La questione dell' applicabilità o meno dell'art. 571 ai mini di cinta prima del nuovo codice. Evoluzione della giurisprudenza della Cassazione
Le costruzioni di muri di cinta o fatte in prossimità di muri di cinta sono cose di tutti i giorni e quindi interessa particolarmente sapere con precisione come doversi comportare nella costruzione quanto alle distanze legali, per non andare incontro a una lite.
Sotto l'impero del vecchio codice (art. 571) mancava una esplicita disposizione in materia, pertanto la questione fu molto dibattuta tanto nella dottrina quanto nella giurisprudenza. È necessario dare uno sguardo al passato per rendersi conto della ragione della disposizione dell'art. 878 del nuovo codice, intesa appunto a risolvere testualmente l'annosa questione.
Fu un tempo dominante nella dottrina e nella giurisprudenza l'opinione che l'art. 571 si applicasse
anche ai muri di cinta, e quindi le norme circa le distanze legali nelle costruzioni, in particolare l'obbligo di osservare l'intercapedine minima di tre metri, si ritenevano applicabili tanto se si trattava di costruire un muro di cinta di fronte a un edificio preesistente, quanto se si trattava di costruire un edificio di fronte a un preesistente muro di cinta.
In questo senso si era affermata la Cassazione di Torino in una numerosa serie di decisioni, e nello stesso senso decisero la Cassazione di Roma sia come Corte territoriale, a Sezione semplice, sia a Sezioni unite, e mantenne questa tesi anche divenuta Cassazione del Regno fino al 1928.
Sennonché una
deroga al principio generale dell' applicabilità dell'art. 571 ai muri di cinta venne a manifestarsi nella giurisprudenza della Cassazione del Regno a cominciare dal 1925 rispetto ai muri divisori nelle città e sobborghi (art. 559 cod. 1865, corrispondente all'art.
886 del nuovo codice): l'applicabilità dell'art. 571 fu mantenuta per i muri di cinta in genere, mentre fu esclusa per i muri di chiusura obbligatoria di cui all'art. 559. Ma non mancarono le divergenze nell'applicazione di questa tesi: mentre qualche decisione ritenne applicabile l'art. 571 quando il muro divisorio nelle cinta e sobborghi si elevava oltre i tre metri prescritti dall'art. 559, qualche altra statuì che il muro di cinta di cui all'art. 559 si sottraesse alle norme di distanza dell'art. 571 anche quando sorpassasse l'altezza stabilita dalla legge (nella specie si trattava di muro divisorio alto ben 6 metri) «
perché non dall'altezza stabilita dalla legge, ma dalla ubicazione del muro e dalla sua destinazione deve dedursene la natura ». Altre decisioni si allontanarono ancora più dai limiti dell'art. 559, statuendo che l'art. 571 fosse inapplicabile non solo quando si trattasse di muri divisori costruiti a norma dell'art. 559 a cavaliere, metà per parte, sulla linea di confine, ma anche quando fossero costruiti esclusivamente sul suolo di confine di una delle due proprietà contigue a spese esclusive del proprietario.
Ma giunti a questo punto, con tali successivi allargamenti della deroga all'art. 571, era lecito domandarsi quale
differenza restasse ormai tra i muri di cinta ordinari soggetti all'applicazione dell'art. 571 e quelli speciali divisori nelle città e nei sobborghi, a cui l'articolo non era applicabile. Solo il fatto che questi si trovassero in centri abitati e gli altri no? Questo non giustificava però la differenza di trattamento. E allora, tanto valeva ripudiare la teoria fino allora seguita e statuire che l'art. 571
non fosse applicabile ai muri di cinta, a tutti, senza distinzione.
E precisamente in questo senso si è da ultimo affermata la
Cassazione in una serie ininterrotta di sentenze, a cominciare dal 1931 in poi, statuendo l'
inapplicabilità dell'art. 571 a tutti i muri di cinta, indistintamente.
Il nuovo codice nell'art. 878 ha testualmente adottato la soluzione accolta dalla giurisprudenza del Supremo Collegio nell'ultima fase della laboriosa evoluzione. E si può dire così chiusa una
vexata quaestio, che sorta fin sotto il codice sardo, si è dibattuta con alterna vicenda, sotto l'impero del codice del 1865, formando per un periodo di tanti anni un vero incubo per i costruttori.
Essa viene decisa testualmente dall'art. 878 nel senso della inapplicabilità ai muri di cinta delle norme sulle distanze legali nelle costruzioni
L'art. 878 dispone che il muro di cinta non venga considerato per il computo della distanza indicata dall'art.
873: quindi l'intercapedine minima di tre metri si applica solo fra edificio e edificio, non anche tra edificio e muro di cinta, nè tra muro di cinta ed edificio. Agli effetti della distanza legale nelle costruzioni,
il muro di cinta si considera come inesistente,
tamquam non esset.
Di conseguenza, chi volesse costruire un muro di cinta potrebbe fabbricarlo sul confine, anche nel caso in cui sul fondo vicino esista un edificio a distanza minore di tre metri dal confine. E viceversa, l'esistenza di un muro di cinta sul confine non impedisce al vicino di costruire un edificio sul suo fondo anche a distanza minore di tre metri dal preesistente muro di cinta limitrofo.
La disposizione dell'art. 878 si applica
indistintamente a tutti i muri di cinta, sia a quelli di chiusura obbligatoria negli abitati (art.
886) sia agli altri fuori degli abitati, tanto se costruiti a cavallo, metà per parte sul confine, e quindi comuni, quanto se costruiti su area esclusiva di uno dei confinanti e quindi di sua esclusiva proprietà.
La disposizione si applica ai muri di cinta, indipendentemente dall'altezza che essi possono raggiungere in determinati casi. Di solito l'altezza dei muri di cinta non si spinge oltre i tre metri, ma non è escluso che tale altezza possa essere sorpassata, anche se si tratti di chiusura obbligatoria (si veda l'art.
886, n. 5). Infatti, nonostante il sorpasso della normale altezza dei tre metri, il muro non perderà il suo carattere di muro di cinta. Del resto, un'altezza eccessiva e irragionevole ai fini della recinzione potrebbe essere contrastata dal vicino qualora ricorressero gli estremi dell'atto emulatorio (
art. 833 del c.c.).
La disposizione si applica anche agli altri muri isolati di altezza non superiore ai tre metri
Il Progetto della Commissione reale estendeva la disposizione dettata per i muri di cinta a «
ogni altro muro isolato, che non faccia parte di un edificio ». Tale locuzione così generica avrebbe potuto dar luogo a difficoltà di interpretazione, perché, qualora tali muri isolati raggiungessero una notevole altezza, considerarli come non esistenti agli effetti delle distanze legali nelle costruzioni avrebbe prodotto gli inconvenienti che la legge ha voluto evitare col divieto dell'intercapedine minore di tre metri.
Bene quindi ha fatto il legislatore a
limitare la disposizione dell'art. 878 al «
muro isolato che non abbia un'altezza superiore ai tre metri». Se esso ha una altezza superiore è considerato come fabbrica per il computo delle distanze legali nelle costruzioni.
Appoggio di nuova costruzione al muro posto sul confine. Limiti
Il considerare come inesistente agli effetti della distanza legale nelle costruzioni il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia un'altezza superiore ai tre metri avrebbe potuto far nascere un
dubbio se nei confronti di tale muro il vicino potesse esercitare il
diritto di cessione coattiva della comunione anche a scopo di appoggio.
L'art. 878 ha tolto ogni dubbio disponendo nel capoverso che «
quando (il muro) è posto sul confine, può essere reso comune anche a scopo di appoggio, purché non preesista al di là un edificio a distanza inferiore ai tre metri ». La
ragione limitatrice della disposizione è di per sè intuitiva: se al di la del muro preesistesse un edificio a distanza minore di tre metri, l'appoggio della costruzione al muro verrebbe a costituire un'intercapedine minore della legale. Per la stessa ragione sarebbe vietata anche una semplice costruzione in aderenza, senza appoggio, al muro di cinta, ove preesistesse al di là un edificio a distanza minore di tre metri.
Quando invece
non preesista al di là del confine un edificio a distanza minore di tre metri, la nuova costruzione può eseguirsi
in semplice aderenza al muro di cinta, anche senza bisogno del previo acquisto della comunione (art.
877,, n. 2). Solo per i muri che non sono sul confine la comunione forzosa presuppone la condizione di fabbricare contro i medesimi (
art. 875 del c.c.). Pertanto se tale fabbricazione non è possibile per qualunque ragione (vedi sopra art.
875, n. 4) — come nel caso della preesistenza di una fabbrica a meno di tre metri dal muro — non solo sarebbe vietato l'appoggio della nuova costruzione, ma la stessa comunione forzosa riuscirebbe inattuabile.
Quid iuris del muro non posto sul confine
La disposizione dell' art. 878 capov. regola la possibilità della cessione coattiva della comunione e dell'appoggio del muro « q
uando è posto sul confine ». Non si comprende la ragione di questo inciso:
quid iuris se il muro non è posto sul confine?
L'ipotesi non è normale per i muri di cinta che, come tali, solitamente sono ubicati sul confine, allo scopo di delimitare tutto il fondo e non lasciarne nessuna zona al di fuori. Ma l'ipotesi può presentarsi anche per gli altri muri isolati previsti dall'art. 878 primo comma. Si ritiene che anche per tale ipotesi
l'acquisto della comunione del muro sia possibile quando essa serva allo scopo di fabbricare contro il muro stesso secondo la precisa disposizione dell'art.
875: solo la preesistenza di un edificio al di là del muro, a distanza minore di tre metri, potrebbe ostacolare tale acquisto della comunione, venendo meno la condizione della fabbricazione contro il muro, alla quale è subordinata la comunione forzosa del muro che non è sul confine (
art. 875 del c.c.). La fabbricazione contro il muro, infatti, verrebbe a formare un'intercapedine minore della legale. In definitiva, l'inciso di cui all'art. 878 capov. non appare giustificato.