Corte cost. n. 148/2024
La protezione del lavoro del convivente di fatto deve essere la stessa di quella del coniuge e non può essere inferiore a quella riconosciuta finanche all'affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell'impresa familiare. La disposizione dell'art. 230-ter c.c. risulta pertanto violativa del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, co. 1, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l'art. 3 Cost. risulta violato "non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente" (Corte Cost., sentenza n. 213 del 2016), ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.). Pertanto, è dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, co. 3, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il "convivente di fatto" e come impresa familiare quella cui collabora anche il "convivente di fatto" e, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter c.c.