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Articolo 1372 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Efficacia del contratto

Dispositivo dell'art. 1372 Codice Civile

Il contratto ha forza di legge tra le parti(1). Non può essere sciolto che per mutuo consenso(2) o per cause ammesse dalla legge [1399 comma 3, 1453, 1896; 72](3).

Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi(4) che nei casi previsti dalla legge [1411, 1415](5).

Note

(1) Il momento a partire dal quale il contratto vincola le parti è quello della sua conclusione: prima rimangono libere di scegliere se stipulare o meno e anche l'eventuale responsabilità precontrattuale (v. 1337, 1338 c.c.) non può mai pregiudicare tale libertà. Il concetto di "forza di legge" si riferisce solo a quanto dispone il contratto stesso (v. 1374 c.c.) ed indica il fatto che le parti sono tenute ad osservarlo.
(2) La dottrina usa l'espressione "mutuo dissenso" per indicare il venir meno del consenso. È discussa l'operatività del mutuo dissenso nei contratti ad effetti reali (v. 1376 c.c.): mentre secondo alcuni è necessario un atto contrario, che, cioè, produca l'effetto inverso a quello prodottosi, secondo altri è sufficiente anche per essi il mutuo dissenso.
(3) La legge ammette non solo lo scioglimento concorde ma anche quello unilaterale (v. 1373, 1453, 1671, 2227 c.c.) il quale, proprio perché è eccezione alla regola generale, non può essere rimesso alla volontà di una parte.
(4) Terzi possono essere definiti tutti coloro che non sono parte del contratto.
(5) La norma stabilisce che verso i terzi il contratto non può produrre effetti diretti e ciò rappresenta, da un lato, corollario del principio di relatività del contratto e, dall'altro, espressione della regola per cui la sfera patrimoniale dei singoli non può essere pregiudicata dall'attività altrui. Il contratto può, però, produrre effetti riflessi verso i terzi, nel senso che questi possono in qualche modo esserne coinvolti: ad esempio, chi subisce un danno a causa di un veicolo può agire per il risarcimento del danno (2043 c.c.) anche contro il proprietario del veicolo (v. 2054 3, c.c.) ed, in tal caso, il diritto di proprietà conseguito, si supponga, mediante compravendita (v 1470 c.c.) è la base su cui agire.

Ratio Legis

La norma esprime innanzitutto il principio di relatività, nel primo periodo del primo comma e nel secondo comma. In base ad esso il contratto produce effetti solo tra le parti e non verso i i terzi i quali, estranei alla stipula, non possono di regola esserne coinvolti.
La norma sancisce, però, anche il diritto delle parti di sciogliersi dall'accordo purché, come principio generale, con un atto che sia espressione della volontà di entrambe.

Brocardi

Alterius contractu nemo obligatur
Contractus ab initio voluntatis est, post facto necessitatis
Contrarius consensus (dissensus)
Conventio legem dat contractus
Mutare consilium quis non potest in alterius detrimentum
Mutuus consensus
Pacta legem dant contractus
Pacta sunt servanda
Quod ab initio erat voluntatis postea fit necessitatis
Res inter alios acta, tertio neque nocet neque prodest

Spiegazione dell'art. 1372 Codice Civile

L'autonomia contrattuale e gli effetti del contratto

Il primo comma dell'art. 1372 che riproduce, sostanzialmente, l'art. #1123# del codice del 1865, intende affermare il carattere giuridico del rapporto convenzionale, nei limiti posti all'autonomia delle parti, dall'art. 1322.

Lo stretto collegamento tra l'art. 1372 e l'art. 1322 è espressamente avvertito nella ricordata Relazione. Per il codice del 1942, nel suo originario orientamento, il contratto è bensì ammesso a costituire norme giuridiche convenzionali, ma purché non esca dai limiti della privata autonomia, quale è posta all'art. 1322, onde nulla si può pattuire con efficacia che non sia conforme alla legge, all’ordine pubblico, e, per i contratti innominati, ad interessi meritevoli di tutela, secondo l’ordinamento giuridico. E la ricordata Relazione, commenta la norma, negando tutela al mero capriccio individuale, come ai patti per i quali taluno consenta, dietro compenso, ad una astensione da un'attività produttiva, ad una gestione antieconomica, ad una esplicazione sterile della propria attività, senza plausibile ragione.

Simili restrizioni poste all'art. 1372, per effetto dell'art. 1322 siffattamente inteso, non sono del tutto estranee a criteri peculiari al passato regime, per i quali l’attività privata non sembrava legittima, se non fosse conforme al pubblico bene, come era da quel regime concepito e patrocinato. Di qui il delicato problema relativo ad una eventuale mutazione di significato dell'art. 1322, nel regime odierno, e, di riflesso, dei limiti posti all'art. 1372.

A nostro avviso, nulla è mutato nella funzione limitatrice dell'articolo 1322, quanto al campo di applicazione dell'art. 1372. L’impero della legge sulla privata volontà, limite che il legislatore pone all'autonomia contrattuale e di riflesso all'efficacia della norma convenzionale, non è questione di regime politico, ma di giuridico coordinamento fra la legge ed il contratto. Invece è mutata senza dubbio la portata dell'art. 1322. Anzitutto ha perduto rilevanza i1 richiamo all'ordine corporativo. Ma in secondo luogo, e soprattutto, la limitazione ai patti innominati ha mutato carattere. Parlando di interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico, legislatore alludeva a finalità reputate conformi alla coscienza civile e politica, all’economia nazionale, al buon costume e all'ordine pubblico. Ora si noti che, quanto all'ordine pubblico ed al buon costume provvede l'art. 1343. Quanto alla coscienza civile e politica ed all'economia nazionale, simili espressioni sono riflesso di una influenza pubblica sulla vita privata, superiore a quanto consente, a nostro avviso, l’orientamento politico odierno. Riteniamo pertanto che le restrizioni che ne derivano debbano ritenersi implicitamente abrogate. Oggi non sembra lecito che il giudice tolga ad un contratto l'efficacia prevista all'art. 1372, solo perché il fine che esso persegue gli sembri in contrasto con l'economia della nazione. Il giudizio, su questo punto, si è nuovamente trasferito dal potere giudiziario a quello legislativo.


Gli effetti del contratto fra le parti – Il contratto e la legge

L'equiparazione del contratto e della legge, quanto alla efficienza della obbligazione che ne consegue, ha un'antica tradizione.

Contractus enim legem ex conventions accipiunt. I moderni scrittori dicono che si tratta di una formula pittoresca, ma metaforica. Alcuni autori parlano di autonomia i cui effetti sono recepiti dalla legge, altri parlano di autonomia precettiva, in contrasto con quella normativa, che nel passato regime sarebbe spettata ai contratti collettivi.

A nostro avviso si tratta, più generalmente parlando, del riconoscimento esplicito da parte del legislatore che i contratti hanno giuridica efficacia e determinano obbligazioni altrettanto vincolative quanto quelle che scaturiscono dalla legge. Di qui la conseguenza che il contratto ha efficacia autonoma incondizionata, indipendente da atti o formalità ulteriori, ciò che esclude ogni ingerenza di organi pubblici o di private autorizzazioni per l'efficacia del vincolo, quante volte una legge particolare non disponga il contrario.

Il rilievo contenuto nel primo alinea dell'art. 1372, concernente l'efficacia del contratto fra le parti, si ricollega alla disposizione del 2° comma, che vedremo fra poco.


Le cause di scioglimento del contratto

Il secondo alinea del 1° comma dell'art. 1372 nel testo del 1942, ha riprodotto quasi letteralmente il testo dell'art. #1123# del 1865; ma, mentre l'art. #1123# diceva che i contratti non possono essere revocati che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge, il nuovo testo dice che il contratto, soltanto per tali cause può essere sciolto. Sotto il codice del 1865, dunque, l’espressione usata dal legislatore faceva ostacolo a chi voleva giustamente distinguere il contrarius consensus dalla revoca, osservando che la revoca è un atto unilaterale, mentre il contrarius consensus è bilaterale. L'ostacolo si superava osservando che l’espressione revoca non era usata in senso tecnico. Ora, col nuovo testo, l’ostacolo scompare, e la distinzione accennata emerge evidente. Si è disputato se il contrarius consensus abbia effetto retroattivo. Riteniamo fondata l'opinione che nega la retroattività, tanto più nel testo del 1942, e non solo la retroattività reale, ciò che è evidente, ma anche quella obbligatoria. Tuttavia, a nostro avviso, nulla vieta alle parti di pattuire il ripristino di quanto fra loro sussisteva prima del contratto, senza pregiudizio dei terzi, integrando il contrarius consensus con un accordo speciale a tale effetto.

Giustamente è stato osservato che il contrarius consensus integra un nuovo contratto estintivo, che dovrà avere la forma richiesta per il contratto da sciogliere, e che, se il contratto è stato eseguito immediatamente, non si avrà più un contratto estintivo, ma un nuovo contratto di per sé stante.

Il richiamo alle cause di scioglimento ammesse dalla legge, (articolo 1372, I° comma, 2a alin.) non è che una norma di rinvio.


Il contratto ed i terzi

II 2° comma dell'art. 1372 limita il vincolo contrattuale alle parti stipulatrici. Ciò costituisce un principio già adombrato, come si è visto, al 1° comma dello stesso articolo, principio al quale possono bensì portarsi varie eccezioni, ma soltanto dal legislatore, cosicché in difetto di deroga legislativa, esso impera su tutti i rapporti contrattuali. Pertanto il gestore d'affari, il socio di fatto, il mandatario senza rappresentanza e tutti coloro i quali trattano in nome proprio e per conto altrui, vincolano soltanto se medesimi.

Ma il principio riceve numerose deroghe. Alcune si trovano nel codice civile, per es. al cap. IX di questo titolo II del Libro IV, ove si tratta del contratto a favore di terzi. Altre sono segnalate in dottrina a proposito dei negozi unilaterali, per i quali giustamente s'insegna che essi hanno inevitabilmente effetto nei confronti di persone estranee alla costituzione dell'atto. Invece, l'art. 1381 che concerne la promessa dell'obbligazione o del fatto del terzo, non solo non costituisce una deroga, ma al contrario costituisce un'applicazione manifesta del principio in esame.

Si insegna che è terzo, agli effetti del rapporto contrattuale, chi non è parte nel contratto, né avente causa dalla parte. Tuttavia giustamente si è rilevato che l'avente causa fra vivi talora è parificato, e talora non è parificato alla parte. Indubbiamente non è terzo né chi contrae, né il suo erede. Per l'avente causa a titolo particolare, bisogna rimettersi alla natura del titolo ed agli effetti di questo, sulla partecipazione agli effetti contrattuali, partecipazione che può essere ammessa od esclusa, od ammessa con maggiori o minori limitazioni.

Il terzo è estraneo alle obbligazioni contrattuali, ma d'altra parte, com'è noto, il contratto come fatto giuridico, esiste di fronte a tutti. Di qui il problema se sia da riconoscersi ai terzi la facoltà di insorgere contro negozi stipulati a loro danno, come fatti lesivi dei loro diritti. La questione è sorta a proposito dei patti di vietata concorrenza, dei patti di boicottaggio, e in altro campo, a proposito dei patti di simulazione in frode dei terzi. Noi pensiamo che tutti codesti casi siano estranei all'argomento. Quando si dice che il contratto non produce effetto rispetto ai terzi, si afferma che non crea vincoli giuridici a beneficio od a carico loro, salve le debite eccezioni; non si dice già che come fatto non debba influire sui loro interessi. Chi compra una casa al cui acquisto aspirava un terzo, o chi aliena il suo patrimonio nonostante abbia contratto dei debiti col terzo, certamente nuoce agli interessi di costui. Ma il legislatore, quando vuol provvedere a favore di tali interessi, non considera il contratto come fonte di obblighi o di diritti per il terzo, ma lo considera come un fatto qualsiasi da reprimere, per i pregiudizi riflessi che ne derivano. Ora, per esempio nel caso di boicottaggio, può forse invocarsi l'uso ovvero la morale come giuridicamente rilevante, per considerare illecito il complotto di alcune persone ai danni di talune altre, ma ciò concerne la loro cooperazione pregiudizievole a certi interessi meritevoli di tutela, prescindendo dal rapporto giuridico contrattuale nella sua portata normativa.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

627 Nel sistema di limiti alla autonomia della volontà sul quale, come si è detto (n. 603), è costruito il nuovo codice, la regola dell'art. 1123, primo comma, del codice precedente, secondo cui il contratto è legge tra le parti, non può avere perduto il significato di affermare la giuridicità del rapporto convenzionale; per tale sua funzione, e solo per questa, essa è stata riprodotta nell'art. 1372 del c.c.primo comma, in pieno collegamento con l'art. 1173 del c.c., di cui applica il principio secondo cui la volontà privata non può creare in modo indipendente effetti giuridici (cfr. anche articoli 1987 e 2004). Questo principio afferma l'immanente e perenne soggezione della volontà individuale al comando della legge. E se ne intende la necessità, in base alla considerazione che il riconoscimento della giuridicità si fonda sulla valutazione dell'utilità generale degli effetti che ne derivano; il compito di fare questa valutazione non può attribuirsi al singolo senza porre in pericolo l'uniformità a cui essa deve ispirarsi, senza cioè far luogo ad una relatività di giudizi che scompone disordinatamente gli scopi della pluralità organizzata.
È escluso ogni arbitrio individuale anche nella determinazione dell'estensione soggettiva dei contratti. L'effetto di questi è limitato in via di massima alla sfera di coloro che contraggono (art. 1372, secondo comma), perché l'autonomia non può legittimare invasioni nell'orbita del diritti del terzo.

Massime relative all'art. 1372 Codice Civile

Cass. civ. n. 20840/2022

La clausola di un contratto di appalto, nella quale si preveda che tutti i danni che i terzi dovessero subire dall'esecuzione delle opere siano a totale ed esclusivo carico dell'appaltatore, rimanendone indenne il committente, non può essere da quest'ultimo invocata quale ragione di esenzione dalla propria responsabilità risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato per effetto di quei lavori, atteso che tale clausola, operando esclusivamente nei rapporti fra i contraenti, alla stregua dei principi generali sull'efficacia del contratto fissati dall'art 1372 c.c., non può vincolare il terzo a dirigere verso l'una, anziché verso l'altra parte, la pretesa nascente dal fatto illecito occasionato dall'esecuzione del contratto.

Cass. civ. n. 11320/2022

Il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico non produce, di regola, effetti protettivi in favore dei terzi, perché, fatta eccezione per il circoscritto campo delle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione, trova applicazione il principio generale di cui all'art. 1372, comma 2, c.c., con la conseguenza che l'autonoma pretesa risarcitoria vantata dai congiunti del paziente per i danni ad essi derivati dall'inadempimento dell'obbligazione sanitaria, rilevante nei loro confronti come illecito aquiliano, si colloca nell'ambito della responsabilità extracontrattuale. (Nella specie, la S.C. ha escluso la spettanza dell'azione contrattuale "iure proprio" alla moglie di un soggetto che, affetto da Morbo di Parkinson, si era allontanato dalla struttura sanitaria presso cui era ricoverato e non era stato mai più ritrovato, precisando che la stessa avrebbe potuto eventualmente beneficiare della tutela aquiliana, con le conseguenti regole in tema di ripartizione dell'onere della prova).

Cass. civ. n. 27999/2019

In caso di scioglimento per mutuo consenso del contratto di leasing traslativo non trova applicazione - nemmeno in via analogica - il disposto dell'art. 1526 c.c. (che prevede il ripristino delle originarie posizioni delle parti attraverso la restituzione all'utilizzatore delle rate versate e il riconoscimento al concedente del diritto all'equo compenso per l'uso del bene), mancando il presupposto dell'inadempimento imputabile all'utilizzatore determinante la risoluzione, sicchè l'accordo solutorio - ove non contenga ulteriori previsioni concernenti il rapporto estinto - produce il solo effetto di liberare i contraenti dall'obbligo di eseguire le ulteriori prestazioni ancora dovute in virtù del contratto risolto. (Rigetta, CORTE D'APPELLO MILANO, 16/06/2017).

In tema di risoluzione consensuale del contratto, il mutuo dissenso, realizzando per concorde volontà delle parti la ritrattazione bilaterale del negozio, dà vita a un nuovo contratto, di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale e contrario a quello del contratto originario; pertanto, dopo lo scioglimento, le parti non possono proporre domande ed eccezioni relative al contratto risolto, giacché ogni pretesa o eccezione può essere fondata esclusivamente sul contratto solutorio e non su quello estinto.

Cass. civ. n. 30851/2018

Ai fini della configurabilità di un vincolo contrattuale definitivo, è necessario che l'accordo delle parti si formi su tutti gli elementi di cui all'art. 1325 c.c., non potendosene ravvisare la sussistenza ove i contraenti abbiano raggiunto un'intesa soltanto sugli elementi essenziali, rinviando ad un momento successivo la determinazione di quelli accessori. Ciò non di meno, in base al generale principio dell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 c.c., un contratto con gli effetti di cui all'art. 1372 c.c. può considerarsi perfezionato ove, alla stregua della comune intenzione delle parti, possa ritenersi che le stesse abbiano inteso come vincolante un determinato assetto, anche se per taluni aspetti siano necessarie ulteriori specificazioni, il cui contenuto sia, però, da configurare come mera esecuzione del contratto già concluso. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha ritenuto che tra le parti di un giudizio risarcitorio si fosse perfezionato un accordo transattivo con l'accettazione, da parte dell'attore, della proposta della convenuta di definire la lite mediante la corresponsione di una somma di denaro, senza che assumesse rilevanza la mancata determinazione delle modalità e dei termini del versamento dell'importo, avuto riguardo al comportamento delle parti e, in particolare, al fatto che l'attore non aveva svolto alcuna precisazione su tali aspetti).

Cass. civ. n. 30446/2018

La risoluzione consensuale di un contratto preliminare riguardante il trasferimento, la costituzione o l'estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta "ad substantiam" e, pertanto, non può essere provata mediante deferimento di giuramento decisorio, inammissibile ai sensi dell'art. 2739 c.c.

Cass. civ. n. 23586/2018

La risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, che può essere accertato d'ufficio dal giudice anche in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto.

Cass. civ. n. 27321/2017

Il patto obbligatorio di non concorrenza, consistente in un vincolo di modo nell'utilizzo di un cespite immobiliare, astringe il soggetto che l'ha stipulato, ma non il suo avente causa; esso, per produrre effetti anche nei confronti del nuovo acquirente, deve essere specificamente richiamato nell'atto di acquisto del terzo, in quanto la realità di un vincolo può configurarsi solo ove sia ipotizzabile un rapporto tra fondi mentre l'esclusione della concorrenza è utile non al fondo acquistato ma all'azienda che l'acquirente esercita su esso cosicché deve escludersi la sussistenza di una servitù.

Cass. civ. n. 8604/2017

In tema di mutuo consenso alla risoluzione del rapporto di lavoro, non costituisce elemento idoneo ad integrare la fattispecie di tacita risoluzione consensuale il fatto che il lavoratore abbia, nelle more, percepito il TFR, ovvero cercato o reperito un'altra occupazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto irrilevante lo svolgimento di altra attività lavorativa, per soli quindici giorni, circa quattro anni dopo il licenziamento intimato in forma orale).

Cass. civ. n. 3471/2017

Lo statuto di una società “in house”, che ha natura negoziale, non produce effetto rispetto ai terzi, se non nei casi previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 1372 c.c. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto applicabile, al direttore generale di una siffatta società, la clausola di decadenza automatica alla cessazione dalla carica dell’amministratore unico, prevista dallo statuto, pur in carenza di un suo richiamo nel contratto individuale).

Cass. civ. n. 22489/2016

In tema di mutuo consenso alla risoluzione del rapporto di lavoro, non è sufficiente il mero decorso del tempo fra il licenziamento e la relativa impugnazione giudiziale, essendo necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze, della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro; non costituisce elemento idoneo ad integrare la fattispecie di tacita risoluzione consensuale il fatto che il lavoratore abbia, nelle more, percepito il tfr, ovvero cercato o reperito un'altra occupazione.

Cass. civ. n. 6900/2016

Il comportamento del titolare di una situazione creditoria che per lungo tempo trascuri di esercitarla, e generi un affidamento della controparte nell'abbandono della relativa pretesa, è idoneo a determinare la perdita della stessa, sicché l'inerzia del lavoratore può ingenerare nel datore di lavoro un ragionevole affidamento in ordine ad una sua volontà di recedere dal rapporto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva dedotto la volontà di non dare seguito al rapporto dall'inerzia del lavoratore che, sottoposto ad un intervento chirurgico, era rientrato al lavoro dopo un mese senza inviare alcuna certificazione medica attestante il suo stato di salute, né comunicare anche oralmente alcuna notizia al riguardo).

Cass. civ. n. 2732/2016

Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, il decorso di un significativo lasso temporale tra la cessazione dell'ultimo contratto e la messa in mora del datore da parte del lavoratore, in uno al reperimento, nelle more, di altra occupazione a tempo indeterminato, costituiscono indici sufficienti della volontà delle parti di porre definitivamente fine a ogni rapporto lavorativo e da configurare la risoluzione del rapporto per mutuo consenso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte d'appello che aveva accertato la risoluzione consensuale del rapporto atteso il decorso di cinque anni tra la cessazione dell'ultimo contratto e la contestazione stragiudiziale della legittimità del termine, nonché l'avvenuta assunzione della ricorrente a tempo indeterminato da parte di altro datore prima dell'instaurazione del giudizio).

Cass. civ. n. 21764/2015

In materia contrattuale, la semplice modifica della clausole di un contratto per il quale la forma scritta è richiesta solo "ad probationem" e non "ad substantiam" (nella specie, contratto di affitto di azienda stipulato in forma pubblica ex art. 2556 c.c.), così come la risoluzione consensuale, non deve essere pattuita necessariamente con un accordo esplicito dei contraenti, potendo risultare anche da un comportamento tacito concludente.

Cass. civ. n. 20704/2015

Nel giudizio instaurato per la dichiarazione di nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro a tempo determinato, affinché possa configurarsi la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, che costituisce pur sempre una manifestazione di volontà negoziale, anche se tacita, è necessaria una chiara e certa volontà consensuale di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, mentre non è sufficiente un atteggiamento meramente remissivo del lavoratore, che non può essere inteso come acquiescenza se finalizzato a favorire una nuova chiamata o addirittura una possibile stabilizzazione.

Cass. civ. n. 13290/2015

La risoluzione consensuale di un contratto preliminare riguardante il trasferimento, la costituzione o l'estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta "ad substantiam", al pari del contratto risolutorio di un definitivo, rientrante nell'espressa previsione dell'art. 1350 cod. civ., in quanto la ragione giustificativa dell'assoggettamento del preliminare alla forma ex art. 1351 cod. civ. - da ravvisare nell'incidenza che esso spiega su diritti reali immobiliari, sia pure in via mediata, tramite l'assunzione di obbligazioni - si pone in termini identici per il contratto risolutorio del preliminare stesso.

Cass. civ. n. 2906/2015

Nel giudizio instaurato per la dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro a tempo determinato, affinché possa ritenersi risolto il rapporto per mutuo consenso, rileva la mancata offerta della prestazione lavorativa per un periodo la cui valutazione è rimessa al giudice di merito, trattandosi di comportamento socialmente valutabile in modo tipico e oggettivo avente valore di dichiarazione negoziale risolutiva. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la risoluzione per mutuo consenso sulla base della totale assenza di un'offerta di prestazione da parte del lavoratore, protrattasi per oltre cinque anni, ossia per un periodo eccedente il termine prescrizionale).

Cass. civ. n. 6125/2014

La risoluzione del contratto per mutuo consenso può essere rilevata anche d'ufficio (nella specie, da un collegio di arbitri irrituali).

Cass. civ. n. 14209/2013

Il contratto di lavoro può essere dichiarato risolto per mutuo consenso anche in presenza non di dichiarazioni, ma di comportamenti significativi tenuti dalle parti, spettando al giudice del merito la valutazione sulla loro efficacia solutoria, in base ad un apprezzamento che, se congruamente motivato sul piano logico-giuridico, si sottrae a censure in sede di legittimità. In particolare, è suscettibile di essere sussunto nella fattispecie legale di cui all'art. 1372, primo comma, c.c., il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo, in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano "oggettivo" del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà dei contraenti, intesa come momento psicologico dell'iniziativa contrattuale, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico, là dove, nella materia lavoristica, operano, proprio nell'anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto risolto tacitamente un rapporto di lavoro, in ragione dell'inerzia del lavoratore per ben sei anni dopo il collocamento a riposo e dell'avvenuta percezione del trattamento pensionistico per il quale aveva raggiunto il massimo dell'anzianità contributiva).

Cass. civ. n. 12781/2012

Per il principio di relatività dell'efficacia del contratto, accolto dall'art. 1372 c.c., la conciliazione giudiziale di una controversia attinente al rapporto di lavoro vincola solo gli stipulanti. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha respinto il ricorso del lavoratore che, avendo conciliato con l'azienda municipalizzata Centrale del Latte di Roma una controversia per superiore inquadramento, pretendeva di opporre la transazione al Comune di Roma, presso il quale era transitato a seguito di accordo sindacale prevedente la costituzione del rapporto "ex novo").

Cass. civ. n. 10201/2012

La risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, che può essere accertato d'ufficio dal giudice pure in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto.

Cass. civ. n. 3245/2012

La risoluzione consensuale di un contratto, per il quale la legge non prescriva alcuna forma particolare, può avvenire anche con una manifestazione tacita di volontà.

Cass. civ. n. 2363/2012

La clausola di un contratto di appalto, nella quale si preveda che tutti i danni che i terzi dovessero subire dall'esecuzione delle opere siano a totale ed esclusivo carico dell'appaltatore, rimanendone indenne il committente, non può essere da quest'ultimo invocata quale ragione di esenzione dalla propria responsabilità risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato per effetto di quei lavori, atteso che tale clausola, operando esclusivamente nei rapporti fra i contraenti, alla stregua dei principi generali sull'efficacia del contratto fissati dall'art. 1372 c.c., non può vincolare il terzo a dirigere verso l'una, anziché verso l'altra parte, la pretesa nascente dal fatto illecito occasionato dall'esecuzione del contratto.

Cass. civ. n. 20445/2011

Il mutuo dissenso costituisce un atto di risoluzione convenzionale (o un accordo risolutorio), espressione dell'autonomia negoziale dei privati, i quali sono liberi di regolare gli effetti prodotti da un precedente negozio, anche indipendentemente dall'esistenza di eventuali fatti o circostanze sopravvenute, impeditivi o modificativi dell'attuazione dell'originario regolamento di interessi, dando luogo ad un effetto ripristinatorio con carattere retroattivo, anche per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento di diritti reali; tale effetto, infatti, essendo espressamente previsto "ex lege" dall'art. 1458 c.c. con riguardo alla risoluzione per inadempimento, anche di contratti ad effetto reale, non può dirsi precluso agli accordi risolutori, risultando soltanto obbligatorio il rispetto dell'onere della forma scritta "ad substantiam".

Cass. civ. n. 16287/2011

Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell'illegittima apposizione di un termine a numerosi contratti intervallati da periodi di inattività, é necessario, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo dissenso, che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che, a tal fine, non è sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, né l'accettazione del trattamento di fine rapporto e la mancata offerta della prestazione, né la mera ricerca di occupazione a seguito della perdita del lavoro per causa diversa dalle dimissioni; la valutazione del significato e della portata del complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non sussistono vizi logici o errori di diritto. (Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, comma 1, c.p.c.).

Cass. civ. n. 8504/2011

Lo scioglimento per mutuo consenso di un contratto di trasferimento della proprietà immobiliare, per il quale la legge richiede la forma scritta a pena di nullità, deve anch'esso risultare da atto scritto.

Cass. civ. n. 8124/2010

In tema di appalti pubblici, qualora un consorzio di cooperative di produzione e lavoro (costituito ai sensi del r.d. 25 giugno 1909, n. 422), aggiudicatario di un appalto, abbia assegnato ad una cooperativa consorziata l'esecuzione dei lavori appaltati e quest'ultima ne abbia subappaltato una parte ad altra impresa estranea al consorzio, in caso di inadempimento dell'impresa consorziata subappaltante nei confronti dell'impresa fornitrice, il consorzio non ne è responsabile in solido con l'impresa assegnataria consorziata, atteso che - in assenza di disposizioni di legge speciali contrarie e non potendo trovare applicazione l'art. 13 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, rilevante "ratione temporis", che si riferisce alla partecipazione alle procedure di affidamento di imprese e consorzi in "associazione temporanea" - valgono la regola generale di cui all'art. 1372, secondo comma, c.c., a norma del quale il contratto non produce effetti rispetto ai terzi se non nei casi previsti dalla legge, e quella di cui all'art. 1292 c.c., per il quale la solidarietà passiva nel rapporto obbligatorio presuppone una specifica previsione della legge o del titolo.

Cass. civ. n. 24133/2009

L'erede è vincolato dal contratto, anche se non trascritto, concluso dal "de cuius" e dalle obbligazioni dallo stesso nascenti, atteso che soltanto l'avente causa a titolo particolare "mortis causa" o per atto fra vivi è terzo e, come tale, non è tenuto, senza il suo consenso, a subire il debito del suo dante causa.

Cass. civ. n. 10741/2009

Gli effetti del contratto debbono essere individuati avendo riguardo anche alla sua funzione sociale, e tenendo conto che la Costituzione antepone, anche in materia contrattuale, gli interessi della persona a quelli patrimoniali. Ne consegue che il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio anche del concepito e del di lui padre, i quali in caso di inadempimento, sono perciò legittimati ad agire per il risarcimento del danno.

Cass. civ. n. 15603/2007

Il principio secondo cui il contratto non può avere effetto che tra le parti, salvo che nei casi previsti dalla legge, esclude che possano ritenersi legittimati ad agire per la nullità di una clausola arbitrale i garanti di una delle parti contrattuali, coobbligati in virtù di altro contratto, non potendo i medesimi essere convenuti innanzi all'arbitro né farsi promotori di un giudizio arbitrale.

Cass. civ. n. 17503/2005

In tema di risoluzione consensuale del contratto, il mutuo dissenso, realizzando per concorde volontà delle parti la ritrattazione bilaterale del negozio, dà vita a un nuovo contratto, di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale e contrario a quello del contratto originario; pertanto, dopo lo scioglimento, le parti non possono invocare cause di risoluzione per inadempimento relative al contratto risolto giacché ogni pretesa od eccezione può essere fondata esclusivamente sul contratto solutorio e non su quello estinto.

Cass. civ. n. 3122/2003

La transazione intervenuta tra lavoratore e datore di lavoro è estranea al rapporto tra quest'ultimo e l'Inps, avente ad oggetto il credito contributivo derivante dalla legge in relazione all'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, giacché alla base del credito dell'ente previdenziale deve essere posta la retribuzione dovuta e non quella corrisposta, in quanto l'obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste indipendentemente dal fatto che siano stati in tutto o in parte soddisfatti gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d'opera, ovvero che questi abbia rinunziato ai suoi diritti. Pertanto, attesa l'autonomia tra i due rapporti, la transazione suddetta non spiega effetti riflessi nel giudizio con cui l'Inps fa valere il credito contributivo.

Cass. civ. n. 12476/1998

L'efficacia del negozio di risoluzione per mutuo dissenso non può decorrere da un momento successivo alla sua stipulazione, attribuendo così efficacia ultrattiva al precedente contratto, in quanto ciò contraddirebbe l'essenza del negozio solutorio e la natura degli interessi che, in riferimento alla sua causa, esso è destinato a soddisfare.

Cass. civ. n. 7270/1997

Il negozio risolutorio ha, per sua natura, efficacia ex nunc, nel senso che da esso deriva la caducazione delle obbligazioni scaturenti dal contratto originario relative alla prosecuzione del rapporto, onde non può configurarsi responsabilità in relazione al mancato adempimento delle ulteriori prestazioni previste; nessun effetto liberatorio, invece, esplica la risoluzione consensuale in ordine ad eventuali aspetti di responsabilità per un corretto adempimento relativo a prestazioni già eseguite, ovvero per danni cagionati da comportamenti accessori in cui una delle parti possa incorrere nell'esecuzione dello stesso accordo risolutorio, ferma restando, ovviamente, la possibilità per le parti di prevedere, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale, l'estensione dell'effetto liberatorio dell'accordo risolutorio ad altri titoli di responsabilità, al di là dei limiti propri di detto accordo.

Cass. civ. n. 2713/1996

Con riguardo alla risoluzione del contratto per mutuo dissenso, l'obbligo di restituzione della somma ricevuta a titolo di anticipo del corrispettivo costituisce debito di valuta insensibile, come tale, al fenomeno della svalutazione monetaria, salvo che il creditore non dimostri di avere risentito a causa della indisponibilità della somma anticipata eventuali ulteriori danni e perciò anche quello sofferto in conseguenza della svalutazione monetaria.

Cass. civ. n. 8341/1995

Qualora l'acquirente di un immobile urbano adibito ad uso diverso da quello di abitazione si trovi in regime di comunione legale dei beni con il coniuge, il giudizio di riscatto iniziato dall'avente diritto alla prelazione ai sensi dell'art. 39 della L. 27 luglio 1978 n. 392 deve essere promosso nei confronti di entrambi, ancorché il coniuge sia rimasto estraneo al contratto stipulato dall'acquirente, posto che il coniuge, in forza dell'art. 177 c.c. ed in conformità della previsione contenuta nell'art. 1372 secondo comma c.c., assume ope legis le vesti di destinatario diretto dello stesso effetto traslativo verificatosi in favore del contraente, di modo che le situazioni giuridiche soggettive di entrambi i coniugi nell'ambito del rapporto giuridico originato dal contratto rivestono carattere di inscindibilità, essendo l'un coniuge divenuto, in forza dello stesso contratto, comproprietario del bene acquistato dall'altro.

Cass. civ. n. 6656/1993

L'accordo risolutorio di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam è soggetto alla stessa forma stabilita per la conclusione di esso. L'anzidetto requisito formale può ritenersi sussistente solo in presenza di un documento che contenga in modo diretto la dichiarazione della volontà negoziale e che venga redatto al fine specifico di manifestare tale volontà.

Cass. civ. n. 5065/1993

Poiché la cosiddetta risoluzione del contratto per mutuo dissenso, a differenza dalla risoluzione per inadempimento, non ha, in difetto di specifica pattuizione negoziale, l'effetto retroattivo che per questa ultima è invece previsto dall'art. 1458, primo comma, c.c., alla stessa non consegue il ripristino delle status quo ante, che deve, anzi, ritenersi implicitamente escluso per effetto della globale valutazione datane dalle parti all'atto dello scioglimento del contratto. Ne consegue che in caso di contratto di compravendita in difetto di contraria pattuizione gli interessi sulle somme dovute in restituzione dalla parte venditrice devono ritenersi compensati dal godimento della cosa che la parte compratrice abbia medio tempore avuto (ex art. 1282 ultimo comma c.c.).

Cass. civ. n. 100/1991

Il patto che concerne l'adozione di una determinata forma per la futura conclusione di un contratto (o anche per porre validamente in essere un negozio unilaterale) non può estendersi in via analogica ad altre convenzioni non specificamente previste, come la risoluzione consensuale del rapporto, la quale non soggiace ai limiti di prova testimoniale previsti dall'art. 2723 c.c. con riguardo ai «patti posteriori alla formazione del documento», dovendosi considerare tali solo quelli che apportano alle clausole contrattuali, stipulate in forma scritta, aggiunte o modifiche destinate a regolare diversamente per il futuro particolari aspetti dei rapporto tra le parti, nel presupposto della persistenza e prosecuzione del medesimo. In tema di contratto di agenzia, la sostanziale diversità, per natura ed effetti, fra il recesso il quale consiste in una dichiarazione unilaterale ricettizia, volta a far cessare il rapporto a tempo indeterminato, che non richiede accettazione della controparte e produce effetto solo che quest'ultima ne abbia avuto conoscenza (salvo, ex art. 1350 c.c., l'obbligo della parte recedente di dare il prescritto preavviso o di corrispondere l'indennità sostitutiva) e la risoluzione consensuale, che è invece un negozio bilaterale volto a porre fine al vincolo contrattuale (art. 1372 c.c.) comporta che la prescrizione dell'uso della forma scritta (nella specie, raccomandata con ricevuta di ritorno e preavviso di trenta giorni), pattuita per l'esercizio del recesso, non è estensibile all'ipotesi di risoluzione per mutuo consenso, la cui manifestazione di volontà non solo non è soggetta ad alcuna prescrizione di forma, che non risulti previamente pattuita con specifico riferimento al negozio in questione, ma può anche implicitamente desumersi dal comportamento delle parti che concordemente cessino di dare ulteriore corso alle prestazioni reciproche.

La regola dettata dall'art. 157 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, è propria della materia processuale ma è estranea alla materia sostanziale, nella quale l'azione è concessa anche a chi abbia partecipato alla stipulazione del contratto nullo. In tema di contratto di agenzia, la sostanziale diversità, per natura ed effetti, fra il recesso - il quale consiste in una dichiarazione unilaterale ricettizia, volta a far cessare il rapporto a tempo indeterminato, che non richiede accettazione della controparte e produce effetto solo che quest'ultima ne abbia avuto conoscenza (salvo, ex art. 1350 c.c., l'obbligo della parte recedente di dare il prescritto preavviso o di corrispondere l'indennità sostitutiva) - e la risoluzione consensuale - che è invece un negozio bilaterale volto a porre fine al vincolo contrattuale (art. 1372 c.c.) - comporta che la prescrizione dell'uso della forma scritta (nella specie, raccomandata con ricevuta di ritorno e preavviso di trenta giorni), pattuita per l'esercizio del recesso, non è estensibile all'ipotesi di risoluzione per mutuo consenso, la cui manifestazione di volontà non solo non è soggetta ad alcuna prescrizione di forma, che non risulti previamente pattuita con specifico riferimento al negozio in questione, ma può anche implicitamente desumersi dal comportamento delle parti che concordemente cessino di dare ulteriore corso alle prestazioni reciproche.

Cass. civ. n. 6118/1990

Nella disciplina del diritto di famiglia, introdotta dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, l'obbligazione assunta da un coniuge, per soddisfare bisogni familiari, non pone l'altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi. Il suddetto principio opera indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione dei beni, essendo la circostanza rilevante solo sotto il diverso profilo dell'invocabilità da parte del creditore della garanzia dei beni della comunione o del coniuge non stipulante, nei casi e nei limiti di cui agli artt. 189 e 190 (nuovo testo) c.c.

Cass. civ. n. 4600/1983

La volontà negoziale diretta allo scioglimento di un contratto per mutuo consenso non può essere desunta dal comportamento di chi, pur senza chiedere in via riconvenzionale l'adempimento del contratto o la sua risoluzione per colpa dell'attore, si opponga alla domanda di risoluzione per inadempimento proposta nei suoi confronti, e neppure di chi non si costituisca in giudizio per contrastare attivamente la domanda avversaria, poiché anche in quest'ultimo caso il giudice dovrà verificare se sussistano in concreto le condizioni dell'azione fatta valere dall'attore, e se queste manchino, dovrà limitarsi a respingere la domanda di risoluzione del contratto.

Cass. civ. n. 329/1983

Il giudice, adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento del medesimo contratto, può accogliere l'una e rigettare l'altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare l'intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti.

Cass. civ. n. 1939/1982

La risoluzione consensuale di un contratto, che l'attore pone a fondamento di una sua pretesa, costituendo fatto successivo al contratto stesso ed estintivo delle obbligazioni da esso derivanti, non è rilevabile ex officio, ma deve formare oggetto di una eccezione «propria», con il conseguente onere probatorio a carico del convenuto.

Cass. civ. n. 3885/1977

L'accordo per lo scioglimento di un contratto per mutuo consenso richiede la forma scritta, solo quando la stessa forma sia richiesta ad substantiam per il contratto che si vuole sciogliere.

Cass. civ. n. 1496/1977

La risoluzione per mutuo consenso di un contratto per il quale non sia richiesta la forma scritta ad substantiam può risultare - oltre che da un esplicito accordo dei contraenti diretto a sciogliere il rapporto - anche dalla lor comune tacita volontà di non dare ulteriore corso al contratto, liberandosi delle rispettive obbligazioni.

Cass. civ. n. 1109/1977

I contratti di compravendita di autoveicoli possono essere conclusi anche con il solo scambio orale del consenso, del quale può darsi dimostrazione con ogni mezzo di prova ammesso dalla legge, comprese le presunzioni semplici, costituendo la trascrizione dell'atto nel pubblico registro soltanto un mezzo di pubblicità inteso a dirimere gli eventuali conflitti fra più aventi causa dal medesimo venditore. Ne consegue che la forma scritta non è necessaria, né ad substantiamad probationem, neanche per l'accordo con il quale le parti sciolgono per mutuo consenso un precedente contratto di vendita di un autoveicolo.

Cass. civ. n. 3772/1976

Se in astratto il negozio risolutivo per mutuo consenso ha efficacia ex nunc, spetta però al giudice, con indagine di fatto, accertare se le parti, nel concludere il negozio risolutivo di un contratto, abbiano inteso attribuire ad esso anche carattere liberatorio rispetto agli effetti del primo negozio, ed eventualmente rispetto alle conseguenze di una pretesa inadempienza della parte, e se perciò intesero o meno far sopravvivere l'azione di danni.

Cass. civ. n. 1142/1976

L'erede, subentrando nella posizione giuridica del de cuius soltanto a partire dalla morte di questi, non può essere considerato parte dei contratti conclusi dal defunto per il periodo anteriore al suddetto evento, ma, al contrario, conserva la sua posizione di terzo rispetto a tutti gli effetti non aventi carattere di durata che siano ricollegabili al momento della conclusione dei detti contratti; ne consegue che, ai fini dell'opponibilità al nudo proprietario delle locazioni poste in essere dall'usufruttuario, anche nel caso in cui il nudo proprietario sia succeduto mortis causa a quest'ultimo dopo la rinunzia all'usufrutto, il contratto di locazione resta opponibile al nudo proprietario soltanto se e dal momento in cui abbia acquistato, per effetto della registrazione, data certa.

Cass. civ. n. 1666/1975

A norma dell'art. 1372 c.c., il contratto produce effetti soltanto nei confronti delle parti e dei loro eredi e non anche nei confronti dei successori a titolo particolare mortis causa o per atto fra vivi; pertanto le obbligazioni assunte dal proprietario di un immobile nei confronti di un terzo non si trasferiscono - tranne che siano configurabili come obbligazioni propter rem, costituenti numerus clausus all'acquirente dello stesso immobile, se non attraverso uno degli strumenti negoziali tipici all'uopo predisposti dall'ordinamento (delegazione, espromissione, accollo e cessione del contratto).

Cass. civ. n. 2274/1971

Il contratto preliminare, come qualsiasi altro contratto, non può essere sciolto, se non per volontà concorde delle parti o per cause ammesse dalla legge.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1372 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

D. M. chiede
giovedì 12/09/2024
“L'oggetto è la proprietà di un'area di terreno con superficie inferiore a 10 m quadri, all'interno di un cortile comune.
Detta area è in mio esclusivo utilizzo da più di venti anni ed è citata in un accordo scritto a mano tra i vecchi proprietari del cortile comune in un tempo antecedente l'acquisto da parte mia della casa comprendente anche la suddetta area.
Recentemente, per sistemare la situazione catastale di tutta l'area comprendente 5 proprietà e la parte in comune (cortile), sono state fatte delle misure più precise e in base a queste rinnovata la mappa a catasto.
Ad oggi quindi, secondo il nuovo accatastamento, il terreno in questione risulta come particella individuale ma compresa nella parte comune, quindi la proprietà suddivisa nelle 5 parti.
Per acquisirne l'intera proprietà da parte mia con il consenso degli altri 4 condomini mi si prospetta una spesa di 1600 euro circa per imposta di registro e atto notarile per una frazione di terreno dal valore prossimo allo 0 e comunque già mia di fatto.
Vengo all'oggetto della consulenza:
Non formalizzando la mia esclusiva proprietà a cosa posso andare incontro? La mia intenzione è quella di continuare ad esercitarne il possesso di fatto, ma un domani qualcuno degli altri 4 proprietari (che potrebbero in futuro essere diversi dagli attuali) potrebbero avanzare delle pretese o degli impedimenti nei miei confronti di qualche tipo?

Grazie e cordiali saluti”
Consulenza legale i 18/09/2024
Finché vi è pieno accordo tra i comproprietari, è assolutamente consigliabile procedere alla formalizzazione dell’acquisto dell’area per mezzo di rogito notarile.
Con ogni probabilità l’accordo che fu raggiunto più di venti anni fa fu formalizzato solo per mezzo di una scrittura privata redatta tra i condomini e non fu mai trascritta nei registri immobiliari: solo la formalizzazione dell’accordo davanti al notaio permette poi la sua successiva trascrizione nei registri immobiliari, passaggio che non deve assolutamente essere considerato secondario.

Solo, infatti, la trascrizione presso la Conservatoria permette la opponibilità della cessione ai successivi condomini, opponibilità che, a mente dell’art. 1372 del c.c., oggi Lei non può vantare. Per tale motivo, se in un futuro vi sarà una modifica della compagine condominiale il nuovo proprietario potrebbe sempre contestare la natura comune del ben e pretendere che esso venga restituito al condominio: questo indipendentemente dal fatto che vi è una scrittura privata firmata da altri proprietari. È ben vero che lei a fronte di questa richiesta potrebbe opporre una intervenuta usucapione ex art 1158 del c.c.: si possiede ininterrottamente e pacificamente in maniera esclusiva il bene da più di venti anni; vi sarebbero anche gli estremi per provare tale circostanza, producendo in giudizio proprio l’accordo scritto a cui si fa riferimento nel quesito. È altrettanto vero però che l’usucapione deve essere accertata in giudizio o quantomeno concordata all’ interno di una procedura di mediazione: ma un giudizio ha comunque una alea di incertezza intrinseca e ha dei costi che possono essere ben superiori ad un rogito notarile.

Per tale motivo è assolutamente consigliabile approfittare dell’assoluto accordo che vige all’interno della compagine condominiale (circostanza che capita piuttosto di rado in vicende simili) e procedere a formalizzare l’acquisto dell’area comune per mezzo di rogito notarile. L’operazione avrà l’importante effetto di stabilizzare l’acquisto dell’area a suo favore, potendola considerare come pertinenza della sua abitazione: ciò permetterà in futuro una sua facile cessione da sola o unitamente al suo appartamento, aumentando anche il valore commerciale di quest’ultimo cespite.


R. R. chiede
mercoledì 07/06/2023
“rispetto al quesito Q202333544 già risposto avrei questa domanda:

Buongiorno, alla luce di quanto già sopra detto, l’amministratrice farà una riunione straordinaria perché cito sue parole: “E' necessaria perché il corridoio aveva bisogno di manutenzione straordinaria che si è accollata la Signora Y. in cambio dell'uso esclusivo, ora quel costo deve essere rimborsato dal condominio”.
Considerando il REGOLAMENTO di condominio e considerando che sono passati circa 6 anni e molti condomini sono cambiati e quelli rimasti avevano firmato “quel foglio che erano d’accordo di di dare L’esclusività” quanto sono legittime le sue richieste? È lecito che si rifarà sul condominio, nel senso, la sua pretesa è legittima? Ps: se ci sarà da pagare per questa domanda non ci sono problemi, fatemi pure sapere quanto, dato che ormai siete al corrente della situazione e non voglio trovarmi impreparato alla futura riunione condominiale.”
Consulenza legale i 12/06/2023
Ricollegandosi anche a quanto è già stato detto nella precedente consulenza, ammesso è non concesso che la signora Y possa vantare una qualche pretesa economica nei confronti di alcuni dei proprietari che hanno firmato le precedenti dichiarazioni, certo essa non può avanzare pretese nei suoi confronti, né tanto meno l’amministratore può addebitarle spese di qualsiasi natura.

Gli accordi presi tra i singoli condomini che vanno a derogare alle norme riguardanti la suddivisione delle spese condominiali o che attribuiscono ad un singolo proprietario particolari diritti sulle parti comuni sono assolutamente legittimi. In forza del principio racchiuso nell’art.1372 del c.c. però tali accordi non possono essere opponibili a condomini divenuti proprietari successivamente alla loro formazione, a meno che essi non vengano trascritti presso i registri immobiliari, eventualità molto rara che certo qui non si è concretizzata.

Quindi se relativamente a questa vicenda la signora Y o l’amministratore di condominio dovessero mai avanzare delle pretese economiche direttamente nei suoi confronti vi sarebbero tutti gli estremi per respingere queste richieste al mittente, anche se eventualmente nascoste tra le pieghe di un ipotetico bilancio condominiale.


R. R. chiede
venerdì 05/05/2023
“Buongiorno,

il 18 luglio 2018 ho acquistato la mia prima casa. In questa casa al di fuori del bagno ho un'intercapedine dove sono stati predisposti dal costruttore le predisposizioni del climatizzatore. Cosa scritta sul regolamento condominiale da atto notarile che all'art 3 - PARTI COMUNI DELL'EDIFICIO CONDOMINIALE descrive: "intercapedine fronteggiate gli appartamenti sub 4 (io) e 9 (vicina di casa) nella quale è permessa l'installazione di apparecchi tecnologici di modeste dimensioni, l'accesso a tale area potrà essere regolamentato a salvaguardia della privacy delle due unità immobiliari fermo restando proprietà condominiale.

Così sapendo all'atto di acquisto qualche settimana fa mi muovevo per far sì di acquistare il climatizzatore da far montare in questa intercapedine, ma venivo avvisato dall'affittuaria dell'appartamento confinante (sub 9) che su quell'intercapedine
c'era una esclusività da parte del suo proprietario (avuta nel 2017 (1 anno prima del mio acquisto) in seguito a dei lavori di piastrellamento avvenuti sull'intercapedine per eliminare dei ristagni d'acqua di cui si era accollato interamente il costo a seguito di una assemblea condominiale ordinaria del 01 febbraio 2017 dove erano presenti 586,582 millesimi su un totale di 5 condomini su 10 (credo di capire di cui 2 rappresentati dalla stessa persona date le firme, ma non sono specificati i nomi dei delegati) che così recita: "vista la necessità di sistemare la pavimentazione del cortile condominiale chiuso al fine di evitare ristagni d'acqua si decide di dar corso ai lavori per una spesa di 1500 euro + iva, si prospetta che l'ipotesi di tale intervento venga preso in carico interamente dalla signora Maria Teresa Panfili a condizione che il condominio gli dà l'uso esclusivo di tale chiostro per anni 20. Si richiede pertanto comunicazione scritta ai non presenti accettazione scritta compresi i deleganti. Quindi non potevo a suo dire montarci nemmeno uno spillo.

Io di queste deleghe ne ho sei (che ho richiesto all'amministratrice) esclusa quella della proprietaria che mi aveva venduto casa (ps: la proprietaria di casa che mi ha venduto non era neanche in assemblea): e tali deleghe recitano: ...con la presente accetta di concedere alla SIGNORA PANFILI MARIA TERESA l'uso a titolo gratuito del piccolo cortile condominiale per anni 20 (ometto di scrivere tutti i dati del condominio, il motivo descritto sopra, motivo, spese, ristagni ecc) con data luogo e firma.

Dopodiché ho parlato con il proprietario dell'appartamento (ovvero il locatore) che molto cordialmente fra le soluzioni che mi ha proposto è stata di dividere le spese inter nos esclusi gli anni intercorsi e mantenere l'esclusività con lui con una scrittura privata o da un legale o dall'amministratrice, oppure che si farà rivalsa sul condominio nel caso.

Ma la domanda che mi pongo è: posso pagare le spese sostenute un anno prima che acquistassi casa per godere di diritti che già ho? Ovvero il diritto di montare il clima come recita l'atto notarile del REGOLAMENTO DI CONDOMINIO, oltre al fatto che di fatto, io insieme al mio vicino abbiamo già "l'esclusività" di questa intercapedine...ovvero gli unici accessi sono la mia finestra del bagno e la sua finestra del bagno. Se lo avessi saputo l'avremo messo per iscritto sull'atto di compravendita per farlo pagare a chi mi ha venduto casa.

Se monto il climatizzatore rischio qualcosa a livello legale o sono nella ragione?

Grazie infinite e in attesa di una vostra risposta porgo distinti saluti.

Consulenza legale i 15/05/2023
La delibera del febbraio 2017 e i successivi accordi che ne sono scaturiti non sono opponibili all’attuale proprietario del subalterno 4. Affinché fosse possibile una opponibilità dell’uso esclusivo della intercapedine ai successivi proprietari, ed in particolare al futuro acquirente del subalterno 4, sarebbe stato necessario che l’accordo di uso esclusivo fosse racchiuso in un rogito notarile sottoscritto da tutti i proprietari, ed in particolare dall’allora proprietaria dell’attuale suo appartamento, per poi essere trascritto presso la Conservatoria dei RR.II.

In assenza di tutto questo, ai sensi dell’art. 1372 del c.c., quanto deciso in assemblea nel febbraio del 2017 non può essere opponibile ai futuri acquirenti degli appartamenti e tale delibera può tuttalpiù vincolare solo coloro che hanno sottoscritto le autorizzazioni emesse successivamente alla assemblea del febbraio del 2017: inoltre, in che termini poi questo vincolo possa esplicarsi nei confronti dei firmatari è tutto da chiarire e comunque ciò non riguarda l’oggetto del presente parere.

Quanto detto è un principio assolutamente granitico del diritto condominiale e del diritto contrattuale. La sua vicina di casa ne sembra ben consapevole: essa infatti è subito scesa a più “miti consigli”, salvo poi porre in essere un maldestro tentativo per imbrigliarla con accordi assolutamente inutili per farla diventare debitore di una somma che in realtà non in alcun modo dovuta.

La verità è che lei in virtù del regolamento condominiale di natura contrattuale ha pieno diritto, al pari della sua vicina, di utilizzare l’intercapedine per l’installazione di apparecchi elettronici di piccole dimensioni, e questo può essere fatto ovviamente a titolo gratuito senza dover riconoscere una qualsivoglia somma a chicchessia. Ogni tentativo di senso contrario da parte della sua vicina molto difficilmente avrebbe un seguito giudiziario.
Per tale motivo, allo stato attuale del contenzioso (molto embrionale), si consiglia di far presente per iscritto per mezzo di raccomandata inviata alla proprietaria del sub 9, e per conoscenza anche alla sua inquilina e all’amministrazione di condominio, che non sussiste alcun diritto di uso esclusivo della intercapedine a lei direttamente opponibile, né tantomeno un obbligo da parte sua di riconoscere una qualsivoglia somma alla proprietà. Per tale motivo si procederà alla installazione della climatizzazione nella intercapedine in conformità con le norme del regolamento di condominio. Starà poi alla proprietà del sub. 9 valutare l’opportunità di proseguire nelle sue pretese che paiono sulla base di quanto riferito assolutamente infondate.

R. B. chiede
mercoledì 30/11/2022 - Toscana
“Buongiorno,
il sig. X coniugato, in regime di separazione dei beni, per esigenze del figlio maggiorenne e studente conduce trattaviva con agenzia immobiliare, incaricata dal sottoscritto, per la locazione di un appartamento completamente arredato da porre a disposizione del figlio medesimo.
Concorda la tipologia del contratto e le condizioni economiche. L'agenzia predispone il documento contrattuale, intestato al figlio, e ne trasmette copia, a mezzo mail, unitamente al testo di una garanzia di tipo fidejussorio da sottoscrivere da parte del genitore dell'intestatario contrattuale, richiesta e predisposta dal proprietario dell'immobile, quale elemento indispensabile per la conclusione del contratto, come predisposto e redatto.
Il sig. X, invia risposta mail che riporto testualmente: "visionata la documentazione chiedo cortesemente le seguenti variazioni : affittuario F.F (coniuge)nata .... C.F. :::::: altre indicazioni insignificanti. Il resto rimane invariato."
Nel corso della trattativa, ancorché telefonicamente, il coniuge era stato presentato quale esercente attività imprenditoriale in qualità di socio accomandante di ditta artigianale.
Si stipula il contratto presso l'agenzia incaricata a firma della suindicata coniuge ed in presenza del sig. X.
Elementi di esecuzione del contratto.
Il sig. X nel corso di vigenza ha effettuato tutti i pagamenti, ha mantenuto sempre ed in via esclusiva rapporti epistolari con il locatario che si è spesso rivolto al lui per la risoluzione delle piccole controversie, insorte per la realizzazione della voltura delle utenze, per le quali aveva ricevuto indicazioni (memorandum) in vista di facilitarne la più rapida esecuzione possibile.
Il contratto, dopo pochi mesi, ha iniziato ad evidenziare difficoltà di gestione con anomalie e ritardi nel versamento dei canoni ed anche in tali occasioni a fronte di contestazioni, avanzate dal locatore nei confronti della coniuge stipulante, che personalmente, ancorché sollecitata a mezzo mail, non ha mai interloquito con il medesimo, la risposta è pervenuta
unicamente da parte del sig. X, sempre a mezzo mail all'indirizzo del sottoscritto.
Gli eventi sono infine precipitati ed in data 13/1/2022 in presenza di morosità consolidata si è proceduto allo sfratto che si è concluso in data 22/6/2022 con la riacquisizione del possesso dell'immobile, con danni ed utenze disattivate verbalizzate dall'ufficiale giudiziario in sede di procedura di esecuzione forzosa.
Ciò anche se dopo la formalizzazione dello sfratto,ottenuto con il contraente contumace , ad una proposta di riconsegna delle chiavi in via amichevole,tesa ad evitare il rilascio forzoso dell'immobile, come al solito è pervenuta, come sempre a mezzo mail dall'indirizzo di posta elettronica del sig. X il seguente messaggio : " le scrivo a nome di mia moglie F.- Siamo ovviamente d'accordo nell'abbandonare il bene volontariamente ed in maniera amichevole.D'altronde avevamo manifestato questa intenzione già prima che ci fosse intimato lo sfratto (che forse poteva essere evitato)". (Per la precisione non è mai pervenuta alcuna manifestazione di sistemare i sospesi ).
All'interno del messaggio si concordavano tempi e modalità dello sgombero dei locali dando luogo alla produzione di
una lunga serie di messaggi whatsapp fra il locatore ed il medesimo sig. X per concordare anche i tempi di riconsegna delle chiavi, ovviamente in presenza del legale con redazione di verbale sullo stato dell'appartamento e del contenuto.
Nella messaggistica intervenuta ho anche ottenuto autorizzazione esplicita a verificare personalmente ,allo scopo di ridurre i tempi di verbalizzazione, la situazione dei locali e dell'arredamento.
La circostanza, vista la situazione, mi ha indotto ha formulare ed inviare all'indirizzo mail del sig. X ,un messaggio diretto ai sigg. Coniugi X e F.F. rappresentativo delle anomalie e danni riscontrati all'interno dell'appartamento, richiamando il loro senso di responsabilità e le conseguenti implicazioni risarcitorie dei danni da verbalizzare e quantificare.
Da ciò è derivato il silenzio assoluto ed è naufragato il tentativo di riconsegna delle chiavi amichevole, tanto che, come già detto, l'interruzione del dialogo ha comportato il citato procedimento forzoso conclusosi il 22/6/2022.
Da quest'ultima data tutto tace. Nel frattempo una ricognizione sommaria dei danni ne fa ammontare l'entità ad oltre 7.000,00 (settemila euro).
Si pone pertanto il problema di recupero del credito di fronte ad una realtà che vede nella persona del sig. X l'unico soggetto che se sottoposto ad esecuzione giudiziaria potrebbe assicurare ,se di possibile coinvolgimento, un risultato idoneo nel recupero dei danni subiti disponendo di redditi adeguati. Redditi che il contraente della locazione pare non
avere, risultando attualmente priva di attività ed ufficialmente casalinga oltre che, probabilmente, priva anche di autoveicoli di proprietà.
Veniamo quindi "al nocciolo" del problema. Ho avuto modo d'interpellare sull'argomento due legali civilisti, miei conoscenti, che mi hanno rappresentato la sola possibilità di agire nei confronti del contraente sulla base dell'art. 1372 c.c.(autonomia contrattuale). La soluzione non mi sembra convincente se prendiamo in considerazione il problema alla luce del diritto di famiglia art. 143 e seguenti (Solidarietà dei coniugi /Obbligo contribuzione e nondimeno in materia contrattuale il principio di affidamento e quello di apparenza giuridica).
Mi scuso per lo sproloquio alquanto verboso che mi è sembrato necessario ed resto in attesa di parere se possibile.
Saluto Cordialmente.”
Consulenza legale i 23/12/2022
Va premesso che, ai sensi del secondo comma dell’art. 1372 del c.c., "il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge”.
Ora, la giurisprudenza ha chiarito che “nell'ipotesi di obbligazione assunta personalmente da uno dei coniugi per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, l'altro coniuge non è obbligato solidale per l'adempimento dell'intera obbligazione, poiché, quale che sia il regime patrimoniale prescelto, è da escludere una deroga al principio dell'art. 1372, 2° comma, c.c., per cui il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge” (Cass. Civ., Sez. II, 28/04/1992, n. 5063).
Anche secondo pronunce più recenti “l'obbligazione assunta da un coniuge per soddisfare bisogni familiari non pone l'altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi; il suddetto principio opera indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione dei beni, essendo la circostanza rilevante solo sotto il diverso profilo dell'invocabilità da parte del creditore della garanzia dei beni della comunione o del coniuge non stipulante, nei casi e nei limiti di cui agli artt. 189 e 190 c.c.” (Cass. Civ., Sez. III, 15/02/2007, n. 3471). Nel nostro caso, peraltro, il regime patrimoniale scelto dai coniugi risulta essere quello della separazione dei beni.
La pronuncia da ultimo citata, tuttavia, fa “salva l'ipotesi in cui si possa ritenere che, per il principio dell'apparenza, il contraente che ha contrattato con uno dei due coniugi dovesse fare ragionevole affidamento che questi agisse anche in nome e per conto dell'altro coniuge” .
Questo potrebbe aprire uno spiraglio nel nostro caso, considerando anche il comportamento delle parti sia nella fase precontrattuale che in quella di stipula ed esecuzione del contratto: in tutta la vicenda, infatti, il marito della conduttrice si è comportato come fosse il “vero” contraente.

M. P. chiede
mercoledì 08/06/2022 - Campania
“Buonasera. Sono proprietaria, in comunione di beni con mio marito, di tre appartamenti in un parco di cui due accorporati in un duplex (primo e secondo piano con porta di entrata al primo piano). Nel parco ci sono 12 appartamenti (11 con duplex) e 4 sottotetti. Nel verbale condominiale in unanimità sono stati assegnati i 12 posti auto + 4 da assegnare ai sottotetto dopo che questo avessero ricevuto licenza comunale da trasformarli in mansarde abitabili. L’amministratore, che è anche proprietario di un sottotetto non abitabile, mi ha comunicato che neanch’io col duplex ho diritto a due posti auto.A parte si è stabilito nel verbale che ne ho diritto, ma sono interessata a sapere se effettivamente ho ragione.”
Consulenza legale i 13/06/2022
Purtroppo le foto del verbale non sono chiare e non tutte le sue parti risultano leggibili.

Ad ogni modo per quanto ci è sembrato di capire vi è un’area di parcheggio condominiale che è stata suddivisa in 16 posti auto. Con una apposita delibera condominiale adottata con votazione unanime da tutti i proprietari, ciascun posto auto è stato espressamente assegnato ad uno specifico proprietario. Sulla base di tale suddivisione all’autrice del quesito sono stati assegnati ben due posti auto (il n. 6 e il n. 10?): non è dato quindi comprendere su che basi l’amministratore contesti tale doppia assegnazione. Si tenga conto che la delibera di suddivisione è stata adottata all'unanimità e quindi nei fatti si è raggiunto tra i comproprietari un accordo di spartizione dell’area comune perfettamente vincolante ai sensi dell’art. 1372 del c.c., e l'amministratore in quanto mandatario e rappresentante della collettività condominiale è obbligato a dare puntualmente corso agli accordi presi dai proprietari.

Più che altro, il problema maggiore di un accordo di questa natura risiede nel fatto che esso non potrà essere opposto a futuri acquirenti delle unità immobiliari del condominio se non tradotto in un rogito notarile e debitamente trascritto nei registri immobiliari.

L’art. 1372 del c.c. chiarisce infatti che il contratto ha valore vincolante solo tra le parti che lo hanno sottoscritto e firmato, e non nei confronti dei terzi (quindi dei potenziali futuri acquirenti degli appartamenti), che ben possono ignorare l’esistenza di questo accordo e non hanno partecipato con la sottoscrizione alla sua formazione. Per poter opporre l’accordo anche a futuri ed eventuali proprietari l’unica strada è quella di trascriverlo presso i Registri Immobiliari competenti previa recepimento della delibera di suddivisione in un rogito notarile, ovviamente anch’esso sottoscritto da tutti gli attuali componenti del condominio.

Sebastiano F. chiede
lunedì 12/10/2020 - Lazio
“Gentilissimi,
qualche anno fa ho ereditato un appartamento in un palazzo costituito da due scale. Tra i documenti custoditi dai miei genitori ho trovato soltanto l’Atto di Compravendita effettuata in data 22 Dicembre 1975.
Dal Giugno del 2019 ho chiesto più volte, tramite Pec, alla Amministratrice del Condominio (in prorogatio dal 2016) di prendere visione della documentazione condominiale tra cui il Regolamento.
Solo ultimamente, grazie ad un condomino, ho avuto modo di verificare che il Regolamento di Condominio, a cui fa riferimento l’Amministratrice, sembra sia Stato Registrato l’11 Novembre del 1975 e sottoscritto, con alcune firme illeggibili, da alcuni o tutti, non è dato sapere, i proprietari di allora (ho contato tredici firme a fronte delle 30 unità immobiliari tra appartamenti e negozi).
Regolamento non citato nel Rogito stipulato, in data successiva alla registrazione del Regolamento, dall’amministratore unico della Società venditrice.
In tale Regolamento, non osservato in alcuni punti dalla attuale Amministratrice, si legge all’art. 8 che nella Ripartizione delle spese comuni rientrano in genere tutte le spese per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle parti comuni dell’edificio che vengono ripartite fra tutti i condomini. Inoltre è riportato che nessun condomino può sottrarsi al contributo e le spese sopra indicate nemmeno nel caso che non ne tragga diretto vantaggioso beneficio, contrariamente al comma 3 art. 1123, accettando il principio della solidarietà condominiale.
Orbene, dato che il palazzo è costituito da due (2) scale ed ogni scala ha tre (3) colonne fecali, in seguito alla rottura di una delle tre colonne fecali dell’altra scala (dallo scrivente non utilizzata) l’Amministratrice richiede a TUTTI i condomini ed anche allo scrivente di contribuire alle spese per la riparazione e relativi danni subiti da un appartamento in seguito a fuoriuscita dei liquami.
Ritiene Codesto Studio, trattandosi di Regolamento NON CONTRATTUALE (non riportato nel Rogito), e in virtù dell’art.1123 comma 3, che lo scrivente sia OBBLIGATO ad adempiere alle richieste dell’Amministratrice pagando la propria quota in virtù del principio di solidarietà? Grazie”
Consulenza legale i 16/10/2020
Da un esame della documentazione allegata, parrebbe che parallelamente o successivamente ai rogiti di acquisto delle unità immobiliari fu elaborato dai proprietari di allora un regolamento di condominio contenuto in una semplice scrittura privata, registrata presso il competente ufficio delle imposte.
Siamo sicuramente di fronte ad un regolamento di natura contrattuale, ma ciò che manca a tale documento è la sua opponibilità a successivi proprietari, caratteristica che solo la trascrizione presso la competente Conservatoria del Registri Immobiliari effettuata da un notaio può garantire.
L’art. 1372 del c.c. ci dice che il contratto è vincolante solo per le parti che lo hanno sottoscritto e che esso non può avere effetto nei confronti dei terzi, salvo i casi espressamente previsti dalla legge.

Semplificando al massimo, possiamo dire che la trascrizione presso i registri immobiliari del regolamento serve a superare quanto disposto dall’art. 1372 del c.c. e rendere efficace anche nei confronti di coloro che non furono i firmatari originari del documento le disposizioni in esso contenute; in particolare si fa riferimento a chi ha acquistato le unità immobiliari dai primi proprietari che, a loro volta, avevano comperato dalla impresa costruttrice. Addirittura il rinvio contenuto nei successivi rogiti di acquisto al regolamento trascritto e la conseguente sottoscrizione degli acquirenti, fa in modo che il nuovo condomino non sia semplicemente terzo estraneo rispetto al documento in cui è contenuto il regolamento, ma ne diventi parte sostanziale in senso stretto, come se lo avesse anche lui sottoscritto.

Tutto questo parrebbe mancare nel caso descritto: pertanto il documento registrato nel novembre del 1975 ai sensi dell’art.1372 del c.c. non può essere efficace nei confronti dell’autore del quesito in quanto egli non lo ha firmato, ne può essere a lui opponibile in assenza di una sua trascrizione nei registri immobiliari.
E’ evidente che stando così le cose nei suoi confronti ritornerebbe pienamente in vigore la normativa codicistica ed in particolare il disposto del 3° co. dell’art.1123 del c.c., in forza del quale: "Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità". In applicazione di tale norma, se la colonna fecale è un bene comune posto al servizio di un solo gruppo di unità abitative, saranno i proprietari che se ne servono a dover sopportare le spese di manutenzione e riparazione, come dovranno essere solo loro a prendere le decisioni comuni riguardanti l’amministrazione del bene: tutto ciò in applicazione del principio del condominio parziale che trova nel 3°co. dell’art.1123 del c.c. il suo riconoscimento.

Da tutto questo ne discende che la delibera della assemblea condominiale che approvasse un riparto in cui non si tenga conto di quanto dispone il 3° co. dell’art. 1123 del c.c. potrebbe essere impugnato dal condomino dissenziente entro però i rigorosi e perentori termini indicati dall’art. 1137 del c.c. Si presti molta attenzione a questo particolare, in quanto se le pretese di pagamento dell’amministratore derivano dal fatto che vi è un riparto di spesa già approvato dall’assise e non impugnato entro i termini di legge, tale riparto diventa inoppugnabile indipendentemente dal fatto che esso rispetti o meno le disposizioni dell’art. 1123 del c.c.: in questo caso non vi è altra scelta che corrispondere gli oneri condominiali dovuti.


Livio D. D. chiede
lunedì 28/03/2016 - Veneto
“All'inizio di ottobre 2010 mia figlia stipulava un contratto di affitto con canone agevolato per un piccolo appartamento sito ad Udine.
Il contratto era del tipo 3+2 “agevolato”e prevedeva il versamento alla proprietaria di un canone mensile anticipato di 410 Euro e il versamento di un importo forfettario mensile di 110 Euro al
Condominio per le spese. L'appartamento è stato usato solo per alcuni giorni alla settimana per seguire le lezioni universitarie, rimaneva comunque vuoto durante le vacanze e durante l'estate.
In marzo dello scorso anno mia figlia si è laureata e dovendo cambiare sede ha chiesto la risoluzione anticipata del contratto che sarebbe scaduto naturalmente il 15/10/2015.
La proprietaria ha accettato la richiesta chiedendo comunque il versamento dall'affitto per i successivi 6 mesi e rendendosi disponibile ad accettare il subentro di un nuovo inquilino se nel frattempo l'agenzia immobiliare delegata fosse riuscita a stipulare un nuovo contratto. A fine marzo mia figlia ha quindi consegnato tutte le chiavi dell'appartamento all'agenzia immobiliare che curava gli interessi della proprietaria. L'agenzia non è riuscita a trovare alcun affittuario e il contratto è scaduto per disdetta anticipata il 17/09/2015.
All'atto della consegna delle chiavi ho che ho fatto personalmente (era presente anche mia figlia)
ho segnalato alla persona di fiducia dall'agenzia il fatto di non aver ricevuto nei vari anni alcuna documentazione delle spese condominiali come previsto da contratto e che era mia ferma intenzione ottenere i documenti a breve. Ho fatto in seguito numerosi solleciti alla proprietaria a anche all'agenzia per ottenere i consuntivi ma senza successo. La risposta (anche scritta) era che l'amministratore non li forniva....
Ho deciso a quel punto quindi di sospendere i pagamenti forfettari delle spese e dell'affitto che fino a quel momento erano stati puntualmente effettuati e di inviare una delega alla proprietaria affinché utilizzasse il deposito cauzionale per compensare gli affitti mancanti (3 mesi e 17 giorni) ovviamente rivendicando il diritto a ricevere i consuntivi spese di tutti periodi.
Alla fine i consuntivi delle spese gli ho ottenuti dopo la scadenza del contratto di affitto ma non direttamente dalla proprietaria bensì dall'amministratore condominiale il quale non aveva risposto ad una mia precedente richiesta (circa un anno prima).
Ovviamente c'era la sorpresa e guarda caso i consumi di acqua calda e fredda erano stati calcolati con metodo previsionale imputando consumi di gran lunga superiori a quelli effettivi.
Il regolamento condominiale prevedeva la lettura semestrale dei contatori e nei consuntivi le caselle delle letture erano “vuote”.In seguito al mio reclamo essendo l'appartamento ancora non occupato l'addetta dell'agenzia accompagnata dalla proprietaria ha fotografato i contatori e mi ha inviato le foto. Riassumendo nei 5 anni erano stati imputati consumi per circa 200 mq di acqua calda e 200mq di acqua fredda invece dei 20 e 15 misurati rispettivamente dai contatori.
Ho richiesto quindi il conguaglio e dopo vari scambi epistolari (e-mail), la proprietaria mi ha inviato il documento per tutto il periodo di detenzione dell'appartamento.
Nel prospetto fornito dall'amministratore sotto riportato non vengono considerate le spese imputate in eccesso per i consumi di acqua fredda, che ammontano a 320 Euro (secondo miei calcoli). Per l'acqua calda sono stati imputati 10 mq/anno anche se il consumo effettivo è stato inferiore (probabilmente è previsto dal regolamento del condominio che non possiedo). Ho per questo contestato il conguaglio (vedi sotto) sia per la mancata detrazione delle spese acqua fredda in eccesso che per il calcolo delle spese generali del primo periodo e ultimo periodo di occupazione in quanto non sono proporzionali ai giorni di godimento 197 e 139 rispettivamente.
La proprietaria non ha risposto alle mie contestazioni (neanche l'amministratore) e pretende di considerare il conguaglio fornito dall'amministratore come non discutibile.
In conclusione il conguaglio spese attuale fornito dell'amministratore riporta attualmente un credito nei confronti di mia figlia di Euro 1025,11 .
La proprietaria sostiene di non essere riuscita a prelevare il deposito cauzionale e che sono in debito nei suoi confronti di 3 mensilità ma allo stesso tempo non restituisce il libretto al portatore
consegnato all'atto della stipula.


A questo punto avrei bisogno di una risposta alle seguenti domande ed eventualmente un Vostro consiglio su come muovermi per chiudere la vicenda.

- Il credito nei confronti del condominio può essere riscosso da mia figlia e se sì in che modo?

- La proprietaria può impedire all'amministratore di restituire a mia figlia il credito vantato ?

- Il mancato invio dei consuntivi annuali e la mancata risposta alla contestazione (inviata con e-mail semplice) per le spese imputate in eccesso da parte della proprietaria la pone in una posizione di illegalità ?

- La mia intenzione di chiedere la revisione del conguaglio all'amministratore e comunque la restituzione diretta del credito risultante e, in seguito, regolare i conti con la proprietaria.
è legalmente ammissibile ?


Non esitate a chiedermi eventuali chiarimenti.

Grazie per la collaborazione”
Consulenza legale i 05/04/2016
In primo luogo, al fine della quantificazione delle spese che, nel caso di specie, avrebbero dovuto essere a carico del conduttore o locatario, occorrerebbe visionare quanto prevedeva il contratto di locazione.
In generale, al fine di potere sostenere che le spese non spettassero al conduttore nei periodi di assenza (vacanze Pasquali, natalizie, estive, etc.) dovrebbe risultare un accordo in tal senso; tuttavia, trattandosi di un contratto 3+2, si dubita che possa esservi una tale esplicita previsione; in sostanza, anche se la studentessa effettivamente non usufruiva dell'abitazione in determinati giorni e/o periodi dell'anno, non per questo si può sostenere che non le spettasse il pagamento delle spese, alla luce del fatto che il contratto, dalla ricostruzione prospettata, continuava, anche in questi periodi, ad essere pienamente vigente. Infatti, il locatore, in ogni caso, in tali periodi di assenza del conduttore, non era comunque nella disponibilità dell'immobile, che continuava ad essere occupato dalla studentessa o comunque nella sua piena disponibilità
Tale premessa ci è utile per evidenziare che una parte del credito vantato dal conduttore potrebbe essere contestato dal locatore alla luce del fatto che, anche nei periodi di assenza della studentessa dall'appartamento, quest'ultima in ogni caso doveva contribuire alle spese.
In secondo luogo, occorre altresì verificare se il contratto di locazione prevedeva che il versamento di euro 110,00 mensili a titolo di spese condominiali fosse effettivamente "forfettario" (come risulterebbe dalla narrazione) e pertanto fosse dovuto a prescindere dai consumi effettivi, oppure, al contrario, se fosse previsto espressamente che il conduttore avrebbe potuto (o comunque potrebbe ora) richiedere il conguaglio (come si vorrebbe sostenere).
Ammesso che dal contratto di locazione risultasse tale seconda ipotesi, ovvero la possibilità di ottenere un conguaglio tra le somme versate "in misura fissa" a titolo di spese condominiali e le somme che effettivamente risultano dalla rendicontazione inviata dall'amministratore, si procede ora a rispondere in maniera necessariamente sintetica ai singoli quesiti formulati.
1. Il credito nei confronti del condominio può essere riscosso da mia figlia e se sì in che modo?
La risposta è negativa.
In generale, come già evidenziato, il credito vantato dal conduttore non è un credito certo; bisognerebbe accertare, alla luce di quanto previsto dal contratto di locazione, in capo a chi gravino le spese nei periodi di vacanza e se è effettivamente previsto un conguaglio a fronte dell'importo forfettario versato.
In ogni caso, ciò che più rileva, è che l'unico interlocutore per il condominio, e quindi per l'amministratore, è il proprietario dell'immobile, non il conduttore.
Per comodità, come spesso accade nella quotidianità, si può pattuire - formalmente o informalmente - che il versamento delle spese condominiali ordinarie venga effettuato concretamente dal conduttore.
Tuttavia, laddove vi fosse una morosità del conduttore nel pagamento delle spese condominiali, l'amministratore non potrebbe intimare al conduttore il pagamento degli arretrati, dovendone rispondere solamente il proprietario dell'immobile, come confermato da pacifica giurisprudenza (cfr. a titolo meramente esemplificativo, Cassazione Civile, sez. II, 9 dicembre 2009, n. 25781: "In tema di spese condominiali non pagate, il debitore è sempre il condomino locatore che, tuttavia, può rivalersi sul conduttore. L'amministratore del condominio, infatti, è legittimato solo nei confronti del proprietario, che è il soggetto tenuto a corrispondere i contributi concernenti i beni e i servizi comuni. Mentre il proprietario può pretendere il versamento dall'inquilino che non vi abbia provveduto direttamente, secondo gli accordi convenuti con il contratto di locazione").
A contrario, ma in applicazione dello stesso principio, laddove il conduttore abbia versato più del dovuto a titolo di spese condominiali, potrebbe richiedere la liquidazione delle differenze solamente al proprietario. Tali versamenti, si ribadisce, per il condominio risulta come se fossero stati effettuati dal proprietario dell'immobile e la quietanza di pagamento viene rilasciata a a favore del proprietario.
2. La proprietaria può impedire all'amministratore di restituire a mia figlia il credito vantato?
Alla luce di quanto illustrato, in astratto, la proprietaria potrebbe impedire all'amministratore si restituire al conduttore il credito vantato; peraltro, si ritiene che in ogni caso l'amministratore non procederà alla restituzione di quanto versato, alla luce del fatto che non sarebbe legittimato a tal fine; inoltre, solamente con riferimento alla differenza tra le spese presunte indicate nella rendicontazione inviata dall'amministratore e le letture effettuate dopo cinque anni, l'amministratore potrebbe derivare un credito a titolo di spese condominiali in capo alla proprietaria dell'immobile. Infatti, risulta ultroneo ribadire, anche in questa sede, che l'amministratore neppure conosce che tipo di accordi vi erano tra il locatore ed il conduttore con riferimento alla spettanza delle spese nei periodi di assenza temporanea del conduttore. Si ribadisce che il rapporto tra locatore-conduttore è estraneo al rapporto con il condominio.
3. Il mancato invio dei consuntivi annuali e la mancata risposta alla contestazione (inviata con e-mail semplice) per le spese imputate in eccesso da parte della proprietaria la pone in una posizione di illegalità?
Con riferimento al rapporto locatore-conduttore, bisognerebbe verificare se il contratto di locazione prevedeva, tra gli obblighi in capo al locatore, la trasmissione dei consuntivi annuali, al fine di potere calcolare il conguaglio.
Inoltre, come già illustrato, al fine di poter pretendere il conguaglio da parte del locatore, nel contratto dovrebbe essere stato previsto un "meccanismo" che consentisse al conduttore di derogare alla regola del versamento "forfettario" pari ad euro 110 mensili; infatti, laddove tale meccanismo non fosse stato previsto, si ritiene che il conduttore, nella vigenza del contratto di locazione, comunque doveva provvedere al pagamento di tale quota fissa (oltre che, ovviamente, del canone di locazione).
4. La mia intenzione di chiedere la revisione del conguaglio all'amministratore e comunque la restituzione diretta del credito risultante e, in seguito, regolare i conti con la proprietaria è legalmente ammissibile?
E' stato ampiamente motivato che il conduttore non può rivalersi direttamente nei confronti del condominio (tramite l'amministratore), pertanto tale richiesta diretta non risulterebbe ammissibile. O, se si preferisce, potrebbe validamente essere respinta dall'amministratore.
Per concludere, con riserva di approfondire ulteriormente la questione, il credito che potrebbe essere vantato da parte del conduttore uscente sembrerebbe essere pari "solamente" alla differenza tra le spese versate e i consumi effettivi risultanti dalle letture, tralasciando lo scomputo dei periodi in cui la studentessa si assentava temporaneamente dall'immobile, che non ci sembrano possano avere rilievo.
Dal punto di vista pratico, sulla base del contratto di locazione, della rendicontazione fornita dall'amministratore, delle letture effettuate, potrebbe calcolarsi a quanto ammonta l'importo preciso del credito vantato dal conduttore per i maggiori versamenti effettuati a titolo di spese condominiali; dovrebbe quindi verificarsi se tale credito vantato dal conduttore possa essere compensato con le tre mensilità che, stando al contratto, sembrano tuttora dovute al locatore.
Quindi, si suggerisce, all'esito della verifica dei passaggi illustrati sopra, l'invio al locatore di una raccomandata A/R, meglio se sottoscritta da un legale, nella quale si chiarisca definitivamente la questione (eventualmente intimando il pagamento dell'importo dovuto, nel caso in cui all'esito della compensazione, il conduttore vantasse ancora un credito).

Gino C. G. chiede
sabato 07/06/2014 - Veneto
“Buongiorno, l'anno scorso a maggio ho firmato un contratto con un portale web per della pubblicità del mio negozio. Il costo è stato piuttosto oneroso (2500 euro circa) ma dopo alcuni mesi ho capito che il portale era inefficace ed oltretutto per tenere attiva la pubblicità era molto laborioso per me che non ho molto tempo a disposizione per queste cose. Messomi il cuore in pace non ho più usufruito del servizio ed ho anche tolto il modem wi-fi datomi in dotazione per sfruttare al meglio secondo il portale l'efficacia della pubblicità nel mio negozio. Ora è passato un anno e ricevo sempre dallo stesso operatore un'altra fattura da pagare per il rinnovo annuo avvenuto con il tacito consenso che io nemmeno immaginavo. Ho cercato di comunicare tramite mail con loro e di spiegare le mie ragioni in quanto non usufruisco e tanto meno desidero i loro servizi ma senza successo. Come posso salvarmi da questa situazione? Anticipatamente vi ringrazio per la vostra attenzione e cortesia, distinti saluti”
Consulenza legale i 16/06/2014
Nella vicenda proposta è stato sottoscritto un contratto per la fornitura di un servizio web.
Il contratto è stato firmato su carta e una copia dello stesso dovrebbe essere stata consegnata al cliente.
E' prassi che contratti di fornitura di servizi di tal genere prevedano il rinnovo automatico annuale del servizio, o meglio: nel contratto che viene fatto sottoscrivere al cliente, esiste una clausola che prevede che, salvo disdetta del cliente da dare entro un certo termine (precedente alla scadenza annuale del contratto), il contratto è rinnovato per un altro anno. Di regola, il rinnovo ha un costo inferiore al compenso pagato il primo anno.
Dobbiamo distinguere due ipotesi.
A. Il cliente ha ricevuto la copia del contratto
Se il contratto è stato validamente sottoscritto dal cliente, purtroppo, esso è vincolante a tutti gli effetti.
Il rinnovo potrebbe essere contestato in un unico caso: se la clausola che prevede l'obbligo di disdetta stabilisce un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza naturale del contratto (supponiamo, 6 mesi prima della scadenza annuale), tale clausola potrebbe considerarsi vessatoria (art. 33, comma 2, lett. i), Codice del Consumo: "Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: stabilire un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la tacita proroga o rinnovazione").
Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Pertanto, la clausola vessatoria, ai sensi dell'art. 36 del Codice del Consumo è nulla, mentre il contratto rimane valido per il resto.
B. Il cliente non ha ricevuto la copia del contratto
In questo caso, il cliente ha la possibilità di dimostrare di non essere stato a conoscenza delle condizioni generali di contratto le quali, quindi, non avranno efficacia nei suoi confronti.
Dice infatti l'art. 1341 del c.c.: "Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell'altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza".
Se il cliente non ha mai posseduto copia del contratto, egli non poteva conoscere le condizioni generali del contratto. Quindi, in questa ipotesi, il rinnovo non può dirsi avvenuto e il cliente potrà recedere dal contratto comunicando disdetta alla controparte (consigliabile farlo a mezzo raccomandata a.r., specificando che le clausole del contratto non gli sono opponibili per le ragioni sopra specificate e menzionando che risulta violato l'art. 1341 c.c.).

E. F. chiede
venerdì 12/01/2024
“Buonasera,

in data 12/09/2022 ho acquistato un ufficio (A10) in un condominio.
Contattato l'amministartore, sono finalmente venuto in posesso del Regolamento Condominiale dal quale scopro che in data 04/03/2003, previa convocazione di Assemble Straordinaria, è stata deliberata la ripartizione della totalità delle spese di manutenzione ordinaria del verde comune a carico delle sole unità ad uso ufficio presenti nello stabile.

Contattato l'amministratore per chiedere chiarimenti in merito, lo stesso, per le vie brevi, mi ha comunicato che il precedente proprietario e costruttore dello stabile, ha accettato la proposta di "caricare" solo sugli uffici la totalità delle spese suddette in cambio di qualcosa di cui non è dato ben sapere. Ovviamente il tutto sembrerebbe essere stato fatto tramite delibera unanime dell'assemblea.

Poichè ritengo la "questione" poco chiara e non del tutto trasparente, oltre ad essere del tutto non equa, ovviamente vorrei si ripartissero tali spese in base ai millesimi di proprietà di tutti i condomini, posso fare qualcosa in merito senza passare dall'assemblea?

Nel caso dovessi passare dall'assemblea, con che maggioranza la revisione dovrebbe essere approvata?

Infine, posso chiedere copia del verbale dell'assemblea straordinaria e delle relative convocazioni a suo tempo fatte per verificare eventuali vizi di nullità/annullabilità? Nel caso, nel 2003 valevano le stesse previsioni di oggi (i.e. convocazione tramite A/R o pec almeno 5 giorni prima del giorno della prima convocazione, etc.)?

Grazie per la collaborazione

Cordialità

Consulenza legale i 16/01/2024
Le ragioni dell’autore del quesito sono assolutamente fondate.
Come è noto, la giurisprudenza in maniera assolutamente granitica e costante ammette che le norme del codice civile disciplinanti la ripartizione delle spese condominiali possano essere derogate da accordi adottati dalla unanimità dei proprietari: il primo comma dell'art 1123 del c.c. prevede infatti che il criterio normativo di ripartizione degli oneri condominiali in base ai millesimi di proprietà possa essere derogato da diversa convenzione adottata da tutti i soggetti che in quel momento vanno a comporre la compagine condominiale.
Tali convenzioni, tuttavia, non possono essere opposte (i.e.: fatte valere) a quei proprietari che hanno acquistato l’appartamento o una qualsiasi altra unità immobiliare ricompresa nel condominio in un momento successivo al loro perfezionamento. Infatti, per il principio delle efficacia relativa del contratto previsto nel nostro ordinamento dall'art. 1372 del c.c., una qualsiasi convenzione adottata a norma del codice civile esplica i suoi effetti solo tra quei soggetti privati che l’hanno accettata (accettazione, che in ambito condominiale si realizza sicuramente anche esprimendo voto favorevole in sede assembleare), ma non può certamente essere estesa a soggetti terzi che non hanno in alcun modo preso parte alla formazione della convenzione medesima.

Per questi motivi la ripartizione del verde condominiale adottata con la delibera del 04.03.2023, anche se presa con l’unanimità di tutti i proprietari che allora componevano il condominio, non può certamente essere opposta al nuovo condomino e autore del quesito.

Per tutti questi motivi, è assolutamente opportuno inviare una pec o una raccomandata cartacea all’ amministratore con la quale disconoscere fin da subito ogni riparto delle spese inerenti al verde condominiale approvato dalla assemblea con criteri diversi rispetto a quelli indicati dagli artt. 1123 e ss. del c.c. Se nonostante tale comunicazione, nel primo bilancio di prossima approvazione le spese inerenti alla ripartizione del verde comune verranno ripartite utilizzando il criterio approvato dalla delibera del 04.03. u.s., vi saranno allora tutti gli estremi per impugnare la delibera di approvazione del bilancio, a patto però che si rispetti il rigido termine perentorio di impugnazione indicato dall’ art. 1137 del c.c..


C. D. B. chiede
martedì 22/02/2022 - Veneto
“Spett. Studio Brocardi
ho ereditato un appartamento in montagna da mia madre. L'appartamento è stato ricavato assieme ad altri appartamenti, all'atto della costruzione dalla società che costruiva, in un ala che in origine doveva essere destinata all'albergo ma durante la costruzione fu trasformata in un condominio.
Il problema consiste che tutto il condominio di fatto sorge su un area di esclusiva proprietà dell'albergo, anche l'area attorno a tutto lo stabile , adibita a parcheggio per lo stesso.
All'atto dell'acquisto però sia mia madre che altri condomini avevano messo nell'atto un obbligo, da parte della società venditrice , di concedere un posto auto dietro corresponsione di un canone. (vedi allegato 1 atto di compravendita.)
Alle prime assemblee di condominio (1976e1975) alla richiesta di definire tale canone la società dell'albergo ha definito il canone nell'autorimessa pari a quello degli ospiti -anno 1976- (allegato 2 verbale assemblea di condominio)
Inoltre l'albergo ha sempre concesso l'uso gratuito del posto auto all' esterno senza chiedere alcun canone, addirittura definendo l'area per il condominio, a fronte di un contributo da parte del condominio per l'asfaltatura del terreno stesso (vedi allegato 3 verbale assemblea 1988)
In seguito l'albergo è stato venduto a terzi. Il nuovo proprietario ha locato l'albergo , ma non è mai stata negata la concessione di parcheggiare fino ad oggi, salvo possibilità di posti, ma solo ha tolo la disposizione di assegnare l'area per il parcheggio condominiale al condominio.
Avendo trovato il contratto d' acquisto di mia madre, posso rivendicare al nuovo proprietario il diritto parcheggio definito nel contratto?
Evidenzio che il nuovo proprietario mia ha negato tale diritto asserendo che si tratta di un vincolo che vincola solo le partii che hanno pattuito tale vincolo, quindi il primo proprietario e mia madre.
Inoltre ho sollevato il problema dell'eventuale diritto di parcheggiare a titolo gratuito da parte del condominio acquisito negli anni, usucapito, in quanto dal 1975 ad oggi il condominio non solo ha da sempre avuto tale concessione mai interrotta , anche se limitata alla disponibilità per chi non l'aveva in contratto, ma che addirittura per tale concessione il condominio aveva contribuito all'asfaltazione di tale area.

Il mio quesito pertanto consiste:
1-Il vincolo contrattuale nell'atto di compravendita è ancora in essere essendo un vincolo che di fatto condizionava l'acquisto dell'immobile oltre ad essere un accordo non extra contratto ma all'interno del contratto stesso?
2- posso ritenere inoltre nel caso affermativo di aver usucapito il diritto di parcheggiare gratuitamente all'esterno e ha fronte del canone degli ospiti nell'autorimessa, condizioni mai mutate dal 1976 ad oggi e tutte verbalizzate nei verbali delle assemblee che allego? (all.4 e seguenti)
Allego oltre che la documentazione sopra descritta anche un sunto di tali verbalizzazzioni
saluti”
Consulenza legale i 03/03/2022
La clausola racchiusa nel rogito di acquisto del 1976 rappresenta un semplice obbligo, riconducibile nel contratto di locazione, che la società venditrice si era assunta nei confronti degli allora acquirenti.
Ai sensi dell’art.1372 del c.c. il contratto è un vincolo che ha effetto solo tra le parti che lo hanno sottoscritto e non ha efficacia nei confronti dei terzi. In forza di tale principio fondamentale, l’obbligo assunto dai venditori nel rogito del 1974 non può estendersi ai futuri proprietari dell’albergo.

La cosa sarebbe stata diversa se in tale rogito si fosse costituita una vera e propria servitù di parcheggio a carico dell’albergo e a favore delle unità immobiliari che furono all’epoca acquistate. In questo caso, la servitù si sarebbe trasferita unitamente al fondo su cui grava, ovvero l’albergo, e quindi si sarebbe potuto opporre il diritto di parcheggio anche nei confronti dei successivi acquirenti.

Probabilmente all’epoca del rogito del 1974 si scelse di optare per un semplice vincolo obbligatorio in luogo di una più sicura costituzione di servitù di parcheggio per meri motivi fiscali.

Non è neppure possibile sostenere l’usucapione del posto auto.

In primo luogo, ai sensi degli artt. 1158 e ss. del c.c., per aversi usucapione è necessario esercitare sul bene un possesso ininterrotto per venti anni, che diventano quindici ai sensi dell’art.1159 del c.c. se il bene è sito in un comune classificato montano dalla legge, ma nel caso specifico non si è mai esercitato sul posto auto alcun possesso. Secondo l’art. 1140 del c.c. si esercita il possesso nel momento in cui un determinato soggetto, pur non essendo proprietario, esercita una attività sul bene corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale. Il successivo art. 1144 del c.c. ci dice però che gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non sono idonei all’acquisto del possesso e quindi non possono essere posti a fondamento della usucapione.
Dalla lettura dei verbali assembleari dati in visione si evince chiaramente come la possibilità di parcheggio fu gentilmente concessa dall’allora proprietario, il quale cedette l’area precariamente e in via bonaria per uso parcheggio (vedasi verbale assemblea del 1991, chiarissimo e molto “tranchant” in questo senso). In altre parole il proprietario dell’area ben si è guardato di fare in modo che si potesse eccepire a lui o a suoi successivi aventi causa una qualche possibile usucapione.

In secondo luogo, ammesso e non concesso che si possa sostenere l’esercizio di un valido possesso idoneo ad usucapire, sicuramente non si potrebbe sostenere che oggetto della usucapione sia stata la proprietà dell’area, ma al massimo il diritto a parcheggiare su di essa. Il problema è che un tale tipo di servitù ai sensi del 2°co. dell’art. 1061 del c.c. deve considerarsi non apparente: per il suo esercizio, infatti, non sono necessarie la realizzazione di opere permanenti e durevoli. Orbene, il medesimo art. 1061 del c.c. espressamente esclude che tali tipologie di servitù possano essere acquisite per usucapione

In conclusione sulla base dei documenti dati in visione non è possibile muovere all’attuale proprietario dell’albergo nessuna contestazione giuridicamente fondata.


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