Distanza per l'apertura di vedute dirette, laterali ed oblique
Diverso da quello delle semplici luci è il regime giuridico delle vedute. Le vedute
limitano in misura ben più grave la libertà del vicino, consentendo un comodo e normale affaccio sul suo fondo, quindi a differenza delle luci esse non possono aprirsi immediatamente sul fondo del vicino. Di qui la disposizione dell'art.
905 per cui non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo. È quella dell'art. 906 che esige la distanza di settantacinque centimetri per l'apertura delle vedute laterali od oblique. Per le vedute laterali ed oblique il nuovo codice ha creduto di dover aumentare la distanza, che il vecchio codice (art. 588) limitava a mezzo metro.
Obbligo dell'osservanza delle distanze legali per le vedute esercitabili da qualunque luogo artificialmente sopraelevato sul fondo del vicino
Sotto l'impero del vecchio codice alcuni pretendevano limitare l'obbligo della distanza legale alle sole
vedute aperte nei muri verso il fondo vicino. Ma la dottrina dominante, seguita dalla giurisprudenza, estendeva il divieto a tutte le vedute, senza distinguere da quale luogo esse si esercitassero, se da una finestra a prospetto o da qualsiasi altro luogo artificialmente elevato e prospiciente sul fondo del vicino. Il nuovo codice ha tolto di mezzo la questione disponendo all'art.
905 capov. che non si possono parimenti costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permettano di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo da questo fondo e la linea esteriore di queste opere.
La disposizione che l' art.
905 detta a proposito delle vedute dirette deve ritenersi applicabile alle
vedute oblique e laterali, nel senso che la distanza di settantacinque centimetri deve essere osservata anche per le vedute laterali e oblique che si esercitano da balconi, terrazze, lastrici solari e in genere da qualunque luogo artificialmente sopraelevato sul fondo del vicino.
Certo è che le distanze legali prescritte dal codice per le vedute debbano osservarsi in generale da qualunque luogo
artificialmente sopraelevato sul fondo del vicino. Se, invece, si tratta di un dislivello naturale dei due fondi, il proprietario del fondo inferiore non può lamentarsi di essere soggetto alla veduta dal fondo superiore, così per la stessa ragione non può lamentarsi dello scolo che gli proviene naturalmente dal fondo superiore, senza che vi sia concorsa l'opera dell'uomo (
art. 913 del c.c.): nell' uno e nell'altro caso, infatti, è la natura del luogo che gli nuoce
(natura loci nocet) e non il fatto del vicino.
Se all'estremo della sopraelevazione artificiale debba aggiungersi anche quello dello scopo di inspicere in alienum
In realtà l’estremo della sopraelevazione artificiale sul fondo del vicino dovrebbe essere sufficiente per rendere applicabile l'obbligo dell'osservanza delle distanze legali per le vedute. Ma alcune decisioni della Cassazione non si accontentano di tale estremo e ne aggiungono un altro, richiedendo che la sopraelevazione sia stata effettuata dal proprietario allo scopo di
inspicere in alienum: si deve aver riguardo, cioè, non alla semplice possibilità, che una data costruzione od opera offra di poter guardare sul fondo altrui, ma allo scopo per cui essa fu eseguita, o, meglio ancora, alla sua destinazione permanente e normale.
Sull'esattezza di tale tesi è da formulare qualche riserva. Ammettendo la ricerca dell'elemento intenzionale, da una parte ci si allontana dal
concetto realistico della servitù, che deriva obbiettivamente dai rapporti di fatto costituiti tra fondo e fondo, e dall'altra si sfocia in una casistica che non di rado da luogo a
casi dubbi, e, soprattutto, finisce nella più assoluta arbitrarietà delle decisioni, sotto l'apparenza di decisioni di specie. Cosi ad es., quando il parapetto di un muro di sostegno da comunque la possibilità di una veduta artificialmente creata sul fondo sottostante, si ritiene che essa costituisca sempre una servitù, anche se il giudice di merito possa ritenere che il parapetto abbia essenzialmente scopo diverso dalla veduta. Si sostiene infatti agli effetti della veduta basti la sola
potenzialità dell'affaccio, anche quando vi sia ragione di escludere che l'affaccio costituisca lo scopo essenziale del parapetto.
Si può concordare con la Cassazione che «
per parlarsi di veduta, deve porsi mente a ciò che può avvenire non solo senza pericolo ma anche senza acrobazie; e pertanto la legge non ha potuto riferirsi che a quelle aperture od a quegli sporti da cui e possibile un comodo prospetto sul fondo del vicino ». Ciò è fuori questione! Cosi pure si può sostenere con la Cassazione che debba escludersi il carattere di veduta da un pianerottolo quando «
i giudici di merito abbiano ritenuto che detto pianerottolo nella sua struttura e nel complesso della sua esteriorità non potesse costituire mezzo idoneo per l'esercizio della servitù ». Fin qui siamo nel campo dell'apprezzamento della possibilità oggettiva della veduta. Non lo si è più quando si passa all'esame dello scopo per cui si è costruito il manufatto, se a scopo normale di veduta, o a solo scopo accessorio: in tal caso subentra l'
elemento intenzionale, soggettivo, a cui si nega valore decisivo in materia di servitù.
Casistica. Vedute da terrazze e lastrici solari
L'obbligo dell'osservanza delle distanze legali in materia di vedute da terrazze e da lastrici solari non può ormai formare più oggetto di discussione, dopo la testuale disposizione introdotta dall'art.
905. Peraltro non tutte le terrazze e i lastrici solari sono soggetti al divieto degli art.
905 e 906, ma solo quelli dai quali è possibile esercitare la veduta. Quindi ne restano esclusi quelli ai quali manchi un accesso normale, nonché quelli che non siano muniti di parapetto affacciatoio, come esplicitamente disposto dall'art.
905. Nessuna influenza può avere, invece, la speciale destinazione della terrazza, se cioè destinata a servire di osservatorio ovvero solo di passaggio.
Qualche questione è sorta nella speciale ipotesi in cui da
due lastrici solari, entrambi muniti di normale accesso, si eserciti contemporaneamente una
veduta reciproca dell'uno sull' altro, allo stesso livello, o a un piccolo dislivello che non sia tale da impedire la veduta reciproca. In questo caso ciascuno dei due vicini ha diritto di chiedere la costruzione, a spese comuni, del muro divisorio, in applicazione dell'art.
886 che riteniamo applicabile anche al muro divisorio tra due lastrici solari.
Vedute da terrazze a terra
Analoga a quella dei lastrici solari e delle terrazze sui fabbricati è la condizione giuridica delle terrazze a terra.
Accade talora nella sistemazione edilizia dei terreni a forte pendio di dover spianare qualche tratto di terreno per praticare giardini, accessi carrozzabili ai fabbricati, e via di seguito. In tali casi, che si sono presentati ripetutamente a Roma nella sistemazione edilizia di Monteverde e di Monte Mario, a Napoli, a Genova e in genere nei luoghi dove esistano aree fabbricabili in forte declivio, si formano sul ciglio dello spianamento dei
muretti divisori che, fondati o no sopra sottostanti muri di sostegno costruiti a norma dell'art.
887, vengono a funzionare come veri e propri parapetti affacciatoi. Sara applicabile in questi casi il divieto di cui all’art.
905?
La risposta è affermativa. È vero che si tratta di fondi in dislivello, nei quali quindi la veduta che dal fondo superiore si esercita su quello inferiore deriva dalla situazione dei luoghi
(natura loci nocet). Ma non può negarsi che con lo spianamento del suolo e con la sistemazione dei giardini e viali muniti di comodi parapetti affacciatoi, si venga a creare artificialmente una condizione di cose che aggrava l'incomodo della vicinanza.
Regolarizzazione di vedute illegali dalle terrazze
Ulteriore interessante questione da affrontare concerne quale via debba seguirsi per ridurre in conformità di legge una terrazza, un lastrico solare e simili, da cui si esercita una veduta sul fondo vicino a distanza illegale. Un rimedio radicale sarebbe quello di togliere la veduta alzando parapetto.
Ma si può seguire una diversa quando si voglia conservare una bella veduta, o semplicemente il sole, l' aria ecc.:
fissare una ringhiera o elevare il parapetto affacciatoio, tenuti alla normale altezza di un metro circa, a tale distanza che tra la linea esterna del parapetto e il confine del vicino vi sia la distanza legale di un metro e mezzo (
art. 905 del c.c.).
In alcuni luoghi si usa anche
coprire a tegole tale striscia di rispetto, quasi a dimostrare in modo tangibile che per quella parte la terrazza funziona da semplice copertura dell'edificio e quindi il vicino non potrà mai temere che col decorso del termine prescrizionale il proprietario della terrazza accampi diritti di veduta. Ma ad escludere tale timore, e in corrispondenza la necessità della copertura a tegole della striscia di rispetto, si deve ritenere sufficiente la mancanza in essa di parapetto un affacciatoio (art. 905).
Nel caso di spianamenti del suolo praticati per la sistemazione edilizia di
terreni in forte declivio, qualora non fosse possibile arretrare il parapetto alla distanza legale, può fissarsi all'interno una ringhiera, di normale altezza, a distanza di un metro e mezzo dal fondo vicino.
Vedute da muri di cinta
Altra questione che si è presentata nella pratica riguardava la liceità o meno dell’ apertura di finestre nel muro di cinta. Tizio costruisce a sue spese e sul proprio suolo un muro di cinta, ma per motivi architettonici od altri, invece di costruire un muro cieco, vi apre delle finestre senza i requisiti dell'art.
art. 901 del c.c.: è legittimo il suo operato?
La risposta è negativa. Potrebbe obiettarsi che non può essere proibito il meno quando è permesso fare il più, cioè non dovrebbe essere proibito di guardare attraverso una semplice finestra praticata nel muro di cinta quando invece è possibile, mancando quest’ultimo, di guardare illimitatamente per tutta la linea di confine. Ma è facile rispondere che nel primo caso si ha una veduta artificiale
, che deve intendersi proibita secondo quello che si è detto sopra, mentre non è proibito esercitare una veduta anche più estesa se questa deriva soltanto dallo stato naturale dei luoghi. E si potrebbe anche aggiungere, avvalendosi della viva espressione di un suggestivo civilista francese, che una finestra è «
un occhio costantemente aperto sulla proprietà mia » e posso in ogni istante temere dietro di essa lo sguardo indiscreto del mio vicino, che può giungervi senza che io lo veda, e perciò vi è un reale aggravamento dell'obbligo della vicinanza.
Vedute da porte
Si è discusso se sotto il nome di veduta possa intendersi compresa, e quindi vietata, l'apertura di una porta. In genere si è d'accordo per la
soluzione negativa, perché la porta, di regola, non è destinata alla veduta, ma al passaggio. Ove però la porta serva anche allo scopo di veduta è necessaria l'osservanza della distanza legale.
Generalità del divieto di apertura di vedute a distanza illegale, per quel che riguarda la qualità dei fondi su cui si aprono, la grandezza delle vedute e la loco altezza sul suolo
Gli art.
905 e 906 vietano l'apertura di vedute sul fondo del vicino, senza osservare le distanze in essi prescritte.
La dizione «
fondo » è
generica: essa va intesa in senso lato e, cioè, come comprendente la designazione di ogni immobile cinto o aperto, scoperto o coperto, praticabile o non. Non ha nemmeno importanza che il fondo su cui si esercita la veduta sia sollevato più o meno da terra: pertanto ricorre il divieto di legge anche quando la veduta venga a prospettare sopra una terrazza o ballatoio, o ripiano, appartenenti in proprietà superficiaria separata a persona diversa dal proprietario del suolo. Non ha altresì importanza l'effettività o meno del danno prodotto dalla veduta: donde il divieto testuale dell'apertura di vedute anche sul tetto del vicino.
Il divieto degli art.
905 e 906 non è subordinato a limiti di grandezza delle vedute o di altezza sul fondo vicino: quindi il divieto si estende, indipendentemente dalla loro altezza, a tutte le vedute grandi o piccole che siano. Ed anche ai semplici spiragli, perché anche attraverso un semplice spiraglio si esercita una veduta.
Il divieto si estende anche alle ampliazioni di preesistenti vedute godute
iure servitutis. Anche a non voler ravvisare in tale ampliamento una nuova apertura a distanza illegale, è innegabile che esso costituisce in ogni caso un aggravamento della servitù che deve intendersi vietato. Costituisce, del pari, aggravamento della preesistente servitù di veduta da terrazza l'abbassamento del parapetto e la sostituzione della veduta dalla terrazza in veduta da locale chiuso. È invece lecita la sostituzione di finestra più stretta a quella più ampia preesistente.
Misurazione delle distanze legali
Per la misura delle distanze prescritte dagli art.
905 e 906 il legislatore ha disposto che trattandosi di vedute dirette, la distanza si misura dalla faccia esteriore del muro in cui esse si aprono (art.
905, primo comma), e se si tratta di balconi o altri simili sporti, ovvero di terrazze, lastrici solari e simili muniti di parapetti affacciatoi, dalla linea esteriore di dette opere (art.
905, secondo comma). Trattandosi poi di vedute laterali od oblique la distanza si misura dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto sino alla linea di separazione dei due fondi (art. 906).Naturalmente non tutte le questioni sono risolte da queste disposizioni testuali.
Quanto alla domanda iniziale, e cioè se la veduta si esercita da balconi o altri simili sporti, dovrà prendersi come
punto di partenza la parte esteriore della balaustra o del murello che serve da davanzale all'osservatore e non il limite estremo dei cornicioni e degli altri fregi che possono adornare gli sporti. Infatti la loro estensione, maggiore o minore, non ha nessuna influenza sulla veduta.
Quanto al
punto di arrivo, ossia alla linea di separazione dei due fondi ci si è chiesti cosa succeda nel caso in cui sul confine esista un muro divisorio comune, o un fosso o una siepe parimenti comuni. Alcuni ritengono che in tali casi la linea di separazione dei due fondi corrisponda alla linea mediana del muro, del fosso e della siepe; secondo altri, trattandosi di comunione
pro indiviso, la linea di separazione corrisponde alla facciata esterna del muro e, rispettivamente, alla sponda esterna e al lato esterno del fosso e della siepe comune. Altri all'opposto ritengono che la distanza deve misurarsi tenendo conto dello spessore del muro comune. In realtà, poiché il muro comune, anche se comune
pro indiviso, serve precipuamente nel suo complesso alla separazione dei due fondi, la linea di separazione dei due fondi coincide con la linea mediana del muro. Lo stesso deve ripetersi per il fosso e per la siepe comuni, in quanto abbiano mero carattere divisorio.
Cessazione del divieto quando tra i due fondi esiste una via pubblica. Quid iuris delle vie vicinali
Il divieto degli art.
905 e 906 cessa in due casi. Cessa, anzitutto, quando la veduta sia ostacolata da un muro, sia esso proprio, comune o altrui: la cosa è pacifica quando si tratti di muro proprio, è controversa quando il muro sia altrui o anche comune. La dottrina e la giurisprudenza francese sono nel senso della liceità della veduta verso il muro altrui e comune, rilevando che il vicino mancherebbe d'interesse attuale ad opporvisi, e che il legislatore nel suo divieto non ha avuto di mira la veduta astratta, ma quella che si può realmente esercitare, cioè la vue qui volt, come dicono gli scrittori francesi. Anche la dottrina italiana ritiene che in sostanza, l'esistenza di un muro, qualunque ne sia l'appartenenza, impedisce la veduta verso il fondo del vicino, ed anche stando alla lettera degli art.
905 e 906 non può dirsi che si apra una veduta sul fondo del vicino quando tale veduta è invece chiusa da un muro. L'inciso dell'art. 905 «
verso il fondo chiuso o non chiuso » non è un ostacolo insormontabile: l'articolo intende riferirsi ai fondi chiusi nel senso di fondi recintati che in contrapposizione ai fondi aperti presentano notevoli particolarità nella materia delle servitù.
Naturalmente quanto abbiamo detto circa la libertà di aprire vedute dirette verso il muro altrui senza osservare la distanza legale presuppone che si tratti di un
muro cieco. Perciò, se nel muro altrui si trovassero aperte delle finestre, allora non si tratterebbe propriamente di semplice muro altrui, bensì di
tondo altrui, e quindi ii divieto degli art. 96, 97 tornerebbe appieno applicabile.
Risolta la questione nel senso della inapplicabilità del divieto degli art.
905 e 906 nei confronti delle vedute aperte verso il muro altrui, resta implicitamente e a maggior ragione risolta nello stesso senso la questione nei confronti del
muro comune. Così il divieto degli art. citati resta limitato dall’ esistenza di un muro sul confine, qualunque ne sia l'appartenenza. Beninteso che, venendo a mancare per qualsiasi ragione il muro, il divieto riprende efficacia, qualunque sia il tempo decorso dall'apertura della veduta.
Resta ad esaminare quale
altezza deve avere il muro — proprio, comune o altrui — al fine di rendere inapplicabile il divieto degli art.
905 e 906. Trattandosi di vedute esercitantisi da finestre, la soluzione è facile: basta che l'altezza del muro di fronte corrisponda all'altezza massima della finestra: in tale condizione di cose è certo che non possa parlarsi di veduta sul fondo del vicino.
Qualche difficolta sorge, invece, quando la veduta si eserciti da una
terrazza o da altro luogo artificialmente sopraelevato sul fondo del vicino: quale deve essere in questo caso l'altezza a cui deve spingersi il muro all'effetto di chiudere la veduta? Mancando al riguardo una norma diretta nel Codice, la soluzione va trovata in via di
analogia. Alcuni sostengono che possa ricavarsi analogicamente da quanto la legge dispone in materia di luci (
art. 901 del c.c.) e che quindi possa ritenersi sufficiente l'altezza del muro di due metri e mezzo o di due metri secondo l'elevazione della veduta dal suolo. Infatti tale altezza è sufficiente ad impedire un comodo e normale affaccio sul fondo vicino, tanto è vero che la giurisprudenza caratterizza le aperture praticate a tale altezza come semplici luci, sia pure irregolari, e non come vedute (
art. 902 del c.c.).
Deve però riconoscersi che l'argomentazione analogica tratta dall'art.
901 cit. non corrisponde appieno, perché mancano per la terrazza gli altri due requisiti prescritti per le luci (inferriata e grata fissa). Quindi un vicino eccessivamente esigente potrebbe pretendere un'altezza maggiore, fino cioè a tre metri, argomentando per analogia da quanto dispone l'art.
886 per l'altezza dei muri divisori, e come muro divisorio infatti funziona sostanzialmente in tal caso l'alzamento del parapetto affacciatoio.
Nè varrebbe opporre in contrario quanto ha ritenuto la giurisprudenza negando alle aperture praticate a due metri di altezza il carattere di vedute e caratterizzandole come luci irregolari: infatti per tali luci irregolari la stessa giurisprudenza, e ora testualmente il nuovo codice(
art. 902 del c.c.), ha riconosciuto il diritto del vicino ad esigere in ogni tempo in apposizione dell'inferriata e della grata fissa, cosa che non sarebbe possibile per la veduta dalla terrazza.
Cessazione del divieto quando tra i due fondi esiste una via pubblica. Quid iuris delle vie vicinali
Il divieto sancito dagli art.
905 e 906 cessa anche allorquando tra i due fondi vicini vi sia una strada pubblica (art.
905, terzo comma). Tale disposizione fu introdotta per la prima volta per le vedute dirette dal codice Albertino (art. 611) e attraverso il vecchio codice (art. 587) è passata nel nuovo. Il vecchio codice (art. 588) aveva introdotto, a sua volta, un’ analoga norma per le vedute laterali ed oblique, disponendo che «
cessa il divieto quando la veduta laterale ed obliqua sul fondo del vicino formi nello stesso tempo una veduta diretta sulla via pubblica ». Ma tale disposizione non è stata ripetuta nel nuovo codice forse perché ritenuta assorbita dalla disposizione relativa alle vedute dirette.
La disposizione si
giustifica perché la via pubblica rompe la contiguità dei due fondi che ne sono divisi, e serve tra l’ altro a dare aria e luce ai fabbricati fronteggianti.
Se il suolo della via pubblica fosse sottratto alla sua destinazione e diventasse proprietà privata, riprenderebbe vigore il divieto dell'art.
905 e 906, ma soltanto per le finestre che si intendessero aprire in avvenire: quelle che vi si trovano già aperte non si possono far togliere, perché aperte quando la legge dava il permesso di aprirle.
Diverso è il caso in cui le vedute siano state aperte su strada
erroneamente iscritta nell'elenco delle strade pubbliche e poi, rilevato l'errore, cancellate dall'elenco. Infatti gli elenchi delle strade e piazze pubbliche, avendo carattere semplicemente dichiarativo e non costitutivo della demanialità, forniscono solo una presunzione
iuris tantum di demanialità delle aree in cui sono iscritte. Riconosciuta pertanto la natura privata delle aree già iscritte negli elenchi, e vinta la presunzione derivante dall’ iscrizione, si risolvono e cessano tutte le soluzioni basate sulla presunzione stessa, e quindi anche la liceità delle vedute aperte in applicazione dell'art.
905 ult. capov.
È controverso se anche le
strade private soggette alla servitù di pubblico passaggio (vie vicinali) debbano considerarsi quali vie pubbliche agli effetti dell'art.
905, comma 3: in altri termini, se il divieto di aprire vedute a distanza minore della legale cessi quando tra i due fondi privati intercede una via vicinale. Per la tesi affermativa si argomenta dal fatto che essendo la via vicinale soggetta a servitù pubblica di passaggio cesserebbe la ragione a cui è informato il divieto dell' articolo, e cioè evitare il danno che possa provenire al vicino dalla veduta aperta immediatamente sul suo fondo. Infatti, una volta che la servitù pubblica di passaggio da diritto a tutti non solo di guardare direttamente sulla via, ma anche di percorrerla, non si comprenderebbe più quale pregiudizio speciale possa ricevere il proprietario del suolo dalla veduta, sia pure immediata e continua, che vi esercita il proprietario dell'edificio latistante.
Risulta però preferibile la
tesi negativa: il suolo della via vicinale resta sempre suolo privato, quantunque assoggettato alla servitù di passaggio pubblico, e quindi la disposizione dell' art.
905 primo comma trova diretta applicazione.
Quanto all'asserita assenza di
pregiudizio del proprietario del suolo, si rileva che l’articolo citato, con l'estendere il divieto anche alle vedute aperte sul tetto del vicino, dimostra di prescindere nel fatto dal pregiudizio maggiore o minore prodotto dalla veduta a carico del fondo vicino.
Applicazione del divieto per i fondi separati da una striscia di terreno altrui o comune
Se i due fondi sono separati da una striscia di terreno appartenente ad un terzo, il divieto degli artt.
905 e 906 trova piena applicazione. Lo stesso deve dirsi se la striscia di terreno appartiene in comune ai due proprietari latistanti, poiché in materia di servitù la proprietà comune deve considerarsi proprietà altrui, ad eccezione che attesa la sua speciale destinazione si possa far rientrare nella normale destinazione della medesima anche quella di dare luce ed aria ai fabbricati latistanti.
Il passaggio esercitato da terzi
iure servitutis su di una striscia di terreno fra due fabbricati, non trasforma l'immobile servente in una via pubblica, e pertanto non rende applicabile l' art.
905 ultimo capov.
Irretroattività degli artt. 905 e 906. Limiti
Le disposizioni degli articoli citati non hanno effetto retroattivo: quindi se sotto la vigenza delle leggi preesistenti si sono aperte vedute alla distanza allora permessa, esse si possono conservare anche se tale distanza è minore di quella richiesta dagli articoli suddetti. E su ciò non può nascere alcun dubbio.
La questione nasce per sapere se, in caso di
ricostruzione del muro in cui le vedute erano aperte, si ha il diritto di stabilirle alla
distanza di prima o sia invece obbligatorio osservare la maggiore distanza richiesta ora dagli art.
905 e 906. Secondo alcuni non sarebbe necessario osservare questa maggiore distanza, appunto perché il principio per cui la legge non ha effetto retroattivo comporta che la legge nuova possa coesistere con l'antica per i rapporti che siano sorti sotto la legge antica.
Migliore è la tesi contraria: è vero che la legge non ha effetto retroattivo, ma finché lo stato delle cose resti immutato. Se muta, come avviene in caso di demolizione e ricostruzione del muro, bisogna sottostare alla nuova legge che regola ormai in modo diverso l'esercizio della proprietà. Tutto ciò, beninteso, se si tratta di finestra aperta
iure dominii: se le finestre sono state aperte
iure servitutis, la servitù preesistente si conserva se si ricostruisce il muro o la casa in cui le finestre erano aperte (
art. 1074 del c.c.), salvo che sia già trascorso uno spazio di tempo bastante ad estinguere la servitù (art. cit.).