardino.Sul giardino si affaccia la camera da letto.Il vicino (ditta rimessaggio barche)ha posto un enorme motoscafo davanti
alla recinzione e togli ogni vista a noi e alle piante senza parlare delle emissioni di fumo frequentissime.Cosa posso fare?”
Consulenza legale i 24/12/2014
La vicenda tratteggiata nel quesito vede due tipi di comportamenti potenzialmente illeciti: la collocazione di un grande motoscafo sul confine e le immissioni di fumo.

Quanto al primo profilo, da un punto di vista autorizzatorio edilizio, se il deposito del motoscafo è stabile (ossia non meramente temporaneo), necessita di permesso di costruire, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.5 ed e.7), del D.P.R. n. 380 del 2001.
Come criterio discretivo si può utilizzare quello dei novanta giorni previsto dall'art. 6, co. 2, lett. b), del medesimo D.P.R. che consente con una comunicazione al comune, l'esecuzione di opere destinate ad essere rimosse entro novanta giorni (T.A.R. Toscana, sez. III, 20 dicembre 2012, n. 2116).
In assenza di titolo abilitativo, al fine di ottenerne la rimozione, bisognerà indagare circa il tempo di permanenza dell'opera in quel punto, l'intenzione di mantenerla per un certo periodo di tempo e soprattutto circa la destinazione urbanistica della zona.

Si pone inoltre un problema di distanze legali, nei limiti in cui sia possibile definire il motoscafo come "costruzione".
L'art. 873 del c.c. stabilisce che "Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore".
L'art. 907 del c.c. prevede un caso più specifico, quello in cui esista una vera e propria servitù di veduta (eventualmente acquisita per usucapione ventennale): in questa ipotesi, il vicino non può "fabbricare" (nel senso di costruire un qualsiasi manufatto che presenti i caratteri dell'inamovibilità e della stabilità) a distanza minore di tre metri.

Riteniamo che nel caso di specie - non essendo nota l'esatta conformazione dei luoghi né l'esistenza di una servitù di veduta - la norma più rilevante potrebbe essere quella circa la distanza delle costruzioni dal confine.

Ma cosa si intende per "costruzioni"?
La giurisprudenza ha risposto a tale domanda in più occasioni, con un'interpretazione via via estensiva. Recentemente, la Cassazione ha statuito quanto segue: "Deve ritenersi 'costruzione' qualsiasi opera non completamente interrata, avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione. Conseguentemente gli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell'immobile, così da ampliarne la superficie o la funzionalità economica, sono soggette al rispetto della normativa sulle distanze" (Cassazione civile, sez. II, sentenza 3 gennaio 2013 n. 72).
Sono stati ritenuti "costruzioni" ai sensi della normativa sulle distanze legali anche i beni mobili immobilizzati al suolo, come le roulotte.
Non si può escludere, quindi, che un motoscafo, sebbene "cosa mobile", data la sua dimensione e la difficoltà nello spostamento, venga considerato "costruzione". In questo caso, il vicino dovrebbe spostarlo ad almeno tre metri dal confine (che si suppone coincida con la recinzione) o alla diversa distanza stabilita dal regolamento comunale. Si consiglia di consultare un tecnico del Comune per avere ragguagli circa la normativa specifica da applicare.

Quanto al secondo aspetto, l'art. 844 del c.c. stabilisce: "Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi".
Quindi, può essere chiesta giudizialmente l'interruzione delle sole immissioni (ad esempio, il fumo proveniente dal motoscafo) che superino la normale tollerabilità. Come insegna la giurisprudenza, il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma è "relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti; spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa" (Cass. civ., Sez. II, 23 maggio 2013, n. 12828).
Quindi, il vicino di casa potrebbe intentare un'azione ex art. 844 c.c. innanzi al giudice di pace (art. 7 del c.p.c.) per conseguire l'eliminazione della causa delle immissioni: si tratta di una azione di tipo negatorio, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche indispensabili per farle cessare. Il superamento della normale tollerabilità, naturalmente, dovrà essere oggetto di prova nel corso del giudizio, a carico dell'attore (colui che si presume danneggiato).

T. O. chiede
giovedì 20/10/2022 - Piemonte
“Buongiorno,
Vorrei installare una pergotenda con 3 paletti di supporto appoggiati a terra e un telo retrattile.
Premetto che vivo in centro storico e quindi sono a conoscenza della necessità di dover attendere il parere favorevole della soprintendenza, ma al momento la problematica principale in cui mi sono imbattuto e sulla distanza dal vicino.
La pergotenda non può rispettare la distanza (dal muro perimetrale di casa mia al muro di confine ci sono circa 3 metri) ed aggiungo che questa struttura in alcun modo può intaccare la visuale, limitare aria o altro essendo che la mia abitazione sovrasta di circa 4 metri la proprietà del vicino. Oltretutto la pergotenda andrebbe installata verso il prato del vicino che dista assolutamente lontano dall’abitazione dello stesso (se fosse possibile ho alcune foto che chiariscono meglio).
Mi è stato riferito che l’installazione della pergotenda deve rispettare 3 metri di distanza dalla proprietà del vicino. ho difficoltà a chiarire questi aspetti con il comune poichè dal momento in cui il mio vicino si è rivolto a loro il responsabile tecnico non vuole avere ploblemi e non mi permette di presentar la pratica se non ho l’autorizzazione del vicino.
Vorrei sapere se c’è una legge che definisce le distanze nel caso di installazione di un arredo da giardino leggero, com’è la pergotenda.
Attendo un vostro cortese riscontro”
Consulenza legale i 27/10/2022
Anche una struttura come la pergotenda può essere soggetta al rispetto delle distanze legali di cui all’art. 873 del c.c..
Infatti, secondo la giurisprudenza, "ai fini dell'osservanza delle distanze legali nelle costruzioni, prescritte dall'art. 873 del c.c. e dalle norme di questo integrative, alla nozione di "costruzione" deve essere ricondotto, avuto riguardo alle finalità della disciplina di regolare i rapporti intersoggettivi di vicinato assicurando in modo equo l'utilizzazione dei fondi limitrofi, qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i requisiti della solidità e della immobilizzazione al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad una preesistente fabbrica” (così tra le altre Cass. Civ., Sez. II, 05/01/2000, n. 45).
Inoltre Cass. Civ., Sez. II, 26/06/2000, n. 8691 ha precisato che può aversi "costruzione", ai fini delle norme sulle distanze, anche se "tale collegamento al suolo avvenga mediante mezzi meccanici i quali consentano mediante procedimenti o manovre o procedimenti inversi una nuova mobilizzazione e l'asportazione del manufatto”.
Potrebbe altresì porsi, almeno in astratto, il problema del rispetto dell’eventuale servitù di veduta acquisita dal vicino, ai sensi dell’art. 907 del c.c..
In merito a tale aspetto la giurisprudenza ha affermato che "la violazione del diritto di veduta del proprietario di un'unità immobiliare si determina quando viene realizzata una "fabbrica", a distanza inferiore a quella prevista dalla legge, di qualsiasi materiale e forma, idonea ad ostacolare stabilmente l'esercizio della "inspectio" e della "prospectio" nonché di godere di luce ed aria dalla veduta” (così Cass. Civ., Sez. II, 30/01/2008, n. 2209).
Naturalmente, si tratta di valutazioni da compiersi caso per caso; laddove si arrivi a un giudizio, rientrerà “nell'apprezzamento discrezionale del giudice di merito [...] stabilire se - nell'ambito dei rapporti di vicinato - opere quali tettoie, tendaggi fissi, estensibili o detraibili, con intelaiatura fissata stabilmente al suolo, costituiscano costruzioni, o a queste possano equipararsi, e se impedendo o limitando - per la struttura, dimensione o conformazione - le vedute in appiombo esercitate dal vicino, debbano rispettare la distanza di tre metri prevista dall'art. 907 c.c.” (Cass. Civ., Sez. II, 06/11/2003, n. 16687).
Ad ogni modo, per verificare che la pergotenda da installare rispetti o meno le norme sulle distanze, è inevitabile farsi assistere da un tecnico.
Appare criticabile, semmai, l’atteggiamento del comune, che intende subordinare il rilascio del titolo edilizio (anzi addirittura, stando a quanto viene riferito, lo stesso avvio del procedimento!) all’ottenimento del consenso del vicino: si tratta di una prassi piuttosto diffusa tra le amministrazioni locali, ma che è stata spesso censurata dalla giurisprudenza amministrativa.

Anonimo chiede
martedì 04/05/2021 - Lombardia
“Buongiorno
Nel caso il vicino costruisse una veranda nel porticato attiguo al mio, chiudendone tutti i lati inclusa la separazione di cinta e questo impattasse in termini di lesione del decoro condominiale, si ricade nell'articolo 1120 e nei relativi quorum (art 1136) deliberativi?

Se invece sempre nello stesso caso, la costruzione della veranda non impattasse sul decoro del condominio, ma solo sul singolo condomino in termini di lesione di diritto di aria/luce, quale articolo del codice regola questa fattispecie?

Grazie
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 09/05/2021
Il quesito non chiarisce se il porticato possa considerarsi bene di proprietà esclusiva oppure parte comune dell’edificio. Dando per presupposto che ci troviamo innanzi alla prima ipotesi (che pare la più probabile), è giusto ricordare che ciascun condomino ha la facoltà di eseguire nel proprio appartamento tutte le opere che ritiene più opportune senza bisogno di alcuna autorizzazione della assemblea, a patto che vengano salvaguardati ai sensi dell’art.1122 del c.c. la stabilità, la sicurezza e il decoro dell’edificio.

Per certi versi anche se il porticato è bene condominiale si può giungere alle medesime conclusioni tenendo conto che la giurisprudenza maggioritaria ritiene che sia possibile aprire un varco sul muro comune senza autorizzazione degli altri comproprietari se viene mantenuta la destinazione economica del bene, la sua sicurezza, stabilità e il suo decoro.

In entrambi casi, se l’opera lede il decoro architettonico si può adire il giudice per chiedere che i lavori non vengano eseguiti o che vengano in qualche modo sospesi. Per autorizzare l’esecuzione di lavori potenzialmente lesivi del suo decoro occorre l’unanimità dei consensi dei componenti del condominio.

In realtà, però, leggendo attentamente il quesito si capisce che il vero problema del lettore risiede nel fatto che l’opera che vuole realizzare il vicino lede la luce e la veduta della propria unità immobiliare. L’art. 907 del c.c. ci dice che quando si è acquistato il diritto di avere una veduta del fondo del vicino, questi non può costruire ad una distanza di tre metri, calcolati ai sensi dell’art. 905 del c.c. Si presti attenzione alla circostanza che l’art. 907 del c.c. introduce un vero e proprio diritto di servitù di non fare di fonte legislativa, e deve essere rispettato al di là del fatto che il porticato possa considerarsi o meno bene condominiale o del fatto che l’apertura della veranda sia soggetta ad una qualsivoglia autorizzazione assembleare.

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