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Articolo 178 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Beni destinati all'esercizio di impresa

Dispositivo dell'art. 178 Codice Civile

I beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi(1) costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa(2).

Note

(1) La differenza con l'articolo precedente riguarda la gestione dell'azienda (tanto impresa individuale, quanto società di persone), qui operata da uno solo dei coniugi: i beni aziendali e gli incrementi entreranno nella comunione differita in ragione della libertà di reddito individuale perdurante il regime patrimoniale dei coniugi, che cade con lo scioglimento dello matrimonio, esigendosi un calcolo contabile di quanto prodotto in costanza dello stesso.
(2) Dovrà operarsi una valutazione complessiva, che tenga conto di possibili incrementi ravvisati al momento dello scioglimento della comunione, nell'ottica di riconoscere eventuali diritti al coniuge estraneo alla gestione, ma che permise anche solo con il lavoro domestico lo svolgimento della stessa.

Brocardi

De residuo

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 178 Codice Civile

Cass. civ. n. 15889/2022

Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all'altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell'azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.

Cass. civ. n. 4492/2021

La preclusione per il coniuge beneficiario di assegno divorzile in unica soluzione, di cui all'art. 5, comma 8, l. n. 898 del 1970, di future pretese di carattere economico, non riguarda anche l'azione di accertamento della comunione "de residuo" proposta dall'ex coniuge ai sensi degli artt. 177, lett. b) e c), e 178 c.c., trattandosi di pretesa fondata su presupposti e finalità del tutto diversi, atteso che la detta comunione si costituisce solo su taluni beni dei coniugi e soltanto se ancora esistenti al momento del suo scioglimento.

Cass. civ. n. 3557/2018

La cessione di un immobile di proprietà di coniugi in regime di comunione legale dei beni e utilizzato per l'esercizio dell'impresa individuale di uno di essi è soggetta ad IVA: tale soggezione è assorbente rispetto a quella ad imposta di registro, in quanto, dal punto di vista tributario, la cessione non è un atto plurimo avente ad oggetto singole quote di comune proprietà valutabili separatamente in dipendenza della natura dei soggetti proprietari, ma un atto unitario, rilevante oggettivamente come atto d'impresa.

Cass. civ. n. 19204/2015

In tema di comunione legale, l'art. 168 c.c. disciplina la particolare condizione dei beni acquistati dal coniuge per essere destinati all'impresa da lui gestita e costituita dopo il matrimonio, i quali sono soggetti al regime della comunione legale "de residuo", ossia ristretta ai soli beni sussistenti al momento dello scioglimento della comunione, sicché non opera per tali acquisti il meccanismo previsto dall'art. 179, comma 2, c.c., rimanendo essi esclusi automaticamente, seppur temporaneamente, dal patrimonio coniugale, senza necessità di specifica indicazione o di partecipazione di entrambi i coniugi all'atto di acquisto, atteso che, mentre la prima norma prende in considerazione beni qualificati da un'oggettiva destinazione all'attività imprenditoriale del singolo coniuge, la seconda si occupa di beni soggettivamente qualificati dall'essere strumento di formazione ed espressione della personalità dell'individuo.(Rigetta, App. Salerno, 24/02/2012).

Cass. civ. n. 18456/2005

Nel regime della comunione legale, i beni, inclusi quelli immobili, che vengano acquistati da uno dei coniugi e destinati all'esercizio, da parte sua, dell'impresa costituita dopo il matrimonio, fanno parte della comunione "de residuo", e quindi se e nei limiti in cui sussistano al momento dello scioglimento di questa. A tali acquisti, che rinvengono la loro compiuta disciplina nell'art. 178 cod. civ., non si applica la previsione contenuta nel secondo comma dell'art. 179 cod. civ. - la quale consente l'esclusione di immobili e mobili registrati dalla comunione, purchè all'atto di acquisto abbia "partecipato" anche il coniuge non acquirente e questi abbia rilasciato una dichiarazione di assenso ai fini dell'esclusione -, giacchè detta previsione si riferisce soltanto alle diverse ipotesi contemplate dal primo comma del medesimo art. 179, fra cui è compresa (ai sensi della lettera d) quella dei beni destinati all'esercizio della professione, non equiparabili ai beni destinati all'esercizio dell'attività imprenditoriale.

Cass. civ. n. 4532/2004

Il coniuge in regime di comunione legale non è incapace a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, ove esse abbiano ad oggetto crediti derivanti dall'esercizio dell'impresa di cui sia titolare esclusivo l'altro coniuge, in quanto essi diventano comuni solo al momento dello scioglimento della comunione e nei limiti in cui ancora sussistano, non essendo egli in questo caso titolare di un interesse che ne legittimi la partecipazione al giudizio; in questo caso, il giudice non può escludere a priori l'attendibilità della testimonianza in considerazione del rapporto di coniugio, ma deve far riferimento ad ulteriori elementi.

Cass. civ. n. 2680/2000

In regime di comunione legale tra coniugi, il fallimento di uno di essi determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all'esercizio dell'impresa solo rispetto ai beni residui a seguito della chiusura della procedura.

Cass. civ. n. 7060/1986

Nel regime della comunione legale fra i coniugi, tutti i beni, inclusi quelli immobili e quelli mobili iscritti in pubblici registri, che vengano acquistati da uno dei coniugi e destinati all'esercizio d'impresa costituita dopo il matrimonio, fanno parte della comunione medesima solo de residuo, cioè, se e nei limiti in cui sussistano al momento del suo scioglimento, e, pertanto, prima di tale evento, sono aggredibili per intero da parte del creditore del coniuge acquirente (il quale, creditore, deduca e dimostri il verificarsi di detta obiettiva destinazione). Questo principio discende dall'art. 178 c.c., che regola, compiutamente, senza distinguere fra mobili ed immobili, gli acquisti di un coniuge per impresa costituita dopo il matrimonio, nonché dalla inapplicabilità a tali acquisti delle disposizioni del secondo comma dell'art. 179 c.c. — prescrivente, per l'esclusione dalla comunione di immobili o mobili iscritti in pubblici registri, che l'esclusione stessa risulti da atto in cui sia parte anche l'altro coniuge — il quale si riferisce solo alle diverse ipotesi contemplate dal primo comma del medesimo art. 179 c.c. (fra cui quella dei beni destinati all'esercizio di professione, non equiparabili ai beni destinati all'esercizio d'impresa).

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Consulenze legali
relative all'articolo 178 Codice Civile

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B. B. chiede
mercoledì 24/04/2024
“Buonasera, ho appena scoperto che babbo e mamma erano in comunione dei beni. Sposati nel 1967. Babbo era dipendente, poi ha ereditato dal padre una Ditta Individuale nel 1981, ed ha costituito Ditta Individuale nel 1981. Nel 1994 ha costituito impresa famigliare e nel 2003 ha conferito la Ditta Individuale in SNC al 50% con mio fratello. Mamma è morta nel 2015 ed il commercialista che ha presentato la successione NON ha tenuto conto della comunione dei beni. Babbo è deceduto nel 2016. Domanda: mamma alla sua morte aveva diritto solo alla cifra del credito del 50% delle quote di babbo? Oppure aveva diritto alla proprietà del 50% delle quote di babbo? In successione andava indicato solo il credito? Oppure andava indicato il 25% delle quote della società? Dovevamo fare la divisione delle quote? Sicuramente dovevano essere valutate al valore di mercato comprensivo del avviamento. Grazie.”
Consulenza legale i 13/05/2024
La prima precisazione che si ritiene utile fare, al fine di poter avere un quadro completo della vicenda, attiene alla corretta individuazione del regime patrimoniale della famiglia, considerato che la data di celebrazione del matrimonio risale all’anno 1967.
Si ricorda, infatti, che prima della riforma del diritto di famiglia (intervenuta con Legge n. 151/1975) il regime legale era quello della separazione dei beni.
Dal 20 settembre 1975 al 15-16 gennaio 1978 si snoda il c.d. periodo transitorio di separazione, nel corso del quale le famiglie costituite prima del 20 settembre 1975 rimangono assoggettate al regime della comunione legale dei beni per gli acquisti successivi a tale data, salvo contraria volontà manifestata entro lo stesso termine anche da uno solo dei coniugi in forza di convenzione o atto unilaterale notarile o dell’ufficiale di stato civile del luogo in cui è stato celebrato il matrimonio (con cui si stabiliva di assoggettare alla separazione dei beni gli acquisti successivi al 20 settembre 1975).

Pertanto, in assenza di alcuna contraria convenzione, anche nel caso di specie è corretto affermare, come viene precisato nel quesito, che il regime patrimoniale legale vigente tra i coniugi era quello della comunione legale per tutti gli acquisti effettuati a decorrere dal 20 settembre 1975 (rientra in tale periodo l’acquisto delle quote sociali di cui si discute).

Fatta questa premessa, si può adesso affrontare il tema principale oggetto del quesito, ovvero quella della sorte delle quote di una società in nome collettivo di cui è titolare uno solo dei coniugi in regime di comunione legale dei beni con l’altro coniuge.
Trattasi di questione da lungo tempo al centro del dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale, dibattito che trova essenzialmente la sua genesi nel discusso inquadramento da dare all’acquisto delle partecipazione societarie, ed in particolare se per esse debba farsi valere la regola generale dettata dall’art. 177 del c.c. (facendole, dunque, rientrare tra i beni oggetto di comunione immediata), oppure quella dettata dal successivo art. 178 c.c., norma che disciplina la c.d. comunione de residuo (si fa qui riferimento ai beni che “sono destinati all’esercizio dell’impresa di uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente”: questi sono considerati oggetto della comunione solo se dopo il suo scioglimento i beni esistono ancora).

Ebbene, in assenza di precise disposizioni che stabiliscano quale sia il regime giuridico delle partecipazioni sociali acquistate da soggetti coniugati in regime di comunione legale dei beni, l’interrogativo a cui deve essere data risposta è quello che riguarda la natura stessa della quota sociale, ed in particolare se la stessa debba essere considerata come “res o semplicemente come “diritto di credito”.
Su tale particolare questione si sono sviluppati due diversi indirizzi, il primo dei quali considera la quota societaria come un autonomo bene immateriale, mentre il secondo le attribuisce natura di diritto di credito.
E’ evidente che se si aderisce alla tesi della quota intesa quale autonomo bene immateriale, la stessa dovrà necessariamente considerarsi come un qualsiasi altro bene suscettibile di cadere nella comunione legale immediata ex art. 177 lett. a) c.c.
Delle difficoltà, invece, si pongono per la teoria che considera le quote sociali al pari dei diritti di credito, in quanto se si ritiene che il diritto di credito non sia suscettibile di entrare in comunione immediata, la stessa soluzione non può che valere per le quote societarie.

A questo punto, prima di giungere alla soluzione della questione, si ritiene doveroso fare un’ulteriore precisazione.
Secondo una tesi ormai consolidata sia in dottrina che in giurisprudenza, in tema di partecipazioni sociali occorre distinguere due diverse ipotesi, ovvero:
  1. il caso in cui le partecipazioni comportano la responsabilità illimitata del socio;
  2. il caso in cui le partecipazioni comportano la responsabilità limitata del socio.
Nel primo caso, che è quello che qui interessa, l’indirizzo interpretativo dominante tende ad escluderne l’inclusione immediata nella comunione legale, facendole rientrare nella comunione de residuo ex art. 178 c.c.
In tal senso si argomenta dalle seguenti considerazioni:
  1. la natura strettamente personale della partecipazione sociale risulterebbe incompatibile con l’acquisto automatico della comproprietà da parte dell’altro coniuge;
  2. una contitolarità automatica della partecipazione acquisita dal coniuge non socio ex art. 177 comma 1 lett. a) c.c., finirebbe con il comportare la grave conseguenza della sua responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali contratte da una società a cui egli è di fatto estraneo (così Cass. civ. Sez. I 01/02/1996 n. 875).

Accertato, dunque, che in ogni caso la partecipazione di uno solo dei coniugi ad una società a responsabilità illimitata ne determina l’assoggettamento alla comunione de residuo di cui all’art. 178 c.c., si può adesso ritornare ad affrontare la precedente questione, ovvero quella di stabilire con esattezza se oggetto della comunione de residuo sia la quota intesa quale “res” immateriale o come “diritto di credito”.
Proprio su tale questione, anch’essa molto controversa come si è prima accennato, è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 15889 del 17.05.2022), la quale ha stabilito che, nel caso di scioglimento della comunione legale, i beni ricompresi nell’azienda costituita dopo il matrimonio da uno solo dei coniugi entrano a far parte della c.d. comunione de residuo, che attribuisce all’altro coniuge non un diritto reale sulla quota di metà dei beni stessi bensì un mero diritto di credito, pari alla metà del valore dell’azienda stessa determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale e al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.

Con tale pronuncia la S.C. ha, per così dire, posto fine a quella perdurante incertezza sulla natura giuridica dei diritti spettanti al coniuge non imprenditore a titolo di comunione de residuo, superando la tesi favorevole alla natura reale di tali diritti, accolta da qualche pronuncia di legittimità (Cass. n. 2680/2000; Cass. n. 7060/2004; Cass. n. 19567/2008; Cass. n. 13760/2015) e da parte della dottrina.
Il principale argomento addotto a sostegno di tale natura reale era quello correlato al tenore letterale delle norme (ci si riferiva alle lett. b) e c) dell’art. 177 c.c. ed all’art. 178 c.c.), non potendosi in esse ravvisare alcun riferimento ad una asserita natura creditizia dei diritti (neppure all’interno dell’art. 192 del c.c.).
Di contro, a sostegno della tesi del diritto di credito venivano addotte ragioni di sostanza, facendosi rilevare come l’accoglimento della tesi contrapposta non avrebbe fatto altro che determinare il sorgere di una contitolarità dei beni proprio nel momento in cui vi sarebbe il disfacimento della comunione legale, nonché argomentando dalla necessità di valorizzare le esigenze dell’impresa (sia nell’ottica di scongiurarne la disgregazione sia in quella di proteggere i diritti dei creditori della stessa, i quali vedrebbero la garanzia patrimoniale del loro diritto di credito ridotta al 50%).

Ebbene, la tesi della natura del diritto di credito sembra bilanciare al meglio i vari principi costituzionali che qui vengono in considerazione, quali sono quello della tutela della famiglia (art. 29 Cost.), dell’uguaglianza dei cittadini (art. 3 Cost.), della libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e della remunerazione del lavoro (art. 35 Cost.), riuscendosi così a garantire al contempo la soddisfazione dell’interesse della famiglia (nell’eguaglianza dei coniugi) e dell’impresa (con riferimento alla sua conservazione).
In questo modo, peraltro, sono anche meglio tutelati i creditori dell’imprenditore, i quali sanno di poter contare su tutti i beni che risultano intestati all’imprenditore e facenti parte dell’azienda (la tesi della natura reale, di contro, comporterebbe che allo scioglimento della comunione i creditori subirebbero una diminuzione della propria garanzia patrimoniale sui beni ricadenti nella comunione de residuo, che per metà apparterrebbero all’altro coniuge).

In conclusione, rispondendo sinteticamente a quanto viene chiesto, alla morte del coniuge non imprenditore va in comunione de residuo solo un diritto di credito (e non le quote sociali, come vorrebbe la tesi della natura reale), per la cui determinazione occorre fare riferimento, come precisato dalla Cass. SS. UU., “al valore dell’azienda stessa determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale e al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.


ROCCO G. T. chiede
sabato 24/08/2019 - Puglia
“Coniugi in Comunione dei beni. 1997 la moglie dopo arresto cardiaco durante il parto esita in coma apallico. Nell'aprile del 2000 viene dichiarata incapace di intendere e di volere.
Nel 2005 il coniuge superstite costituisce SRL Uninominale. Nel 2007 sentenza di separazione dei beni. (data della richiesta)
Nel 2014 la signora muore.
Nella SRL uninominale vi è una quota della signora che va in successione?
Grazie”
Consulenza legale i 29/08/2019
Non è facile, in effetti, dare una risposta univoca sul tema che il quesito richiede di affrontare, ossia quello della sorte delle partecipazioni sociali, di cui è titolare uno solo dei coniugi in regime di comunione legale, al momento dello scioglimento della stessa.
Le norme che occorre prendere in esame sono in particolare quelle di cui agli artt. 177 e 178 c.c., risultando abbastanza discusso se un acquisto di tale tipo debba farsi rientrare nella comunione attuale (o immediata) o in quella de residuo.

Dottrina e giurisprudenza ormai prevalenti ritengono che dell’acquisto di azioni o di quote sociali beneficia il patrimonio comune ex art. 177 del c.c. comma 1 lett. a), e ciò quando dalla partecipazione in società discende una responsabilità limitata (quindi nel caso in cui si tratti di partecipazione in s.p.a., s.r.l. o della quota del socio accomandante), mentre si avrà comunione de residuo quando si determina una responsabilità illimitata (è il caso della società semplice, della s.n.c. o della quota del socio accomandatario).

Secondo tale tesi, dunque, il criterio da applicare è quello della limitatezza della responsabilità, con lo scopo ben preciso di tutelare il coniuge dell’acquirente (ove per acquirente deve anche intendersi colui che, come nel caso di specie, costituisce una s.r.l. unipersonale).
In particolare, nell’aderire a tale tesi i giudici di legittimità ritengono che debba darsi prevalenza al carattere di investimento patrimoniale dell’acquisto e che si debba in ogni caso distinguere il profilo della legittimazione all’esercizio dei poteri sociali (riconosciuto al solo coniuge iscritto nel libro dei soci) da quello della contitolarità.

Altra parte della dottrina, invece, ritiene che tale acquisto debba farsi rientrare nella comunione de residuo tutte le volte in cui esso si ponga come strumentale all’esercizio dell’attività imprenditoriale del coniuge-socio, facendo applicazione di quanto disposto dall’art. 178 c.c.
La sussistenza di una comunione de residuo comporta che della partecipazione sociale il coniuge che ne è titolare può disporne a suo piacimento fin quando vige il regime della comunione legale, mentre una volta verificatasi una causa di scioglimento della stessa (tale è la separazione dei beni, sia essa consensuale o giudiziale, come nel caso di specie), su quella partecipazione si verrà ad instaurare un regime di comunione ordinaria e, dunque, una quota della stessa, pari a metà indivisa, finirà per cadere in successione.
Queste sono gli orientamenti che per il momento si contendono il campo.

Ora, passando ad analizzare il caso specifico che qui viene posto all’attenzione, non può non tenersi conto dei seguenti dati che si ritengono alquanto rilevanti:
  1. la comunione si è sciolta a seguito di separazione giudiziale dei beni pronunciata con sentenza ex art. 193 del c.c. (per interdizione dell’altro coniuge);
  2. a tale scioglimento non ha fatto seguito alcuna divisione dei beni ex art. 194 del c.c.;
  3. l’inventario redatto dal tutore del coniuge interdetto non fa alcuna menzione di tale quota di partecipazione sociale.

Ebbene, si ritiene che sia abbastanza corretta la mancata menzione di tale quota di compartecipazione sociale nell’inventario redatto dal tutore, in quanto lo stesso risulta compiuto nell’anno 2006, mentre lo scioglimento della comunione per separazione giudiziale dei beni si è verificato in un momento successivo, ossia in data 15 marzo 2007.
Tale scelta denota chiaramente che il tutore ha voluto fare corretta applicazione per il caso di specie del disposto di cui all’art. 178 c.c., la sola norma tra quelle citate che fa espresso riferimento all’impresa facente capo ad uno solo dei coniugi e costituita dopo il matrimonio (tale non può che considerarsi la s.r.l. unipersonale), i cui beni ed incrementi vengono assoggettati al regime della comunione soltanto se sussistenti al momento del suo scioglimento (c.d. comunione de residuo).

Inoltre, sempre in applicazione di tale norma, uno volta intervenuto nell’anno 2007 lo scioglimento della comunione legale, è pur vero che i beni a tale momento sussistenti avrebbero dovuto formare oggetto di comunione de residuo, ma è anche vero che è stata pressoché unanimemente esclusa natura reale al diritto del coniuge su tale forma di comunione, in quanto ciò significherebbe sacrificare la libertà gestionale dell’imprenditore nel momento in cui viene meno il regime della comunione legale.

Così, dottrina e giurisprudenza hanno affermato che, mentre nel caso di azienda (il riferimento è all’impresa in forma individuale) l’altro coniuge potrà ritenersi titolare di un diritto di credito pari alla metà del valore dell’azienda (ovviamente al netto delle passività), nel caso specifico di quota societaria (tale è il caso in esame) il coniuge non socio acquisterà, al momento dello scioglimento della comunione, solo un credito virtuale alla eventuale e futura liquidazione della quota medesima (in tal senso si è espresso il Tribunale di Grosseto con sentenza del 28.10.2016, ma è anche orientata la giurisprudenza tributaria di legittimità).

Da quanto sopra se ne deve dedurre che, al momento della morte dell’altro coniuge, essendo la società ancora pienamente operativa, e non potendo lo scioglimento della comunione incidere sulla libertà gestionale dell’imprenditore, il credito alla liquidazione della quota è soltanto virtuale e, dunque, nessun bene o diritto relativo a quella società potrà entrare a far parte del patrimonio ereditario della de cuius.


Salvatore T. chiede
lunedì 19/03/2018 - Sicilia
“Muore Tizio titolare del 10% delle quote di una società in nome collettivo.
La di lui moglie, Caia, è titolare del 24% delle quote della suddetta snc.
Tizio è coniugato con Caia in regime di comunione legale dei beni e la società in questione è stata costituita in costanza di matrimonio.
Quesito: Caia è contitolare del 50% della partecipazione societaria di Tizio, ex art. 177 c.c., potendosi in tal modo intestare il 5% delle quote appartenute al de cuius?”
Consulenza legale i 27/03/2018
Dalla visura camerale emerge che la società in questione è stata a suo tempo costituita non dai due soli coniugi ma da questi unitamente ad altri soggetti.
Ebbene, se si trattasse di società costituita e composta esclusivamente dai due coniugi in comunione, andrebbe subito detto che sussiste un netto contrasto di vedute tra gli studiosi della materia, per cui alcuni ritengono che due coniugi in comunione non possano costituire una società (e parlano di nullità dell’atto), mentre altri ritengono che ciò sia possibile.

Per quanto riguarda, invece, il caso di specie, se doverosamente va rilevato che anche su questa situazione specifica esiste un contrasto di opinioni, si può individuare, tuttavia, un orientamento prevalente.
Va premesso che non esistono nome che stabiliscano quale sia il regime giuridico delle partecipazioni sociali acquistate da un soggetto coniugato in regime di comunione legale dei beni.
Il legislatore del 1975 (anno della legge di riforma del diritto di famiglia), infatti, si è limitato a disciplinare il caso del coniuge o dei coniugi titolari di un’impresa individuale, senza nulla prevedere relativamente a quello in cui un coniuge svolga attività di impresa congiuntamente con altri (come nel caso di specie).
Sulla questione esistono addirittura quattro distinti orientamenti.

Quello però che, come si diceva, sembra essere maggiormente condiviso da dottrina e giurisprudenza, è quello per cui sono escluse dalla comunione legale dei beni le partecipazioni in società di persone e in società di capitali cui consegua la responsabilità illimitata dei singoli soci (quindi anche le partecipazioni in snc come nel caso di specie).
Esse devono considerarsi invece, secondo questo orientamento maggioritario, oggetto della comunione cosiddetta “de residuo” ai sensi dell'art. 178 c.c., il quale recita: "i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa".

Gli effetti dello scioglimento della comunione sono:
  • il subentro di una situazione di comunione ordinaria che si sostituisce a quella legale;
  • l’ingresso nel patrimonio comune dei beni così detti “de residuo”.
Ebbene la Corte di Cassazione, affrontando la questione di cosa accada al momento dello scioglimento della comunione rispetto ai beni di cui stiamo parlando, ha precisato: “Non sfugge al Collegio la non unanimità di posizioni in ordine a tale qualificazione giuridica e l'affermarsi in dottrina di due tesi opposte. Una che ritiene, come la Corte territoriale, che si formi ex lege una situazione di contitolarità dei diritti e dei beni che cadono nella comunione de residuo, l'altra che si determini una situazione di natura creditizia da azionare nei confronti del coniuge (o del suo erede come nella specie) in posizione di uguaglianza con gli altri eventuali creditori.”
Spieghiamo: la Corte, con questo, vuol dire non è chiaro se i beni e/o i diritti del coniuge defunto (come le quote di società, nello nostro caso):
a) passino in una situazione di contitolarità con il coniuge superstite (quindi, concretamente, quest’ultimo è contitolare delle quote del defunto e se gli eredi vogliono “sbloccare” questa situazione devono chiedere una divisione);
b) la contitolarità di questi beni non venga acquisita ma semplicemente nasca un diritto di credito nei confronti degli eredi al corrispondente valore.
Prosegue quindi il collegio: “La prima tesi ha il pregio di corrispondere maggiormente al tenore letterale delle norme (artt. 177 e 178) che affermano rispettivamente "costituiscono oggetto della comunione" e "si considerano oggetto della comunione) e di essere condivisa dalla prevalente giurisprudenza di legittimità.” (Cassazione Civile, sez. I, sentenza 03/07/2015 n. 13760).

La Corte poi, pur non prendendo esplicita posizione sulla questione, richiama un proprio precedente (sentenza n.4393/2011) che in una fattispecie analoga a quella che stava esaminando ha affermato che «in tema di imposta sulle successione, siccome al momento della morte del coniuge si scioglie la comunione legale sui titoli in deposito presso banche ed anche la comunione differita - o de residuo - sui saldi attivi dei depositi in conto corrente, l'attivo ereditario, sul quale determinare l'imposta, è costituito soltanto dal 50% delle disponibilità bancarie, pure se intestate al solo de cuius» (Cass., n. 4393/2011): la Corte ha cioè ritenuto che, con il verificarsi dello scioglimento della comunione legale, si determinasse la sopravvenuta cointestazione di tutti i cespiti confluenti nella comunione de residuo.

Per concludere, dunque, e rispondere al quesito, la morte del marito ha determinato lo scioglimento della comunione legale e l’instaurarsi di una comunione “ordinaria” sulle quote societarie con la moglie superstite, la quale risulta ora cointestataria delle quote del marito (pari al 10% della società, di cui la stessa possiede evidentemente una quota “ideale” del 5%).
Ad avviso di chi scrive, dunque, l’intestazione del 5% ipotizzata nel quesito parrebbe corretta: vista però la delicatezza e particolarità della questione si ritiene opportuno, a tal proposito, rivolgersi anche ad un notaio.


Omar C. chiede
domenica 17/07/2011 - Emilia-Romagna

Mio padre ha acquistato nei primi anni '80 l'immobile dove attualmente svolge la sua attività di artigiano (ditta individuale senza dipendenti): essendo venuta a mancare mia madre l'11 giugno scorso ed essendo i miei genitori in regime di comunione dei beni, chiedo se tale immobile rientri nella successione. Grazie”

Consulenza legale i 22/07/2011

Si tratta di capire se nel periodo dell’acquisto (intorno agli anni 80) il soggetto fosse già coniugato. Comunque, si presume che l’acquisto sia avvenuto in costanza di matrimonio, per cui vigendo il regime di comunione legale tra i coniugi essi ne sono divenuti contitolari, salvo l’applicabilità dell’art. 179 del c.c., ultimo comma, che prevede la facoltà per un coniuge di acquistare un immobile dichiarandolo escluso dalla comunione (quindi, di natura personale) nell’atto di acquisto cui abbia però partecipato anche l’altro coniuge oltre all’esistenza di uno dei requisiti oggettivi previsti dalle lettere c), d) e f).

All’apertura della successione, se i coniugi vivono in regime di comunione legale si rende attuale il diritto di ciascun coniuge alla metà del “residuo”, cioè di quanto sopravanzato, dalle spese comuni, dei guadagni di ognuno di loro e dei beni in comproprietà. Se il bene è di natura personale, invece, è escluso dalla successione del coniuge deceduto.


P. B. chiede
mercoledì 15/05/2024
“Buonasera, la mia domanda è in riferimento ad una presumibile donazione indiretta a danno di un erede.

I miei genitroi avevano una s.n.c. al 50% con un capannone di proprietà che nel 2018 hanno venduto per 131.000. Di questi 131.000, 101.000 euro li ha presi mia madre con promessa di pagare parte dei debiti fatti da mio fratello con altra società (sempre una s.n.c.) . La somma indicata da mia mandre come "aiuto" a mio fratello ammontava a 77.000 euro. Di fatto mio padre ha accettato per aiutare mio fratello donando indirettamente 35.500 euro a mio fratello. Mio padre è venuto a mancare il mese scorso. Questa donazione rientra nell'asse ereditario? Ovvero vale come donazione indiretta? Grazie”
Consulenza legale i 21/05/2024
Una soluzione molto semplicistica indurrebbe in effetti alla conclusione prospettata nel quesito, ovvero a dire che trattandosi di somme di cui i coniugi erano divenuti contitolari per quote eguali, al momento della morte di uno di essi si deve tener conto della metà di quelle somme per determinare il valore complessivo della massa ereditaria in sede di riunione fittizia ex art. 556 del c.c..
Tale soluzione può sicuramente andar bene e soddisfare i contrapposti interessi dei chiamati all’eredità qualora tra di essi vi sia un clima di reciproca disponibilità e collaborazione.

Più complessa, invece, è la soluzione se tra le parti sussiste una situazione conflittuale, per la cui risoluzione deve farsi applicazione di tutti quelli che sono gli istituti giuridici che vengono in rilievo nel caso di specie.
Innanzitutto il primo aspetto che si rende necessario prendere in esame è quello relativo al regime patrimoniale vigente tra i coniugi al momento dello scioglimento della comunione.
Infatti, se il regime era quello della separazione dei beni, il prezzo ricavato dalla vendita del capannone sarebbe dovuto entrare nel patrimonio di ciascun coniuge per quote eguali, ovvero per un importo di euro 65.500 ciascuno.
Considerato, invece, che quella somma è confluita per euro 101.000 nel patrimonio personale della moglie, ne deriva una liberalità in favore della medesima (donataria) da parte del marito (donante) pari ad euro 35.500.
E’ seguendo questo ragionamento che si dovrà tener conto di tale importo (come correttamente determinato nel quesito) ai fini della collazione ereditaria e della determinazione ex art. 556 c.c. della massa ereditaria complessiva, sulla cui base andrà poi calcolato sia il valore della disponibile che il valore della quota di riserva spettante a ciascun legittimario.
Tenuto conto, tuttavia, che beneficiaria di tale somma è stata la moglie superstite, è su quest’ultima che incombe l’obbligo di collazione ed è pure nei suoi confronti che deve eventualmente esperirsi l’azione di riduzione, e non sul figlio beneficiario finale.

Infatti, l’ulteriore circostanza che la madre abbia deciso di versare gratuitamente ad uno solo dei figli la somma di euro 77.000, al fine di estinguere tutti o parte dei debiti che questi aveva contratto quale socio di una s.n.c., verrà in rilievo quale donazione diretta o indiretta soltanto al momento dell’apertura della successione della madre.
Tale trasferimento di denaro andrà qualificato come donazione diretta della somma di denaro se la stessa è stata trasferita, si presume con bonifico bancario, in favore del figlio.
Su tale specifico argomento si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, con sentenza n. 18725 del 27.07.2017 (confermata indirettamente anche da Cass. civ., Sez. V, 10/03/2021, n. 6591), affermando il seguente principio di diritto:
"Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l'esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta; ne deriva che la stabilità dell'attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell'atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l'ipotesi della donazione di modico valore".

In particolare, la S.C ritiene che si abbia donazione diretta allorchè vi sia un passaggio immediato e per spirito di liberalità di ingenti valori patrimoniali da un soggetto in favore di un altro, situazione configurabile appunto nel caso di bonifico bancario, dovendosi la banca qualificare quale mera esecutrice dell’ordine dato dal correntista disponente.
L’ordine impartito alla banca costituisce atto negoziale esterno rispetto al negozio tra beneficiante e beneficiario, il solo che rappresenta la giustificazione del trasferimento di valori da un patrimonio all'altro.

In tal caso, ai fini della validità risulta necessaria la forma dell’atto pubblico, in mancanza della quale la donazione sarà nulla, con la conseguenza che la somma di denaro dovrà considerarsi come mai entrata a far parte del patrimonio del beneficiario e che gli eredi del disponente potranno far valere il diritto alla restituzione dell’importo in questione perché giuridicamente mai uscito dal patrimonio del donante stesso.

Si potrà configurare, invece, una donazione indiretta se per il trasferimento di quella somma si è fatto ricorso all’istituto giuridico dell’adempimento del debito altrui, c.d. adempimento del terzo, disciplinato dall’art. 1180 c.c.
Com’è noto, l’art. 1180 c.c. consente che l’obbligazione sia adempiuta da un terzo, anche contro la volontà del creditore.
A differenza dell’adempimento da parte del debitore, che ha natura di atto giuridico, l’adempimento del terzo ha natura negoziale e causa variabile, con la conseguenza che qualora lo stesso venga posto in essere dal solvens con animo liberale nei riguardi del debitore, ricorre ipotesi di donazione indiretta (in tal senso può citarsi Cass. SS.UU. 18.03.2010 n. 6538).

Rimane a questo punto da esaminare l’altra ipotesi, ovvero quella dei coniugi versanti in regime di comunione legale.
In questo caso, si ritiene che l’azienda gestita da entrambi i coniugi e facente capo alla s.n.c. debba farsi rientrare nel disposto di cui all’art. 178 del c.c., con la conseguenza che anche le somme derivanti dall’alienazione di un bene aziendale debbano farsi ricadere nella c.d. comunione de residuo.
Ora, tralasciando il fatto che dal ricavato della vendita una somma pari ad euro 101000 sia stata prelevata dalla moglie (evento che poco rileva in un regime di comunione legale), la circostanza, invece, che dalla somma complessiva di euro 131.000 siano stati, di comune accordo tra i coniugi, sottratti euro 77.000 per essere destinati ad aiutare, con puro animo liberale, uno solo dei figli in difficoltà economica, comporta che di fatto quella somma di euro 77000 è venuta a mancare alla comunione de residuo.

In questi termini deve ammettersi che, di fatto, il padre adesso deceduto ha rinunziato in favore del figlio in difficoltà economica ad una somma di euro 35.500, somma che tutti gli eredi (compreso il coniuge superstite) avrebbero potuto trovare nel patrimonio comune dei genitori al momento dello scioglimento della comunione legale per morte di uno dei coniugi.
In tal caso, dovendosi considerare beneficiario di quella somma il figlio che l’ha ricevuta, sussiste a suo carico l’obbligo di collazione e nei suoi confronti potrà essere eventualmente esercitata l’azione di riduzione.
Per quanto concerne la natura della donazione, se diretta o indiretta, vale quanto detto sopra, dovendosi distinguere a seconda che il trasferimento di denaro sia stato effettuato in favore dei creditori come adempimento del terzo (donazione indiretta) o direttamente in favore del figlio con bonifico bancario (donazione diretta).


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