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Articolo 177 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Oggetto della comunione

Dispositivo dell'art. 177 Codice Civile

Costituiscono oggetto della comunione:

  1. a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali(1) [179];
  2. b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione [191](2);
  3. c) i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati(2);
  4. d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio(3) [181, 191].

Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.

Note

(1) Alla lettera a) dell'articolo in esame viene configurata la contitolarità dei beni provenienti dagli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente, in costanza di matrimonio: tali beni, acquistati anche separatamente, diventano comuni ope legis , ed il coniuge che non ha partecipato all'acquisto ne sarà comproprietario per il 50%.
A tali beni si affiancano, per il medesimo regime operante, anche le aziende di cui al successivo punto d), e i beni acquistati per effetto di successione o donazione, se così specificato nell'atto di liberalità (lett. b), ultimo periodo dell'art. 179 del c.c.).
(2) La cosiddetta "comunione de residuo" si instaura automaticamente al momento dello scioglimento della comunione, per l'equa divisione di quanto acquistato prima e quanto rimane poiché non speso. Si fa riferimento tanto alle lett. b) e c) dell'articolo in esame, quanto ai beni di cui all'art. 178 del c.c. destinati all'attività dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e agli incrementi dell'impresa costituita precedentemente.
(3) In merito all'azienda coniugale, dovrà preliminarmente valutarsi la gestione congiunta o meno della stessa, ed il momento di costituzione rispetto alla celebrazione del matrimonio. Nulla quaestio se l'azienda venne costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi: è oggetto di comunione legale. Diverso se prima del matrimonio la stessa già appartenesse ad uno dei coniugi, ma successivamente venne gestita congiuntamente: la lett. d) e l'ultimo comma dell'articolo in esame specificano che solo eventuali utili ed incrementi andranno in comunione.

Brocardi

De residuo

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 177 Codice Civile

Cass. civ. n. 32212/2022

In tema di rapporti patrimoniali tra coniugi separati, la prescrizione del diritto di credito volto ad ottenere la metà del valore dei beni rientranti nella comunione "de residuo" non è sospesa durante la separazione personale, poiché non è configurabile alcuna riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, essendo oramai conclamata la crisi della coppia e cessata la convivenza, a seguito dell'esperimento delle relative azioni; ne consegue che la prescrizione del menzionato credito comincia a decorrere dal momento in cui si scioglie la comunione legale per effetto della separazione e, dunque, da quando il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero dalla data di sottoscrizione, davanti al medesimo presidente, del processo verbale di separazione consensuale, poi omologato.

Cass. civ. n. 23819/2022

Nell'ipotesi di mutuo congiuntamente stipulato da due coniugi in comunione legale dei beni, il diritto alla restituzione compete non già a questi ultimi, ma alla comunione, con la conseguenza che il pagamento integrale della somma mutuata, da parte del debitore, nei confronti di uno solo dei coniugi ha effetto estintivo per l'intero, per la prevalenza delle regole della comunione legale sul principio della parziarietà delle obbligazioni solidali dal lato attivo. (Nell'affermare il suddetto principio, la S.C. ha ritenuto che nella specie si configurasse un acquisto ex art. 177, comma 1, lett. a, c.c., non avendo i coniugi dedotto che il denaro concesso a mutuo fosse personale, né essendo stato specificato, da parte del coniuge al quale l'intera somma era stata restituita, che trattavasi di incasso a titolo personale).

Cass. civ. n. 22193/2021

In tema di comunione legale tra coniugi, la costruzione realizzata, in costanza di matrimonio, da uno dei coniugi su di un fondo a lui appartenente in proprietà esclusiva entra a far parte del suo patrimonio per effetto delle disposizioni generali in materia di accessione, senza cadere, pertanto, nel novero dei beni oggetto di comunione di cui all'art. 177, primo comma, lettera b) del codice civile. Ne consegue che la tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano del diritto reale (non potendo quegli vantare, in mancanza di un apposito titolo o di una specifica disposizione di legge, alcun diritto di comproprietà, nemmeno superficiaria, sulla costruzione), bensì su quello meramente obbligatorio (nel senso che va a lui riconosciuto un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione).

Cass. civ. n. 11188/2021

In tema di comunione legale tra coniugi, la previsione normativa contenuta nell'art. 177 c.c., lett. a), secondo la quale entrano a far parte della comunione gli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente durante il matrimonio, ai sensi dell'art. 177 c.c., riguarda esclusivamente gli acquisti provenienti da terzi e non gli atti di disposizione intercorsi tra i coniugi stessi (nel caso di specie, in costanza di matrimonio, erano stati alienati da un coniuge, all'altro propri beni personali, consistenti in quote sociali, cui era seguito, all'atto dello scioglimento della società, l'attribuzione di un cespite immobiliare al coniuge acquirente, escluso dalla comunione per espressa indicazione contenuta nel rogito, seguita dalla dichiarazione adesiva dell'altro coniuge).

Cass. civ. n. 17175/2020

I coniugi in regime di comunione legale, al fine di effettuare l'acquisto anche di un solo bene in regime di separazione, sono tenuti a stipulare previamente una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi dell'art. 162 c.c., sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo, per converso, sufficiente una esplicita indicazione contenuta nell'atto di acquisto, posto che questo non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, unico strumento che conferisce certezza in ordine al tipo di regime patrimoniale cui sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi.

Cass. civ. n. 8222/2020

Tra coniugi in regime di comunione legale può essere costituita una società di persone, con un patrimonio costituito dai beni conferiti dagli stessi, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica, sicché, in caso di recesso di un socio, sorgendo a carico della società l'obbligo della liquidazione della sua quota, la domanda del coniuge receduto di accertamento della comproprietà dei beni sociali può essere interpretata dal giudice come tesa alla liquidazione della sua quota sociale. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che potesse riqualificarsi come istanza di liquidazione della quota sociale, la domanda della moglie nei confronti del marito tesa all'accertamento della comproprietà dei beni appartenenti ad una società in nome collettivo, di cui i coniugi in regime di comunione dei beni erano unici soci). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO BRESCIA, 30/04/2018).

Cass. civ. n. 28258/2019

Il principio generale dell'accessione posto dall'art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista "ipso iure" al momento dell'incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l'acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un'apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l'art. 177, comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest'ultimo, mentre al coniuge non proprietario, che abbia contribuito all'onere della costruzione spetta, previo assolvimento dell'onere della prova di avere fornito il proprio sostegno economico, il diritto di ripetere nei confronti dell'altro coniuge le somme spese a tal fine. (Rigetta, CORTE D'APPELLO TRIESTE, 01/06/2016).

Cass. civ. n. 2047/2019

La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l'espropriazione, per crediti personali di uno solo di essi, di uno o più beni in comunione abbia ad oggetto la "res" nella sua interezza e non per la metà o per una quota; ne consegue che, in ipotesi di divisione, è esclusa l'applicabilità sia della disciplina sull'espropriazione dei beni indivisi (artt. 599 ss. c.p.c.) sia di quella contro il terzo non debitore. (Nella specie, la S.C. ha chiarito che non era consentito al giudice disporre la separazione, ai sensi dell'art. 600 c.p.c., della quota spettante al coniuge comproprietario non debitore, né circoscrivere la vendita ad una porzione del tutto, poiché si doveva, invece, procedere ex art. 720 c.c. alla vendita o all'attribuzione dell'intero complesso, costituendo esso una singola unità immobiliare in comunione, nel caso in esame non comodamente divisibile).

Cass. civ. n. 33546/2018

L'usufrutto acquistato da entrambi i coniugi permane, nella sua interezza e senza quota, nella comunione legale fra loro esistente fino allo scioglimento della stessa, allorquando cade in comunione ordinaria fra i medesimi coniugi, che divengono contitolari di tale diritto, ciascuno per la propria quota, fino alla sua naturale estinzione. Tuttavia, ove la cessazione della comunione legale avvenga per effetto del decesso di uno dei coniugi, la quota di usufrutto spettante a quest'ultimo si estingue, non potendo avere durata superiore alla vita del suo titolare, salvo che il titolo non abbia previsto il suo accrescimento in favore del coniuge più longevo. (Rigetta, CORTE D'APPELLO TORINO, 23/12/2013).

Cass. civ. n. 27412/2018

Il principio generale dell'accessione posto dall'art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista "ipso iure", al momento dell'incorporazione, la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere esclusa soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, poiché l'acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario, senza la necessità di un'apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l'art. 177, comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale. Ne consegue che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest'ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, spettando al coniuge non proprietario che abbia contribuito all'onere della costruzione il diritto di ripetere nei confronti dell'altro le somme spese, ai sensi dell'art. 2033 c.c.(Rigetta, CORTE D'APPELLO ROMA, 07/05/2014).

Cass. civ. n. 20969/2018

La comunione legale, in assenza della dichiarazione di dissenso di cui all'art. 228, comma 1, della l. n. 151 del 1975, decorre dal 16 gennaio 1978 e interessa i beni acquistati dai coniugi separatamente nel primo biennio di applicazione della legge stessa - e, dunque, in pendenza del regime transitorio - solo se ancora esistenti, alla scadenza del biennio, nel patrimonio del coniuge che li ha acquistati.

Cass. civ. n. 1429/2018

In regime di comunione legale tra coniugi, in virtù dell'art. 177, comma 1, lett. b) c.c. deve escludersi che rientrino nella comunione "de residuo" i frutti dei beni personali di uno dei coniugi in corso di maturazione, ma non ancora percepiti, al tempo dello scioglimento della comunione legale. (Nella specie la S.C. ha escluso dalla comunione "de residuo" gli interessi su buoni postali di proprietà esclusiva di uno dei coniugi, in corso di maturazione al tempo della separazione personale).

Cass. civ. n. 5652/2017

L’art. 177, comma 1, lett. c), c.c. esclude dalla comunione legale i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione.

Cass. civ. n. 19689/2014

I titoli di partecipazione ad una società cooperativa acquistati, in costanza di matrimonio, da uno dei coniugi ed allo stesso intestati, sono suscettibili di essere compresi nel regime di comunione legale contemplata dall'art. 177, primo comma, lett. a), cod. civ., in tutti i casi in cui il carattere personale della partecipazione non sia recessivo di fronte al dato sostanziale preminente dell'estraneità del socio all'attività che costituisce l'oggetto sociale della cooperativa. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto cadute nella comunione legale le azioni, acquistate durante il matrimonio da uno dei coniugi, di una banca popolare cooperativa, attesa la specificità dell'oggetto sociale, relativo all'esercizio dell'attività di azienda di credito, la diffusa finalità lucrativa ed il difetto della sostanza cooperativistica, nonché la sostanziale divaricazione dell'assetto organizzativo e funzionale, come delineato per le banche popolari dalla disciplina legislativa, rispetto a quello riguardante le cooperative in senso stretto).

Cass. civ. n. 5424/2010

La disciplina della comunione legale tra coniugi è animata dall'intento di tutelare la famiglia attraverso una specifica protezione della posizione dei coniugi che si manifesta, a norma dell'art. 177, primo comma, lettera a), c.c., nel regime dell'attribuzione comune degli acquisti compiuti durante il matrimonio. Tale finalità di protezione è del tutto assente nell'ipotesi in cui i beni acquistati - astrattamente riconducibili al regime della comunione legale - abbiano una provenienza illecita; pertanto, ove il giudice penale abbia sottoposto a confisca, ai sensi dell'art. 2 ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, beni di persona sottoposta a procedimento di prevenzione per sospetta appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, il coniuge non può invocare la disciplina della comunione legale per sottrarre determinati beni alla predetta misura, salvo che dimostri di aver contribuito all'acquisto con proprie disponibilità frutto di attività lecite.

Cass. civ. n. 799/2009

Il credito per l'indennizzo, dovuto ai sensi dell'art. 936 c.c., dal proprietario del suolo per opere fatte dal terzo con materiali propri, non costituisce un acquisto che cade in comunione legale ai sensi dell'art. 177, lett. a ), c.c., dovendo escludersi che la comunione degli acquisti provenienti da attività separata possa comprendere tutti indistintamente i diritti di credito, in quanto, posto che l'atto deve avere ad oggetto l'acquisizione di un «bene » ai sensi degli articoli 810, 812 e 813 c.c., restano esclusi i meri diritti di credito che non abbiano una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio.

Cass. civ. n. 20296/2008

Gli acquisti di beni immobili per usucapione effettuati da uno solo dei coniugi, durante il matrimonio, in vigenza del regime patrimoniale della comunione legale, entrano a far parte della comunione stessa, non distinguendo l'art. 177, primo comma, lettera a) del cod. civ tra gli acquisti a titolo originario e quelli a titolo derivativo. Ne consegue che il momento determinate l'acquisto del diritto "ad usucapionem" da parte dell'altro coniuge, attesa la natura meramente dichiarativa della domanda giudiziale, s'identifica con la maturazione del termine legale d'ininterrotto possesso richiesto dalla legge.

Cass. civ. n. 6120/2008

In tema di comunione legale tra coniugi, la previsione normativa contenuta nell'art. 177 lettera a) c.c., secondo la quale entrano a far parte della comunione gli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente durante il matrimonio, ai sensi dell'art. 177 c.c., riguarda esclusivamente gli acquisti provenienti da terzi e non gli atti di disposizione intercorsi tra i coniugi stessi. (Nel caso di specie, in costanza di matrimonio, erano stati alienati da un coniuge, all'altro propri beni personali, consistenti in quote sociali, cui era seguito, all'atto dello scioglimento della società, l'attribuzione di un cespite immobiliare al coniuge acquirente, escluso dalla comunione per espressa indicazione contenuta nel rogito, seguita dalla dichiarazione adesiva dell'altro coniuge. La Corte, confermando la sentenza di secondo grado, ne ha escluso la riconduzione alla comunione legale, richiesta dal cedente).

Cass. civ. n. 8002/2004

Il regime di comunione coniugale di cui all'art. 177 c.c. coinvolge i soli acquisti di beni e non inerisce invece alla instaurazione di rapporti meramente creditizi, quali quelli connessi, ad esempio, all'apertura di un conto corrente bancario nel corso della convivenza coniugale, i quali, se cointestati, non esorbitano dalla logica di un tal tipo di rapporti e non conoscono quindi alcuna preclusione legata al preventivo scioglimento della comunione legale coniugale e — quindi — al preventivo passaggio in giudicato della sentenza di separazione.

Cass. civ. n. 7060/2004

Il principio generale dell'accessione posto dall'art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista ipso iure al momento dell'incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l'acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un'apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l'art. 177, primo comma, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest'ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non proprietario che abbia contribuito all'onere della costruzione spetta, ai sensi dell'art. 2033 c.c., il diritto di ripetere nei confronti dell'altro coniuge le somme spese.

Cass. civ. n. 13441/2003

L'art. 177, lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno di essi e consumati in epoca precedente allo scioglimento della comunione.

Cass. civ. n. 14897/2000

Costituiscono oggetto della comunione cosiddetta de residuo, ai sensi dell'articolo 177, lett. c) c.c., non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito secondo cui ricadevano in comunione de residuo le somme depositate su un conto corrente cointestato, ritirate prima della separazione e asseritamente utilizzate per l'attività d'impresa del coniuge prelevante).

Cass. civ. n. 14237/2000

Nel caso di acquisto di appartamento ad uso abitativo da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale, l'altro ne diviene comproprietario ex art. 177 c.c. con diritto a fruire delle agevolazioni fiscali contemplate in relazione all'acquisto della «prima casa» anche se sprovvisto dei requisiti di legge, sussistenti solo in capo al coniuge acquirente.

Cass. civ. n. 4716/1999

La costruzione realizzata da entrambi i coniugi sul suolo di proprietà esclusiva di uno di essi non rientra nella comunione legale dei beni di cui all'art. 159 c.c., con la conseguenza che il coniuge titolare esclusivo del manufatto così realizzato può, del tutto legittimamente, attribuire all'altro coniuge, con atto unilaterale risultante da scrittura privata non autenticata (atto a causa atipica, non liberale ma corrispettiva, dall'effetto evidentemente costitutivo), il diritto di proprietà sul 50% dell'appartamento, sulla base del contestuale riconoscimento «dell'averlo costruito insieme».

Cass. civ. n. 1292/1998

Anche se per la vendita di un veicolo non è necessario il consenso dell'altro coniuge in regime di comunione legale dei beni (art. 159 c.c.) essendo sufficiente la dichiarazione autenticata del trasferimento verbale del venditore per l'iscrizione o la trascrizione nel P.R.A. (artt. 13 e 16 R.D. 29 luglio 1927, n. 1814), tale bene tuttavia entra automaticamente nel patrimonio di entrambi i coniugi (art. 177 lett. a, c.c.), pur essendo consumabile e oneroso, salvo che il giudice del merito ne accerti la natura personale (art. 179 lett. c) e d), c.c.).

Cass. civ. n. 4273/1996

In regime di comunione legale fra coniugi, i beni che possono formare oggetto della comunione de residuo, che si forma ai sensi dell'art. 177 comma primo lettere b) e c) all'atto dello scioglimento della comunione stessa sui frutti non consumati dei beni propri e sui proventi dell'attività separata, possono consistere esclusivamente in beni mobili o in diritti di credito verso terzi, con esclusione, pertanto, degli immobili.

Cass. civ. n. 651/1996

Nel regime di comunione legale, la costruzione realizzata durante il matrimonio da entrambi i coniugi, sul suolo di proprietà personale ed esclusiva di uno di essi, appartiene esclusivamente a quest'ultimo in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e pertanto non costituisce oggetto della comunione legale, ai sensi dell'art. 177 primo comma lett. b) c.c. In siffatta ipotesi, la tutela del coniuge non proprietario del suolo, opera non sul piano del diritto reale (nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla costruzione), ma sul piano obbligatorio, nel senso che a costui compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione.

Cass. civ. n. 12523/1993

La cessazione della convivenza dei coniugi, ancorché autorizzata con i provvedimenti provvisori adottati a norma dell'art. 708 terzo comma c.p.c., non osta a che i beni successivamente acquistati dai coniugi medesimi ricadano nella comunione legale, ai sensi dell'art. 177 primo comma lett. a) c.c., dato che l'operatività di tale disposizione, in base alle regole evincibili dall'art. 191 c.c. in tema di scioglimento della comunione, viene meno ex nunc con l'instaurarsi del regime di separazione, a seguito del provvedimento giudiziale che la pronunci in via definitiva, ovvero che omologhi l'accordo al riguardo intervenuto.

Cass. civ. n. 9513/1991

La comunione legale fra coniugi, di cui all'art. 177 c.c., riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali rispetto all'acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione. Ne consegue che, nel caso di un contratto preliminare di vendita, stipulato da uno solo dei coniugi, l'altro coniuge non è legittimato - sostituendosi al primo - a proporre la domanda di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.

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Consulenze legali
relative all'articolo 177 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Anonima chiede
giovedì 24/10/2024
“Premetto che siamo due coniugi (TIZIO e CAIO) con regime di comunione dei beni, ciascuno con un conto corrente personale.
1) Il coniuge TIZIO, dipendente pubblico, è titolare di conto corrente dove mensilmente gli viene versato lo stipendio. Egli, senza informare il coniuge, ha utilizzato parte del denaro del proprio conto corrente per acquistare: polizze assicurative i cui beneficiari individuati sono i figli; fondo pensione (obbligazionario misto e azionario); BTP; piano di accumulo (obbligazionario e azionario). Recentemente, senza informare il coniuge, TIZIO ha venduto parte dei titoli acquistati maturando un esiguo guadagno sulla quota inizialmente investita.
Domanda:
In base alla normativa che regolamenta la comunione dei beni:
- in continuità di matrimonio ed, eventualmente in caso di separazione/divorzio, quali diritti può vantare il coniuge CAIO, sugli investimenti di TIZIO e sul ricavato della vendita dei titoli ?”
Consulenza legale i 29/10/2024
Secondo il parere di chi scrive, il denaro derivante dagli investimenti di Tizio e dalla vendita dei titoli da lui acquistati rientra nella c.d. comunione de residuo. Quest’ultima, infatti, comprende beni che cadono in comunione solo se ancora esistenti al momento dello scioglimento della comunione stessa.
Più precisamente, l’art. 177, comma 1, lett. b) e c) del codice civile include nella comunione dei beni tra coniugi:
  • i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
  • i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati.
La giurisprudenza, specie di merito (Tribunale di Ascoli Piceno, 22/08/2017, n. 741), ha precisato che “il principio generale regolatore della comunione de residuo, è che costituiscono oggetto della comunione ai sensi dell'art. 177 lett. c) c.c. tutti quei redditi individuali prodotti da ciascuno dei coniugi, sia derivanti da capitale, sia provenienti dalla propria attività, che residuino al tempo dello scioglimento della comunione, fino a tale momento rimanendo di pertinenza esclusiva del relativo titolare”.
Ancora, il Tribunale di Padova, Sez. I, 26/02/2015, n. 623 ha affermato che “i redditi individuali dei coniugi, tanto che si tratti di redditi di capitali, quanto che si tratti di proventi della loro attività separata, non cadono automaticamente in comunione, ma rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a diventare comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di scioglimento della comunione”.
Inoltre la Corte di Cassazione (Sez. V Civ., sentenza 06/05/2009, n. 10386) ha chiarito che “il saldo attivo di un conto corrente bancario o postale intestato in regime di comunione legale dei beni soltanto ad uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell'attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, deve considerarsi pure facente parte della comunione legale dei beni [...] allorquando [...] si verifica in concreto lo scioglimento della comunione”.

Anonimo chiede
lunedì 21/10/2024
“Mio padre, poco prima della morte, ha trasferito la maggior parte delle sue diponibilità (oltre 300.000 euro) dal suo conto personale al conto del coniuge (mia madre) in regime di comunione dei beni. Ha anche trasferito circa 25.000 euro sul conto di mia sorella. La domanda è questa: in mancanza di formalizzazioni, le somme cosi conferite possono essere considerate donazioni e pertanto rientrare nell'asse erditario di mio padre ?”
Consulenza legale i 26/10/2024
Alla domanda che si pone va data una risposta diversa a seconda dei beneficiari dei trasferimenti di denaro.
Nel caso del bonifico in favore della figlia sembra abbastanza pacifico che lo stesso possa configurarsi come donazione diretta di denaro, soprattutto se quel bonifico non dovesse risultare accompagnato da una causale ben precisa, volta a chiarirne le ragioni (ad esempio “rimborso somme ricevute in prestito”).
In mancanza di espressa causale, infatti, si presume che il trasferente sia stato animato dall’intento liberale di arricchire il patrimonio della figlia, con la conseguenza che quest’ultima, divenuta coerede, sarà soggetta all’obbligo della collazione e che di tale somma si dovrà tener conto ex art. 556 del c.c. ai fini della determinazione della massa ereditaria complessiva sulla quale stabilire il valore della quota di riserva spettante a ciascun legittimario.

Un po’ più complessa, invece, è la situazione per ciò che concerne il trasferimento di somme di denaro dal conto personale di uno dei coniugi al conto personale dell’altro, allorchè si tratti di coniugi in regime di comunione legale dei beni.
Innanzitutto si impone una considerazione preliminare: la ratio che ha ispirato il legislatore del 1975 a scegliere la comunione legale dei beni quale regime patrimoniale primario della famiglia è stata essenzialmente quella di imputare a ciascun coniuge in parti uguali l’incremento patrimoniale della famiglia, prescindendosi da chi dei due coniugi abbia effettivamente apportato il denaro.
Costituisce, infatti, opinione pacifica in giurisprudenza quella secondo cui la comunione legale dei beni investe tutti i diritti che accrescono la sfera patrimoniale dei coniugi ex artt. 177 e 178 c.c., sia quelli di natura immobiliare che mobiliare (tra questi ultimi deve farsi rientrare il denaro depositato presso un conto corrente bancario, che può essere sia cointestato che personale).

Fatta questa precisazione, va a questo punto detto che due sono le fattispecie in cui si può suddividere la comunione legale dei beni, ovvero:
  1. quella immediata, disciplinata all’art. 177 c.c.;
  2. quella c.d. de residuo o differita, così definita perché la sussistenza dei beni rileva al momento del verificarsi di una causa di scioglimento della stessa comunione.
Rientrano in questa seconda fattispecie, le seguenti ipotesi espressamente disciplinate dagli artt. 177 e 178 c.c.:
  1. i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
  2. i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;
  3. I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.

Ora, l’interrogativo che spesso nella prassi ci si pone è quello di riuscire a comprendere a chi concretamente spetti il denaro depositato sul conto corrente di uno dei coniugi in comunione legale.
Per rispondere a tale interrogativo risulta fondamentale verificare e dare prova del titolo da cui proviene il denaro, in quanto in base a tale provenienza le somme depositate su quel conto potranno farsi ricadere nella comunione immeditata o in quella de residuo.
Così, ad esempio, il denaro che arriva sul conto per effetto del rapporto di lavoro del coniuge intestatario rimane di sua proprietà fino ad una futura separazione o causa di scioglimento, mentre il denaro derivante dall’attività svolta in comune dai coniugi cade sin da subito in comunione senza che si debba attendere un futura separazione.

In altri termini, in caso di coniugi in comunione legale dei beni, il denaro depositato sul conto corrente personale di uno dei coniugi, se riconducibile a colui che ne è l’intestatario, diventa di proprietà anche dell’altro coniuge (c.d. comunione de residuo) soltanto nel momento in cui i due coniugi dovessero decidere di separarsi o dovesse verificarsi una causa di scioglimento della comunione, quale può essere la morte di uno di essi.
Prima di quel momento non esiste alcun diritto del coniuge non intestatario di pretendere la metà del denaro depositato e l’unico titolare del diritto di credito nei confronti dell’istituto bancario è l’intestatario del conto corrente, salvo che non abbia ceduto il credito o parte di esso.

Pertanto, facendo applicazione dei principi sopra esposti al caso in esame, può asserirsi che il trasferimento della somma di denaro dal conto personale del marito a quello personale della moglie può configurarsi come donazione a condizione che si riesca anche a dare prova del fatto che il conto del padre veniva alimentato soltanto con proventi dell’attività dello stesso e non con denaro derivante dall’attività svolta in comune dai coniugi.
Se non si ha prova di ciò né è possibile procurarsela, al momento della morte del padre soltanto la metà delle somme depositate sul conto corrente personale della madre andranno in successione, in quanto su tali somme opererà il principio della comunione de residuo.


A. G. chiede
mercoledì 08/11/2023
“Salve.
Il mio caso è il seguente: mio marito prima del matrimonio ha aperto una srls di cui è amministratore unico senza soci. In questa società ci lavoro anche io ma senza nessun contratto. La società oltre ai suoi rientri possiede anche un immobile. Mio marito inoltre ha due figli dal suo matrimonio precedente. Attualmente noi siamo in comunione dei beni.
La mia domanda è la seguente: se mio marito viene a mancare, che fine fa la società? Che fine fanno i soldi e l'immobile?
Grazie mille”
Consulenza legale i 14/11/2023
La domanda sostanzialmente verte su quale sarà la sorte della s.r.l.s. e dei beni a tale società facenti capo (immobili, crediti, debiti, ecc.) al momento della morte del suo unico socio e amministratore, tenuto conto che trattasi di società costituita da uno solo dei coniugi, versanti in regime di comunione legale dei beni, in data antecedente al matrimonio.

La soluzione si rinviene nel testo dell’ultimo comma dell’art. 177 c.c., norma che nel fare espresso riferimento alle aziende appartenenti ad uno solo dei coniugi anteriormente al matrimonio, ma gestite da entrambi, dispone che la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.
Nel caso di specie ci si trova di fronte ad azienda costituita in forma societaria da uno solo dei coniugi prima del matrimonio, gestita (almeno formalmente) dal solo coniuge titolare della partecipazione sociale (ricoprendo questi la posizione di unico socio ed amministratore), all’interno della quale l’altro coniuge si limita a fornire il proprio contributo materiale, senza che sussista alcun elemento formale che valga ad attribuire giuridica rilevanza a tale apporto (né come lavoratore di quell’azienda e neppure come preposto all’esercizio della stessa).

La ragione di tale conclusione sta nella considerazione secondo cui l’azienda di cui si discute viene condotta nella veste formale della società di capitali, il che induce a dover escludere che possa ritenersi configurabile, per effetto della cogestione di essa, una società di fatto tra i coniugi, per la quale debba farsi applicazione della disciplina dettata in tema di s.n.c., trattandosi, come si presume, di impresa commerciale.

Si tenga, peraltro, presente che la giurisprudenza di legittimità (in particolare cfr. Cass. Sez. I ordinanza n. 8222 del 27.04.2020), nell’occuparsi della questione se i coniugi in regime di comunione legale possano costituire una società per l’esercizio in comune dell’attività di impresa, ha precisato che i regimi dello svolgimento di attività d'impresa nell'ambito della famiglia possono assumere qualificazioni giuridiche diverse, da cui deriva una differente disciplina regolatrice dei rispettivi rapporti, e precisamente:
a) l'azienda coniugale ex art. 177, 1° co., lett. d c.c.,;
b) l'azienda appartenente ad un solo coniugi con mera comunione degli utili e degli incrementi ex art. 177, 2° co. c.c.;
c) l'impresa gestita individualmente da uno dei coniugi ex art. 178 del c.c.;
d) l'impresa familiare ex artt. 230 bis e 230 ter c.c.;
e) la società di persone di cui agli artt. 2251 e ss. c.c., le società di capitali, sino al cd. patto di famiglia ex art. 768 bis del c.c..

Non sembra sussistere dubbio che la fattispecie in esame non possa farsi rientrare nel campo di applicazione di alcuna delle ipotesi sopra descritte, neppure in quella descritta sub lettera b), per la cui configurabilità si presuppone la sussistenza di una gestione comune da parte di entrambi i coniugi, gestione che qui non risulta da alcun rapporto formale (si può parlare di gestione comune solo nel momento in cui entrambi i coniugi assumano la qualifica di imprenditori).
Da ciò se ne deve far conseguire che il coniuge escluso, almeno formalmente, da quella società potrà soltanto giovarsi, ma come comunione residuale (c.d. de resiudo), dei proventi derivanti dall’esercizio della stessa ex art. 177 lett. c) c.c. (sempre che al momento dello scioglimento della comunione non siano stati consumati).

Sotto il profilo prettamente successorio, pertanto, si avrà che, una volta deceduto il coniuge unico socio e amministratore della s.r.l., per effetto di quanto disposto dall’art. 2469 del c.c. quella partecipazione sociale cadrà in successione e saranno gli eredi, legittimi o testamentari, ad accettare l’eredità del de cuius, nella quale vi si trova, tra gli altri beni, la partecipazione sociale.
A quel punto, acquistando la qualità di soci, dovranno nominare il nuovo amministratore, secondo le regole proprie della società, e decidere se continuare o meno lo svolgimento dell’attività sociale ovvero porre la società in liquidazione.

Per quanto concerne l’individuazione degli eredi, in manca di espressa volontà testamentaria, l’eredità, compresa la partecipazione sociale, andrà divisa secondo la regola dettata dall’art. 581 del c.c., ovvero in ragione di un terzo in favore del coniuge superstite e di due terzi indivisi in favore dei figli nati dal primo matrimonio.

F. F. chiede
venerdì 01/09/2023
“(Q202334295)
- Con il Tfr di lui, in pensione nel 2006, i coniugi investivano in una polizza, denominata Bussola Prestige della Banca Monte dei Paschi di Siena, € 150.000,00: lei contraente (titolare) e assicurata, lui beneficiario in caso morte di lei.
Quella decisione era stata assunta, per creare un investimento utile per le necessità future della famiglia, tra le quali gli auspicabili studi universitari del figlio che aveva cinque anni. Uno strumento finanziario, non previdenziale che, al momento della crisi del 2008 e 2012, in quello aveva trovato rifugio altra parte delle disponibilità della comunione, perché a capitale garantito. A partire dal 2020 fino al 2023, per circa 4 anni, dalla Bussola P. sono state prelevate le somme necessarie per sostenere le spese relative agli studi universitari del figlio in altre città.
- Nel 2020, lei sottraeva alla comunione legale quella polizza, € 320.000,00, sostituendo a sé stessa, nella posizione di “contraente”, di fatto un terzo, anche se si tratta del loro figlio. Ma, non assegnava a lui la posizione di beneficiario in caso vita, l’assegnava a sé stessa. Quindi non più come in origine, quando la posizione di contraente e beneficiario coincidevano. Il terzo (figlio) contraente, la madre assicurata e beneficiaria in caso vita, come in origine. Nelle due dichiarazioni di atto notorio richieste dal Tribunale, dal Presidente prima, e dal Giudice Istruttore dopo, ometteva di dichiarare quella sua posizione che, alla scadenza, il 09.01.2026, le consentirebbe d’ incassare l’intera somma.
- In precedenza, il 10.12.2019, aveva già provveduto a far cancellare, dalla posizione di erede in caso di sua morte lui, il coniuge, che, da quel momento, era quindi stato del tutto escluso.
- In assenza di adeguati e tempestivi provvedimenti giudiziari, il 9 gennaio 2026, lei potrebbe incassare l’intera somma residua ma, non solo, da quando può effettuare prelevamenti senza alcun limite di spesa, il figlio conduce una vita molto dispendiosa.
Ciò premesso, nella consapevolezza che non è possibile ricorrere, per questo motivo, alla denuncia/querela del coniuge, perché la legge non lo consente, chiedo a quale misura cautelare (sequestro od altra) sia per voi possibile ricorrere, sia allo scopo di precludere il progressivo svuotamento della suddetta polizza, sia per chiedere la restituzione della stessa alla comunione. Un cordiale saluto”
Consulenza legale i 07/09/2023
Purtroppo le soluzioni negoziali a cui finora la moglie ha fatto ricorso non si pongono in contrasto con alcuna norma di legge né possono considerarsi poste in essere in frode all’altro coniuge.
Infatti, analizzando la situazione sin dall’inizio, va detto che le somme liquidate al marito in costanza di comunione legale a titolo di TFR devono farsi a pieno titolo rientrare nella lettera c) dell’art. 177 c.c., norma che fa riferimento ai proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi.
Tali proventi confluiscono in quella che si definisce “comunione de residuo”, ovvero costituiscono oggetto di comunione soltanto nella misura in cui non siano stati consumati al momento del suo scioglimento (in tal senso si è espresso il Tribunale di Padova con sentenza del 26.09.1985).

Nel caso di specie i coniugi, di comune accordo, hanno deciso di utilizzare quelle somme per l’acquisto di una polizza intestata alla moglie, con le seguenti conseguenze:
a) la polizza vita, seppure acquistata in costanza di matrimonio, è divenuta bene personale del solo coniuge contraente (la moglie);
b) le somme utilizzate per l’acquisto di tale polizza non potranno confluire nella comunione de residuo di cui si è detto prima.

Anche la scelta negoziale successiva, ovvero quella di cedere il contratto al figlio e di designare lei stessa quale beneficiaria risulta del tutto legittima e non può essere in alcun modo attaccata.
Infatti, leggendo le condizioni di assicurazione relative alla polizza in oggetto, risulta espressamente previsto che il contraente assicurato ha facoltà di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto ex art. 1406 del c.c.; è sufficiente una richiesta in tal senso sottoscritta sia dal contraente cedente che dal cessionario, da inviare tramite raccomandata all’assicurazione, la quale provvederà a sua volta ad inviare una comunicazione di accettazione.

Anche la facoltà di revoca o modifica del beneficiario o dei beneficiari risulta espressamente prevista nelle condizioni contrattuali della polizza, dalla cui lettura si desume che la designazione dei beneficiari non può più essere revocata o modificata soltanto nei seguenti casi:
a) dopo che il contraente ed il beneficiario abbiano dichiarato per iscritto alla compagnia di assicurazione rispettivamente la rinuncia al potere di revoca e l’accettazione del beneficio;
b) da parte degli eredi dopo la morte del contraente;
c) dopo che, verificatosi l’evento previsto, il beneficiario abbia comunicato per iscritto alla compagnia di volersi avvalere del beneficio.

Stando così le cose, considerato che il figlio è l’attuale contraente della polizza e che come tale è pienamente legittimato ad effettuarne anche riscatti parziali, si ritiene che non sussistano i presupposti per richiederne il sequestro o per potersi avvalere di altri strumenti di tutela preventiva dei propri interessi.
Qualunque pretesa sulle somme così investite potrà al più essere fatta valere in sede successoria, considerato che i premi pagati per la stipula della polizza assicurativa configurano una donazione e, pertanto, potranno essere assoggettati a collazione.
In particolare, va qualificata come donazione, seppure indiretta, la cessione che la madre ha fatto al figlio della propria posizione contrattuale ex art. 1406 c.c., non essendo stato previsto alcun corrispettivo per essa e non potendo, pertanto, che ricondursi a mero spirito di liberalità.
Ciò comporta che il figlio, beneficiario di quella liberalità, in sede di ricostituzione della massa ereditaria, sarà tenuto ad imputare alla sua quota una somma di denaro pari ai premi versati per la stipula della polizza assicurativa.


A. O. chiede
domenica 23/10/2022 - Trentino-Alto Adige
“Vorrei sapere se gli introiti derivanti dall’impresa familiare e versati sul conto corrente intestato al titolare dell’impresa stessa rientrano nella comunione legale de beni, posto che il coniuge è uno dei tre collaboratori familiari.”
Consulenza legale i 27/10/2022
Va ricordato che - come ribadito più volte anche dalla giurisprudenza - l’impresa familiare è e rimane un’impresa individuale; si veda ad es. Cass. Civ., Sez. Unite, 06/11/2014, n. 23676: “la disciplina dell'impresa familiare non è applicabile alla collaborazione prestata in favore di congiunti che svolgono attività imprenditoriale in forma societaria”.
Ancora, secondo Cass. Civ., Sez. I, 02/12/2015, n. 24560, “l'impresa familiare di cui all'art. 230 bis del c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall'impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile. L'inesistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire implica che questi ultimi sono assegnati in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell'azienda o all'acquisto di beni”.
Ciò premesso, ad avviso di chi scrive la soluzione al quesito - proprio per le caratteristiche dell'impresa familiare - va ricercata nell’art. 177 del c.c., comma 1, lett. c., ai sensi del quale i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi rientrano nella c.d. comunionede residuo, ossia cadono in comunione al momento dello scioglimento di quest’ultima, se e nella misura in cui non siano stati consumati.
Come ha chiarito la giurisprudenza di merito (Tribunale Ascoli Piceno, 22/08/2017, n. 741), “il principio generale regolatore della comunione de residuo, è che costituiscono oggetto della comunione ai sensi dell'art. 177 lett. c) c.c. tutti quei redditi individuali prodotti da ciascuno dei coniugi, sia derivanti da capitale, sia provenienti dalla propria attività, che residuino al tempo dello scioglimento della comunione, fino a tale momento rimanendo di pertinenza esclusiva del relativo titolare”.

J. B. chiede
giovedì 20/10/2022 - Lombardia
“E' in corso una mediazione civile riguardante la successione testamentaria del de cuius AM, marito di mia madre NL.
La controparte (i due figli di AM, nati da precedenti matrimoni) ritiene ci sia lesione di legittima e che debba essere considerata come donazione in vita la metà di un bonifico di 100000 euro effettuato dal de cuius da un proprio conto personale al conto cointestato con la moglie (in regime di comunione dei beni). La somma in questione, precisando che non deriva da alcun tipo di donazione, può quindi essere considerata come tale?”
Consulenza legale i 26/10/2022
L’operazione a cui si fa riferimento nel caso in esame e che costituisce oggetto di controversia tra le parti è quella che tecnicamente si definisce come “giroconto”, la quale si configura allorchè un unico soggetto, titolare di più conti correnti, trasferisca una somma di denaro da un conto corrente ad un altro (in questo caso il trasferimento è stato effettuato da un conto corrente di cui uno dei coniugi era titolare esclusivo ad un conto corrente cointestato con l’altro coniuge in regime di comunione legale dei beni).

In linea generale, un’operazione di tale tipo configura, ormai per orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, un’ipotesi tipica di donazione indiretta.
La donazione indiretta, di cui manca una nozione unitaria in dottrina, si può definire come quell’atto o negozio volto ad ottenere un effetto economico che porta, seppure in maniera non immediatamente evidente (o diretta), all’arricchimento del donatario.
In buona sostanza, si caratterizza come una liberalità, ove rimane l’imprescindibile elemento dell’animus donandi, ma in cui difetta la forma solenne, richiesta invece per la donazione diretta.
Su tale specifico argomento va segnalata, in particolare, l’ordinanza n. 27665 del 7 ottobre 2020 ove la Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito ad un bonifico di 12 milioni di euro, effettuato da parte della moglie in favore del marito, ha stabilito che tutti i comportamenti che hanno come conseguenza una proporzionalità diretta tra il rilevante arricchimento di un soggetto e l’impoverimento di un altro, sono caratterizzabili come donazioni indirette e, in quanto tali, alle medesime di applica l’art. 56 bis del d.lgs. 346 del 1990 (Testo unico sull’imposta di successione e donazione).

Ora, se quanto fin qui detto può di certo valere nel caso di coniugi in regime di separazione dei beni, dei dubbi possono legittimamente sorgere nel caso in cui il trasferimento di denaro (giroconto) venga posto in essere in costanza del regime di comunione legale dei beni tra coniugi.
In tale ipotesi, infatti, occorre tenere anche conto di quella che è la ratio che sottende alla disciplina della comunione legale, alla quale i coniugi hanno deciso di aderire, non optando per il diverso regime della separazione dei beni.
E’ ben noto che la comunione legale trova il proprio fondamento razionale nell'esigenza di realizzare la comunione di vita tra gli sposi anche sotto il profilo patrimoniale, consentendo una eguale partecipazione alle ricchezze da loro prodotte durante il matrimonio.
Ciò comporta che gli acquisti compiuti durante il matrimonio, anche se realizzati mediante l'impiego dei proventi professionali o dei beni di un solo coniuge (fatta salva l'ipotesi prevista dal comma 1 let. f) dell' art. 179 del c.c.), costituiscono normalmente il frutto dell'impegno e dei sacrifici comuni.
Il patrimonio dei coniugi, in regime di comunione legale, può dirsi costituito da tre categorie di beni :
1. i beni in comunione immediata o attuale (art. 177 del c.c. comma 1, lett. a e d);
2. i beni in comunione de residuo o differita, ossia i beni destinati ad entrare nel patrimonio comune allo scioglimento del regime legale se, e nella misura in cui, non siano stati consumati (art. 177, lett b e c, ed art. 178 del c.c.);
3. i beni personali (art. 179 del c.c.).

Nel caso di specie le somme che hanno costituito oggetto di giroconto (dal conto personale di un coniuge sono passati al conto cointestato di entrambi i coniugi) si ritiene che debbano farsi rientrare nella previsione di cui alle lett. b) e c) dell’art. 177 c.c., costituenti come tali oggetto di quella che si definisce comunione de residuo.
In particolare, anche se nulla viene precisato circa la provenienza di tali somme, si ritiene che la soluzione più corretta sia quella di considerarli come “proventi” dell’attività separata di uno solo dei coniugi, ove per proventi deve intendersi, almeno secondo la definizione prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, “ogni utilità, derivante dall'attività lavorativa svolta, a qualsiasi titolo (dipendente o professionale, occasionale o stabile), dal coniuge”.

Ora, ciò posto, nel caso specifico di somme depositate su un conto corrente e di morte di uno dei coniugi, si pone un problema di coordinamento e di interferenza tra il diritto successorio ed il regime della comunione legale dei beni, costituendo la morte causa di scioglimento di quella comunione.
A tale proposito, è indispensabile distinguere nettamente due ipotesi.
La prima ipotesi è quella del decesso del coniuge titolare di tali rapporti bancari, per il quali è ormai certo che essi cadano in comunione de residuo, ex lett. b e c dell’art. 177 c.c., qualora si tratti di proventi non consumati dell’attività separata di tale coniuge.
La morte del coniuge intestatario, infatti, determina lo scioglimento del matrimonio (art. 149, comma 1, c.c.) e, a sua volta, lo scioglimento del matrimonio fa sciogliere la comunione legale dei beni (art. 191, comma 1, c.c.): il saldo del conto corrente di cui si tratta spetta allora per metà al coniuge superstite iure proprio, mentre l’altra metà cade nella successione ereditaria di quello premorto, alla quale anche il primo potrà ovviamente essere chiamato (così Cass. civ. Sez. V, sent. n. 10386/2009 e Trib. di Cassino 27.10.2011).

La seconda ipotesi, invece, è quella delle somme depositate su un conto corrente cointestato che, non trattandosi né di acquisti, né di beni personali di uno dei due coniugi, non rientrano né nell'ipotesi di cui alla lett. a) né in quella della lett. c) dell'art. 177 c.c..
In caso di contestazione di un conto corrente tra coniugi in comunione legale, infatti, trova applicazione la presunzione legale di cui all'art. 1854 del c.c. e va esclusa l'operatività dei principi della comunione de residuo (così Trib. di Udine 1.9.2019).

Ebbene, le considerazioni sopra svolte consentono di poter rispondere nei seguenti termini a ciò che viene chiesto:
l’operazione di giroconto non può configurarsi come donazione, seppure indiretta, dal coniuge trasferente in favore dell’altro coniuge, poichè, in costanza di comunione legale, anche se quelle somme fossero rimaste nel conto personale del coniuge premorto, le stesse sarebbero confluite nella c.d. comunione de residuo, con la conseguenza che il coniuge superstite avrebbe pur sempre avuto diritto, iure proprio, alla metà di quelle somme, mentre sulla restante metà, caduta in successione, avrebbero avuto diritto di concorrere anche gli altri eredi.

Ciò, del resto, trova la sua spiegazione nella stessa ratio che ha indotto il legislatore del 1975 ad imporre la comunione legale dei beni quale regime patrimoniale primario della famiglia, consistente nell’imputare a ciascun coniuge in parti uguali l’incremento patrimoniale della famiglia a prescindere da chi dei due coniugi abbia portato il denaro.
A tal proposito la giurisprudenza prevalente ritiene che la comunione legale dei beni investa tutti i diritti che accrescono la sfera patrimoniale dei coniugi, sia di natura immobiliare che mobiliare, tra i quali ultimi vi è il denaro depositato presso un conto corrente bancario, a prescindere dal fatto che si tratti di conto corrente personale o cointestato.

M. B. chiede
martedì 05/07/2022 - Lombardia
“Buongiorno,
Io e mia moglie viviamo attualmente in affitto in comunione dei beni con una figlia di 7 anni.
Sia io che mia moglie siamo dipendenti a tempo indeterminato (io di azienda privata e lei di ente pubblico). Abbiamo tre conti corrente attivi: uno mio personale su cui confluiscono i miei emolumenti, uno cointestato ed uno personale di mia moglie sul quale conferiscono i suoi emolumenti.
Sono in procinto di chiedere la separazione e allo stesso tempo sono fortemente motivato a formulare una proposta di acquisto per un immobile di mio interesse dove andare a vivere una volta separato.
Dal momento che siamo ancora in regime di comunione dei beni necessiterei capire se attingere dai depositi sul mio conto personale per sottoscrivere un preliminare di acquisto (con annesso versamento di caparra) prima dello scioglimento della comunione può essere motivo di inadempienze o irregolarità precisando che non è mia intenzione penalizzare mia moglie sottraendo liquidità dalla comunione prima della sentenza di scioglimento. È altresi vero che l'opportunità immobiliare si presenta ora e con poche probabilità sarebbe ancora disponibile dopo la separazione. Sussiste qualche soluzione per soddisfare la necessità attuando una qualsivoglia forma di compensazione volontaria di fronte al giudice in sede di scioglimento dei beni? Inoltre tutto il capitale attualmente presente sul mio conto personale, che potrei utilizzare per gli acconti al preliminare, è di fatto interamente costituito dal tfr percepito nel 2020 dal mio precedente datore di lavoro. Essendo gia stato percepito prima della separazione, quale sarebbe l'ammontare per cui mia moglie avrebbe diritto di percepire: il 50% o il 40% dei soli anni lavorati in regime di comunione dei beni?.
Grazie”
Consulenza legale i 14/07/2022
Con riferimento al primo dei quesiti formulati, va detto che il prelievo di denaro dal conto corrente di un coniuge, nel quale confluisca esclusivamente la retribuzione di quest’ultimo, non sottrae liquidità alla comunione.
Tale denaro deve, infatti, considerarsi compreso nella previsione di cui all’art. 177, comma 1 c.c., lett c), secondo cui i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi rientrano nella comunione solo se, e nella misura in cui, sussistano ancora quando si verifica una causa di scioglimento della comunione stessa (qual è appunto la separazione personale dei coniugi). Si parla in questi casi di comunione "de residuo".
Riguardo, invece, alla eventuale spettanza di una quota del T.F.R., occorre fare riferimento all’art. 12 bis della legge n. 898/1970, il quale stabilisce quanto segue:
- la quota dell’indennità di fine rapporto spetta al coniuge divorziato (e non soltanto separato);
- il coniuge beneficiario non deve essere passato a nuove nozze;
- il coniuge beneficiario deve essere altresì titolare di assegno divorzile.
Come ha chiarito la giurisprudenza (Cass. Civ. n. 5553/1999), “il disposto dell'art. 12 bis della legge 898/70 — nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell'assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto dell'altro coniuge «anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio» — va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l'indennità spettante all'altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa [...] e non anche quando essa sia maturata e sia stata percepita in data anteriore, in pendenza (come nella specie) del precedente giudizio di separazione”.


Anonimo chiede
domenica 10/10/2021 - Veneto
“Buongiorno,
Mio padre ereditò, lui solo, €500.000,00 (diversi anni fa) ed è in regime di comunione dei beni con mia madre. A questo importo vanno aggiunti anche € 10.000 di canoni annui di affitto percepiti da mio padre, per un suo locale (detenuto prima del matrimonio) e € 20.000 di dividendi derivanti dalle azioni detenute da mio padre (prima del matrimonio). Ma vanno defalcati anche circa €20.000 di tasse annue, che vengono liquidate da mio padre all’Erario ogni anno, e vanno anche stornate le sue spese personali che sono circa €10.000 annue.
I miei genitori vogliono sciogliere la comunione dei beni e noi sappiamo che:
- i beni ereditati non entrano nella comunione dei beni (ex art. 179 lettera b, c.c.);
- i proventi dei beni propri entrano nella comunione solo al momento dello scioglimento se non sono stati consumati (ex art. 177, lettera b e c, c.c.).
Il problema è stabilire quali importi posseduti da mio padre sono stati intaccati dalle spese poiché il danaro ereditato da mio padre e le annualità dell’affitto percepite da mio padre come anche i dividendi, hanno un trattamento diverso in termini civilistici durante lo scioglimento della comunione. Mi spiego:
- nel conto corrente di mio padre al primo gennaio vi sono €500.000 (che sono le somme ereditate).
- poi mio padre corrisponde all’Erario €20.000 di tasse, e quindi nel conto vi sono €480.000.
- poi mio padre incassa i dividendi per €20.000 e quindi nel conto, mio padre ritorna ad avere nuovamente €500.000.
- poi mio padre spende €10.000 e quindi nel conto vi sono €490.000.
- infine al termine dell’anno mio padre incassa €10.000 di affitto e nel conto si ritorna a €500.000.
Quindi sembra che mio padre abbia conservato perfettamente la somma ereditata di €500.000, mentre invece vi sono stati delle decurtazioni e delle integrazioni finanziarie durante l’anno. Ora, mio padre afferma che i €500.000, presenti nel conto, sono quelli ereditati da lui, secondo il principio LIFO (last in, first out, ossia le somme incassate per ultime sono anche le prime ad essere spese) e che quindi mia madre non deve avere nulla da lui (ex art. 179 lettera b, c.c.).
Per contro, mia madre afferma che i soldi ereditati sono i primi ad essere presenti e sono i primi ad essere consumati secondo il principio FIFO (first in, first out), ossia i soldi presenti all’inizio sono anche i primi ad uscire, di modo tale che i €500.000 sono i primi ad essere erosi dai costi, cosicché i costi annui sostenuti da mio padre (ossia €40.000) vanno a consumare per prima i €500.000 ereditati (che quindi alla fine dell’anno sono divenuti 460.000), mentre i proventi ottenuti da mio padre, vanno i sostituire le somme consumate dell’eredità. E poiché sono passati diversi anni, la somma ereditata da mio padre si è estinta da tempo poiché erosa dai costi, mentre le somme presenti nel conto di mio padre sono solo i proventi ottenuti grazie ai suoi beni personali, e questi proventi, allo scioglimento della comunione, vanno divisi in due parti uguali tra i coniugi (ex art. 177 lettere b e c) e quindi mia madre pretende la metà dei €500.000 presenti nel conto, che a sua veduta non sono più quelli dell’eredità.


La mia domanda è la seguente: chi tra mio padre e mia madre ha ragione?

Vi ringrazio dell’attenzione, distinti saluti.”
Consulenza legale i 14/10/2021
Nel regime di comunione legale il patrimonio dei coniugi può dirsi costituito da tre categorie di beni, e precisamente:
  1. beni in comunione immediata o attuale (sono tali quelli di cui al primo comma lett. a e d dell’art. 177 c.c.);
  2. beni in comunione de residuo o differita, ossia i beni destinati ad entrare nel patrimonio comune allo scioglimento del regime legale, se e nella misura in cui non siano stati consumati (artt. 177 lett. b e c ed art. art. 178 del c.c. c.c.);
  3. beni personali: sono tali quelli a cui fa riferimento l’art. 179 del c.c.

Spesso succede che i coniugi, pur versando in regime di comunione legale, decidano di instaurare rapporti di conto corrente separato con gli istituti di credito di propria preferenza, nei quali far confluire somme di provenienza personale e che di per sé non sarebbero destinate ad entrare in comunione immediata.

Infatti, il principio generale, valevole per i casi di somme giacenti sul conto corrente intestato ad uno solo dei due coniugi, è quello secondo cui queste debbano essere fatte rientrare nella comunione, ma in quella particolare forma di comunione che si definisce de residuo, a cui fanno riferimento, come si è appena detto, le lettere b) e c) dell’art. 177 c.c. e l’art. 178 c.c.
Ciò significa che, fin quando non si verificherà una causa di scioglimento della comunione ex art. 191 del c.c. (tale può essere la separazione o anche la morte di uno dei coniugi), l’unico titolare del diritto di credito nei confronti dell’istituto è l’intestatario del conto corrente (è questo, in buona sostanza, il solo soggetto legittimato alle operazioni allo sportello, potendo prelevare o versare contanti, eseguire bonifici, estinguere il rapporto, ecc.), mentre il coniuge non intestatario è privo di ogni potere operativo, non potendo prelevare denaro da quel conto né tantomeno verificarne la giacenza.

Volendo, poi, cercare di individuare più specificatamente quali sono gli effetti che la comunione legale dei beni determina sul conto corrente personale di uno dei coniugi, occorrerebbe verificare il titolo da cui il denaro proviene, poiché in base ad esso si potrà pretendere che le somme si facciano ricadere nella comunione immediata o in quella de residuo.
Volendo esemplificare ed applicando i principi sopra espressi al caso di specie, può dirsi che mentre deve farsi rientrare nella comunione immediata il denaro derivante dall’attività svolta da entrambi i coniugi congiuntamente, andrà in comunione de residuo, invece, il denaro derivante dal rapporto di lavoro di un solo coniuge (ex art. 177 lett. c), così come il denaro ricevuto per successione da uno solo dei coniugi e risultante da un formale titolo, quale può essere la denuncia di successione (ex art. 179 lettere a e b c.c.) nonché, ex art. 177 lett. b c.c., i proventi derivanti dai beni personali di uno solo dei coniugi (sono tali i canoni di locazione relativi ad un immobile personale ed i dividendi derivanti da azioni acquistate prima del matrimonio).

Accertato che nel caso in esame, stando a quanto viene detto nel quesito, nel conto personale del padre vi sono transitate somme di natura personale (ciò che sembrerebbe essere anche facilmente dimostrabile in un eventuale giudizio di divisione), se il coniuge, unico intestatario di quel conto corrente, non avesse alcuna intenzione di dividere a metà con l’altro coniuge da cui sta per separarsi la somma in esso depositata, avrebbe il diritto di farlo, ma dovrebbe spendere tutto il denaro nell’acquisto di beni personali o comunque in tutto ciò che non cade in comunione.
In caso contrario, nel momento stesso in cui si andrà a sciogliere la comunione, anche le somme depositate nel conto personale passeranno dal regime della comunione legale a quello della comunione ordinaria e l’altro coniuge avrà diritto a pretendere l’esatta metà.

Rispondendo alla domanda posta può dirsi che ha ragione il padre finchè sarà vigente il regime di comunione legale, mentre ha ragione la madre se i coniugi si separano e le somme restano sul conto.


Stefania F. chiede
mercoledì 15/07/2020 - Lazio
“Divorzio divisione dei beni: matrimonio in regime di comunione dei beni. Un conto cointestato a firma disgiunta le cui somme vorremmo intestare al 50% per ciascun figlio. Conti separati con accredito dei rispettivi stipendi. Chiedo se ho diritto al 50% della somma dei due saldi. Se si, quale data deve essere presa in considerazione e come esercitare tale diritto visto che il coniuge non è d'accordo. Si può richiedere al giudice in sede di divorzio o con istanza separata? Quale eventuale tipo di istanza? Stessa procedura anche per i mobili di casa quando i miei figli diventeranno autonomi? Indicare anche altre problematiche da risolvere in sede di divorzio. Grazie”
Consulenza legale i 23/07/2020
Per quanto riguarda il conto corrente cointestato, deve farsi riferimento, anche in caso di scioglimento della comunione legale tra coniugi, all’art. 1854 del c.c., il quale stabilisce che, nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere operazioni anche separatamente, gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto.
Troveranno quindi applicazione le regole sulle obbligazioni solidali, tra cui quella prevista dall’art. 1298 del c.c., ai sensi del quale, nei rapporti interni, l'obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell'interesse esclusivo di alcuno di essi. Inoltre, prosegue la norma, “le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente”: la legge ammette, dunque, la possibilità di provare che il conto sia stato in realtà alimentato con denaro di un solo correntista.
In proposito la giurisprudenza ha precisato che “nel conto corrente bancario intestato a due (o più) persone, i rapporti interni tra correntisti non sono regolati dall'art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensì dall’art. 1298, comma 2, c.c. in base al quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali, solo se non risulti diversamente; sicché, non solo si deve escludere, ove il saldo attivo derivi dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare pretese su tale saldo ma, ove anche non si ritenga superata la detta presunzione di parità delle parti, va altresì escluso che, nei rapporti interni, ciascun cointestatario, anche se avente facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, possa disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell'altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all'intero svolgimento del rapporto” (così Cass. Civ., Sez. II, n. 77/2018).

Quanto ai saldi dei conti correnti intestati singolarmente ai coniugi, e nei quali confluiscono i proventi delle rispettive attività lavorative, essi, secondo l’opinione prevalente, rientrano nella c.d. comunione de residuo, prevista dall’art. 177 del c.c., comma 1, lett. b) e c): si tratta, più precisamente, dei frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione, e dei proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati.
In altre parole, il denaro proveniente dall'attività lavorativa di un coniuge, depositato sul suo conto corrente personale, entra a far parte della comunione solo al momento dello scioglimento di quest'ultima, sempre che, appunto, il conto presenti un saldo attivo.
Lo ha chiarito la giurisprudenza (Tribunale Padova, Sez. I, 06/09/2011), secondo cui, “in tema di regime patrimoniale della famiglia, l'articolo 177, lettera c, del codice civile, esclude dalla comunione i proventi dell'attività separata svolta da ciascun coniuge a condizione che tali proventi siano stati consumati, anche per fini esclusivamente personali, in epoca precedente allo scioglimento del regime legale. Il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato, in regime di comunione dei beni, soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell'attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra perciò a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell'articolo 177, comma 1, lett. c, del codice civile, solo al momento dello scioglimento della stessa, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo”.
Conforme sul punto Tribunale Cassino, 27/10/2011, che illustra anche la differenza rispetto all’ipotesi del conto cointestato: “in tema di comunione legale, mentre, nel caso di contratto di conto corrente intestato ad uno solo dei coniugi, le somme esistenti sul conto al momento dello scioglimento entrano a far parte della c.d. comunione de residuo di cui all'art. 177, c.c., lo stesso non può dirsi per le somme sul conto corrente cointestato che, non trattandosi né di acquisti, né di beni personali di uno dei due coniugi, non rientrano né nell'ipotesi di cui alla lett. a né in quella della lett. c dell'art. 177, c.c.”.
Pertanto, un coniuge, sposato in regime di comunione legale, avrà diritto alla metà dell’eventuale saldo attivo del conto corrente intestato all’altro coniuge, conto alimentato con i proventi dell’attività lavorativa del suo stesso titolare, solo se e nella misura in cui il residuo sussista al momento dello scioglimento della comunione.

Quanto invece al conto corrente cointestato, pur continuando a fare riferimento, per l’individuazione del saldo da dividere, al momento dello scioglimento della comunione, occorre tenere presente il disposto dell’art. 192 del c.c., in virtù del quale ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall'adempimento delle obbligazioni previste dall'art. 186 del c.c. (e cioè delle obbligazioni gravanti sui beni della comunione, tra le quali vi sono le spese per il mantenimento della famiglia e per l'istruzione e l'educazione dei figli e ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia).
In proposito la Cassazione (Sez. II, n. 20457/2016) ha affermato che, “a fronte di prelevamenti, da parte di un coniuge, di somme di pertinenza della comunione - quali sono state ritenute essere quelle giacenti sul conto corrente intestato alla coppia -, competa al coniuge che abbia effettuato le operazioni e che alleghi di aver impiegato gli importi prelevati nell'interesse della comunione o della famiglia dimostrare quest'ultima circostanza”.


Naturalmente, laddove vi sia l'accordo tra i coniugi, sarà possibile inserire nelle condizioni di separazione o (come nel nostro caso) di divorzio anche eventuali accordi relativi ai beni da dividere. Ciò sarà possibile però solo in caso di separazione consensuale o divorzio congiunto, e non in una separazione - o divorzio - giudiziale.
Infatti le domande relative allo scioglimento della comunione tra coniugi non possono essere proposte nel giudizio di separazione o di divorzio, trattandosi di cause che si svolgono secondo regole procedimentali diverse: si veda Cass. Civ., Sez. I, n. 266/2000, secondo cui “non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, soggetta al rito della camera di consiglio, e di quella di scioglimento della comunione su un bene comune dei coniugi, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione ma in tutto autonome e distinte”. Occorrerà dunque proporre un'azione apposita.

Quanto agli arredi della casa familiare dei coniugi in regime di comunione legale, i beni acquistati da uno o entrambi i coniugi dopo il matrimonio, ai sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), ricadranno in comunione, e saranno dunque soggetti a divisione, con l’eccezione dei beni da considerarsi personali ai sensi dell’art. 179 del c.c.
Da notare che l’art. 195 del c.c. prevede che nella divisione i coniugi o i loro eredi hanno diritto di prelevare i beni mobili che appartenevano ai coniugi stessi prima della comunione o che sono ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione. In mancanza di prova contraria si presume che i beni mobili facciano parte della comunione.

Vittorio P. chiede
martedì 12/05/2020 - Veneto
“Buongiorno,
con la presente vorrei porre alcuni questi in tema di successione.

Riassumo di seguito i fatti:

- Nel mese di agosto dell'anno 2014 muore mio papà, lasciando la moglie e due figli maggiorenni.
- Mio papà e mia mamma erano in comunione dei beni.
- Qualche anno prima di morire mio papà desidera donarmi un immobile, in modo indiretto, il quale è stato costruito poi da una cooperativa.
- Al fine della donazione indiretta dell'immobile, mio papà esegue vari bonifici alla cooperativa ovvero al terzo che doveva adempiere trasferendo a me la proprietà dell'immobile.
- Tali bonifici erano a valere su due conti correnti ovvero un conto intestato al solo papà e un conto cointestato al papà e alla mamma.
- Tali bonifici sono stati disposti tutti e solo da mio papà.
- Al momento dello scioglimento della comunione (morte di mio papà) il saldo di entrambi i conti era irrisorio.
- Mia mamma non ha avuto redditi, non avendo lavorato, e non ha ricevuto donazioni.
- Prima della morte di mio papà, io firmai un preliminare con la cooperativa (questo preliminare non fu trascritto e non fu registrato all'Agenzia delle Entrate).
- Prima della stipula, comunque dopo la morte di mio papà, fu sottoscritto da me (anno 2018) un altro preliminare con la cooperativa, questa volta registrato e trascritto; con l'occasione venne registrato anche il primo preliminare.
- Per ritardi di varia natura, imputabili alla cooperativa, l'atto di trasferimento della proprietà è stato stipulato dopo la morte del papà, ovvero a fine anno 2019.

Sono quindi a chiedere:

- Visto che «i redditi personali dei coniugi e annessi risparmi, frutto dei beni personali o proventi dell'attività separata, non ricadono in maniera automatica nella comunione legale e non rientrano neppure tra i beni personali, ma si considerano oggetto della comunione ai soli fini della divisione se non sono stati consumati al momento dello scioglimento della stessa» chiedo se ciò vale anche nel caso delle donazioni ai figli, effettuate da un coniuge prima dello scioglimento della comunione oppure se, nonostante la comunione solo residuale dei proventi dell'attività separata, le donazioni ai figli debbano comunque essere considerate effettuate da entrambi i coniugi in comunione dei beni.
- Per il conto cointestato in comunione dei beni, mi hanno detto che si presume le somme depositate appartengano in ogni momento ad entrambi i coniugi, in parti uguali, fatta eccezione della prova contraria; in tal caso, la provenienza del denaro dalla sola attività lavorativa e imprenditoriale di un coniuge, unica fonte di guadagno della famiglia, potrebbe essere prova sufficiente? (Cass. sent. n. 1149/2004: «La mera titolarità formale di un conto corrente bancario non può, da sola, costituire circostanza decisiva in ordine alla proprietà e spettanza dei relativi fondi, occorrendo valutare in concreto, caso per caso, se sussista disgiunzione fra intestazione nominale del conto e reale appartenenza delle somme depositate (principio affermato dalla S.C. nel confermare la decisione di merito che, a seguito di separazione personale, facendo corretta applicazione dell’art. 2729 cod. civ. aveva ritenuto che le somme accreditate sul conto corrente di cui era titolare un coniuge spettassero all'altro, i proventi della cui attività avevano costituito l'unica fonte di guadagno della famiglia)». Dovrebbe essere stato mio papà ad agire, oppure posso agire anch'io per il riconoscimento della provenienza del denaro e quindi dell'appartenenza dello stesso denaro al solo mio papà?
- Detto ciò, chi è il donante nel caso della donazione indiretta del mio immobile? Solo il papà, sempre mia mamma e mio papà in parti uguali, oppure per una certa quota mio papà e per un'altra quota (magari differente) entrambi i miei genitori?
- Da ultimo, la donazione indiretta del mio immobile comincia quando mio papà era vivo, ma il terzo (la cooperativa) adempie quando egli era già venuto meno, ovvero a dicembre 2019. Qual è la data di questa donazione, in relazione al calcolo di eventuali attualizzazioni in sede ereditaria? Il mio patrimonio si arricchisce solo a dicembre 2019.

Documentandomi, ho appreso anche che le donazioni fatte da un solo coniuge in comunione dei beni, il quale aliena un bene in comunione (Cassazione civile, Ordinanza n. 21503/2018) secondo cui «la donazione di un bene facente parte della comunione legale dei beni a favore di un figlio è valida anche se posta in essere da uno solo dei coniugi, senza il consenso dell'altro, poiché quest’ultimo può sempre agire mediante l'azione di annullamento entro un anno (ai sensi dell’articolo 184 cod. civ.)». Vista come è scritta l'ordinanza, sembra che il donante possa essere solo uno dei coniugi anche quando viene donato un bene già in comunione.

Ringraziando in anticipo per le risposte, saluto cordialmente.”
Consulenza legale i 19/05/2020
Diverse sono le problematiche che si rende necessario affrontare.
La prima di esse riguarda la sorte dei proventi dell’attività lavorativa svolta da uno solo dei coniugi, i quali secondo la tesi prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza vanno fatti rientrare nella c.d. comunione de residuo, e ciò in forza di quanto espressamente disposto dal primo comma, lett. c) dell’art. 177 del c.c..
Tali proventi, dunque, entrano nel patrimonio comune allo scioglimento della comunione legale se, e nella misura in cui, non siano stati consumati.

Poiché il codice non contiene una espressa definizione normativa di “proventi”, si era inizialmente discusso se il legislatore abbia inteso riferirsi ai risultati di qualunque tipo di attività o soltanto a quelli connessi allo svolgimento di una attività professionale.
E’ prevalsa sia in dottrina che in giurisprudenza l’interpretazione estensiva della norma, affermandosi che nel concetto di “provento” vi si debba far rientrare ogni attività, derivante dall’attività lavorativa svolta, a qualsiasi titolo (dipendente o professionale, occasionale o stabile) dal coniuge.
In particolare, secondo la giurisprudenza di merito (Trib. Padova 26.02.2015; Trib. Ascoli Piceno 22.08.2017) costituiscono oggetto della comunione de residuo tutti i redditi individuali prodotti da ciascuno dei coniugi, sia derivanti da capitale che provenienti dalla propria attività, mentre la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che oggetto della comunione de residuo ex art. 177 lett. c) possono essere soltanto beni mobili, denaro o diritti di credito.

Con specifico riferimento al conto corrente intestato ad uno solo dei coniugi, nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, la Corte di Cass., con sentenza n. 10386/2009, ha affermato che questo diviene di titolarità comune dei coniugi allorquando si verifica lo scioglimento della comunione determinato dalla morte di uno dei coniugi, con ciò implicitamente riconoscendo la titolarità esclusiva del coniuge che ne risulta intestatario e che lo alimenti con i
proventi personali (in quanto tale, lo stesso ne ha l’esclusivo godimento e, fermo il generale dovere di contribuzione, ne può disporre liberamente).

Diversa, invece, è la situazione per il conto corrente cointestato tra coniugi in comunione legale, per il quale il Tribunale di Udine, con sentenza datata 01.09.2019, ha affermato che va esclusa l’operatività dei principi della comunione de residuo e che vale la presunzione legale di cui all’art. 1854 del c.c., secondo cui gli intestatari sono considerati creditori e debitori solidali del saldo conto.
Sulla sorte delle somme confluite su tale conto si è di recente pronunciata la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 4682 del 28.02.2018, nella quale ha affermato il principio secondo cui in caso di cointestazione di un conto corrente, con firma e disponibilità disgiunta, l’operazione è qualificabile come donazione indiretta se la somma depositata, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari.
In tal caso, infatti, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario, purché si possa accertare che il proprietario del denaro non aveva, al momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.

Quanto fin qui riportato ci consente di giungere ad una prima conclusione e così poter rispondere alle prime delle domande poste:
mentre le somme che venivano riversate sul conto corrente personale del padre costituivano, senza alcun dubbio, patrimonio personale dello stesso, in quanto rientranti nella categoria dei proventi di cui alla lett. c) dell’art. 177 c.c., quelle che venivano fatte confluire sul conto corrente cointestato divenivano immediatamente comuni per effetto del disposto di cui al sopra citato art. 1854 c.c., andando così ad arricchire anche il patrimonio dell’altro coniuge.
Soltanto il padre avrebbe potuto, in un eventuale giudizio, ed in quanto titolare esclusivo del relativo interesse, dedurre ogni circostanza utile per dimostrare la sua mancanza di volontà di arricchire senza corrispettivo l’altro coniuge.

Tale tesi consente di rispondere alla successiva domanda, ossia quella relativa alla esatta individuazione di colui il quale, in questa vicenda, assume la posizione di donante.
Infatti, si ritiene che siano da qualificare come donanti sia il padre che la madre, ciascuno in proporzione alle somme che sono effettivamente uscite dal conto corrente personale e da quello cointestato.

La domanda ulteriore attiene a ciò che costituisce oggetto di donazione indiretta ed alla esatta individuazione del momento in cui questa deve intendersi perfezionata.
Per rispondere a questa domanda si ritiene possa essere intanto utile richiamare la definizione di donazione indiretta che si ritrova nella sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. n. 18725 del 27.07.2017, dalla quale si ricava che si configura una donazione indiretta quando le parti, per raggiungere l’intento di liberalità, anziché utilizzare lo schema negoziale previsto dall’art. 769 del c.c., il quale impone che l’attribuzione liberale avvenga direttamente dal disponente al donatario, ne adottano un altro, caratterizzato da uno schema formale diverso.
Si è così osservato che il fenomeno delle donazioni indirette debba spiegarsi come la risultante della combinazione di due diversi negozi giuridici, ossia il negozio mezzo ed il negozio fine, quest’ultimo avente natura di negozio accessorio e integrativo (così Cass. 21.10.2015 n. 21449).
Inoltre, la particolare eterogeneità che caratterizza le liberalità indirette comporta che queste possono anche concretarsi in una combinazione di negozi tipici, che nel loro insieme costituiscono un procedimento.
Proprio in questa prospettiva, ossia quella del procedimento, può dunque dirsi che anche nelle ipotesi come quella di specie, in cui il bene indirettamente donato giunge nel patrimonio del donatario dopo una sequenza procedimentale di atti (bonifici-preliminare-atto definitivo), oggetto della donazione sarà pur sempre da considerare il bene di cui si è arricchito il patrimonio del beneficiario.
Di particolare rilievo, in tal senso, è la sentenza della Corte di Cassazione n. 18541 del 02.09.2014, nella quale si precisa che “La dazione di una somma di denaro configura una donazione indiretta d’immobile ove sia effettuata quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto del bene, dovendosi altrimenti ravvisare soltanto una donazione diretta del denaro elargito, per quanto poi successivamente utilizzato in un acquisto immobiliare”.
Si configura una donazione indiretta tutte le volte in cui la dazione della somma di denaro sia effettuata quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto dell’immobile, ossia qualora possa ravvisarsi incontrovertibilmente un collegamento teleologico tra elargizione del denaro paterno o dei genitori e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio.
Solo laddove tale nesso manchi o non lo si riesca a provare, non può dirsi integrata la fattispecie della donazione indiretta.

Per completare il quadro va poi detto che alla liberalità indiretta consegue l’obbligo di portare in collazione ex art. 737 del c.c. non la somma ricevuta, ma il valore che il bene acquistato con il negozio mezzo ha al momento dell’apertura della successione, poiché è di questo che in definitiva si arricchisce il patrimonio del destinatario (in tal senso è orientata la giurisprudenza di legittimità, a partire da Cass. SS.UU. n. 9282 del 05//08/1992 per giungere a Cass. n. 1986 del 02.02.2016).
Ciò si ritiene che valga anche nell’ipotesi in cui per giungere al definitivo acquisto dell’immobile sia stato stipulato un contratto preliminare, in quanto, pur nell’ipotesi di eventuale inadempimento del promittente venditore (la cooperativa edilizia), il promittente acquirente (cioè il figlio) ha pur sempre il diritto di avvalersi del disposto di cui all’art. 2932 del c.c. e così chiedere l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare, attraverso cui ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso.
Secondo, poi, il combinato disposto degli artt. 746 e 747 c.c., il figlio sarà tenuto a collazionare una somma di denaro corrispondente al valore di mercato che quell’immobile ha al momento dell’apertura della successione.

Dunque, concludendo e ricapitolando in maniera estremamente sintetica tutto quanto sopra dedotto, nel caso di specie si avrà che:
  1. donanti sono da considerare entrambi i genitori, in quanto le somme utilizzate per l’acquisto dell’immobile sono state tratte in parte dal conto personale del padre ed in parte dal conto cointestato di entrambi i genitori;
  2. solo il padre avrebbe potuto esercitare in giudizio un’azione volta a dimostrare che la cointestazione del conto corrente con la moglie non era stata fatta con intento di liberalità verso la stessa, ma per fini diversi;
  3. il procedimento che ha condotto all’acquisto dell’immobile in capo al figlio (bonifici-preliminare-definitivo) denota uno stretto collegamento negoziale tra intestazione dell’immobile al figlio e trasferimento delle somme di denaro occorrenti per tale acquisto;
  4. oggetto di collazione sarà il valore che l’immobile aveva alla morte del padre (momento di apertura della successione), in proporzione alle somme che sono state da questo trasferite per tale finalità, e ciò sebbene l’acquisto definitivo si sia perfezionato con il contratto definitivo di vendita stipulato a dicembre 2019, potendo in ogni caso il promittente compratore avvalersi del rimedio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto.



Beatrice F. chiede
lunedì 10/02/2020 - Sicilia
“La mia unica sorella, sposata in regime patrimoniale di comunione dei beni e senza figli, è deceduta essendo una ex dipendente regionale già in quiescenza da tre anni, non avendo ancora percepito l'indennità di trattamento di fine servizio o alcuna sua quota.
Tale somma cosiddetta buonuscita “entra a far parte dell'asse ereditario e deve essere corrisposta agli eredi legittimi e/o testamentari in base agli ordinari principi che regolano la successione”
QUESITO
La suddetta quota :
è da considerare un bene personale e pertanto alla sottoscritta spetta 1/3 del totale e al coniuge ne spettano i i 2/3

OPPURE

cade in comunione dei beni con il coniuge e quindi alla sottoscritta spetta 1/3 della metà dell'intero, pari a 1/6 del totale

Si richiede risposta corredata da riferimenti normativi ed orientamenti giurisprudenziali, possibilmente di legittimità.

Distinti saluti.”
Consulenza legale i 16/02/2020
Prima di trattare nello specifico il tema oggetto del quesito e rispondere allo stesso, si ritiene opportuno fare una precisazione in ordine all’indennità di trattamento di fine servizio.
Di essa si occupa l’art. 2120 del c.c., il quale prevede che in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto.
Il successivo art. 2122 del c.c., invece, si occupa di regolare le modalità di devoluzione di tale indennità (oltre che di quella spettante al lavoratore ex art. 2118 del c.c. per il caso di recesso dal contratto a tempo indeterminato) in caso di morte del prestatore di lavoro che ne ha diritto, disponendo che la stessa deve essere corrisposta al coniuge, ai figli e, soltanto se vivevano a carico del prestatore di lavoro (ossia se inseriti nel suo nucleo familiare), ai parenti entro il terzo grado (tra i quali vi sono i fratelli e le sorelle) ed agli affini entro il secondo grado.
Solo in mancanza di tali soggetti, per la sua devoluzione potranno trovare applicazione le norme sulla successione legittima.

Dalla lettura di tale norma si desume che, nell’ipotesi in cui l’evento morte dovesse verificarsi in costanza di rapporto di lavoro, il trattamento di fine rapporto o fine servizio competerà ai soggetti ivi espressamente indicati (e che sono stati prima elencati) senza che lo stesso concorra a formare l’attivo ereditario.
Tali soggetti, infatti, acquisiscono quella indennità iure proprio, in forza di un diritto loro attribuito dalla legge e la sua corresponsione è indipendente dall’accettazione dell’eredità.
La ragione di tale devoluzione la si ritrova espressa nello stesso art. 2120 c.c., nella parte in cui è detto (comma secondo) che la ripartizione deve farsi secondo il bisogno di ciascuno degli aventi diritto (salvo diverso accordo degli stessi), lasciando con ciò chiaramente intendere che tale indennità, pur avendo natura di retribuzione differita, assolve in effetti ad una funzione previdenziale.

Diverso è il caso in cui manchino i soggetti indicati nella norma o ancora il caso, come quello di specie, in cui l’evento morte si verifichi dopo la cessazione del rapporto di lavoro e, dunque, quando già il prestatore di lavoro aveva maturato il diritto alla liquidazione di quella indennità, liquidazione a cui l’ente preposto non aveva ancora materialmente provveduto.
La riserva legale di destinazione, infatti, viene disposta dal legislatore solo nell’ipotesi di decesso del lavoratore in attività di servizio, mentre, nel caso di decesso a seguito del collocamento a riposo, la somma già maturata a titolo di indennità di fine rapporto entra, come ogni altro bene, a far parte del patrimonio ereditario, dovendo pertanto ripartirsi secondo le norme della successione legittima o testamentaria.

E’ qui che entrano in gioco anche le norme sulla comunione legale dei beni, a cui si fa riferimento nel quesito e per le quali si chiedono chiarimenti ai fini di una loro corretta applicazione.
Si ritiene che, trattandosi di coniugi in regime di comunione legale dei beni, debba trovare applicazione l’art. 177 c.c., ed in particolare la lettera c) di tale norma, la quale dispone che entrano a far parte della comunione tutti i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi e che al momento dello scioglimento della comunione non siano stati consumati.
Si tratta della c.d. comunione de residuo, nella quale vanno a confluire tutti i proventi che ciascuno dei coniugi non ha consumato o non ha avuto possibilità di consumare prima del verificarsi di una causa di scioglimento della medesima comunione, tra le quali si annovera indubbiamente la morte naturale, prevista dall’art. 149 del c.c. quale causa di scioglimento del matrimonio e implicitamente dall’art. 191 del c.c..

Della espressione “proventi”, in effetti manca una definizione normativa a cui poter fare riferimento, e ciò ha fatto sorgere il dubbio se con essa il legislatore abbia inteso riferirsi ai risultati di qualunque tipo di attività o piuttosto soltanto a quelli connessi allo svolgimento di una attività professionale.
Prevale l’interpretazione estensiva della norma e, pertanto, si ritiene che nel concetto di provento vi si debba far rientrare ogni utilità derivante da una attività lavorativa svolta a qualsiasi titolo dal coniuge (dipendente o professionale, occasionale o stabile).
Anche la giurisprudenza ha affermato in diverse occasioni che costituiscono oggetto della comunione de residuo tutti i redditi individuali prodotti da ciascuno dei coniugi, sia derivanti da capitale che proventi della propria attività e che residuino al tempo dello scioglimento della comunione, rimanendo di pertinenza esclusiva del relativo titolare solo fino a tale momento (così Tribunale Ascoli Piceno 22.08.2017; Tribunale di Padova 26.02.2015).

Più specificamente, con riferimento precipuo all’indennità di fine rapporto di lavoro percepita dall’altro coniuge, il Tribunale di Padova con sentenza del 26.09.1985 ha affermato espressamente che questa confluisce nella comunione de residuo.
Nessuna rilevanza può assumere il fatto che l’indennità sia stata liquidata solo in epoca successiva alla morte di colei che ne aveva diritto, in quanto il diritto di credito che legittima alla riscossione della relativa somma sorge al momento stesso della cessazione del rapporto di lavoro, tant’è che da tale momento comincia pure a decorrere il termine quinquennale di prescrizione di tale diritto (così il n. 5 dell’art. 2948 del c.c.; Cass. Sez. lavoro ord. N. 16139/2018) .

Da tutto quanto detto se ne deve far conseguire che nel momento in cui l’indennità di buonuscita viene liquidata, le relative somme formeranno oggetto di comunione de residuo ex art. 177 lett. c) c.c., e pertanto, solo il 50% confluirà nel patrimonio ereditario della de cuius.
Anche la Corte di Cassazione ha precisato che allorquando si verifica lo scioglimento della comunione determinato dalla morte del coniuge solo intestatario di un conto corrente, nel quale siano confluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, il saldo attivo diviene di titolarità comune dei coniugi, sicché il coniuge superstite, attesa la presunzione di parità delle quote, ha un diritto proprio e non ereditario sulla metà dei frutti e dei proventi residui, perfino nell’ipotesi in cui essi fossero stati esclusivi del coniuge defunto (Cass. 10386/2009; Trib. Padova 06.09.2011).
Considerato che la de cuius lascia quali eredi solo il coniuge ed una sorella, troverà applicazione, nell’ipotesi di successione legittima, l’art. 582 del c.c., il quale stabilisce che in caso di concorso del coniuge con fratelli e sorelle, al coniuge sono devoluti due terzi dell’eredità, ed il rimanente terzo a fratelli e sorelle.
Pertanto se l’indennità è pari a 120, di questi solo 60 andranno in successione e solo 20 andranno alla sorella (ossia un sesto dell’intero ed un terzo della metà).


Adrian N. chiede
martedì 23/06/2015 - Lazio
“Buongiorno,io e mia moglie ci stiamo separando in comunione dei beni. Ci siamo sposati nel 2010 e abbiamo 3 figli. Nel 2011 abbiamo costituito una SRL con quote 80% a me e 20% a mia moglie. Questa società ha 2 punti vendita di prodotti alimentari (supermercati). Amministratore unico sono io. Come si fa la separazione dei beni in questo caso specifico? Grazie”
Consulenza legale i 25/06/2015
Come noto, costituiscono oggetto della comunione, ai sensi dell'art. 177, lett. d), c.c., le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Quindi, nel caso di specie, se la s.r.l. è stata costituita insieme dagli sposi subito dopo le nozze ed è cogestita dai coniugi, essa è entrata a far parte della comunione.

L'art. 191 del c.c. stabilisce che la comunione si scioglie, tra le altre ipotesi, in caso di separazione personale dei coniugi (la comunione si considera sciolta solo con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o del decreto che omologa la separazione consensuale).
L'ultimo comma del medesimo articolo menziona espressamente le aziende di cui alla lettera d) dell'art. 177, sancendo che i coniugi possono decidere di sciogliere la comunione nelle forme previste dall'art. 162.
Ciò significa che i coniugi possono decidere che l'azienda sia svincolata dalla comunione anche prima che questa si sciolga per una delle cause previste dalla legge, mediante una convenzione in forma di atto pubblico.

Supponendo, però, che i coniugi vogliano inserire le sorti dell'azienda tra le condizioni della separazione (che si presume essere consensuale), valgono le seguenti osservazioni.

Uno degli effetti più importanti scaturenti dallo scioglimento della comunione è il diritto di procedere alla divisione del patrimonio comune, comprese le aziende.
Secondo la giurisprudenza, andranno applicati all'azienda i principi di cui all’art. 720 c.c. (che regola la divisione degli immobili non comodamente divisibili), in quanto essa costituisce una universalità di beni, insuscettibile di essere frazionata nelle sue singole componenti.
In generale, la giurisprudenza di legittimità reputa applicabile analogicamente all’azienda la disposizione relativa agli immobili non comodamente divisibili "ove il frazionamento determini il vanificarsi dell’avviamento commerciale, atteso che la comoda divisibilità di cui alla norma citata presuppone, fra l’altro, che la divisione non importi un pregiudizio al valore economico delle porzioni rispetto all’intero" (Cass. civ., 26.4.1983, n. 2861).

Secondo la tesi maggioritaria, l’impresa costituita e gestita da entrambi i coniugi non è una forma speciale di società, ma una forma di comunione nell’esercizio dell’impresa: si deve escludere, quindi, che la divisione dei beni della comunione legale implichi scioglimento della società e quindi liquidazione dell’impresa. Si deve, invece, valutare la situazione patrimoniale dell'impresa al momento della divisione, secondo la regola generale valevole per ogni stima in sede divisoria.

Di conseguenza:
- l’azienda dovrà essere trattata come bene indivisibile in natura;
- gli utili e gli incrementi si possono eventualmente dividere direttamente.

L'art. 720 sopra citato prevede che i beni non comodamente divisibili vadano di preferenza compresi per l'intero nella quota di un condividente, con addebito dell'eccedenza. Nel nostro caso, ad esempio, il marito può chiedere l'assegnazione della quota societaria della moglie, corrispondendole il valore, anche sotto forma di concessioni diverse riguardanti, ad esempio, la casa coniugale, etc.

Nel caso estremo in cui nessuno dei coniugi voglia vedersi assegnare la società, si dovrebbe procedere alla vendita e alla suddivisione del prezzo ricavato.

I coniugi, naturalmente, sono sempre liberi di trovare un accordo diverso, che li soddisfi entrambi.

Maria chiede
lunedì 03/11/2014 - Trentino-Alto Adige
“Buongiorno,
Io e mio marito siamo in regime di separazione dei beni.
Nel 2007 ha chiesto la separazione perché ha conosciuto una nuova compagna da cui ha avuto una figlia nel 2008.
Abbiamo sottoscritto una separazione consensuale regolando però solo gli aspetti riguardanti il mantenimento mio e dei figli e non la divisione del patrimonio.
La sottoscritta ha lavorato per anni con ruoli apicali, dal 1991 al 2008 (anno di separazione) nelle aziende di famiglia senza percepire ne stipendio ne utili e senza che sia stato configurato nessun rapporto di lavoro.
Nel 2008 son stata estromessa dal marito dall'azienda in cui lavoravo perciò ho avuto un ulteriore danno perché mi sono trovata senza lavoro.
Con i proventi dell'attività, utili indivisi e stipendi non percepiti, mio marito si è acquistato una gran parte del patrimonio dai suoi fratelli, ovvero:
- Azienda A (sas) - dal 35% al momento del matrimonio fino al 90% + 10% intestato a me.
- dal 50% al momento del matrimonio fino al 100 % della casa coniugale
- Azienda B (snc) - dal 50% al momento del matrimonio fino al 100%
Tutto questo con soldi provenienti dall'attività per cui io ho lavorato senza nessun stipendio né utile, pensando a costituire un patrimonio per la famiglia.
Ora cosa posso fare?
I beni acquistati in regime di separazione dei beni ma con soldi provenienti dal lavoro di entrambi i coniugi ed intestati solo ad uno dei due come vanno divisi?
Grata dei consigli che vorrete darmi, porgo cordiali saluti.”
Consulenza legale i 10/11/2014
Nella vicenda narrata una moglie, oggi separata dal marito, ha lavorato per molti anni nelle aziende di famiglia (che fino ad un certo punto era in comproprietà tra il marito e i fratelli, poi sono divenute interamente del marito, tranne una piccola quota della moglie), senza mai figurare formalmente e quindi senza percepire uno stipendio o utili.

Per rispondere alla domanda posta nel quesito, analizziamo prima brevemente cosa succede quando due coniugi sono in comunione dei beni.
Se si tratta di azienda costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi, essa fa parte della comunione (entrambi i coniugi ne sono considerati formalmente titolari), ai sensi dell'art. 177, lett. d), c.c.
Se uno dei coniugi è proprietario di un'azienda preesistente (anche per quote), l'altro coniuge che cogestisca l'impresa senza spendita del proprio nome (quindi senza implicazione nei rapporti con i terzi) ha diritto solamente agli utili e agli incrementi che dalla stessa sono derivati, e non ne diventa titolare in alcun modo (art. 177, secondo comma).
Se non vi è stata una gestione comune da parte dei coniugi (per gestione si intende non una qualsiasi forma di collaborazione, ma partecipazione attiva alle scelte imprenditoriali, all'amministrazione e al controllo), opera invece l'art. 178 del c.c., che stabilisce che i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa (in particolare, gli utili dell'impresa vanno considerati come proventi dell'attività separata di uno dei coniugi, che cadono in comunione se esistenti al momento del suo scioglimento, v. art. 177, lett. c), c.c.).

Se ne deduce che, quando gli sposi scelgono il regime di separazione dei beni, gli utili e gli incrementi provenienti dall'impresa di cui sia titolare solo uno dei coniugi rimarranno esclusivamente nel suo patrimonio e quindi l'altro coniuge non acquista alcun diritto su di essi.

Naturalmente, però, il lavoro svolto dalla moglie non è privo di importanza economica.
Sembra rilevare nel caso di specie l'istituto dell'impresa familiare ex art. 230 bis del c.c.: si tratta dell’attività economica alla quale collaborano, in modo continuativo, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, qualora non sia configurabile un diverso rapporto.
Parte della giurisprudenza ritiene applicabile l'istituto anche alle società di persone (in tal senso v. Cass. civ., 19 ottobre 2000, n. 13861: "I soggetti indicati dal comma 3 dell’art. 230 bis cod. civ. hanno diritto alla tutela prevista da tale norma ove svolgano attività di lavoro familiare in favore del titolare di impresa, sia esercitata in forma individuale sia esercitata come società di fatto, nei limiti della quota"), ma sicuramente non a quelle di capitali.
Trattandosi di un istituto residuale, prima di tutto, si devono valutare i presupposti di un rapporto di lavoro subordinato o addirittura di una società di fatto tra i coniugi. Perché si abbia una di queste ipotesi, è necessario che i familiari abbiano dato al loro rapporto, in maniera espressa o tacita, una configurazione tipica.
Secondo la giurisprudenza, nel dubbio tra lavoro subordinato e impresa familiare, prevarrebbe sempre quest'ultima, in quanto le circostanze che il prestatore non abbia partecipato né a decisioni sulla vita dell'impresa né alla divisione degli utili relativi sono indicative di un rapporto di lavoro subordinato solo se consegua ad una espressa pattuizione delle parti volta ad inquadrare in tale rapporto la detta attività (Cass. civ. n. 1211/1989).

La sua residualità non esclude però l’imperatività della disciplina dell'impresa familiare: ove , quindi, le parti non abbiano inteso costituire un differente rapporto (lavoro subordinato), non potrebbero assolutamente sottrarsi al dettato dell'art. 230 bis, che si applicherebbe quindi ex lege, a prescindere da un’effettiva volontà delle parti, in quanto disciplina posta a tutela di interessi generali.

Se, una volta analizzati con attenzione tutti i dettagli e le circostanze della fattispecie concreta (analisi che naturalmente non si può effettuare in questa sede e per la quale si consiglia di rivolgersi ad un legale), si può alla fine configurare un'ipotesi di impresa familiare, allora secondo la legge la moglie avrà diritto al mantenimento, agli utili e agli incrementi dell'impresa, il tutto proporzionato al lavoro prestato e al tempo dedicato all'impresa. Il diritto agli utili andrà calcolato al netto delle spese di mantenimento che il coniuge imprenditore ha già corrisposto all'altro coniuge.
Il diritto ad utili e incrementi si configura come un diritto di credito nei confronti del familiare imprenditore. Il credito agli utili si prescrive normalmente in dieci anni dalla sua maturazione, però si ammette la sospensione della prescrizione tra coniugi (art. 2941 del c.c.), che secondo alcuni opera anche in caso di separazione personale (Cass. 4502/1985).

Tutto ciò premesso, dimostrato l'ammontare delle somme non percepite dalla moglie (compreso naturalmente il risarcimento del danno, se si possa provare che ha subito un pregiudizio dal comportamento del marito), questa potrà chiederne il pagamento da parte del marito. Trattandosi di diritti di credito, ella avrà diritto a somme di denaro, non direttamente a partecipazioni sociali o a quote di immobili: in altre parole, la moglie aveva diritto a vedersi pagare uno stipendio (se lavoratrice dipendente) o a farsi corrispondere gli utili (in proporzione al lavoro prestato, in caso di impresa familiare), ma non per questo potrà diventare automaticamente titolare dei beni acquistati dal marito in regime di separazione.
Nell'ottica di una definizione transattiva della controversia (assolutamente consigliabile), la moglie potrà eventualmente chiedere al marito, anziché denaro, una quota di partecipazione nelle società (se vi ha interesse) o una parte dell'immobile un tempo adibito a casa coniugale (se lo stima conveniente), ma chiaramente sarà necessario l'accordo con il marito in tal senso.

M. M. chiede
venerdì 03/02/2023 - Emilia-Romagna
“Una donna prima del matrimonio acquista un appartamento condominiale in diritto di superficie 99ennale e paga interamente con il proprio denaro.
Dopo qualche anno dal summenzionato acquisto si sposa in comunione dei beni.
Dopo pochi anni dal suddetto matrimonio il Comune di residenza vende l'area su cui grava il suddetto diritto (la quota pertinente all'unità immobiliare in questione) e, questa volta, l'acquisto è in comune col marito della donna.
Chiedo: l'unità immobiliare nel suo insieme entra o no nella comunione dei beni e per quale quota atteso che il diritto di superficie è stato interamente pagato con denari della donna prima del matrimonio?”
Consulenza legale i 09/02/2023
L’istituto giuridico che viene in considerazione nel caso in esame è quello del diritto di superficie, alla cui disciplina occorre fare riferimento per dare risposta a quanto viene chiesto.
Sembra evidente che oggetto di acquisto da parte della donna sia stata la c.d. proprietà superficiaria, o meglio la proprietà della costruzione separata da quella del suolo, acquisto pertanto effettuato in deroga a quello che costituisce il generale principio dell’accessione (modo di acquisto della proprietà attraverso il quale la proprietà del suolo attrae quella dei manufatti che vengono costruiti su di esso).
Tenuto conto che detto acquisto è stato effettuato prima del matrimonio ed oltretutto con denaro personale della stessa parte acquirente, il bene che ne ha costituito l’oggetto, ossia l’appartamento in condominio, deve per forza di cose farsi rientrare tra i beni personali, e ciò per espressa previsione del comma 1, lett. a) dell’art. 179 del c.c..
Fin qui la situazione sembra pacifica e non presentare alcun problema.

I dubbi, ovviamente, sorgono nel momento in cui viene posto in essere il successivo atto negoziale, ovvero l’acquisto, questa volta in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale dei beni, del terreno su cui è stata realizzata la costruzione.
Tale acquisto, infatti, va inquadrato tra quelli contemplati al comma 1, lett. a) dell’art. 177 del c.c., costituendo come tale oggetto di comunione immediata tra i coniugi.
Il trasferimento della proprietà del suolo dal Comune (alienante) ai coniugi (acquirenti), tuttavia, non può avere riflessi sul regime proprietario della costruzione (l’appartamento), o meglio, influirà su di esso in modo parziale e nei termini che appresso verranno precisati.

Infatti, non può in alcun modo incidere sulla proprietà superficiaria della costruzione, la quale, essendo stata costituita per un termine di durata pari a 99 anni, sarà destinata ad estinguersi solo alla scadenza di tale termine.
In tal senso si può agevolmente argomentare da quanto espressamente statuito dall’art. 953 c.c., ove viene precisato che, nel caso di costituzione del diritto di superficie a tempo determinato, tale diritto si estingue alla scadenza del termine, con la conseguenza che, riprendendo ad operare il regime generale dell’accessione, il proprietario del suolo diventerà proprietario della costruzione.

Di contro, poiché uno degli acquirenti del suolo, seppure in regime di comunione legale, risulta essere lo stesso soggetto titolare della costruzione separata (proprietà superficiaria), si realizzerà quel fenomeno giuridico, proprio del diritto delle obbligazioni, che si definisce “confusione”, in quanto proprietario del suolo (per una quota ideale pari ad ½ indiviso) e proprietario della costruzione verranno di fatto a coincidere.
In conseguenza di ciò, la donna assumerà la posizione giuridica di piena proprietaria della costruzione per una quota pari ad ½ indiviso, mentre continuerà ad essere titolare del solo diritto di superficie per la restante quota di ½ della medesima costruzione.
Allo scadere dei 99 anni, invece, anche il coniuge, acquirente del suolo, diventerà pieno proprietario della costruzione in ragione di ½ indiviso, e ciò per effetto del riespandersi del diritto di proprietà ex art. 953 c.c.
Da un punto di vista meramente pratico, se oggi i coniugi decidessero di vendere, all’atto di vendita la moglie interverrebbe nella qualità di piena proprietaria per ½ indiviso della costruzione e di superficiaria dell’altro mezzo, mentre il di lei coniuge vi interverrebbe quale proprietario, in regime di comunione legale dei beni, del suolo su cui la costruzione sorge.

Infine, si rende necessaria un’ultima ma non meno importante precisazione.
L’acquisto da parte della moglie della piena proprietà della costruzione per effetto di confusione si inquadra tra i c.d. acquisti a titolo originario della proprietà.
In ordine a tale forma di acquisto, sia in dottrina che in giurisprudenza sono stati avanzati parecchi dubbi circa il regime applicabile, se considerarli come ricadenti nella comunione legale ex art. 177 c.c. ovvero farli rientrare tra i beni personali ex art. 179 c.c.
In particolare, in materia di accessione (è questa la forma di acquisto a titolo originario che viene qui in considerazione), accanto alla tesi della caduta in comunione del bene che costituisce oggetto di tale forma di acquisto, ha assunto prevalenza e si ritiene, pertanto, preferibile, la tesi della personalità del bene, la quale argomenta dalla lettera dello stesso art. 177 c.c.
Tale norma prevede solo “acquisti compiuti …” e quindi postula necessariamente una attività negoziale, tra cui non può fari rientrare l’accessione.
Con l’accessione infatti non si crea un nuovo, autonomo e distinto bene ma si realizza solo un incremento del bene preesistente, di cui quindi segue le sorti.

Per concludere e completare il quadro, va anche sottolineato che, nel momento in cui andrà ad estinguersi il diritto superficie (situazione che nel caso di specie non può che essere soltanto ipotetica, data la durata novantanovennale di tale diritto), il coniuge che “subirà” le conseguenze negative dell’accessione (ossia la donna che ha sostenuto per intero le spese di acquisto), potrà comunque godere di una tutela, seppure obbligatoria, consistente nel poter vantare un diritto di credito pari alla metà del prezzo corrisposto per detto acquisto.

A. D. A. chiede
domenica 27/02/2022 - Lazio
“Matrimonio nel 2015 in comunione dei beni.
Nel 2016 acquisto le quote di una Società.
Ad oggi sono presenti dei debiti bancari con questa società.
Se effettuo adesso la separazione dei beni... I debiti contratti con questa Società... rimangono a capo solamente a me o comunque rimangono in capo anche a mia moglie dal momento che i debiti sono stati contratti nel momento della comunione dei beni?
E per quanto riguarda i soldi sui conti correnti??può essere attaccato dalla banca il conto corrente di mia moglie anche dopo aver cambiato regime da comunione a separazione dei beni?
Preciso che io sono garante (come persona fisica) di una società Srl che ha contratto il debito con la banca.
Grazie”
Consulenza legale i 04/03/2022
In dottrina e in giurisprudenza si è dibattuto se l’acquisto di quote di una società di capitali, effettuato in costanza di matrimonio, sia compreso nella comunione legale.
In proposito, secondo Cass. Civ., Sez. I, 27/05/1999, n. 5172, “i titoli di partecipazione azionaria acquistati, in costanza di matrimonio, da uno solo dei coniugi ed allo stesso intestati, sono suscettibili di essere compresi nel regime della comunione legale contemplata dall'art. 177, comma 1, lett. a), c.c.”.
Ed ancora, la più recente Cass. Civ., Sez. I, 09/10/2007, n. 21098, “la comunione legale fra i coniugi, come regolata dagli artt. 177 e segg. cod. civ., costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata dagli artt. 1100 e segg. cod. civ., alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto; ne consegue che anche i crediti - così come i diritti a struttura complessa, come i diritti azionari in quanto "beni" ai sensi degli art. 810, 812 e 813 cod. civ., sono suscettibili di entrare nella comunione, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell'art. 177 cod. civ. poste dall'art. 179 cod. civ.”.
Tuttavia, nel nostro caso la preoccupazione di chi pone il quesito sembra riguardare la posizione di garante di un debito della società, assunta nei confronti della banca.
Al riguardo, occorre fare riferimento all’art. 189, comma 2 c.c., ai sensi del quale “i creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito è sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”.
Dunque anche in regime di comunione dei beni il creditore particolare di un coniuge potrà, al limite, rivalersi sui beni della comunione, e comunque entro i limiti della quota del coniuge obbligato, ma non sui beni dell'altro coniuge.
Quanto al conto corrente intestato alla moglie, se si tratta su cui confluiscono “i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi” ex art. 177 c.c., comma 1, lett c), occorre tenere presente che l’eventuale saldo attivo del conto rientrerebbe nella c.d. comunione “de residuo”, cioè diventerebbe comune solo al momento dello scioglimento della comunione legale (il che avverrebbe, tra l’altro, con il passaggio al regime della separazione dei beni).

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