La questione nasceva dalla vicenda giudiziaria che aveva visto come protagonista un uomo, il quale, dopo la fine di un lungo rapporto di convivenza, aveva citato in giudizio l’ex compagna, al fine di ottenere la restituzione di circa 500.000 euro, pari al valore delle attribuzioni patrimoniali che egli aveva eseguito nei suoi confronti sulla base di quello che, a suo parere, era un rapporto di associazione in partecipazione, ex art. 2549 del c.c.
Il Tribunale adito accoglieva la domanda attorea, qualificandola, però, come azione di arricchimento senza causa ai sensi dell’art. 2041 del c.c., escludendo che fossero applicabili, al caso di specie, le norme in tema di obbligazioni naturali.
La donna, rimasta soccombente in primo grado, dopo che il suo appello era stato dichiarato inammissibile, ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in primo luogo, la violazione e falsa applicazione degli articoli 2549 e 2042 del Codice Civile, per non aver il Tribunale escluso l'esperibilità dell'azione di indebito arricchimento, in considerazione della sussistenza di un titolo contrattuale, affermato dallo stesso attore in primo grado.
La ricorrente lamentava, poi, la violazione e falsa applicazione degli articoli 2034 e 2041 del Codice Civile, in quanto, a suo avviso, la sentenza impugnata aveva errato nel non ricondurre le dazioni patrimoniali eseguite in suo favore dall’attore, all’istituto delle obbligazioni naturali, ritenendole, al contrario, assoggettabili all’azione di indebito arricchimento.
La Suprema Corte ha, tuttavia, dichiarato il ricorso inammissibile.
In ordine al primo motivo di ricorso, con cui la donna lamentava come il Tribunale avesse errato nel non escludere la concreta esperibilità dell’azione di indebito arricchimento, la Cassazione ha evidenziato come, in realtà, i giudici di merito si siano conformati ad un orientamento consolidato sussistente in materia, in base al quale “La proponibilità dell'azione generale di indebito arricchimento, in relazione al requisito di sussidiarietà di cui all'art. 2042 del c.c., postula semplicemente che non sia prevista nell'ordinamento giuridico altra azione tipica a tutela di colui che lamenti il depauperamento, ovvero che la domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza ab origine dell'azione proposta, per difetto del titolo posto a suo fondamento” (cfr. Cass. Civ., 2350/2017).
Secondo gli Ermellini, dunque, il giudice di prime cure non ha errato nel ritenere sussistente il requisito della sussidiarietà ex art. 2042 del c.c., poiché, alla luce della ricostruzione delle articolate vicende patrimoniali intercorse, negli anni, tra le parti, non si poteva considerare configurabile un’associazione in partecipazione ai sensi dell’art. 2549 del c.c.
Parimenti infondato è parso, alla Cassazione, il secondo motivo di ricorso, con cui la ricorrente lamentava la mancata qualificazione del fatto come un’obbligazione naturale, e, di conseguenza, l’erroneità della qualificazione della domanda attorea come azione di indebito arricchimento.
Come evidenziato dai giudici di legittimità, infatti, la sentenza impugnata si è conformata, anche su tale punto, alla giurisprudenza della Suprema Corte, in base alla quale “Un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" configura l'adempimento di un'obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all'entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens” (Cass. Civ., n. 3713/2003).
Con riferimento, più in particolare, all’azione di indebito arricchimento, la Cassazione ha richiamato il suo precedente orientamento per cui "L'azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della causa qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell'adempimento di un'obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell'altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza" (Cass. Civ., n. 11330/2009).
In ossequio a tali principi, la Cassazione non ha potuto far altro che confermare quanto deciso dai giudici di merito, conformandosi al suo precedente orientamento, e ribadendo, quindi, come le attribuzioni patrimoniali intercorse tra ex conviventi possano integrare un ingiustificato arricchimento, in capo al soggetto che ne sia stato destinatario, qualora esulino dall’adempimento dei doveri nascenti dal rapporto di convivenza e travalichino, altresì, i limiti di proporzionalità e adeguatezza, valutati con riferimento alle circostanze concrete.