Brocardi.it - L'avvocato in un click! CHI SIAMO   CONSULENZA LEGALE

Articolo 913 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Scolo delle acque

Dispositivo dell'art. 913 Codice Civile

Il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo(1).

Il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo, né il proprietario del fondo superiore può renderlo più gravoso.

Se per opere di sistemazione agraria dell'uno o dell'altro fondo si rende necessaria una modificazione del deflusso naturale delle acque, è dovuta un'indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio.

Note

(1) L'articolo riguarda tutte le acque non inquinate, e fluenti, che scorrono grazie alla natura morfologica del terreno.
Ne sono esempio, le acque prodotte dallo scioglimento delle nevi.

Ratio Legis

La disposizione prevede un limite legale della proprietà, nell'interesse privato. Il comma terzo consente modifiche al deflusso naturale delle acque al fine di ottenere un'adeguata sistemazione agraria.
Il legislatore si sofferma su di un'attività che all'entrata in vigore del codice era un punto di forza della nostra economia. Da notare che il principio enunciato in questo articolo è alla base anche della successiva disposizione.

Spiegazione dell'art. 913 Codice Civile

L' art. 913 riassume nei priori due commi le disposizioni contenute nell'art. 536 del vecchio codice e poste tra le servitù derivanti dalla situazione dei luoghi

L'articolo in esame condensa in due commi le disposizioni contenute nei tre commi dell'art. 536 del vecchio codice. Gli obblighi di cui si tratta erano posti dal vecchio codice tra le servitù derivanti dalla situazione dei luoghi, ma più che di servitù si trattava di una condizione naturale della proprietà, per cui bene ha fatto il nuovo codice ad occuparsene in questa sede.


Quali acque vanno comprese nell'articolo in esame

Tra le acque indicate nell'articolo in esame vanno comprese quelle piovane, anche se provenienti da fondi superiori non contigui, quelle derivanti da fusione di neve, da infiltrazioni, da sorgenti. Non vi si possono comprendere le acque dei serbatoi, dei tetti (per queste vedasi l'art. 908), delle fabbriche, delle officine e in genere quelle che il proprietario abbia attirato artificialmente sul fondo, e nemmeno le acque delle sorgenti trovate durante lo scavo delle fondazioni di un edificio. In tutti questi casi il proprietario del fondo superiore, per smaltire le acque che il vicino non consentisse di ricevere nel suo fondo, deve ricorrere all'acquedotto coattivo di scarico (v. art. 1043 del c.c.).

Insieme con l'acqua il proprietario del fondo inferiore deve subire lo scarico di materie solide che naturalmente siano commiste all'acqua (ciottoli, fango), non delle altre che vi fossero state aggiunte per opera dell'uomo (colori, sapone e simili).


Per analogia le norme in esame si estendono alle frane

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell'estendere per analogia la disposizione in esame alle frane che dai fondi superiori cadono sui fondi inferiori naturalmente. A differenza però di quanto prescrive il secondo comma dell'art. 913, si ammette che il proprietario del fondo inferiore possa fare le opere opportune per impedire la frana.


Nuova disposizione contenuta nel terzo comma dell'art. 913

Il nuovo codice ha integrato con il terzo comma le disposizioni contenute nell'art. 536 del codice del 1865 stabilendo che, se le opere di sistemazione agraria del fondo a valle o del fondo a monte rendono necessaria una modificazione del deflusso naturale delle acque, è dovuta un'indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio.

L'innovazione è sostanziale e della massima importanza: essa, ispirandosi ai criteri che hanno permeato le norme del nuovo codice, tende a conciliare gli interessi pubblici connessi allo sviluppo dell'agricoltura con il diritto privato di singoli proprietari.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

0 prova

Massime relative all'art. 913 Codice Civile

Cass. civ. n. 37307/2022

In materia di acque, l'art. 913 c.c., nel porre a carico dei proprietari del fondo inferiore e di quello superiore l'obbligo di non alterare la configurazione naturale del terreno onde evitare di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle, pone un limite legale al diritto di proprietà che opera solo se si riferisce allo scolo naturale delle acque, rispetto al quale postula il mantenimento della soggezione naturale del fondo inferiore nei riguardi di quello superiore, senza estendersi, invece, alle ipotesi di scolo provocato dall'uomo con la realizzazione di una apposita rete irrigua.

Cass. civ. n. 8772/2021

La costruzione o la ristrutturazione di una strada che realizzi un'esigenza di traffico, donde derivi un'alterazione del deflusso delle acque ed un danno alle colture di un fondo, legittima il proprietario di esso alla generale azione risarcitoria, ex art. 2043 c.c. - eventualmente inclusiva dell'esborso per l'esecuzione di opere necessarie ad evitarne la reiterazione - in base al generale principio del "neminem laedere", trattandosi di opere destinate ad assolvere esigenze generali; in tale ipotesi, pertanto, non trova applicazione la disciplina di cui all'art. 913 c.c. che, viceversa, presuppone l'esistenza di una relazione di "vicinitas" tra i fondi, l'esecuzione di opere di sistemazione agraria o comunque di modifica dello stato dei luoghi in grado di incidere sul naturale scolo delle acque e la diretta derivazione, da dette opere, di un danno per uno dei due fondi.

Cass. civ. n. 30239/2019

L'art. 913 c.c., in tema di scolo delle acque, ponendo a carico dei proprietari, sia del fondo inferiore che superiore, l'obbligo di non alterare la configurazione naturale del terreno, non vieta tutte le possibili modificazioni incidenti sul deflusso naturale delle acque, ma soltanto quelle che alterino apprezzabilmente tale deflusso, rendendo più gravosa la condizione dell'uno o dell'altro fondo. Si tratta, dunque, di un accertamento di fatto che, se adeguatamente motivato sotto il profilo logico e giuridico, non è censurabile in sede di legittimità.

Cass. civ. n. 17664/2018

L'azione per l'osservanza della limitazione legale della proprietà prevista dall'art. 913 c.c. per lo scolo delle acque, la quale miri ad ottenere, oltre all'accertamento dell'aggravamento della condizione del fondo inferiore in conseguenza di opere abusivamente costruite in quello superiore, la demolizione di tali opere, si sostanzia in una "actio negatoria" di servitù di scolo che, poiché diretta alla rimozione di opere realizzate nel fondo altrui, determina, ove la piena proprietà di questo appartenga a più soggetti (comproprietari o usufruttuario e nudo proprietario), un'ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti di tutti costoro.

Cass. civ. n. 6387/2013

Ai fini dell'accertamento dell'acquisto per usucapione di una servitù di scolo, non risulta decisivo che le relative opere apparenti insistano sul solo fondo servente, essendo, per contro, necessario che le stesse siano a servizio e rispondano ad un'effettiva utilità del fondo preteso dominante (nella specie, costituita dall'esigenza di far defluire le acque piovane e di coltura).

Cass. civ. n. 13097/2011

L'art. 913 c.c. pone a carico dei proprietari, sia del fondo superiore che del fondo inferiore, un obbligo di non fare, vietando ad essi ogni alterazione che abbia per effetto quello di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle.

Cass. civ. n. 2566/2007

Pur essendo vero che il proprietario del fondo sovrastante non può rendere più gravoso per il proprietario del fondo inferiore il deflusso delle acque che, dal terreno superiore, scolano verso quello sottostante e pur potendosi ritenere che questo principio, dettato dall'art. 913 c.c., è da considerarsi applicabile anche ai rapporti tra i Comuni confinanti, escludendosi, così, la legittimità di opere, quali le strade pubbliche, eseguite nei territori posti a maggiore quota, in tutti quei casi in cui queste, siccome prive di impianti di smaltimento delle acque piovane, accrescano la quantità e la velocità del deflusso delle acque stesse verso i suoli posti a minore quota, tuttavia tale regola riguarda solo il rapporto tra i proprietari dei due territori, che possono — come detto — identificarsi anche con due enti pubblici. Viceversa, questo principio non si estende al rapporto tra il Comune ed i suoi abitanti, verso i quali l'Amministrazione è, comunque, tenuta all'osservanza del divieto del neminem laedere che di per sé implica l'obbligo di adottare, nella costruzione delle strade pubbliche, gli accorgimenti e i ripari necessari per evitare che, dalla strada, le acque che nella medesima si raccolgono o che sulla stessa sono convogliate, legalmente o illegalmente, senza opposizione del Comune proprietario, possano defluire in modo anomalo nei fondi confinanti, così impedendo di arrecare loro un danno ingiusto.

Cass. civ. n. 8067/2005

In tema di scolo delle acque, l'art. 913 c.c., imponendo il divieto di compiere le alterazioni dello stato dei luoghi che possano comportare una sensibile modifica del deflusso delle acque, prevede un nesso causale fra l'opera dell'uomo e l'aggravamento della servitù; pertanto, qualora siano state disposte dal Comune modifiche dell'assetto urbanistico, occorre verificare se le opere realizzate dal proprietario del fondo superiore per convogliare direttamente le acque sul fondo inferiore non siano state determinate dall'operato dell'amministrazione. (Nella specie, era stato accertato che, a seguito delle modifiche dell'assetto urbanistico, le acque venivano direttamente convogliate sul fondo inferiore non soltanto attraverso la griglia apposta dal proprietario del fondo dominante ma anche tramite la strada e la canalizzazione delle acque realizzate dal Comune; la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, rilevando che non era stato compiuto l'accertamento in ordine all'incidenza causale dell'operato dell'amministrazione nell'aggravamento della servitù di scolo).

Cass. civ. n. 13301/2002

L'art. 913 c.c., in tema di scolo delle acque, ponendo a carico del proprietario sia del fondo inferiore che superiore l'obbligo di non alterare la configurazione naturale del terreno, non vieta tutte le possibili modificazioni incidenti sul deflusso naturale delle acque, ma soltanto quelle che alterino apprezzabilmente tale deflusso, rendendo più gravosa la condizione dell'uno o dell'altro fondo. Sicché si tratta di accertamento di fatto che, se adeguatamente motivato sotto il profilo logico e giuridico, non è censurabile in sede di legittimità.

La soggezione del proprietario del fondo inferiore a ricevere le acque reflue provenienti dal fondo superiore, stabilita dall'art. 913 c.c., riguarda una limitazione legale della proprietà, non una servitù prediale.

Cass. civ. n. 14179/2001

In tema di scolo delle acque, la regola del l'art. 913 c.c. trova applicazione, previa la verifica delle ulteriori circostanze di fatto, solamente in caso di aggravamento della situazione anteriore.

Cass. civ. n. 10039/2000

L'art. 913 c.c. impone al proprietario del fondo superiore l'obbligo negativo consistente nel divieto di ogni manufatto che modifichi il deflusso naturale delle acque e correlativamente legittima il proprietario e il titolare di altri diritti sul fondo inferiore ad agire per il ripristino dello stato naturale del luoghi. L'esecuzione di manufatti che rendano più gravoso il naturale scolo delle acque non legittima il proprietario del fondo inferiore al risarcimento per tutti i danni, anche imprevedibili e lontani nel tempo, che comunque obiettivamente si possano collegare alla modifica vietata.

Cass. civ. n. 7934/1997

La norma di cui all'ultimo comma dell'art. 913 c.c. ammette solo eccezionalmente, in relazione ad opere di sistemazione o trasformazione agraria, la possibilità di modificare il deflusso delle acque previa corresponsione di una mera indennità al proprietario del fondo finitimo (derogando all'ipotesi generale che obbliga l'autore delle modifiche alla riduzione in pristino o alla esecuzione di opere eliminative), ma non presuppone che, ogni qualvolta dette opere debbano esser compiute, la modificazione dello scolo possa venir realizzata senza alcun limite, poiché l'interesse del fondo superiore a potenziare la propria produttività va senza meno conciliato con il contrapposto interesse del fondo inferiore a non veder ridotta la propria, con la conseguenza che, ove la modifica dello scolo abbia provocato un assoggettamento ben più gravoso del fondo inferiore, rispetto a quello preesistente (dovuto all'originario dislivello tra i fondi ed al naturale deflusso delle acque), le modifiche (quantunque necessarie per lavori di sistemazione o trasformazione agraria) assumono indubitabili connotati di illiceità (ponendosi contro il generale divieto dell'art. 913 c.c. di rendere più gravoso lo scolo), e non consentono all'autore la semplice corresponsione dell'indennizzo, obbligandolo, per converso, a restituire l'acqua al suo naturale deflusso mediante l'esecuzione di opere che neutralizzino l'aggravamento, ripristinando nella originaria quantità ed intensità lo scolo naturale.

Cass. civ. n. 1928/1997

In tema di scolo delle acque, l'art. 913 c.c., nell'imporre al fondo inferiore di ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo, impone ai proprietari dei rispettivi fondi un obbligo di non fare, il cui contenuto risponde al divieto di modificare il normale deflusso delle acque; tale divieto, tuttavia, non riguarda ogni alterazione prodotta dall'uomo, ma solo quelle che comportano una sensibile modifica del decorso delle acque. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità del proprietario del fondo sito «a valle» per le opere di elevazione del livello del proprio terreno, avendo accertato, in fatto, che l'interruzione del flusso dell'acqua era stata determinata esclusivamente dalle opere compiute dal proprietario del fondo sito «a monte», il quale aveva portato il livello del proprio terreno 25 metri più in basso della quota dell'alveo di un preesistente fosso).

Cass. civ. n. 1428/1984

In tema di scolo delle acque, la regola dell'art. 913 c.c. — per il quale il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che scolano dal fondo più elevato — trova applicazione soltanto allorché il deflusso avviene «naturalmente», mentre, qualora sia intervenuta l'opera dell'uomo (nella specie, con la costruzione di un vialetto), è necessario stabilire se essa abbia aggravato, quanto a scolo delle acque, la situazione del fondo inferiore quale era precedentemente all'opera stessa, tenendo altresì conto al servizio di quale fondo detta opera sia stata costruita (nella specie il vialetto era al servizio del fondo inferiore).

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.

SEI UN AVVOCATO?
AFFIDA A NOI LE TUE RICERCHE!

Sei un professionista e necessiti di una ricerca giuridica su questo articolo? Un cliente ti ha chiesto un parere su questo argomento o devi redigere un atto riguardante la materia?
Inviaci la tua richiesta e ottieni in tempi brevissimi quanto ti serve per lo svolgimento della tua attività professionale!

Consulenze legali
relative all'articolo 913 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

O. M. A. chiede
martedì 30/01/2024
“Salve.
Nel mio cortile, su tutto il confine perimetrico con il vicino ma dalla mia parte, ho una canalina in cemento di scolo delle acque piovane che, tramite un passaggio, proviene dalla sua proprietà. Quando piove, questa canalina mi porta acqua piovana proveniente dal suo altrettanto tratto di canalina.
Nulla da eccepire sul dovere da parte mia nel permettere lo scolo di queste acque piovane, ma ho necessità di sapere se quando il manufatto della canalina attraversa la mia proprietà, sia comunque di mia proprietà. Sono fornibili immagini.
Non ci sono vecchie planimetrie alcune che citano la presenza della canalina in questione.”
Consulenza legale i 05/02/2024
L’art. 913 del c.c. dispone che il proprietario del fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che scolano naturalmente dal fondo superiore, senza che sia intervenuto l’opera dell’uomo.
Cass. Civ. n. 13301 del 12.09.2002, precisa che la soggezione del proprietario del fondo inferiore prevista dall’ art. 913 del c.c. non possa considerarsi una servitù prediale di fonte normativa ma è semplicemente un limite legale al diritto di proprietà del fondo inferiore.
Se non possiamo considerare l’art. 913 del c.c. come una servitù di fonte legislativa, inevitabilmente non può trovare applicazione la relativa normativa disciplinante l’istituto ed in particolare l’art. 1069 del c.c., il quale pone in capo al proprietario del fondo dominante l’onere di pagamento delle spese di manutenzione di quelle opere necessarie all’esercizio della servitù.
La giurisprudenza inoltre precisa come l’art 913 del c.c. trova applicazione nel caso in cui lo scolo delle acque avvenga naturalmente per la configurazione naturale dei terreni: quindi, senza che esso venga provocato o anche aumentato dall’opera dell’uomo e dai suoi manufatti. Per la verità, sempre la giurisprudenza della Cassazione ha ammesso la compatibilità dell’art. 913 del c.c. con la presenza di opere dell’uomo, a condizione che esse non vadano ad alterare il naturale deflusso delle acque dal fondo superiore a quello inferiore. (in questo senso si veda sempre, Cass. Civ. n. 13301 del 12.09.2002).

Dalle informazioni ricevute il caso prospettato appare rientrare perfettamente nei perimetri applicativi dell’art. 913 del c.c., come tratteggiato dalla pronuncia reperita.
Seppur vi è la presenza di una canalina essa non pare essere la causa dello scolamento delle acque che trova la sua ragione sempre nella situazione dei terreni circostanti: piuttosto detta canalina ha lo scopo di meglio organizzare il deflusso delle acque ed evitare che esse si spandano per il fondo di livello inferiore, il quale rimane comunque obbligato a riceverle per precisa disposizione legislativa.
Come si è però spiegato in precedenza, l’applicazione dell’art. 913 del c.c. al caso specifico impedisce che tra i due fondi vi possa essere un rapporto di servitù: inevitabilmente quindi le canaline rientrano nel diritto di proprietà di ciascun fondo e le spese per la loro manutenzione dovranno essere sopportate individualmente da ciascun proprietario.

A. B. chiede
domenica 07/05/2023
“Buongiorno,
Abito al piano più alto del mio condominio (2° piano).
Sotto uno dei miei balconi (vedi foto allegate) esce dal muro condominiale un tubo (come anche esce dal di sotto del balcone del piano sottostante).
Preciso che questo tubo non "affiora" in alcun modo nel balcone nel senso che non è presente un buco nel balcone nel quale venga incanalata l'acqua piovana che scorra pertanto in questo tubo e venga convogliata di sotto (come per esempio accade in un altro mio balcone).
Da quel tubo esce acqua che cadendo sulla ringhiera del proprietario dell'appartamento sottostante, a suo dire, determina la formazione di ruggine sulla ringhiera.
Ho cercato di capire a cosa fosse collegato questo tubo e non è da escludere che racconta la condensa che si formi sul mio balcone o al di sotto del mio balcone.
Il proprietario dell'appartamento sottostante ha scritto all'amministratore il quale ha scritto a me prospettando l'allungamento del tubo appena sottostante il mio balcone.
Io ho risposto quando segue in sintesi:
- il tubo, a mio avviso, non essendo in alcun modo collegato al balcone di mia proprietà, è un tubo condominiale e quindi agisca pure il condominio come crede senza necessità del mio consenso;
- quando anche il tubo fosse da considerarsi di mia proprietà, vigerebbe l'articolo 913 del codice civile sulla servitù di scolo che potrebbe ritenersi sussistere per il fatto che il costruttore ha lasciato gli appartamenti poi venduti in questo stato dei fatti;
- l'arrugginimento della ringhiera non potrebbe ritenersi un agravio nei fondo servente tale da dover richiedere il mio intervento migliorativo.
L'amministratore si fa risentire dopo diversi mesi ancora con questa storia e io gli rispondo che facesse prima la cortesia di qualificare la natura del tubo quale condominiale o di mia proprietà; dopo di ché, qualora lui qualificasse il tubo come di mia proprietà provvederò eventualmente a fornire una contro perizia.
Quindi l'amministratore dopo ulteriore tempo mi scrive esattamente quanto segue: "la soletta e la relativa manutenzione compete a lei. Nell’ottica di aiutarvi a risolvere il danno subito dal sig. *** (proprietario del balcone arrugginito sottostante) ci siamo interessati per semplicemente far prolungare un tubicino di scarico già presente. Oggi la ditta *** passerebbe a fare l’intervento. Ancora non ci è chiaro se autorizzate o meno questo intervento che il sig. *** (Pproprietario del balcone arrugginito sottostante) attende da molti giorni."
Preciso che il proprietario dell'appartamento sottostante si è mosso con l'amministratore 6 mesi fa e che io ho scritto due PEC sul punto all'amministratore appena dopo la prima volta nel novembre 2022 e relativamente di recente a fine marzo 2023.

La mia domanda:
Il tubo è da intendersi essere condominiale o di mia proprietà? E qualora fosse da intendere di mia proprietà posso invocare l'articolo 913 cc e lasciare le cose esattamente così come stanno?
E se il tubo sia da intendersi come condominiale, è corretto che io risponda ancora una volta all'amministratore di assumere le iniziative che crede, a spese del condominio e con tutte le cautele giuridiche e condominiali necessarie per effettuare l'allungamento del tubo?

Vi faccio presente infine, senza dilungarmi, che vige una situazione estremamente conflittuale all'interno del condominio:questioni come quella di questo e di un altro tubo sono sorte, guarda caso, all'alba di alcune mie iniziative legate ad altre questioni di condominio.
Grazie.”
Consulenza legale i 10/05/2023
Leggendo la risposta che le è stata inviata dall’amministratore, egli non contesta in alcun modo la natura condominiale del tubo, che pare pacifica. Il problema che si pone l’amministratore di condominio, del tutto correttamente tra l’altro, è quello di verificare l’origine e la causa dello sgocciolamento che causa il danno e la ruggine all’appartamento sottostante. Come le fa giustamente notare l’amministratore di condominio se tale sgocciolamento deriva da una cattiva impermeabilizzazione del suo balcone (cosa piuttosto probabile), cattiva impermeabilizzazione dovuta banalmente all’usura e allo scorrere del tempo, lei è tenuta a sue spese a ripristinare la corretta impermeabilizzazione della soletta. Infatti, per giurisprudenza assolutamente granitica e costante (tra le tante Cass.Civ. n.637/00 Cass.Civ. n.1156/2015 Cass.Civ n.14576/04; Cass.Civ.587/11), il balcone aggettante e la sua zona di calpestio sono un naturale prolungamento dell’appartamento a cui accedono e una parte dell’edificio in proprietà esclusiva del singolo condomino: a lui quindi spetta provvedere alla sua manutenzione.

Non può in alcun modo trovare applicazione nel caso specifico l’art. 913 del c.c. in quanto essa si applica nel caso in cui lo scolo delle acque dal fondo più elevato a quello inferiore avvenga naturalmente: ad esempio per la naturale conformazione del terreno, oppure il naturale sgocciolamento delle acque piovane dal tetto dell’edificio agli appartamenti sottostanti). L’art. 913 del c.c. certo non si applica quando lo scolo avvenga per l’incuria dell’uomo o quando lo sgocciolamento avviene per cattiva manutenzione della impermeabilizzazione dei piani soprastanti.

In definitiva la prima cosa da verificare è l’origine degli sgocciolamenti e la loro causa scatenante: se ovviamente tale origine non risiede in parti dell’edificio di sua proprietà, le conclusioni fornite nel presente parere potrebbero essere differenti, ma all’oggi non vengono forniti sufficienti elementi in proposito.


M.R. chiede
sabato 18/09/2021 - Friuli-Venezia
“Buongiorno, sono un proprietario di una casa in linea con alle spalle un muro di contenimento per la montagna retrostante creato dal comune, da un lato ho un proprietario che ha sopraelevato il suo terreno con gettata di cemento di circa 1.5m con scolo anche sulla mia proprietà, dall'altra invece ho un vicino che ha eretto un muro che crea un effetto saracinesca facendo così innalzare il livello dell'acqua e causando infiltrazioni in casa. La mia domanda è: premettendo che tutte le pavimentazioni sono artificiali posso appellarmi al art. 913 c.c. sul vicino che ha eretto muro (presumibilmente abusivo) impedendo il naturale flusso delle acque o c'è un altra possibilità?”
Consulenza legale i 27/09/2021
Va premesso che la vicenda oggetto del quesito richiede, a monte, valutazioni tecniche che - chiaramente - non possono essere svolte in questa sede.
Da un punto di vista giuridico, invece, possiamo innanzitutto analizzare il disposto dell’art. 913 c.c., che prevede quanto segue:
- il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo;
- il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo, ma il proprietario del fondo superiore, da parte sua, non può renderlo più gravoso;
- se, per opere di sistemazione agraria dell'uno o dell'altro fondo, si rende necessaria una modificazione del deflusso naturale delle acque, è dovuta un'indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio.
Nel corso degli anni la giurisprudenza ha precisato il significato e la portata applicativa della norma in esame.
Come ha chiarito Cass. Cv., Sez. II, ordinanza 20/11/2019, n. 30239, “l'art. 913 c.c., in tema di scolo delle acque, ponendo a carico dei proprietari, sia del fondo inferiore che superiore, l'obbligo di non alterare la configurazione naturale del terreno, non vieta tutte le possibili modificazioni incidenti sul deflusso naturale delle acque, ma soltanto quelle che alterino apprezzabilmente tale deflusso, rendendo più gravosa la condizione dell'uno o dell'altro fondo”.
D’altra parte, però, non ogni modificazione deve ritenersi consentita, né può ritenersi in tutti i casi sufficiente a riequilibrare gli interessi contrapposti dei due proprietari la mera corresponsione dell’indennità prevista dal terzo comma.
Infatti, secondo Cass. Civ., Sez. II, 26/04/2000, n. 5333, la disposizione “di cui all'ultimo comma dell'art. 913 c.c. ammette solo eccezionalmente, in relazione ad opere di sistemazione o trasformazione agraria, la possibilità di modificare il deflusso delle acque previa corresponsione di una mera indennità al proprietario del fondo finitimo (derogando all'ipotesi generale che obbliga l'autore delle modifiche alla riduzione in pristino o alla esecuzione di opere eliminative), ma non presuppone che, ogni qualvolta dette opere debbano essere compiute, la modificazione dello scolo possa venir realizzata senza alcun limite, poiché l'interesse del fondo superiore a potenziare la propria produttività va conciliato con il contrapposto interesse del fondo inferiore a non veder ridotta la propria con la conseguenza che, ove la modifica dello scolo abbia provocato un assoggettamento ben più gravoso del fondo inferiore, rispetto a quello preesistente (dovuto all'originario dislivello tra i fondi e al naturale deflusso delle acque), le modifiche (quantunque necessarie per lavori di sistemazione o trasformazione agraria) assumono indubitabili connotati di illiceità (ponendosi contro il generale divieto dell'art. 913 c.c. di rendere più gravoso lo scolo) e non consentono all'autore la semplice corresponsione dell'indennizzo, obbligandolo, per converso a restituire l'acqua al suo naturale deflusso mediante l'esecuzione di opere che neutralizzino l'aggravamento ripristinando nella originaria quantità ed intensità lo scolo naturale”.
Del resto anche secondo Cass. Civ., Sez. II, sentenza 15/06/2011, n. 13097, “l'art. 913 c.c. pone a carico dei proprietari, sia del fondo superiore che del fondo inferiore, un obbligo di non fare, vietando ad essi ogni alterazione che abbia per effetto quello di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle”.
Nel caso descritto nel quesito, stando a quanto riferito, il deflusso delle acque, come modificato per effetto dell’intervento umano, sembrerebbe particolarmente gravoso e dunque si porrebbe al di fuori dell’ambito di liceità definito dall’art. 913 c.c.: pertanto il vicino non potrebbe “cavarsela” neppure con la corresponsione di un’indennità, ma sarebbe costretto ad eliminare la situazione di pregiudizio venutasi a creare per il fondo sottostante, con fenomeni infiltrativi che interessano addirittura l’abitazione ivi situata.
Naturalmente, come premesso all’inizio, è imprescindibile, in questi casi, un accertamento di tipo tecnico.

Emilio M. chiede
domenica 15/08/2021 - Campania
“Un canale di scolo delle acque piovane, attraversa, un fondo che è parte di mia proprietà, e parte di proprietà mia e di altre persone. Vorrei sapere se posso, inserendovi appositi idonei tubi che lascino defluire l'acqua, coprirlo. Oppure se posso coprirlo con apposite putrelle, lasciando intatto il fondo preesistente. Tutto ciò perchè l'antichissimo scolo è molto sconnesso e molto slabbrato. In alcuni casi è di circa un metro, in altre parti arriva ad essere largo 4/5 metri, limitando la estensione del mio terreno. Si precisa che anche in inverno e con piogge abbondanti il livello dell'acqua è bassissimo (20/30 cm). Credo che con tubi di 50/60 cm e con qualche pozzetto di ispezione non potrebbero esservi problemi. Grazie”
Consulenza legale i 24/08/2021
La norma a cui occorre fare riferimento per rispondere a quanto viene chiesto è l’art. 913 c.c., rubricato proprio “Scolo delle acque”.
Innanzitutto si ritiene opportuno precisare che condizione per l’applicabilità di questa norma è il deflusso naturale delle acque (piovane, derivanti dallo scioglimento delle nevi, derivanti da sorgenti), mentre ne restano escluse quelle estratte artificialmente, quelle cadenti dai tetti o provenienti da fabbriche, officine, latrine ecc.
Oltre alle acque che scolino naturalmente, il fondo deve tollerare anche i detriti che esse trascinano naturalmente con sé, nonché le eventuali frane, per le quali, tuttavia, si ammette che il proprietario del fondo inferiore possa fare le opere opportune per impedirle.

Posto, dunque, che nel caso di specie si sia in presenza di un deflusso naturale, per effetto della norma richiamata il legislatore ha inteso porre a carico dei rispettivi proprietari dei fondi, inferiore e superiore, un obbligo di “non fare”, volto al sostanziale mantenimento della situazione naturale dei fondi stessi ( cfr. Cass. n. 6976/1986).
Tale “obbligo di non fare” consiste, dal lato del proprietario del fondo superiore, nel divieto di realizzare qualunque tipo di manufatto che possa modificare direttamente o indirettamente il deflusso naturale delle acque, legittimando correlativamente il proprietario e il titolare di altri diritti sul fondo inferiore ad agire per il ripristino dello stato naturale dei luoghi.
Va per inciso precisato che, dal punto di vista della sua natura giuridica, la soggezione del proprietario del fondo inferiore a ricevere le acque provenienti dal fondo superiore si configura come una limitazione legale della proprietà, ma non come una servitù prediale ( così Cass. n. 13301/2002).

Il proprietario del fondo inferiore, da parte sua, ben può compiere su di esso opere (quali fossi, canali, ecc.) atte a far sì che la ricezione degli scoli d'acqua proveniente naturalmente dal fondo superiore non provochi danni (così Cass. n. 2570/1976), tenendosi presente che, secondo il disposto della norma richiamata, non ogni alterazione dello stato dei luoghi è vietata, ma solo quelle che comportano una sensibile modifica del decorso delle acque, rendendo più gravosa la condizione dell’uno o dell’altro fondo.

In tal senso si è espressa nel corso degli anni la giurisprudenza di legittimità, ed in particolare si ritiene possa essere utile richiamare le seguenti sentenze:
  1. Cass. civ. n. 14179/2001:In tema di scolo delle acque, la regola dell'art. 913 c.c. trova applicazione, previa la verifica delle ulteriori circostanze di fatto, solamente in caso di aggravamento della situazione anteriore”.
  2. Cass. civ. n. 13301/2002: L'art. 913 c.c., in tema di scolo delle acque, ponendo a carico del proprietario sia del fondo inferiore che superiore l'obbligo di non alterare la configurazione naturale del terreno, non vieta tutte le possibili modificazioni incidenti sul deflusso naturale delle acque, ma soltanto quelle che alterino apprezzabilmente tale deflusso, rendendo più gravosa la condizione dell'uno o dell'altro fondo. Sicché si tratta di accertamento di fatto che, se adeguatamente motivato sotto il profilo logico e giuridico, non è censurabile in sede di legittimità”.
  3. Cass. civ. n. 13097/2011: “L'art. 913 c.c. pone a carico dei proprietari, sia del fondo superiore che del fondo inferiore, un obbligo di non fare, vietando ad essi ogni alterazione che abbia per effetto quello di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle”.

Il principio desumibile dalla lettura di tali massime, dunque, è che deve ritenersi consentita da parte del proprietario del fondo inferiore ogni modificazione del canale di scolo delle acque piovane, purchè da essa non ne possa derivare una alterazione del deflusso naturale di quelle acque, ovvero una alterazione tale da arrecare danni al fondo superiore.

Per quanto concerne le modalità attraverso cui eseguire tale modifica, si suggerisce di affidarsi all’ausilio di un tecnico (geometra, architetto o ingegnere), il quale saprà come meglio eseguire le opere (se con tubi o con le c.d. putrelle) al fine di non incorrere in una violazione del più volte citato art. 913 c.c.
Infine, sembra quasi superfluo precisare che per la parte in cui il canale di scolo attraversa il fondo in comproprietà con terze persone, sarà necessario ottenere il consenso di questi ultimi per la realizzazione di qualunque tipo di opera.


Cinzia B. chiede
mercoledì 20/05/2020 - Veneto
“Buongiorno,
la mia proprietà confina con una proprietà che si pone ad un livello più basso.
Quando piove tanto (bombe d'acqua) l'acqua piovana entra nella mia proprietà anche dalla strada perché più bassa rispetto al livello della strada e in parte defluisce nella proprietà del vicino.
Adesso il vicino ha costruito la nuova casa portandosi al livello della strada per 3/4 della sua proprietà mentre nel viale di passaggio delle auto sta portando il livello all'altezza del muretto di recinzione con la mia proprietà di fatto così cambiando i futuri deflussi delle acque; il progetto iniziale però prevedeva che il livello del terreno nel passaggio auto rimanesse uguale a com'è sempre stato.
Posso far bloccare i lavori nel viale del passaggio auto? in un futuro posso chiedere un'indennità per il cambio del naturale deflusso delle acque?

Cordialità
Consulenza legale i 26/05/2020
Il codice civile dedica una specifica sezione del libro terzo alla disciplina delle acque, sia quelle esistenti sul fondo che quelle piovane, dettando una serie di norme che, pur se non regolano in modo specifico il caso in esame, possono ad esso applicarsi in via analogica.

La prima norma a cui occorre fare riferimento è l’art. 908 del c.c. il quale, seppure volto a disciplinare le acque piovane che scolino dal tetto del proprietario confinante, può inquadrarsi nel più generale regime dei rapporti di vicinato e costituisce un’applicazione del divieto delle immissioni e del regime delle acque di cui al successivo art. 913 c.c., ove è previsto che il fondo inferiore è costretto a ricevere le acque del fondo più elevato soltanto se vi scolano naturalmente, senza che sia intervenuta alcuna opera dell’uomo.

Il principio generale che scaturisce da tali norme, dunque, è quello secondo cui il fondo inferiore non può essere assoggettato allo scolo delle acque di qualunque genere, fatta eccezione per quelle che defluiscono dal fondo superiore secondo l’assetto naturale dei luoghi e salvo che l’esercizio di un tale diritto da parte del proprietario del fondo superiore trovi specifica rispondenza in un titolo costitutivo di servitù ad hoc, il cui contenuto consisterà in un vincolo stabilito a carico del fondo inferiore (c.d. fondo servente) di ricevere le acque piovane da quello dominante (in tal senso si possono citare Cass. n. 333/1951; Cass. 5298/1977; Cass. 7576/2007).

Pertanto, applicando i principi sopra espressi al caso di specie, può dirsi che non si ha alcun diritto di bloccare i lavori del vicino se la pretesa di mantenere il proprio viale carraio ad un livello superiore a quello confinante trovi fondamento esclusivamente in una rappresentazione progettuale.
E’ indispensabile, invece, che sia stata costituita una specifica servitù di scolo delle acque piovane sul fondo del vicino, in quanto soltanto l’esercizio di una tale servitù può legittimare una azione in difesa della stessa e, dunque, consentire di pretendere anche forzatamente che venga mantenuta la situazione originaria dei luoghi ovvero, se modificata, la sua rimessione in pristino.

In mancanza, invece, dell’esistenza in proprio favore di un diritto reale di servitù, scaturente da un regolamento convenzionale dello scarico delle acque, poiché principio generale, desumibile dalle norme sopra citate, è quello che occorre evitare lo scarico delle acque sul fondo del vicino, nulla si potrà opporre al confinante per avere modificato lo stato dei luoghi, avendo questi intenzione di innalzare il proprio viale alla stessa quota di quello adiacente, così modificando il deflusso delle acque piovane.

Indubbiamente ciò non significa che si dovrà restare impassibili a tale mutamento, in quanto, in applicazione di quanto previsto al secondo comma dell’art. 908 c.c., poiché a quel punto il deflusso delle acque non dipenderebbe più dall’assetto naturale dei luoghi, si avrà il pieno diritto di pretendere che nel portare avanti tali lavori vengano adottati tutti i necessari e opportuni accorgimenti tecnici (quali realizzazione di pozzetti di raccolta acque e adeguate opere di canalizzazione) atti a convogliare le acque piovane verso i pubblici colatoi (scarico fognario), così da evitare che le stesse possano immettersi in maniera rovinosa sul fondo confinante.

A tal fine, ciò che si consiglia è di far pervenire al più presto al vicino una lettera, con la quale invitarlo a porre in essere ogni accorgimento tecnico necessario per evitare che, a seguito delle opere di sistemazione che sta svolgendo, l’acqua piovana possa cambiare il suo primitivo deflusso ed invadere il proprio fondo.
A tale invito, se occorre, si farà poi seguire una formale diffida, e ciò qualora ci si renda conto, previo parere di un tecnico di propria fiducia, che nessuna opera si sta ponendo in essere per evitare che le acque piovane defluiscano sul proprio fondo, questa volta intimandogli la proposizione di un’azione per il risarcimento dei danni ed il ripristino dello stato dei luoghi.

In ogni caso, nell’intraprendere ogni tipo di iniziativa, si tenga presente che il proprietario del fondo inferiore può ben compiere su di esso qualunque opera atta a far sì che la ricezione degli scoli d’acqua proveniente naturalmente dal fondo superiore non provochi danni, purché ovviamente non arrechi pregiudizio alla proprietà altrui (così Cass. 2570/1976) .


Alessandro B. chiede
domenica 10/05/2020 - Lazio
“Scolo delle acque – Art. 913 c.c.

Sono proprietario di un terreno posto a quota superiore di circa 3,5 metri rispetto al terreno del mio vicino. Sotto la mia proprietà è presente una grotta da sempre utilizzata dal mio vicino il quale può accedervi direttamente dalla sua particella posizionata a quota inferiore e a confine con la mia. Faccio presente che sul mio terreno non ho mai fatto alcun intervento o opera di alcun genere e di non aver mai alterato lo stato dello stesso.
Ciò premesso vorrei sapere:

1. se l’art. 913 risulta applicabile anche in caso di eventuali infiltrazioni di acqua presenti nella grotta del mio vicino proveniente dal mio terreno.
Personalmente ritengo di sì posto che trattasi sempre e comunque di deflusso naturale delle acque piovane in quanto non ho mai alterato lo stato del mio terreno né eseguito alcuna opera su di esso. Trattasi dell’acqua piovana che viene assorbita dal terreno, penetra nello stesso e ad un certo punto trova il vuoto della grotta.
Peraltro, sulla vostra pagina web di commento dell’articolo 913 in corrispondenza del paragrafo “Quali acque vanno comprese nell'articolo in esame” è riportato quanto segue: "Tra le acque indicate nell'articolo in esame vanno comprese quelle piovane, anche se provenienti da fondi superiori non contigui, quelle derivanti da fusione di neve, da infiltrazioni, da sorgenti”.
Se è così vorrei sapere dove è rinvenibile l’applicazione dell’art. 913 anche alle infiltrazioni di acqua (ad es. relazione all’articolo, sentenze di Cassazione o altro…);

2. se l’art. 913 può essere applicato anche nel caso in cui il fondo inferiore che raccoglie lo scolo naturale delle acque non è un terreno bensì una grotta.
Anche in tal caso ritengo che nulla osti all’applicazione dell’art. 913 poiché il legislatore nell’utilizzare il termine “fondo” non sembra voler circoscrive la disciplina dell’articolo in esame ai soli terreni;

3. laddove la grotta fosse di origine non naturale (bensì scavata dal vicino o dai suoi danti causa nel corso del tempo) non penso che possa essere considerata come un’opera di sistemazione agraria tale da far scattare l’applicazione del comma 3 dell’articolo in esame; peraltro, le proprietà si trovano in zona urbana, poiché trattasi di giardini, e non in zone rurali.

4. posso essere ritenuto responsabile in ogni caso per eventuali danni arrecati a beni presenti nella grotta?

Resto in attesa di un vostro autorevole parere ai miei quesiti
Grazie”
Consulenza legale i 02/06/2020
L’art. 913 del c.c., intitolato appunto “scolo delle acque”, stabilisce che il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo.
Il secondo comma della norma ribadisce che il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo, precisando però che, da parte sua, il proprietario del fondo superiore non può renderlo più gravoso.
Infine, il terzo comma dell’articolo in commento prevede che, se per opere di sistemazione agraria dell'uno o dell'altro fondo si rende necessaria una modificazione del deflusso naturale delle acque, è dovuta un'indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio.
La giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. II, 13301/2002) ha precisato che la soggezione del proprietario del fondo inferiore a ricevere le acque reflue provenienti dal fondo superiore, stabilita dall'art. 913 c.c., riguarda una limitazione legale della proprietà, non una servitù prediale.
Inoltre, deve trattarsi di deflusso naturale delle acque (si veda ad esempio Cass. Civ., Sez. III, 10039/2000), per cui deve escludersi che il proprietario del fondo posto a quota inferiore sia tenuto a sopportare lo scolo di acque derivante da opere artificiali realizzate sul fondo superiore.
La giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. III, 13944/2016) ha ricordato, tra l’altro, che l’art. 913 c.c. si applica in relazione allo scolo di acque che si determina in assenza dell'opera dell'uomo; come affermato dalla pacifica giurisprudenza della stessa Suprema Corte, l'art. 913 c.c., riconoscendo l'obbligo del proprietario del fondo inferiore di ricevere le acque che "dal fondo più elevato scolano naturalmente", evidentemente presuppone l'esclusione di una qualsiasi attività umana che sia idonea ad alterare lo stato dei luoghi.
Ed ancora Cass. Civ., Sez. II, 13097/2011 rammenta che la disciplina dello scolo delle acque dà luogo, tanto rispetto al proprietario del fondo inferiore che rispetto a quello del fondo superiore, ad un limite legale del rispettivo diritto di utilizzazione, vietando, sia all'uno che all'altro, ogni alterazione non connessa ad opere di sistemazione agraria, che abbia per effetto di rendere più gravosa ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle, donde la sussistenza a carico di entrambi di un obbligo di non facere, strumentale a detto scopo.
Tuttavia - prosegue la Corte - il precetto della legge non deve essere inteso in modo assoluto, poiché, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, debbono ritenersi consentite quelle modificazioni incidenti sul deflusso delle acque, che non ne alterino apprezzabilmente lo scolo e che non rendano più gravosa la condizione dei due fondi interessati.
Da quanto riferito nel quesito sembrerebbe che, nel nostro caso, vi siano tutti i presupposti per l’applicazione dell’art. 913 c.c., trattandosi di acque piovane che scolano naturalmente, e non per effetto dell’intervento umano.
L’applicabilità della norma in commento non è esclusa dalla circostanza che la proprietà sottostante sia costituita da una grotta, ancorché, eventualmente, di origine artificiale (fermo restando che, come detto sopra, il proprietario del fondo inferiore potrebbe apportare quelle modificazioni incidenti sul deflusso delle acque, tali da non alterarne apprezzabilmente lo scolo e da non rendere più gravosa la condizione dei due fondi interessati, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza citata).
In ogni caso, anche il carattere in ipotesi artificiale della grotta non ne comporterebbe l’inquadramento nelle “opere di sistemazione agraria” di cui al terzo comma dell’art. 913 c.c.
Da ultimo, non sembra configurabile nel nostro caso una responsabilità ex art. 2051 del c.c., proprio perché, in presenza dei presupposti di cui all’art. 913 c.c., il proprietario del fondo inferiore non può impedire il naturale deflusso delle acque, né, da parte sua, il proprietario del fondo superiore è tenuto ad impedirlo.

Giovanni D. P. chiede
venerdì 13/12/2019 - Abruzzo
“Riferimento consulenza Q 201924105. Ho diffidato il confinante in data 12/12/2019 ho ricevuto la risposta che invierò.
la mia domanda: non voglio iniziare nessuna causa, ma siccome nella risposta cita le motivazioni per cui ha chiuso i fori di drenaggio e scrive anche muro obsoleto e pericolante che non è vero, in futuro tutto quello che ha scritto quale valore può avere in un tribunale. Gli debbo richiedere la perizia peritale che dimostra che il muro è pericolante?
Distinti Saluti”
Consulenza legale i 22/12/2019
Dalla lettura della missiva fatta pervenire dal proprietario confinante non sembra che vi sia una chiusura totale da parte di questi a trovare una soluzione concordata di ciò che viene lamentato, il che fa ben sperare sulla possibilità che non debba giungersi necessariamente ad una risoluzione giudiziale della controversia.

Il fatto che il muro sia obsoleto e pericolante, come lamentato in quella missiva, non può avere alcun nesso con la decisione unilaterale di chiudere quei fori di drenaggio, e per tale ragione non occorre munirsi di alcuna perizia per dimostrare al vicino il reale stato del muro.
Semmai, come le era stato consigliato nella precedente consulenza, una perizia potrebbe rivelarsi utile qualora dalla stessa fosse possibile far risultare che i fori di drenaggio, adesso chiusi, sono stati sempre presenti e che gli stessi consentono all’acqua piovana di defluire sul fondo inferiore, evitando il ristagno di acqua sul proprio fondo.
L’accertata sussistenza di tali fori da oltre un ventennio legittima, oltretutto, la costituzione per usucapione di una servitù di scolo delle acque in favore del fondo superiore (dominante) ed a carico del fondo inferiore (servente), servitù che, tuttavia, necessita di un riconoscimento da parte del giudice nel momento in cui viene contestata dal proprietario del fondo inferiore.

Del tutto pretestuose, invece, appaiono le altre motivazioni che hanno spinto il vicino a chiudere quei fori, ossia il passaggio dagli stessi di calabroni e serpenti che invadono il suo fondo.
Infatti, a prescindere dal rilievo che in un eventuale giudizio il confinante dovrebbe farsi carico del non facile onere di provare che proprio da quei fori si infiltrano tali animali, sarebbe fin troppo semplice evidenziare che il medesimo effetto si sarebbe potuto raggiungere mediante sistemazione sugli stessi fori di appositi reticoli a maglie fitte, attraverso cui l’acqua avrebbe continuato a defluire, senza nel contempo permettere il passaggio ad alcuna specie animale.

Oltretutto si tenga presente che per tutelare il proprio fondo dall’insidia costituita dall’invasione di qualunque specie di animali dal fondo altrui, il vicino potrebbe al più pretendere che vengano eseguiti dei mirati interventi di sanificazione e disinfestazione ambientale, per i quali avrebbe avuto tutto il diritto di inviare preliminarmente una diffida, chiedendo l’eliminazione di ciò che costituisce causa del proliferare di animali pericolosi, quali i lamentati serpenti e calabroni.

La mancata ottemperanza a tale diffida lo avrebbe anche legittimato ad agire in giudizio per ottenere non solo il risarcimento di eventuali danni, ma anche l’ordine del giudice di rimediare a ciò che è stato causa del lamentato pregiudizio.
Sarebbe stato anche più opportuno inviare una segnalazione all’ASL territorialmente competente, la quale potrebbe attivare il suo ufficio igiene per effettuare i dovuti controlli e imporre le adeguate prescrizioni.

Nulla di tutto ciò, invece, è stato fatto, forse perché mal consigliato oppure perché, come si ritiene più probabile, si tratta soltanto di pretesti accampati per giustificare la chiusura di quei fori, con il celato intento di provocare l’estinzione di quella servitù di scolo delle acque maturatasi nel corso di tutti gli anni trascorsi.

A questo punto, non potendosi che condividere la scelta, più che saggia, di non voler iniziare alcuna causa per risolvere le contestazioni in atto, e considerata la disponibilità comunque manifestata dal confinante nella propria missiva a voler in qualche modo trovare una soluzione, ciò che si suggerisce è di invitare bonariamente il proprietario del fondo inferiore a ripristinare i fori recentemente chiusi, impegnandosi ad ovviare al problema da lui lamentato e per cui ha chiuso quegli stessi fori in altro modo, come può essere quanto sopra suggerito, ossia facendo uso di una rete metallica a maglie strette.

Qualora neppure ciò lo convinca, non resta che accertarsi con un tecnico di propria fiducia se effettivamente la chiusura dei fori possa arrecare un pregiudizio al proprio fondo ed al muro di contenimento, ovvero se esistono soluzioni tecniche alternative per ovviare al problema; in difetto di ciò, non si riesce a pensare ad altra soluzione se non a quella di agire giudizialmente per il ripristino dei fori.


Moreno C. chiede
giovedì 24/10/2019 - Marche
“Buongiorno, ho un problema per il quale chiedo come dovermi comportare con la raccolta e il deflusso dell'acqua piovana. Cercherò di spiegare al meglio la mia situazione e i lavori apportati in questa settimana. Cerco di illustrare il problema.
Ho in proprietà un fondo superiore con la mia abitazione, ho un diritto di passaggio su di una strada che arriva alla strada provinciale.
Questa strada bianca lunga circa 80 metri e larga circa 3,40, è divisa al cinquanta per cento tra la proprietà del fondo superiore e il fondo inferiore, e io godo di un diritto di passaggio, e a sua volta gode del diritto di passaggio per tutta la sua estensione una terza proprietà ancora più superiore al mio fondo (quindi il mio fondo rimane in mezzo).
All'epoca (circa 50 anni fa) era un unico fondo successivamente frazionato in tre parti e da allora tutto è rimasto così fino ad ora che il mio vicino proprietario del fondo inferiore mi ha fatto modificare il deflusso dell'acqua piovana del tetto della mia abitazione (bonariamente ) e quella del mio capannone che fino ad oggi era raccolta e scorreva alla destra della strada raggiungendo la strada provinciale.
Ora, dopo varie divergenze a motivo dei temporali a bombe di acqua e per il fatto che questa acqua va poi insieme a quella che raccoglie la strada bianca (che è in leggera discesa e porta ghiaia sulla strada provinciale), ho deciso di intervenire per portare questa l'acqua dei tetti verso il mio fondo a mo' di scolo tramite tubazione e poi a cielo aperto proseguendo su terreno agricolo sempre di mia proprietà con estensione fino ad un fosso demaniale.
Questa modifica è stata eseguita interamente a mie spese.
L’acqua piovana che, a causa delle pendenze naturali del terreno non sono riuscito a fognare e che raccoglie la strada fino al raggiungere la provinciale che, come detto prima, al cinquanta percento è di mia proprietà, sono per forza costretto a farla defluire ai lati della strada fino al confine della strada di proprietà del vicino e lui per forza deve continuare a riceverla fino al raggiungere la provinciale? O lui può rifiutarsi di ricevere?
Spero di avere una risposta al più presto alla mia situazione
Grazie
Moreno”
Consulenza legale i 31/10/2019
Due sono i problemi che qui vanno affrontati, e precisamente:
  1. quello relativa allo scolo delle acque piovane;
  2. quello relativo ai danni che possono scaturire dall’accumularsi di ghiaia sulla strada provinciale (su cui si immette la stradella di proprietà privata) per effetto del deflusso delle acque piovane.

Per quanto concerne il primo aspetto, il codice civile al riguardo è abbastanza chiaro, in quanto all’art. 913 c.c. dispone espressamente che il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, purché non sia stata posta in essere alcuna opera dell’uomo volta a regolare o modificare il deflusso di tali acque.
La posizione di soggezione del proprietario del fondo inferiore, dunque, viene meno tutte le volte in cui si tratti di acque c.d. artificiali, quali vengono unanimemente considerate quelle che cadono dai tetti di un edificio; infatti, costituisce presupposto indispensabile per l’applicazione della norma la circostanza che non sia stato realizzato alcun manufatto che abbia potuto modificare direttamente o indirettamente il deflusso naturale delle acque.

In assenza di alcun intervento da parte dell’uomo, si sostiene che, oltre alle acque che scolano naturalmente, il fondo inferiore sia costretto a tollerare anche i detriti che esse trascinano altrettanto naturalmente con sé, salvo che questi detriti abbiano ad oggetto materie che siano state aggiunte ad opera dell’uomo.
Nel caso di specie non è chiaro se il letto di ghiaia sia opera del proprietario del fondo superiore dominante o di quello inferiore servente.
Infatti, sotto il profilo dell’esercizio del diritto di servitù è indubbio che il proprietario del fondo dominante/superiore abbia il diritto, espressamente riconosciutogli dall’art. 1069 del c.c., di eseguire tutte le opere necessarie per conservare, ma anche per rendere più comodo l’esercizio della servitù, purché non aggravino la posizione del fondo servente (ciò significa che quella ghiaia poteva legittimamente disporsi sul fondo della stradella per migliorarne la percorribilità); anzi, il proprietario di quest’ultimo, se le opere giovano anche al suo fondo, è tenuto a partecipare alle spese necessarie.

Sotto il profilo della disciplina dello scolo delle acque, invece, e della possibilità di far valere il diritto di cui all’art. 913 c.c., il proprietario del fondo inferiore ha il diritto di pretendere dal proprietario del fondo superiore che la sua proprietà non venga invasa da detriti di ghiaia, essendo solo costretto a sopportare il deflusso naturale dell’acqua.
Quindi, ci si potrebbe veder avanzare richiesta di sistemare la ghiaia in modo tale da far sì che la stessa non vada a finire sul fondo inferiore, richiesta a cui vi sarebbe ben poco da opporre.

Saggia, invece, è stata la decisione di acconsentire bonariamente alla sistemazione del deflusso dell’acqua piovana che scende dal tetto della propria abitazione e del capannone adiacente, in quanto si è in tal modo adempiuto correttamente a quanto disposto dal codice civile sempre in materia di acque e stillicidio.
Infatti, l’art. 908 del c.c. impone al proprietario di costruire i tetti in maniera tale che le acque piovane scolino sul suo terreno, vietando espressamente che le stesse possano cadere sul fondo del vicino.
Aggiunge ancora la norma al suo secondo comma che, se esistono pubblici colatoi (ove per tali adesso deve intendersi la rete fognaria pubblica), il proprietario deve adoperarsi per far sì che le acque piovane dei manufatti che gli appartengono vi siano immesse mediante gronde o canali (nel caso di specie si dice che l’acqua tramite tubazione è stata condotta fino ad un fosso demaniale, il che risponde perfettamente al dettato legislativo).
La ratio di tale disposizione si riconduce perfettamente all’intento che il legislatore ha voluto perseguire in materia di stillicidio e scolo delle acque, ossia imporre al proprietario del fondo inferiore di ricevere soltanto quelle acque il cui deflusso non sia in alcun modo frutto dell’opera dell’uomo (il deflusso delle acque che scendono dai tetti non può che essere artificiale).

L’altro problema, che sembrerebbe posto in secondo piano, ma per il quale si consiglia di adottare al più presto dei provvedimenti, è quello del materiale che, in occasione delle piogge, scende lunga la stradella privata per invadere la sede stradale.
Non è chiaro in che misura i detriti giungano ad occupare la strada statale, ma un fatto comunque è certo, ossia che tale situazione rischia non solo di integrare una violazione al codice della strada, ma, cosa ancor più grave, di poter costituire causa di eventuali incidenti.
Si ricorda, infatti, anche se non attiene al tema specifico del quesito posto, che:
  1. l’art. 15 del Codice della strada pone il divieto espresso di apportare, su tutte le strade e loro pertinenze, fango o detriti anche mediante le ruote dei veicoli provenienti da accessi e diramazioni;
  2. il successivo art. 31 del Codice della strada pone in capo al proprietario dei fondi laterali alle strade l’obbligo di mantenere le c.d. ripe (termine tecnico usato per indicare in generale quelle parti scoscese di terreno che si trovano ai bordi della strada) in stato tale da impedire lo scoscendimento del terreno e l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, onde prevenire la caduta di altro materiale sulla strada.
Per evitare di incorrere in sanzioni, ma soprattutto per evitare di vedersi gravati della responsabilità di eventuali incidenti occorsi agli utenti della strada, sarebbe opportuno, dunque, con il concorso di tutti coloro che usufruiscono di quella strada, attivarsi per svolgere quei lavori che un tecnico professionista riterrà necessari per impedire che detriti possano invadere la sede stradale (un esempio potrebbe essere una semplice realizzazione di una griglia di raccolta acqua e detriti).

Su tale particolare obbligo si è più volte pronunciata la Suprema Corte di Cassazione (cfr., tra le altre, Cass. n. 239/2017; Cass. 13087/2004), affermando espressamente che “grava sui proprietari delle ripe dei fondi laterali alle strade l’obbligo di mantenerle in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti o scoscendimenti del terreno, o la caduta dei massi o altro materiale sulla strada”.


Vincenzo L. chiede
mercoledì 09/10/2019 - Sardegna
“Ho acquistato un terreno di 220 mq ove scaricano con tre tubazioni acque ( spero solo piovane ) raccolte da 2 cortili adiacenti con pavimentazione mista a mattonelle e cemento e altre acque ( terzo tubo da 20 cm ) sempre piovane che provengono da una strada privata ove vengono scaricate anche le acque piovane dei tetti delle case con i due cortili. Come mi devo comportare con questi due vicini ?”
Consulenza legale i 14/10/2019
Vi è una norma del codice civile che si ritiene possa essere utile per risolvere il problema in esame, ed è l’art. 913 c.c.
Tale norma pone in capo al proprietario del fondo inferiore l’obbligo di ricevere le acque provenienti dal fondo superiore purché ricorrano due precise condizioni:
  1. deve trattarsi di acque che scolano naturalmente
  2. non deve essere intervenuta l’opera dell’uomo.
Solo un deflusso naturale delle acque, dunque, attribuisce al proprietario del fondo soprastante il diritto di convogliare le acque verso il fondo inferiore, condizione che in questo caso sembra difettare del tutto, tenuto conto che nel quesito si dà atto dell’esistenza di ben tre tubazioni di scarico.
Infatti, costituisce orientamento unanime, sia in dottrina che in giurisprudenza, quello secondo cui l’esistenza di qualunque manufatto che modifichi direttamente o indirettamente il deflusso naturale delle acque piovane, legittima il proprietario e titolare di altri diritti sul fondo inferiore ad agire per il ripristino dello stato naturale dei luoghi, con obbligo per il proprietario del fondo superiore di convogliare le acque in quelli che l’art. 908 del c.c. definisce “pubblici colatoi”, e che poi corrispondono alle odierne condutture fognarie.

Unica eccezione al divieto posto da questa norma si rinviene nel terzo comma di essa, ove è detto che una modifica al deflusso naturale è ammessa soltanto se conseguenza di opere di sistemazione o trasformazione agraria, idonee ad incrementare la produzione del terreno.
Conseguenza di quanto sopra rilevato sarà che lo scolo delle acque piovane e, a maggior ragione, di quelle provenienti dall’esercizio di attività umane, può essere legittimamente esercitato soltanto se trovi rispondenza specifica in una espressa convenzione tra le parti interessate, costitutiva di una servitù ad hoc (così Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza n. 7575 del 28.03.2007).
Si tenga anche presente, tuttavia, che, sempre secondo quanto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n.6387 del 13.03.2013, una servitù di questo tipo potrebbe anche formare oggetto di acquisto per usucapione; per tale ipotesi, ha precisato la Cassazione, non è sufficiente che le relative opere apparenti insistano sul solo fondo servente, ma è anche necessario che le stesse siano al servizio e rispondano ad una effettiva utilità del preteso fondo dominante (necessità di far defluire le acque piovane e di coltura).

Dopo aver esaminato la situazione sotto il profilo giuridico, vediamo adesso come conviene muoversi per tentare di trovare una soluzione sotto il profilo pratico.
Per prima cosa si ritiene necessario verificare attentamente se nell’atto notarile di compravendita di quel terreno sia contemplata una servitù di scolo delle acque ex art. 913 c.c. e se la stessa risulti debitamente trascritta.
Effettuata tale verifica, qualora non vi sia traccia di servitù di questo tipo regolarmente costituita, sarà opportuno rivolgersi ad un tecnico di propria fiducia, al quale andrà richiesto di documentare in qualche modo da quanto tempo sussiste quella situazione di fatto lamentata, ossia le tre tubazioni di acqua e, soprattutto, di verificare se esiste una fognatura pubblica a cui quelle tubazioni potrebbero essere regolarmente allacciate.

Nella malaugurata ipotesi che sia trascorso un ventennio da quando le tubazioni di scarico sono state poste ed il proprietario del fondo superiore voglia vantare l’esistenza di una servitù di scolo delle acque acquistata per usucapione, occorrerà purtroppo rivolgersi all’autorità giudiziaria, esercitando la c.d. actio negatoria servitutis, ossia l’azione negatoria prevista dall’art. 949 del c.c., con contestuale condanna dell’altra parte alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi.

Qualora, invece, il tecnico incaricato accerti che si tratta di opere realizzate da meno di un ventennio, allora conviene diffidare immediatamente il proprietario confinante, intimandogli di rimuovere al più presto quelle tubature.
Anche in questo caso, in mancanza di alcun riscontro alla diffida, non resta altra soluzione che quella di rivolgersi all’autorità giudiziaria per far valere il proprio diritto alla rimozione di quelle tubature per violazione dell’art. 913 c.c., con conseguente riduzione in pristino dello stato dei luoghi.


Giovanni D. P. chiede
martedì 08/10/2019 - Abruzzo
“Fabbricato costruito tra gli anni 1975/1985 fabbricato e recinzione e muro di sostegno autorizzati, il confinante sottostante con malta cementizia ha chiuso tutti i fori di drenaggio del muro di sostegno in questi giorni
Chiedo:
1- è scattato l'usucapione per lo scolo delle acque piovane dato che sono passati 35 anni dalla costruzione del muro
2- i fori di drenaggio sono considerati interventi di iniziativa dell'uomo per l'art 913
3- posso chiedere la riapertura dei fori in mancanza diffidarlo per eventuali futuri danni?
in attesa cordiali Saluti”
Consulenza legale i 14/10/2019
Certamente corretto è il riferimento che nel quesito viene fatto all’art. 913 c.c., norma che autorizza lo scolo delle acque dal fondo superiore a quello inferiore, purché ciò avvenga naturalmente, senza che sia intervenuta l’opera dell’uomo.
Sembra abbastanza evidente che, nel momento in cui si realizza una trasformazione dell’assetto urbanistico del terreno, non si possa più escludere a fortiori quell’opera dell’uomo a cui fa riferimento l’art. 913 c.c. e da cui ne consegue il venir meno del diritto a fare scolare le acque sul fondo altrui.
Tuttavia, deve anche rilevarsi che la suddetta norma non detta un principio che può definirsi imperativo ed inderogabile, tant’è che è pur sempre ammissibile e lecita una diversa convenzione tra le parti interessate, avente ad oggetto la costituzione di una vera e propria servitù in tal senso.

A ciò si aggiunga che, quanto può costituirsi volontariamente, può anche formare oggetto di un acquisto per usucapione; in questo specifico senso si è espressa la Corte di Cassazione, Sezione II Civile, con sentenza n. 6387 del 13.03.2013, nella quale, proprio in materia di acquisto per usucapione di una servitù di scolo, si afferma che, oltre all’esistenza di opere apparenti sul fondo servente (sono tali i fori di drenaggio), occorre anche che le stesse siano poste a servizio e rispondano ad una effettiva utilità del preteso fondo dominante (nello stesso senso si erano in precedenza espresse Cass. Civ. Sez. II sent. N. 7817/2006; Cass. Civ. Sez. II sent. N. 7576/2007 e Cass. Civ. Sez. II sent. N. 21597/2007).
Sono tutti questi elementi che sembrano presenti nel caso di specie, in quanto si ritiene sia facilmente dimostrabile, attraverso una consulenza tecnica, che quei fori di drenaggio (opere apparenti) che il proprietario del fondo inferiore ha arbitrariamente ed illegittimamente chiuso con malta cementizia, avessero come unica finalità quella di assicurare una ben precisa utilitas al fondo dominante (quello superiore), rappresentata dall’esigenza di far defluire le acque piovane.
L’esistenza di tale situazione da più di un ventennio (si parla di fabbricato e relativi muri di recinzione e sostegno costruiti addirittura negli anni 1975/1985) non ha potuto che dare origine alla costituzione per usucapione di una servitù di scolo delle acque sul fondo inferiore, servitù della cui esistenza, peraltro, si ritiene che non possa sussistere alcuna difficoltà a darne prova in un eventuale giudizio.
Questa prima conclusione consente, dunque, di rispondere positivamente alla prima delle domande poste.

Passando adesso alla seconda domanda, può rispondersi dicendo che indubbiamente i fori di drenaggio vanno considerati come interventi di iniziativa dell’uomo. Ciò, tuttavia, non deve indurre a pensare che quella servitù non possa intendersi validamente costituita per usucapione, in quanto, come prima si è accennato, la norma di cui all’art. 913 c.c. non detta dei precetti imperativi, potendo la stessa essere derogata per volontà delle parti (a seguito di regolare costituzione di servitù volontaria), ma anche per il consolidarsi di una situazione di fatto, alla quale il titolare del fondo inferiore non ha reagito per un arco temporale così lungo da determinare il consolidamento della stessa in forza delle norme sull’usucapione dei diritti.
Inoltre, si tenga conto che, anche a voler ragionare su tale situazione in termini prettamente pratici, non può in alcun modo dirsi che la presenza di tali fori di drenaggio abbia potuto rendere più gravoso lo scolo delle acque, in contrasto con il divieto posto nell’ultima parte del secondo comma dello stesso art. 913 c.c.

L’esistenza di una valida servitù di scolo delle acque in favore del fondo superiore (e precisamente del fabbricato con relativi muri di recinzione e sostegno) rende indubbiamente illegittimo l’intervento di chiusura dei fori di drenaggio posto in essere dal proprietario del fondo sottostante, legittimando il proprietario del fondo superiore a diffidare formalmente il vicino per chiedere il ripristino del precedente stato luoghi al fine di consentire il normale flusso delle acque di scolo e l’eventuale risarcimento dei danni che da tale atto potrebbero nel frattempo conseguirne per l’eventuale verificarsi di fenomeni di ristagno e di umidità.

Qualora l’altra parte non intenda ottemperare volontariamente a tale richiesta, sarà indubbiamente necessario agire in giudizio per chiedere il ripristino dello stato dei luoghi.
Sarà nel corso di tale giudizio che occorrerà fornire prova dell’acquisto della servitù di scolo per usucapione, ma soprattutto occorrerà provare, con l’ausilio di una consulenza tecnica, che quei fori di drenaggio non hanno peggiorato la condizione del fondo servente e, quindi, integrato la violazione di cui al secondo comma dell’art. 913 c.c.
Va evidenziato che quest’ultimo tipo di prova, purtroppo, avrà un ruolo determinante nella decisione che il giudice andrà ad adottare, in quanto in ordine a tale profilo si rinviene un precedente della Corte di Cassazione (e precisamente Cass. Sez. II n. 21320 del 15.10.2010) in cui la S.C. afferma espressamente che praticare dei fori di drenaggio nel muro di sostegno che separa il proprio immobile da altra proprietà, al fine di prevenire fenomeni di ristagno e di umidità, può essere considerata un’opera abusiva, in quanto potrebbe aver peggiorato la condizione del fondo servente e, quindi, aver integrato la violazione di cui all’art. 913 c.c.


Germano C. chiede
martedì 14/11/2017 - Veneto
“Buonasera, sono proprietario di un piccolo terreno su un vasto comprensorio dove il fossato di bonifica delle acque di tutta la zona confina per un piccolo lato con la mia proprietà confinate a valle con un terreno demaniale. La terra del demanio confina con una strada pubblica comunale. Sul lato opposto della strada comunale pochi giorni fa c'è stata una frana che ha reso instabile la strada pubblica. Il Comune ha inviato solo a me e al mio confinate una lettera dove ci chiede di sistemare la strada pubblica perché le acque di scolo delle terre superiori hanno danneggiato la tombinatura e ci avvertono che se non sistemiamo la frana e la tombinatura che non è nostra ma passa sotto la strada del Comune eventuali danni a persone e a cose le avremo in carico solo noi due. Io non confino nemmeno con la pubblica via e vi chiedo ma in questo caso non è il Comune che deve sistemare la frana sotto la sua strada e nel suo ciglio? Grazie per eventuali informazioni e riferimenti di sentenze.”
Consulenza legale i 22/11/2017
Dalla lettura dei fatti riportati nel quesito non emerge quale sia stata l’effettiva causa della frana che avrebbe danneggiato la tombinatura che passa sotto la strada comunale (anzi, parrebbe che detta tombinatura -secondo quanto riferito- sia stata addirittura danneggiata da mezzi pesanti).
La lettera di diffida inviata dal comune fa supporre che tale frana sia stata dovuta allo scolo delle terre superiori tra le quali rientrerebbe quella di proprietà di chi ha posto il quesito.
Dalla mappa successivamente trasmessa e dagli ulteriori chiarimenti forniti, si evince che detto scolo delle acque si realizza mediante un lungo fossato che parrebbe servire una vasta zona comprensiva di case e terreni di diversi proprietari (tra cui quello dell’utente che ha posto il quesito).
Se così stanno le cose, dobbiamo innanzitutto ritenere applicabile la disciplina di cui all’art. 897 del codice civile secondo cui il fosso si presume comune.
Precisato ciò, occorre far riferimento anche alla fattispecie prevista dall’art. 913 del codice civile secondo cui il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo.
Se dunque ipotizziamo che la frana sia stata conseguenza del naturale scolo delle acque (magari intensificato in occasione di un evento naturale quale una forte pioggia) nessuna pretesa risarcitoria potrebbe essere avanzata dal Comune (anche ammesso e non concesso che sia stata la frana a danneggiare la tombinatura).

Ad ogni modo, secondo quanto riportato nel quesito parrebbe che il Comune non abbia minacciato alcuna azione risarcitoria per i danni subiti alla strada ma abbia soltanto diffidato il privato a sistemare la tombinatura danneggiata, facendo presente che in mancanza di tale sistemazione eventuali danni a terzi saranno a carico del privato: una tale richiesta del Comune appare priva di fondamento.

Infatti, l’intervento di manutenzione della tombinatura (a prescindere dalla causa del suo danneggiamento) in ogni caso va eseguito dal Comune quale ente proprietario della strada (nel quesito è specificato infatti che si tratta di strada pubblica). Ciò è espressamente previsto dal Codice della Strada (D.Lgs 285/1992) che all’articolo 14 comma 1 lettera a dispone che: “Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi.
Quello che semmai potrebbe essere a carico del privato proprietario del terreno è la manutenzione del fondo per impedire eventuali frane, così come disposto dall’art. 31 del Codice della Strada: “i proprietari devono mantenere le ripe dei fondi laterali alle strade, sia a valle che a monte delle medesime, in stato tale da impedire franamenti o cedimenti del corpo stradale”. Tuttavia, poiché nel caso in esame non risulta che il Comune abbia elevato alcuna sanzione amministrativa per la violazione di tale norma, tale profilo di responsabilità si ritiene possa essere escluso.
Inoltre, eventuali danni a cose o persone che si trovino a passare sulla strada pubblica andrebbero risarciti dall’ente proprietario della strada medesima sul quale grava l’obbligo di custodia (il Comune, nel nostro caso).
A tal proposito, la giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata nel ritenere applicarsi la disciplina di cui all’art. 2051 c.c. e quindi “l'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse in modo immanente alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, indipendentemente dalla sua estensione, salvo che dia la prova che l'evento dannoso era imprevedibile e non tempestivamente evitabile o segnalabile ( Cass., Sez. III Civ., sentenza 12.04.2013 n. 8935)".
Ciò significa che il Comune andrebbe esente da responsabilità solo nel caso provi il caso fortuito (che sicuramente non sussisterebbe nel caso esposto nel quesito dato che l’ente pubblico è ben a conoscenza della attuale situazione della tombinatura presente sotto la strada pubblica, tanto che ha inviato una lettera di diffida). Ancor più nello specifico, in un’altra precedente pronuncia (n.15720 del 2011) la Suprema Corte ha stabilito che l’ente proprietario della strada (l’Anas, nel caso della sentenza) è responsabile anche per i danni provocati da una frana prevedibile proveniente da terreno privato.
Analogo principio è stato ribadito nella sentenza della Cassazione n.17095 del 2014.

Alla luce di ciò, laddove chi ha posto il quesito intenda replicare alle richieste avanzate dal Comune nella lettera di diffida, suggeriamo di puntualizzare che:
1) la manutenzione della tombinatura spetta all’ente proprietario della strada ai sensi dell’art.14 del Codice della Strada;
2) eventuali danni a terzi derivanti da omessa manutenzione della tombinatura presente sotto la strada pubblica vanno risarciti dall’ente proprietario della strada in quanto custode ai sensi dell’art. 2051 c.c.;
3) la frana in ogni caso non è dovuta ad omissioni e/o azioni di intervento da parte del privato proprietario del terreno né risulta, in ogni caso, che la tombinatura sia stata danneggiata a seguito della frana.


Anonimo chiede
sabato 06/05/2017 - Toscana
“Salve, sono proprietario di un appartamento al 1 ed ultimo piano di una casa situata nel centro storico di un piccolo paese. Al piano sottostante si trova un magazzino ed un altro appartamento (un tempo magazzino anche lui, ma circa 10 anni fa è stato trasformato in civile abitazione). Su una facciata è montato uno stenditoio da più di 60 anni. La casa si affaccia su una piccola strada comunale (secondaria) percorribile solo a piedi. In pratica lo stillicidio dei panni avviene sulla strada pubblica e in una sua porzione le gocciole passano davanti alla porta d'ingresso dell'appartamento sottostante che ripete non vanno a cascare su una proprietà del suddetto inquilino ma sulla strada comunale. Non c'è nessun regolamento comunale che ne vieta l'installazione ed infatti la via ne è piena. Non essendo propriamente un condominio (anche se stiamo sotto lo stesso tetto) non c'è nessun regolamento.
Posso continuare ad utilizzare questo stenditoio o lo devo rimuovere?”
Consulenza legale i 12/05/2017
Preliminarmente va chiarito che la facciata dell’edificio appartiene anche al proprietario dell’abitazione al pian terreno, in quanto parte comune a più unità immobiliari.
Essendo un bene a tutti gli effetti comune, l’apposizione di uno stenditoio sulla facciata dell’immobile andrebbe concordata con gli altri proprietari, in quanto l’art. 1120 c.c. vieta ogni innovazione che vada ad alterare il decoro architettonico dell'edificio, a meno che non vi sia il consenso unanime dei proprietari.

Dal momento che però lo stenditoio è ivi presente da tempo immemore, si profilano due problematiche differenti:

1. La sussistenza di una servitù idonea a permettere al proprietario di stendere il bucato.
La servitù è un peso che grava su un fondo a vantaggio o per l’utilità di un altro fondo.
Ma la servitù può anche costituirsi su un bene comune garantendo, nonostante la comproprietà, un’utilità maggiore per un fondo piuttosto che per un altro.
Il diritto si costituisce in virtù di un titolo giudiziale, amministrativo o negoziale (contratto o testamento).

Nel caso specifico, il diritto di tenere le stenditoio e stendere il bucato può dirsi costituito per usucapione, in quanto è stato esercitato in maniera continuativa per più di 20 anni, pubblicamente e pacificamente (art. 1158 c.c.).

2. Il secondo problema invece attiene alla sussistenza di una servitù di stillicidio delle acque.
Ammesso che sia possibile stendere il bucato, resta da comprendere se sia stata acquisita per usucapione anche la servitù di stillicidio delle acque ove ciò sia possibile e/o necessario.
A tal proposito l’art. 1061 c.c. sancisce l’impossibilità di acquisto per usucapione, per quel che ivi interessa, di una servitù non apparente, definendo le servitù non apparenti quelle per le quali “non si hanno opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio”.
Esse cioè, per il loro esercizio non richiedono la presenza di opere percepibili all’esterno.
La ratio della norma è evidente e risiede nell’impossibilità di provare l’usucapione di una servitù quando non vi siano opere e/o segni visibili dell’esercizio continuato della stessa.

Orbene per l’esercizio del diritto di servitù di stillicidio dell’acqua non sussistono opere visibili a ciò destinate, non vi è quell’apparenza idonea a permetterne l’acquisizione per usucapione.
La Cassazione richiede infatti non la mera presenza di segni, ma la necessaria presenza di opere "obiettivamente destinate all'esercizio della servitù medesima, che rivelino, per la loro struttura e funzione, in maniera inequivoca, l'esistenza del peso gravante sul fondo servente" (ex pluribus Cass. n. 5759/2007; Cass. n. 21087/2006; Cass. n. 22290/2004).
La presenza dello stenditoio non è segno inequivoco dell’apparenza della servitù di stillicidio delle acque, i fili infatti confermano che ivi era possibile stendere il bucato e non anche che era possibile farlo grondare sulla pubblica via, come confermato anche dalla Suprema Corte nella pronuncia n.14547/2012.

Tuttavia, come già giustamente rilevato, nel caso specifico non sussiste neanche la necessità di ravvisare una servitù di stillicidio dell’acqua, in quanto il gocciolio va a cadere sulla pubblica via e non sul fondo altrui.
Non essendoci, dunque, alcuna immissione nel fondo altrui, il proprietario del fondo del pian terreno non potrà in alcun modo agire a tutela della sua posizione facendo difetto la lesione di un proprio diritto.

Ciò, però, non significa che sia buona norma civica sciorinare i panni proprio sull’ingresso del fondo al pian terreno, quando con piccole accortezze è possibile stendere il bucato ben strizzato oppure solamente sulla parte di stenditoio non proprio a ridosso dell’ingresso di casa altrui.
Infatti, molti regolamenti di polizia urbana vietano questo tipo di comportamenti e, se anche il comune in questione non ha previsto un tal divieto nella propria regolamentazione, lo stillicidio potrebbe sempre configurare un'ipotesi di reato per getto pericoloso di cose, in base all'art. 674 c.p. (cfr. Cass. 32233/2007 e Cass. 15189/2007).

In conclusione può sicuramente riposizionare lo stenditoio ove era prima della ristrutturazione ma, a parere di chi scrive, sarebbe opportuno evitare lo stillicidio dell'acqua sui passanti.

Alessandro B. chiede
mercoledì 20/07/2016 - Lazio
“SCOLO DELLE ACQUE PIOVANE
Allegati n. 1 (inviati via e-mail)

Vorrei avere il vostro parere in merito alla pretesa avanza dal mio confinante secondo cui le acque piovane provenienti dal mio fondo, posto a livello superiore, non colino più sul suo terreno posizionato ad un livello inferiore di circa 3 metri. Secondo il vicino dovrei fare delle opere necessarie a trattenere le acque piovane sul mio fondo e disperderle in altro modo.

Al riguardo, premetto quanto segue.
Fino agli anni 70, i 2 terreni in questione appartenevano allo stesso proprietario ed erano entrambi posti allo stesso livello di campagna. I terreni erano detenuti dal nonno del mio attuale vicino che (in accordo con il proprietario) li aveva adibiti ad orto e per gli altri usi che intendesse farne.
Nel corso degli anni 70, il proprietario ha venduto una delle due particelle al possessore (nonno del mio attuale vicino) il quale, per fini edificatori, ha eseguito lo sbancamento della particella acquistata per portarla a livello della via pubblica. In tal modo, è venuto a generarsi il dislivello ancor oggi esistente tra i 2 fondi di circa 3 metri. Il fondo superiore non è stato oggetto di cessione ma è continuato a rimanere nel possesso del nonno del mio vicino.
Il fabbricato costruito sul fondo inferiore (creato per opera di sbancamento) è stato eretto (per un lato) a confine con il fondo superiore (previo consenso del proprietario), di conseguenza parte del muro del fabbricato (circa 3 metri) rimane sotto il livello di campagna del fondo superiore.
Al fine di evitare ristagni d’acqua piovana in prossimità di detto muro gli avi del vicino, possessori del fondo superiore,:
? hanno pavimentato con mattoni di tufo una superficie di terreno di circa 10 mq adiacente al muro in questione al fine di evitare che l’acqua filtrando nel terreno danneggiasse il fabbricato ed una cantina a questo annessa sottostante la zona pavimentata;
? agevolato lo scolo dell’acqua piovana sul fondo inferiore attraverso un foro presente alla base di un muretto presente sul ciglio del dislivello tra fondo superiore e inferiore (situazione rappresentata in foto ove è possibile notare il muro del fabbricato eretto a confine alla cui sinistra è presente un muretto di recinzione in mattoni di tufo alto circa 50 cm. Alla base del muretto è visibile una fessura di circa 10 cm per lo scolo dell’acqua. La porta presente sul muro dava accesso al vicino al fondo superiore finché lo ha detenuto. Da quando il vicino ha perso la detenzione del fondo dinanzi alla porta stessa è stata posizionata una recinzione per evitare l’accesso al fondo che ora è di mia proprietà).
Nel corso degli anni 80, il fondo superiore è stato oggetto di causa civile tra il proprietario ed il possessore il quale trascorsi 20 anni ne ha chiesto l’acquisizione della proprietà per usucapione. Detta causa civile è stata definita nel 1998 con sentenza che ha accertato la fattispecie del comodato precario e reimmesso nel possesso del fondo superiore il legittimo proprietario.
Rientrato in possesso del terreno, il proprietario lo ha poi venduto al sottoscritto nel 2000.

Alla luce di quanto sopra, vorrei sapere:

1) il mio attuale vicino ha ragione a pretendere che le acque piovane provenienti dal fondo superiore (ora di mia proprietà) non scolino più sul suo fondo inferiore nonostante tale situazione sia stata creata, a suo tempo, da egli stesso (dai suoi avi)? Questi, infatti, hanno creato il dislivello e provveduto (quando detenevano il fondo superiore) a far scolare l’acqua dal fondo superiore a quello inferiore nel loro preciso interesse di evitare ristagni d’acqua. Da quando sono divenuto proprietario del fondo superiore non ho mai fatto alcun intervento tale da aggravare tale scolo. Peraltro, se il regolare deflusso delle acque piovane è diretto interesse del mio vicino (evitare ristagni d’acqua a danno del suo fabbricato costruito a ridosso del confine) perché non dovrebbe sopportarne l’onere di ricevere lo scolo dell’acqua?

2) Potrei essere ritenuto responsabile dei danni eventualmente subiti dal fabbricato del vicino eretto sul confine e della annessa cantina sottostante il mio terreno in caso di infiltrazioni d’acqua anche se io non ho mai apportato modifiche allo stato dei luoghi? Io ritengo di no in quanto se il vicino ha eretto il proprio fabbricato a confine col fondo superiore, realizzato una cantina sotto tale fondo e creato una pavimentazione sopra questa dovrebbe sopportarne anche i relativi rischi soprattutto alla luce del fatto che trattasi di un luogo all’aperto e come tale esposto a tutti gli agenti atmosferici.

Cordialità

Consulenza legale i 03/08/2016
Quanto pretende il vicino proprietario del fondo inferiore è contrario alla legge e non può essere realizzato.

La norma di riferimento è l’art. 913 c.c., che così recita al primo comma (quello che qui più interessa): “Il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo.
Il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo, né il proprietario del fondo superiore può renderlo più gravoso”.

Si tratta di norma volta a disciplinare lo scolo delle acque piovane, in particolare, e si applica sia ai fondi rurali che ai fondi urbani, anche se non contigui.

La norma impone ai proprietari un non fare, il cui contenuto, nel rispetto della naturale configurazione del terreno, consiste nel divieto, per i proprietari dei fondi inferiore e superiore, di apportare modifiche allo stato dei luoghi con opere e manufatti che (non connesse ad opere di sistemazione o trasformazione agraria) modifichino, direttamente o indirettamente, lo scolo delle acque, rendendolo più gravoso o ostacolandolo.

Afferma in merito al Cassazione: “L'art. 913 c.c. pone a carico dei proprietari, sia del fondo superiore che del fondo inferiore, un obbligo di non fare, vietando ad essi ogni alterazione che abbia per effetto quello di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle” (Cassazione civile, sez. II, 15/06/2011, n. 13097).

Si tenga presente, ancora, che la norma riguarda solo le acque piovane ed il loro deflusso naturale; per cui afferma la giurisprudenza “Ai sensi degli art. 908 e 913 del codice civile, salvo diverse ed espresse previsioni contrattuali, il fondo inferiore non può essere assoggettato allo scolo di acque diverse da quelle che defluiscono dal fondo superiore secondo l’assetto naturale dei luoghi, non essendo legittimo lo stillicidio delle acque piovane, né lo scolo delle acque derivante dall’esercizio di attività umane in grado di incidere, quantitativamente e per intensità, sul deflusso naturale, salva l’eccezione di cui all’art. 913, ultimo comma, del codice civile.” (Tribunale Salerno, sez. II, 12/05/2014, n. 2376).

Si ritiene che la regola posta dall’art. 913 c.c. trovi applicazione solamente in caso di aggravamento della situazione anteriore: la giurisprudenza di legittimità ha precisato in merito che “la disposizione trova applicazione soltanto allorché il deflusso avvenga naturalmente mentre, qualora sia intervenuta l'opera dell'uomo, è necessario stabilire se essa abbia aggravato, quanto a scolo delle acque, la situazione del fondo inferiore quale era precedentemente all'opera stessa, tenendo altresì conto al servizio di quale fondo detta opera sia stata costruita” (Cass. 12 settembre 2002 n. 13301; Cass. 28 febbraio 1984 n. 1428).

Al proprietario del fondo inferiore è in ogni caso consentito eseguire opere idonee a rendere meno gravoso lo scolo, purché tali opere non ostacolino e non alterino il normale deflusso delle acque o la deviazione di queste verso altri fondi.

Per tornare al quesito posto, la Cassazione ha affermato, in caso analogo a quello in esame, che “Praticare dei fori di drenaggio nel muro di sostegno che separa il proprio immobile da altra proprietà, al fine di prevenire fenomeni di ristagno e di umidità, può essere considerata un’opera "abusiva", in quanto potrebbe aver peggiorato la condizione del fondo servente e, quindi, aver integrato la violazione di cui all'art. 913 del c.c. ("Scolo delle acque").” Ed in motivazione ha precisato che “trattasi senza alcun dubbio di opera umana, volta a far defluire le acque meteoriche in modo diverso da quello in cui le stesse scorrerebbero naturalmente, non esistendo tali fori in via originaria” (Cassazione civile, sez. II, 15/10/2010, n. 21320).

I commentatori ritengono che l’azione per impedire l’aggravamento della situazione di soggezione allo scolo di acque da fondo altrui abbia natura di azione “negatoria”, che è un’azione a tutela del proprietario per far accertare l’inesistenza di pretesi diritti altrui sul bene o far cessare eventuali turbative o molestie in pregiudizio del suo diritto di proprietà. Trattasi di azione imprescrittibile che, a rigore, può esercitare anche l’attuale proprietario nonostante i fatti siano accaduti tempo addietro (proprio perché si tratta di azione a tutela non del proprietario/persona ma della proprietà in astratto del bene).

Nel caso concreto che ci occupa, tuttavia, da quel che è dato di evincere dal quesito, non si ravvisano i presupposti per un’azione di questo genere in forza dell’art. 913 c.c.: essa richiede, infatti, l’esistenza di una “molestia” o comunque dell’affermazione di un preteso diritto da parte di altri sulla cosa: il vicino che agisce in giudizio sarebbe, quindi, tenuto a provare l’affermazione del diritto da parte del proprietario del fondo superiore che, tuttavia, nel caso di specie, non afferma e non pretende alcunché.

In buona sostanza, pare a chi scrive che non esista alcun valido fondamento giuridico per le pretese del vicino, dal momento che si tratta, nella fattispecie, di acque piovane che scolano sul fondo inferiore senza che il proprietario del fondo superiore abbia posto in essere opere o manufatti che abbiano aggravato la situazione esistente ormai da decine di anni.
Il normale deflusso delle acque dal fondo superiore a quello inferiore deve essere non solo tollerato, ma garantito in forza dell’art. 913 c.c., che vieta solo l’aggravamento della situazione di fatto per intervento dell’uomo.

Diverso è il caso, per rispondere alla seconda domanda, in cui si verifichino in futuro dei danni da infiltrazioni di acqua, ipotesi che esula dall’ambito di applicazione dell’art. 913 c.c.. Infatti, in questo caso, potrebbero in effetti ravvisarsi delle diverse responsabilità a carico del proprietario del fondo superiore.
Ad esempio, potrebbe sussistere una responsabilità per negligenza del proprietario del fondo superiore, il quale abbia omesso di adottare tutte le misure necessarie per evitare che si producano danni nel fondo del vicino. Questo tipo di responsabilità può sorgere ai sensi dell’art. 2051 c.c., in forza del quale chi ha la custodia di un bene (mobile o immobile, come un terreno), risponde dei danni da questo causati a terzi, salvo che possa provare che il pregiudizio si sia prodotto per un caso fortuito. Al contrario del diritto sancito dall'art. 913, questa è una responsabilità eventuale.

In ogni caso, proprio perché si tratta di forme di responsabilità del tutto eventuali, chi agisce in giudizio dovrà fornire la rigorosa prova non solo del danno ma anche della condotta a suo dire negligente o comunque fonte di responsabilità, nonché del nesso causale tra la condotta e l’evento dannoso.

Roberto M. chiede
lunedì 18/07/2016 - Piemonte
“Buongiorno. Sono proprietario di un fondo dominante composto da una porzione di collina coltivata a prato. A dividere la proprietà verso un vicino sottostante un muro di proprietà comune. Attaccato a questo muro il vicino ha realizzato muri contro terra e terrazzi dai quali il deflusso delle acque (piovane?) forma delle piccole incrostazioni di sali. Egli sostiene che noi si debba provvedere con opere a nostro carico (pozzi artesiani per convogliare eventuali falde sotterranee in fognatura) per eliminare l'inconveniente. Mi pare una richiesta bizzarra : cosa posso rispondergli ? grazie dell'attenzione.”
Consulenza legale i 05/08/2016
Nel caso di specie non parrebbe trovare applicazione l’art.913 c.c. posto che si tratta di acque che sono state convogliate artificialmente dal proprietario del fondo vicino, mentre l’art. 913 c.c. parla espressamente di acque che “scolano naturalmente”. Non parrebbe (salvo ulteriori informazioni) che vi sia un dislivello tra i due fondi, ciò che farebbe pensare ad una turbativa della proprietà.

La Cassazione si è pronunciata sul punto: “l'art. 913 c.c. pone a carico dei proprietari, sia del fondo superiore che del fondo inferiore, un obbligo di non fare, vietando ad essi ogni alterazione che abbia per effetto quello di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle” (C. Cass., sent. n. 13097/2011). In altre parole, applicando la massima al caso di specie, il proprietario del fondo vicino ha di fatto reso più gravoso il naturale deflusso delle acque, andando a compiere innovazioni sulla parte di sua proprietà esclusiva (con terrazze e muri a terra).

Non si vede, dunque, perché il condomino del muro comune debba gravarsi dell'onere di compiere ulteriori innovazioni per ripristinare lo stato dei luoghi: spetta al vicino compiere le opere necessarie al fine di evitare qualsivoglia turbativa nel godimento del possesso e della proprietà.

Si potrebbe addirittura azzardare un’azione di manutenzione ai sensi dell’art. 1170 c.c., ma naturalmente è sempre auspicabile una risoluzione della controversia in modo amichevole e stragiudiziale.

Marco S. chiede
lunedì 11/04/2016 - Sardegna
“Buon giorno, sono proprietario di una casa costruita su un terreno in pendenza verso la proprietà del mio confinante. Quando è stata costruita la casa si è provveduto, in accordo col confinante, anche alla costruzione del muro che separa le due proprietà.Proprio sul confine esistevano e sono state lasciate due piante di ulivo, pertanto tra il muro e le piante rimane dello spazio sufficiente a far defluire l'acqua piovana e fino ad oggi non c'è stato alcun inconveniente al riguardo. Ora mi sono accorto che negli spazi tra il muro e le piante è cresciuta una quantità di germogli che continuando a crescere e ad ingrossarsi potrebbero impedire il deflusso dell'acqua in caso di piogge particolarmente abbondanti, e poiché questi germogli sono cresciuti più dal lato del mio vicino, chiedo se posso obbligarlo a rimuoverli o se posso eventualmente provvedere io stesso dopo aver rimosso la rete frangivista da me messa per motivi di privacy. In alternativa potrei aprire nella parte bassa del muro un varco sufficiente al deflusso dell'acqua? Preciso che l'acqua delle grondaie scarica completamente verso la strada e che il mio passo carraio è in lastre di cemento per cui l'acqua che vi cade scorre tutta senza essere in parte assorbita dal terreno.
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 18/04/2016
Il caso di specie sembra essere riconducibile all'art. 913 del c.c., il quale stabilisce che:
"[I]. Il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo.
[II]. Il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo, né il proprietario del fondo superiore può renderlo più gravoso.
[III]. Se per opere di sistemazione agraria dell'uno o dell'altro fondo si rende necessaria una modificazione del deflusso naturale delle acque, è dovuta un'indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio".
Ai sensi di tale norma, il proprietario del fondo inferiore deve necessariamente consentire lo scolo delle acque provenienti dal fondo superiore secondo lo stato naturale dei luoghi, come confermato dalla Giurisprudenza: "ai sensi degli art. 908 e 913 del codice civile, salvo diverse ed espresse previsioni contrattuali, il fondo inferiore non può essere assoggettato allo scolo di acque diverse da quelle che defluiscono dal fondo superiore secondo l'assetto naturale dei luoghi, non essendo legittimo lo stillicidio delle acque piovane, né lo scolo delle acque derivante dall’esercizio di attività umane in grado di incidere, quantitativamente e per intensità, sul deflusso naturale, salva l’eccezione di cui all’art. 913, ultimo comma, del codice civile" (cfr. Tribunale Salerno, Sez. II, 12 maggio 2014, n. 2376).
Con riferimento al caso posto alla nostra attenzione, non sembra rilevare il fatto che sul fondo superiore siano state realizzate le grondaie e vi sia un passo carrabile in cemento: viene infatti precisato che l'acqua, dalle grondaie e dal passo carrabile, va a defluire direttamente verso la strada.
Pertanto, l'art. 913, comma 2, primo periodo, del c.c. stabilisce espressamente che il proprietario del fondo inferiore non può impedire lo scolo dell'acqua derivante dal fondo superiore.
Più in generale: "l'art. 913 c.c. pone a carico dei proprietari, sia del fondo superiore che del fondo inferiore, un obbligo di non fare, vietando ad essi ogni alterazione che abbia per effetto quello di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle" (cfr. Cassazione civile, Sez. II, 15 giugno 2011, n. 13097).
Pertanto, poiché nel caso di specie, l'ostacolo allo scolo sarebbe costituito dal mancato sfalcio della striscia posta tra il muro e le piante, si ritiene opportuno che il proprietario del fondo superiore inviti bonariamente il vicino a provvedere alla pulizia del terreno (alla luce dello specifico obbligo previsto dall'art. 913, comma 2, primo periodo, del c.c.).
Laddove il vicino, per qualunque ragione, non provvedesse alla pulizia del terreno, sempre al fine dei evitare il rimedio giudiziale - data la modestia della questione - tramite suo accordo (ovviamente, trattandosi di germogli nati sulla sua proprietà), ci si potrebbe offrire di provvedere alla pulizia in sua vece.
Per quanto riguarda la proposta di aprire un varco nella parte bassa del muro in modo da favorire il deflusso dell'acqua, si ritiene di rispondere negativamente poiché la Giurisprudenza sul punto ha chiaramente affermato che "praticare dei fori di drenaggio nel muro di sostegno che separa il proprio immobile da altra proprietà, al fine di prevenire fenomeni di ristagno e di umidità, può essere considerata un’opera "abusiva", in quanto potrebbe aver peggiorato la condizione del fondo servente e, quindi, aver integrato la violazione di cui all'art. 913 del c.c." (cfr. Cassazione Civile, Sez. II, 15 ottobre 2010, n. 21320).
Laddove il proprietario del fondo servente dovesse rimanere inerte rispetto al suo obbligo di provvedere alla cura della striscia di terreno in cui deve scorrere l'acqua, oppure dovesse opporsi alla pulizia effettuata dal vicino, residua il seguente rimedio giudiziale, a disposizione del proprietario del fondo superiore: azione di manutenzione (art. 1170 del c.c.), volta alla cessazione della turbativa del possesso di un immobile, che, però, può essere intrapresa solo entro l'anno dall'inizio della turbativa (intesa come impedimento dello scolo delle acque).
Inoltre, il proprietario del fondo superiore potrebbe agire con azione di danno temuto, ai sensi dell'art.1172 del c.c., in quanto ha ragione di temere che da cosa presente sul fondo vicino possa derivare pericolo di un danno grave e prossimo all'oggetto del suo diritto: il giudice, accertato il pericolo, comanderà di assumere idonei provvedimenti al fine di ovviarvi, disponendo, se del caso, idonea garanzia per gli eventuali danni che potrebbe verificarsi.
In via residuale (se le due azioni sopra indicate non fossero esperibili per decadenza o per altre ragioni), si potrà sempre chiedere al giudice competente l'emissione di un provvedimento cautelare d'urgenza ex art. 700 del c.p.c., con domanda di inibitoria del comportamento illecito del vicino.

Enzo M. chiede
giovedì 09/04/2015 - Emilia-Romagna
“Sono proprietario di un fondo censito in parte a bosco ceduo ed in parte a seminativo (ma non coltivato sui cui negli anni sono sorti spontaneamente arbusti ed alberi in genere acacie). Il bosco anch'esso non è mai stato curato e vi si trovano principalmente acacie. Il terreno è collinare e confina con un fondo inferiore coltivato. Tra le due aree sorge un fosso scavato dal proprietario del fondo inferiore precedentemente all'acquisto da parte dell'attuale. Il fosso serve a raccogliere le acque che scendono a valle e che specie in questi ultimi anni di abbondanti precipitazioni trasportano anche altri materiali principalmente terra . nel fosso sono sorti spontaneamente molti arbusti, in alcune zone si sono verificati piccoli smottamenti di terreno e il tutto rende difficoltosa la raccolta delle acque ed il suo deflusso.
Il fosso si presume sia il confine in quanto sia io che il proprietario del fondo inferiore non siamo a conoscenza dei reali confini.
In questa situazione il proprietario del fondo inf. mi ha chiesto di sostenere a mie spese la pulizia delle zone confinanti per circa 3 mt del fosso e dopo discussione di ripartire al 50% il rifacimento del fosso. Mi ha inoltre chiesto di effettuare opere che servano a convogliare le acque di discesa in modo che centrino esattamente il fosso (in pratica credo tagli nel terreno che raccolgano le acque convogliandole insieme) e mi ha avvisato che eventuali frane ed allagamenti saranno perseguiti secondo il disposto del codice penale..
Io sarei anche d'accordo sui lavori e sulla ripartizione dei costi ma mi sembra che non abbia alcun obbligo secondo il codice civile a effettuare lavori nel fondo per convogliare le acque e responsabilità in caso di frane ed allagamenti.
nel frattempo abbiamo chiesto di comune accordo di fare verificare l'effettivo posizionamento dei confini.
La mia domanda è quindi:
a) E corretta la ripartizione dei costi e il mio rifiuto di fare lavori per la raccolta delle acque e responsabilità in caso di frana?
b) Come ci si dovrebbe comportare nel caso i confini siano all'interno del fondo superiore o di quello inferiore”
Consulenza legale i 13/04/2015
Nella vicenda esposta vi sono due fondi, l'uno posto a livello inferiore rispetto all'altro, per naturale conformazione del terreno. Naturalmente, per dare una risposta precisa, sarebbe necessario visionare i luoghi ed esaminare l'eventuale documentazione correlata.
In ogni caso, è possibile ritenere in via generale che si debba applicare l'art. 913 c.c., il quale sancisce un limite legale della proprietà, nell'interesse privato: difatti, si stabilisce che il fondo inferiore sia soggetto a ricevere le acque che scolano naturalmente dal fondo più elevato, in assenza di opere umane che agevolino o indirizzino lo scolo.

La norma prevede, però, che in caso di necessità agrarie, se si rende indispensabile una modificazione del deflusso naturale delle acque, possono essere realizzate delle opere che mutano il normale scolo, essendo tuttavia dovuta un'indennità al proprietario del fondo cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio.

Ciò significa che, nel caso di specie, - per rispondere alla prima domanda posta nel quesito - il proprietario del fondo inferiore ha diritto a far realizzare opere sul fondo superiore se esse servono per scopi agrari connessi alla migliore coltivazione del terreno: tuttavia, poiché il titolare del diritto previsto dal terzo comma dell'art. 913 provoca un pregiudizio al suo vicino (che deve mutare lo stato del suo fondo con opere di scavo, sradicamento alberi, etc.), questi ha diritto ad essere indennizzato per tutti i disagi che subisce. In altre parole, i costi delle opere dovrebbero essere sostenuti da chi se ne avvantaggia ed inoltre andrebbe pagato un indennizzo, se si crea pregiudizio al proprietario del fondo superiore.

Fa da contraltare al diritto di indennizzo, l'eventuale responsabilità che potrebbe essere ravvisata nella condotta negligente del proprietario del fondo superiore, il quale ometta di adottare tutte le misure necessarie per evitare che si producano danni nel fondo del vicino. Questo tipo di responsabilità può sorgere ai sensi dell'art. 2051 del c.c., in quanto chi ha la custodia di un bene (mobile o immobile, come un terreno), risponde dei danni da questo causati a terzi, salvo che possa provare che il pregiudizio si sia prodotto per un caso fortuito. Al contrario del diritto sancito dall'art. 913, questa è una responsabilità eventuale, che si può ipotizzare solo in caso di possibile frana o allagamento del fondo inferiore.

Alla luce di questi ragionamenti, in un'ottica conciliativa, sembra opportuno che anche il proprietario del fondo superiore partecipi alle spese per le opere di "contenimento" delle acque che scolano naturalmente nel fondo inferiore: si è usato il termine "opportunità", in quanto si ritiene che non vi sia un vero e proprio obbligo, bensì sia consigliabile "prevenire" eventuali responsabilità che potrebbero ipoteticamente prodursi in capo a chi ometta di conservare un suo bene in modo che questo non crei danni ad altri.

Quanto alla seconda domanda, se il confine tra le due proprietà sarà individuato all'interno del fondo inferiore o superiore, di fatto non riteniamo cambierebbe la risposta già data in ordine alle opere che si dovrebbero realizzare sul fondo superiore per consentire un flusso delle acque congruo all'utilizzo agrario del fondo inferiore.
Cambierebbe, invece, la ripartizione delle spese per la pulizia del fosso: se esso fosse situato all'interno del fondo inferiore, in generale non v'è ragione - quantomeno in base ai dati forniti nel quesito - per cui alla spesa debba partecipare anche il proprietario del fondo superiore; al contrario, se esso fosse ricompreso nel fondo superiore, le spese dovrebbero essere ripartite fra il proprietario di quel fondo (che risulterebbe custode del fosso, e quindi potenzialmente soggetto alla responsabilità ex art. 2051 c.c.) e il proprietario del fondo inferiore, nella misura in cui le opere risultino necessarie a lui per convogliare le acque in modo diverso rispetto al flusso naturale, quando ciò sia necessario per esigenze agricole. Va anche ricordato che in questo secondo caso graverebbe sul proprietario del fondo superiore l'obbligo di cui al secondo comma dell'art. 913, per cui egli non potrebbe rendere lo scolo naturale delle acque in qualche modo più gravoso (ad esempio, omettendo di pulire il fosso posto sulla sua proprietà).

Massimo M. chiede
martedì 18/11/2014 - Liguria
“La mia abitazione è posta nella parte più bassa del paese, premettendo che non esistono tombini per la raccolta delle acque piovane, tutta la pioggia arriva nella mia proprietà. Io ho provveduto per la maggior parte a costruire grate e tubi di scarico verso il torrente per impedire che la suddetta gravasse sul mio terreno che essendo situato sulla confluenza di due torrenti è sottoposto ad erosione nella parte a valle. Ora, a seguito dei fenomeni alluvionali avvenuti a Genova negli ultimi mesi, l' enorme massa d'acqua scesa a valle non è riuscita a defluire completamente attraverso i sistemi di raccolta da me costruiti e si è riversata nel mio terreno causando una frana di grosse dimensioni proprio sotto la mia abitazione che per fortuna avevo provveduto a consolidare con delle opere di palificazioni. Ad ora mi trovo a dover costruire altre opere per impedire che questo cedimento del terreno vada a indebolire i muri di contenimento della mia casa. Ma in questo caso è solo a mio carico la spesa, visto che da parte delle autorità competenti non è stato fatto nulla, sia per raccogliere le acque piovane a monte né quelle a valle dei due torrenti? Grazie”
Consulenza legale i 21/11/2014
Nel caso esposto si deve indagare innanzitutto l'origine dell'allagamento subito dal cittadino. Dai fatti descritti nel quesito, emerge che l'evento dannoso (frana) è stato causato dalla grande quantità di acque piovane riversate sul suo terreno per la conformazione dei luoghi - la sua proprietà è, infatti, posta a valle.
Tuttavia, anche se egli è tenuto a ricevere le acque che naturalmente scolano dal fondo superiore (art. 913 del c.c.), nel caso di specie si configura un'ipotesi di eccezionale gravità. Il danno subito è stato certamente causato - o con-causato - da uno scarso, o meglio inesistente, sistema di drenaggio delle acque relativo alle strade comunali che conducono al suo fondo (solo per semplicità, assumeremo che la strada interessata sia di proprietà del Comune, in quanto anche se essa fosse, ad esempio, provinciale, varrebbe il medesimo ragionamento).

Pertanto, si può ravvisare una responsabilità ex art. 2051 del c.c. del Comune per il danno cagionato da cosa in sua custodia (strada e sistema idrico-fognario). Difatti, l'ente pubblico è tenuto, sulle strade di sua proprietà, ad eseguire le opere per garantire un adeguato convogliamento delle acque piovane provenienti da quote superiori. Se non lo fa, esso sarà tenuto, in qualità di custode, a rispondere dei danni che siano eziologicamente collegati alla cosa, salva la prova del caso fortuito.

E' possibile quindi ipotizzare una causa di risarcimento danni nei confronti del Comune interessato, che può essere fatta precedere da un procedimento di istruzione preventiva come l'accertamento tecnico preventivo (art. 696 del c.p.c.) al fine di ottenere in contraddittorio con l'ente una perizia che accerti la causa dei danni alla proprietà del cittadino e la loro entità.
Nell'eventuale futuro giudizio contro il Comune, il cittadino sarà tenuto a provare solamente che la strada era di proprietà del Comune e che sono stati omessi tutti gli accorgimenti necessari ad evitare danni da allagamento, per la mancanza di tombini e per ogni altra ragione che potrà essere riscontrata nel caso concreto: dovrà poi dimostrare, esponendo i fatti, che vi è un collegamento (in gergo tecnico: un nesso di causalità) tra l'omessa manutenzione della strada e il danno subito.
Dal canto suo, il Comune potrà difendersi esclusivamente dando la c.d. "prova liberatoria" del caso fortuito: l'ente dovrà cioè provare che l'eccezionalità ed imprevedibilità dei fenomeni atmosferici è stata l'unica ed esclusiva causa dei danni subiti dal cittadino.

Sul tema si possono richiamare alcuni precedenti giurisprudenziali, in cui si evince come i giudici abbiano spesso riscontrato la responsabilità dell'ente pubblico per danni simili a quelli descritti nel quesito, anche in occorrenza di fenomeni naturali piuttosto intensi.
Naturalmente, ogni caso è a sé e il giudice di merito chiamato a decidere la controversia dovrà valutare le prove offerte in concreto dalle parti, relative alla specifica situazione sottoposta all'esame dell'autorità giudiziaria.
Vediamo comunque, ad esempio, Corte App. di Brescia, sentenza 16.3.2010, che ha affermato: “l’addensamento, pur di grande violenza, dell’acqua piovana misto a detriti lungo l’area antistante il locale danneggiato ed il successivo allagamento costituivano un fatto prevedibile e tempestivamente eliminabile mediante l’adeguamento delle opere pubbliche secondo le corrette norme tecniche, onde impedire lesioni dell’altrui proprietà”.
Cass. civ., sentenza del 6.2.2007, n. 2566, ha statuito che "nei confronti dei cittadini l’amministrazione era tenuta comunque all'osservanza del divieto di neminem laedere, che di per sé implica l'obbligo di adottare, nella costruzione delle strade pubbliche gli accorgimenti ed i ripari necessari per evitare che, dalla strada, le acque che nella medesima si raccolgono o che sulla stessa sono convogliate [...] possano defluire in modo anomalo nei fondi confinanti, così impedendo di arrecare loro un danno ingiusto".
Con sentenza del 9 febbraio 2011 il Tribunale di Bari ha affermato la responsabilità di un'amministrazione comunale per i danni prodotti da un allagamento verificatosi presso trentotto locali box di proprietà dell'attore, a causa dell'assenza della rete fognaria per la raccolta delle acque bianche pluviali.
In una decisione recente (Cass. civ. sez. III, 4.1.2010, n. 7), la Corte di cassazione ha condannato un comune a risarcire i danni subiti da due coniugi a causa dell'allagamento di una strada privata, ma destinata a pubblico transito, ribadendo un orientamento in base al quale il comune risponde anche della manutenzione di strade private a uso pubblico (cfr. Cass. n. 3387/1979; Cass. n. 191/1996).

Si consiglia, in ogni caso, di far precedere ad ogni azione giudiziale un tentativo di risoluzione bonaria della controversia: per far questo, si dovrà prendere contatto con il competente ufficio del Comune, esponendo i fatti e l'intenzione di essere risarciti. Ciò, anche al fine di ottenere una sistemazione definitiva dell'impianto di drenaggio delle acque piovane, utile per possibili calamità future.

PIETRO V. chiede
giovedì 02/10/2014 - Puglia
“In un condominio formato da 8 ville e tre terreni disposti lungo una strada in terra battuta forma di " T ", quella rappresentata dal tratto verticale, lunga 200 mt. e larga 7 mt., terminante con un muretto in pietra alto 70 cm., oltre il quale c'è un terreno più basso della ns. strada di circa 1 mt., e con una villa a 250 mt. dal ns. confine. Questa strada, su cui si affacciano, sia a sin. che a destra, 5 ville e due terreni, ha una pendenza del 10-15% verso il fondo servente; poiché per il deflusso delle acque piovane ha bisogno di frequenti manutenzioni per l'erosione che esse provocano, avremmo pensato di asfaltarla. Sicuramente le acque arriveranno più copiose nel fondo sottostante anche se c'è il muretto in pietra al confine. Vi domando quindi: il proprietario del fondo servente avrà nulla da eccepire? Devo sottoporvi un altro quesito: alla spesa per i lavori da farsi devono partecipare anche gli altri condomini (3 ville + 1 terreno) che hanno la proprietà sulla strada rappresentata dalla linea orizzontale della " T " ? O partecipano solo quelli che insistono sulla strada da asfaltare? L'ingresso del condominio si trova a sinistra della tratto orizzontale della T. In attesa di un Vs. gentile riscontro, nel ringraziarVi, con l'occasione Vi invio i miei più cordiali saluti.”
Consulenza legale i 08/10/2014
Quanto alla prima questione, si deve guardare all'art. 913 del c.c., che stabilisce l'obbligo del proprietario del fondo inferiore a ricevere le acque che scolano naturalmente, senza opera dell'uomo, dal fondo più elevato. Si tratta, quindi, di un obbligo di non fare, non configurabile come una servitù prediale, bensì come un limite legale della proprietà, legato alla conformazione dei luoghi. Ai soggetti interessati da questo diritto/obbligo è vietato porre in essere ogni alterazione che abbia per effetto quello di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle (v. Cass. civ. 13097/2011).
Più precisamente, se si può riscontrare un nesso di causalità (cioè un rapporto di causa-effetto) tra l'opera dell'uomo e l'aggravamento della situazione del fondo inferiore - con sensibile modifica del deflusso delle acque -, si avrà senz'altro un'alterazione dello stato dei luoghi vietata dall'art. 913 c.c.
In tal caso, il proprietario del fondo meno elevato, che non poteva opporsi al normale deflusso delle acque, sarà legittimato ad agire per ottenere il ripristino della situazione naturale dei luoghi, nonché il risarcimento dell'eventuale danno subito (v. Cass. civ. 1.8.2000 n. 10039).
Va comunque posta l'attenzione sul "grado" di aggravamento della situazione anteriore, che, per essere sanzionabile, deve comportare una sensibile modifica del deflusso naturale delle acque o una alterazione apprezzabile.
Nel caso di specie, si dovrà valutare, prima di iniziare i lavori di asfaltatura, se tali opere potranno sensibilmente alterare quello che è il normale e naturale scolo delle acque piovane nel fondo inferiore: se si giudicasse che ciò potrà avvenire, è consigliabile consultare il vicino per trovare preventivamente una soluzione tecnica (es. un modo per convogliare artificialmente le acque dove non creino disturbo al vicino) oppure costituire contrattualmente una servitù di scolo delle acque ad hoc, prevedendo una contropartita o un qualche vantaggio di altro tipo per il confinante.
Nel caso in cui non si trovasse un punto d'incontro con il vicino di casa, e questo intentasse causa contro il condominio per i lavori effettuati, solo il giudice di merito potrà valutare (certamente con l'aiuto di un consulente tecnico) se l'asfaltatura della stradina abbia o meno comportato un sensibile aggravamento della condizione del fondo posto su livello inferiore.

Sulla seconda questione, si deve invece esaminare la disciplina sul condominio, in particolare sulle opere da effettuare sopra parti comuni.
Va innanzitutto accertata la proprietà del tratto di stradina "verticale" lungo 200 metri (si dovranno consultare gli atti di proprietà dei diversi condomini): evidentemente, se essa è in comproprietà dei soli proprietari delle villette che si affacciano su essa, questi dovranno sopportare interamente le spese del suo rifacimento.
Qualora invece la stradina sia un bene comune a tutti, si deve verificare la natura dell'intervento di asfaltatura: si tratta di innovazione o di semplice atto di manutenzione?
Secondo la giurisprudenza (il codice civile non è invece molto chiaro sul punto) per "innovazioni" delle cose comuni s'intendono non tutte le modificazioni (qualunque opus novum), bensì le modifiche che importino l'alterazione della entità sostanziale o il mutamento della originaria destinazione, in modo che le parti comuni, in seguito alle attività o alle opere innovative eseguite, presentino una diversa consistenza materiale, ovvero vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti” (così Cass. 26 maggio 2006 n. 12654). Pertanto, asfaltare una strada di uso comune, non sembrerebbe configurarsi come una innovazione, bensì come opera di miglioramento della cosa, diretta a farne un miglior uso.
In questo caso, troverebbe applicazione l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto: a tal fine "può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa". L'applicazione di questa norma implica che solo coloro che godranno del miglioramento del bene comune dovranno sostenerne le spese, con esclusione di quei comproprietari per i quali l'opera di asfaltatura non abbia alcun vantaggio (né, ovviamente, alcun svantaggio).
Se l'opera di asfaltatura venisse deliberata in assemblea come opera di manutenzione del bene comune, i proprietari che non traggano utilità dalla stradina (lato verticale) sarebbero comunque esclusi dal pagamento delle spese, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 1123 del c.c. (" Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità").

Maria chiede
venerdì 26/09/2014 - Puglia
“In relazione al quesito n 11089/2014 dell' 1 settembre 2014, vorrei una precisazione. Nella risposta inviatami sostenete che non si può configurare la servitù per usucapione o per destinazione del padre di famiglia perché servitù non apparente. Vorrei precisare ed evidenziare che la pendenza verso il mare è evidente e che tale pendenza si evince anche osservando il muro di recinzione che si abbassa progressivamente andando verso il mare. E' vero che la legge vuole l'"apparenza" della servitù, quale può essere una tubazione, ma il caso di specie credo che possegga tale peculiarità; potrebbe rientrare nei casi giurisprudenziali che configurano casi di servitù apparente ogniqualvolta lo stato dei luoghi abbia insito il requisito dell'apparenza, che è quello di rivelare in modo non equivoco il possesso della servitù a favore del fondo dominante e l'assoggettamento del fondo servente, superando la lettera della legge. V'è da aggiungere che il proprietario è edotto sui fatti, avendo affittato la villa per 6 anni prima di acquistarla e che io ho avuto il possesso di entrambe le villette per oltre 40 anni (concepite dunque con un'unica ratio). A tal proposito Vi sottopongo un problema tutt'altro che remoto: cosa succederebbe se il galleggiante della cisterna si guastasse e l'acqua si riversasse nella proprietà del vicino?”
Consulenza legale i 01/10/2014
Sulle servitù apparenti, purtroppo, è difficile dare una soluzione netta ed unica ai singoli casi concreti: difatti, il requisito dell'apparenza viene rimesso alla discrezionalità del giudice, che si può convincere o meno della sua sussistenza.
In generale, nel caso di specie, va ripetuto che lo scolo delle acque piovane naturali è già un diritto del proprietario del fondo superiore, anche contrattuale.
Al contrario, la possibilità di far cadere nel fondo inferiore qualsiasi tipo di acqua, in altre parole, l'esistenza di una servitù di stillicidio, è dubbia.
In tema di stillicidio, inteso come caduta per gravità dell'acqua, la giurisprudenza si occupa da sempre di situazioni per lo più condominiali, in cui avviene il gocciolamento dell'acqua da terrazzi o grondaie. Le sentenze che riguardano questa materia pongono dei paletti piuttosto rigidi quanto alla "apparenza" della servitù: ad esempio, per Cass. civ., sez. VI, ordinanza 6 luglio - 16 agosto 2012, n. 14547 "è noto che, ai fini della sussistenza del requisito dell'apparenza, necessario per l'acquisto di una servitù per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, si richiede la presenza di segni visibili, cioè di opere di natura permanente, obiettivamente destinate all'esercizio della servitù medesima, che rivelino, per la loro struttura e funzione, in maniera inequivoca, l'esistenza del peso gravante sul fondo servente (tra le tante v. Cass. 12.3.2007 n. 5759; Cass. 28.9.2006 n. 21087; Cass. 26.11.2004 n. 22290). Nel caso in esame, la Corte di Appello, muovendosi nel solco di tale principio, ha ritenuto, con motivazione esente da vizi logici, che la semplice presenza dei supporti metallici (o zanche) infissi dall'originario unico proprietario nel muro perimetrale, ai lati delle finestre sovrastanti, non lasciava chiaramente intendere che si volesse assoggettare l'immobile inferiore allo sgocciolamento del bucato bagnato; e che, pertanto, la S., al momento dell'acquisto del suo appartamento, non aveva alcuna ragione di ritenere che l'immobile acquistato fosse gravato da servitù di stillicidio".
Interessante sul punto anche una pronuncia che chiarisce bene come la conformazione dei luoghi (che implica la caduta per gravità delle acque da un fondo ad un altro) non è sufficiente a far sorgere la servitù: "Poiché, ai sensi degli artt. 908 e 913 c.c., salvo diverse ed espresse previsioni convenzionali, il fondo inferiore non può essere assoggettato allo scolo di acque di qualsiasi genere, diverse da quelle che defluiscono dal fondo superiore secondo l'assetto naturale dei luoghi, lo stillicidio sia delle acque piovane sia, a maggior ragione, di quelle provenienti dall'esercizio di attività umane può essere legittimamente esercitato soltanto se trovi rispondenza specifica in un titolo costitutivo di servitù ad hoc o comunque - ove connesso alla realizzazione di un balcone aggettante sull'area di proprietà del vicino - sia stato esplicitamente previsto tra le facoltà del costituito diritto reale. Infatti, l'apertura di un balcone non può che integrare una servitù avente duplice oggetto (la parziale occupazione dello spazio aereo sovrastante il fondo del vicino, in deroga alle facoltà dominicali di cui all'art. 840 comma secondo, c.c., e il diritto di veduta ed affaccio in deroga alle distanze prescritte dall'art. 905 c.c.), ma non anche le diverse facoltà esercitate in deroga a uno dei principi informatori della proprietà fondiaria, dei quali gli artt. 908 e 913 sono espressione" (Cass. civ., sez. II, 28.3.2007 n. 7576).
Quindi, si ritiene di dover escludere che si possa configurare una servitù come apparente solo in base allo stato dei luoghi, e quindi sul fatto che un fondo sia posto su un livello superiore rispetto ad un altro.

Quanto alla seconda questione, esistendo una cisterna nell'area di pertinenza della villa posta a monte, qualora dovesse accidentalmente riversarsi l'acqua in essa contenuta nel fondo del vicino, ciò comporterebbe una possibile responsabilità per danni in capo al proprietario del fondo superiore, non esistendo un diritto a riversare qualsiasi tipo di acqua nella proprietà posta a livello inferiore.
Naturalmente, perché si possa avere la responsabilità ex art. 2051 del c.c. per custodia di cose, devono effettivamente prodursi danni (se l'acqua scorresse velocemente sul terreno del vicino e scendesse poi fino al mare senza arrecare alcun pregiudizio, non ci sarebbe alcun danno da risarcire); inoltre, è possibile escludere ogni responsabilità per il caso fortuito, ossia quando l'evento dannoso sia un evento naturale o ad esso assimilato, indipendente dalla volontà umana, che esca dalla ragionevole prevedibilità a cui non si possa ovviare senza cautele superiori a quelle della media diligenza.

Maria chiede
lunedì 01/09/2014 - Abruzzo
“Negli anni ’70 la mia famiglia costruì 4 villette perpendicolari al mare e parallele alla strada. L’attribuzione delle ville avvenne per sorteggio: le prime due (quelle più vicine al mare) ai miei zii, le altre due a me. Le case furono costruite sotto il piano di campagna in seguito a sbancamento, per rendere abitabile piano terra e primo piano anziché piano terra e scantinato. Le ville avevano lo spazio esterno in comune senza divisione. La pendenza per lo scolo delle acque era ed è verso il mare: le acque scendevano e scendono tuttora dalla villa posta più in alto fino a quella posta più in basso, per poi defluire nel mare. Essendo state costruite sotto il livello stradale, le acque piovane della contrada si riversano prima nella mia proprietà, che è ad una quota più alta, poi verso le altre, che hanno quota più bassa, per finire nel mare.
Tutto è andato bene fino agli anni ’90, poi sia per i lavori effettuati sul demanio da altro proprietario senza autorizzazione, sia probabilmente per l’arretramento dell’arenile, la quarta villetta, quella più vicina al mare (di proprietà dei miei zii), in caso di temporali o di mareggiate si allaga. Nella mia proprietà in tutti questi anni non c’è mai stato allagamento. Nel ’96 per agevolare i miei parenti realizzammo due trivelle. Quanto detto è per tentare di fotografare al meglio lo stato dei luoghi.
Veniamo al problema: nel 2011 ho venduto una delle due villette; io ho tenuto la prima, quella a monte. Dall’atto di vendita si stabilisce che “quanto sopra viene venduto nello stato di fatto e di diritto in cui si trova, anche in relazione agli impianti, con ogni azione, accessione, pertinenza, servitù attiva e passiva e come posseduto. La parte acquirente assume l’impegno di realizzare un muro di confine tra la casa oggetto del presente atto (con relativa pertinenza scoperta) e quella limitrofa di proprietà della parte venditrice in conformità di legge, consentendo un regolare scolo delle acque piovane anche a mezzo trivella” (tuttavia non sono state realizzate altre trivelle dopo la vendita). In seguito alla vendita, sono stati costruiti due muri per delimitare le proprietà, uno con un foro di altezza cm 30 (ridotto con una lastra a cm 10) per larghezza cm 70, l’altro con altezza cm 9 per larghezza cm 80 per lo scolo delle acque. Il tutto secondo un criterio stabilito dall’acquirente. Lo scorso anno ho avuto svariate discussioni perché detti fori venivano volutamente ostruiti da vasi, mattoni e plastica.
Circa un mese fa c’è stata una “bomba d’acqua”. Io non ero presente, mi hanno riferito che sulla strada che porta al mare c’era circa mezzo metro d’acqua. Dopo che le acque sono defluite, all’interno della casa ho trovato due vani allagati con fango, la pavimentazione del giardino coperta di fango e uno dei due fori di cui sopra parzialmente ostruiti da detriti. V’è da premettere che simili circostanze metereologiche si erano verificate solo nel ’82, non causandomi tuttavia alcun danno. Al momento del nubifragio non so quale fosse lo stato dei luoghi: se i fori di scolo fossero ostruiti o realizzati troppo piccoli per consentire il deflusso dell’acqua in tali situazioni. In ogni caso dopo aver aspirato l’acqua dai vani allagati, sono stata costretta a tentare di versare l’acqua nella trivella, andando contro pendenza, cosa pressoché impossibile. Dopo aver eliminato la quasi totalità del fango, la vicina ostruendo nuovamente i fori di scolo, mi ha impedito di lavare il piazzale con acqua potabile "non gradendo la mia acqua sporca" e sostenendo che la pendenza per il deflusso delle acque sia solo per l’acqua piovana in base al suddetto contratto di vendita. Io sono raramente presente sul posto, al contrario dei miei vicini, per cui temo che in mia assenza essi possano chiudere i fori, preservando la loro proprietà da allagamenti ma allagando la mia proprietà.
1) Per ciò che concerne lo scolo delle acque piovane cosa posso fare per tutelarmi e impedire che la villa possa allagarsi dopo nuovi nubifragi?

2) È vero ciò che sostengono i vicini, e cioè che la pendenza per lo scolo delle acque è prevista solo per le acque piovane impedendomi quindi di utilizzare l’acqua potabile per lavare il piazzale? Se fosse così, non potrei mai lavare il piazzale con la mia acqua potabile, essendo impossibile canalizzarla altrove.

PS: ovviamente le acque del vicino - come da sempre è avvenuto- scolano nelle ville adiacenti, che sono temporaneamente sono disabitate.
PS: il vicino era consapevole dello stato dei luoghi, avendo abitato la villa in affitto per 6 anni prima della vendita.
Vi sarò grata se saprete fare chiarezza al riguardo. Saluti.”
Consulenza legale i 05/09/2014
Nel caso di specie si deve capire prima di tutto a che titolo il proprietario della villetta "superiore" fa scolare le acque piovane in quello "inferiore" (1) e quali tipi di acque possono essere fatte passare da un fondo all'altro (2).
(1)
Vi è innanzitutto, ai sensi dell'art. 913 del c.c., l'obbligo del proprietario del fondo inferiore a ricevere le acque che scolano naturalmente, senza opera dell'uomo, dal fondo più elevato.
Come precisato dalla giurisprudenza l'art. 913 c.c. pone a carico dei proprietari, sia del fondo superiore che del fondo inferiore, un obbligo di non fare, vietando ad essi ogni alterazione che abbia per effetto quello di rendere più gravoso ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle (Cass. n. 13097/2011).
Tuttavia tale articolo, secondo la dottrina e giurisprudenza dominante, prevede solo una limitazione legale della proprietà, non una servitù prediale (Cass. 13301/2002). La servitù prediale (che è un vero e proprio diritto reale, con una propria disciplina), dovrebbe essere eventualmente sorta per accordo tra le parti, oppure per usucapione o destinazione del padre di famiglia. Queste ultime due modalità di costituzione della servitù, però, non sembrano potersi configurare nel caso di specie, in quanto non esistevano opere "apparenti" dedicate all'esercizio del diritto (es. una tubazione, un apposito canale di scolo): l'art. 1061 del c.c. prevede proprio che le servitù non apparenti non possono acquistarsi per usucapione o per destinazione del padre di famiglia e che sono "non apparenti" le servitù in cui non vi siano opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio.
Nemmeno sembra, da quanto detto nel quesito, che la servitù sia stata costituita per accordo tra le parti (nel contratto è solo scritto che l'acquirente deve consentire il regolare deflusso delle acque piovane, obbligo già su di lui gravante ex art. 913).
Ciò precisato, nel caso di specie, l'acquirente della villetta posta su livello inferiore sembra aver integrato, con il proprio comportamento, due tipi di violazione:
1. ha impedito - di fatto - lo scolo delle acque piovane che doveva consentire ai sensi dell'art. 913, ostruendo i fori costruiti nel muro di delimitazione delle due proprietà (o addirittura ha costruito dei fori non sufficientemente larghi sin dall'inizio, circostanza da verificare);
2. è venuto meno all'obbligo, assunto contrattualmente di consentire il regolare scolo delle acque piovane "anche a mezzo trivella”.
Quanto al primo punto, i rimedi a disposizione del proprietario del fondo superiore sono innanzitutto delle azioni di tipo inibitorio, come l'azione di manutenzione (art. 1170 del c.c.), volta alla cessazione della turbativa del possesso di un immobile, che, però, può essere intrapresa solo entro l'anno dall'inizio della turbativa (intesa come impedimento dello scolo delle acque). Inoltre, il proprietario del fondo superiore potrebbe agire con azione di danno temuto, ai sensi dell'art. 1172 del c.c., in quanto ha ragione di temere che da cosa presente sul fondo vicino possa derivare pericolo di un danno grave e prossimo all'oggetto del suo diritto (dal muro con i fori ostruiti, potrebbe derivargli ulteriore danno in caso di nuova "bomba d'acqua"): il giudice, accertato il pericolo, dovrà dare idonei provvedimenti per ovviarvi, disponendo, in caso, idonea garanzia per i danni eventuali.
In via residuale (se le due azioni indicate non fossero esperibili per decadenza o per altre ragioni), si potrà sempre chiedere al giudice competente l'emissione di un provvedimento cautelare d'urgenza ex art. 700 del c.p.c., con domanda di inibitoria del comportamento illecito del vicino.
Queste azioni sono dirette ad ottenere una tutela immediata, cioè la rimozione degli oggetti che ostruiscono i fori costruiti sul muro di confine, o l'allargamento dei fori stessi, se ciò fosse necessario.
Tuttavia, nel caso in esame si sono già verificati dei danni a causa delle piogge cadute durante l'estate, quindi si pone anche la questione del risarcimento del danno, che dovrà essere richiesto in un separato giudizio ordinario. Inoltre, è importante sottolineare che l'acquirente della villetta ha assunto contrattualmente l'obbligo di far scolare le acque, specificamente anche tramite installazione di una trivella.
A questo punto, visto anche l'atteggiamento molto ostile del vicino, è consigliabile chiedere un accertamento tecnico preventivo (art. 696 del c.p.c., oppure anche a fini conciliativi - sempre preferibile - art. 696 bis del c.p.c.), per far visionare i luoghi ad un tecnico incaricato dal tribunale ed ottenere una perizia che dica quali sono le soluzioni tecniche necessarie per consentire un adeguato flusso delle acque che scolino naturalmente dal fondo superiore a quello inferiore, regolando eventualmente con un accordo transattivo il risarcimento dei danni già prodottisi sul fondo superiore.
Qualora la conciliazione tra le parti non fosse raggiunta, il proprietario della villetta superiore potrà agire con azione ordinaria per far valere le proprie ragioni (violazione dell'art. 913 e violazione degli obblighi assunti nel contratto di compravendita), con contestuale domanda di risarcimento del danno già causato dal comportamento illegittimo del vicino.
E' giusto in ogni caso precisare che, poiché la circostanza verificatasi quest'anno è stata eccezionale (si riporta solo un caso precedente degli anni '80), è possibile che il vicino di casa provi che lo scolo delle acque piovane sia stato consentito per quantità normali della stessa, mentre nel caso di specie si sia trattato di un caso fortuito che non avrebbe potuto essere impedito nemmeno, ad esempio, con fori più larghi nel muro di separazione.
(2)
Quanto alla seconda domanda, va precisato che l'art. 913 si riferisce non solo all’acqua piovana, ma a tutte quelle acque, non inquinate, fluenti per natura (ad esempio, le acque derivanti da scioglimento della neve). In mancanza di una vera e propria servitù di scolo che lo consenta, il vicino non ha l'obbligo, al contrario, di sopportare lo scolo di acque che derivino da opera dell'uomo (acque inquinate o di scarichi delle fogne delle latrine e simili, ancorché sottoposte a depurazione). Nel caso di specie, a rigore, l'acqua che verrebbe fatta colare sul fondo vicino non sarebbe "naturale", ma prodotta da azione umana e quindi lo scolo sarebbe vietato.
Tuttavia, trattandosi di acqua pulita perché proveniente dall'acquedotto, e poiché il suo utilizzo è circoscritto ad un singolo momento (sufficiente a pulire il piazzale), si ritiene - solo per ragioni di opportunità e cortesia - che il vicino potrebbe tollerare tale scolo occasionale, se è possibile che esso avvenga senza un danno concreto per la sua proprietà.

Sandro G. chiede
sabato 21/06/2014 - Lazio
“Possiedo un box posto al piano seminterrato di una palazzina, addossato al terrapieno alla cui sommità al piano terreno sorge un giardino privato di forma rettangolare. Il terrapieno è delimitato da un muro di contenimento fatto di pilastri di cemento tamponati con blocchetti di tufo. Da alcuni anni ormai la parete del mio box sta presentando una lesione sempre più ampia che corre lungo la linea mediana della parete confinante col lato lungo del muro di contenimento, ma lo stesso fenomeno si ripete, in misura più accentuata, nell'altro box confinante con tale muro nel suo lato breve. La pericolosità della situazione è stata più volte portata all'attenzione degli amministratori del condominio e dell'assemblea condominiale senza che si giungesse però mai ad una decisione operativa al riguardo. Da ultimo ho incaricato un tecnico di un sopralluogo dal quale è emerso che il giardino soprastante il terrapieno, originariamente ricoperto di ghiaia, è stato lastricato con un a pendenza nettamente rivolta verso i margini esterni del giardino stesso, in modo che l'acqua piovana, anziché essere assorbita da tutta la superficie, è stata convogliata verso una aiuola perimetrale, sotto la quale sorge il muro di contenimento. L'anomalo afflusso di acque piovane non regimentate che così si realizza, ha prodotto il danno al muro sottostante l'aiuola provocandone lo 'spanciamento' che ora è giunto a invadere l'intercapedine e a toccare la parete del mio box lesionandola. Secondo voi a carico di chi a posta la spesa per la ricostruzione del muro e il ripristino della sagoma originaria del terrapieno? L'aver modificato l'assorbimento delle acque piovane senza provvedere ad una loro regimentazione, lasciandole anzi libere di infiltrarsi nel terrapieno giusto sopra il muro di contenimento, può configurar una responsabilità del proprietario de giardino per il danno arrecato? Posto che il muro lesionato sia condominiale (cosa dubbia), è ipotizzabile una responsabilità condominiale per l'accaduto e una conseguente ripartizione tra tutti i condomini del danno'? Una denuncia di danno temuto potrebbe essere utile? Qual è il compito dell'amministratore in questa situazione di pericolo ?”
Consulenza legale i 26/06/2014
Il quesito proposto va analizzato sotto diversi aspetti.
Innanzitutto va individuata la titolarità del muro di contenimento, in quanto le spese ad esso inerenti vanno a poste a carico di soggetti diversi a seconda che esso sia condominiale o privato.
Poiché sembra di capire che la questione non sia chiara, ci si dovrà rifare alle norme generali sul condominio. Prima di tutto va consultato il titolo, ossia l'atto di acquisto del box nel seminterrato, ove dovrebbe essere specificato qual è l'oggetto della proprietà esclusiva dell'acquirente e quali le parti comuni. Laddove nulla fosse detto sul muro di contenimento, si dovrà capire se esso può farsi rientrare tra i beni comuni a tutti i condomini.
L'art. 1117 del c.c., tra le altre cose, parla di "tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti [...]". Premesso che solo un esame dei luoghi potrebbe condurre ad una risposta definitiva, si può comunque ritenere che il terrapieno e il muro di contenimento costituiscano un bene condominiale, in quanto possono configurarsi rispettivamente come suolo (inteso come area di terreno sita in profondità su cui posano le fondamenta dell’immobile) e muro portante dell'edificio.
Ciò assunto, si può passare ad esaminare la questione sotto i seguenti due profili.
1. Responsabilità per i danni
L'azione di risarcimento del danno potrebbe essere intrapresa almeno contro due soggetti.
Il primo è il costruttore del condominio (e del muro di contenimento) ex art. 1669 del c.c., laddove si possa dimostrare che il danno delle infiltrazioni sia derivato da una difettosa esecuzione delle opere edili, ad esempio, perché il muro avrebbe dovuto sostenere una maggiore quantità di acqua rispetto a quella che in realtà riesce ad assorbire senza conseguenze negative. Si tratta di un'azione che può essere esperita contro l'appaltatore (colui che ha eseguito i lavori) entro 10 anni dall'ultimazione dell'edificio.
In secondo luogo - e questa sembra l'azione più fondata in base alle circostanze descritte nel quesito - è possibile chiedere il risarcimento del danno al proprietario del giardino soprastante in quanto dalla sua proprietà originano i danni emersi nel box interrato. Questa seconda strada si configura come un'azione volta ad accertare la responsabilità extracontrattuale del vicino, e pertanto è richiesto che l'attore in giudizio dia compiuta prova sia del danno che della condotta illecita del confinante (intesa come il fatto di aver costruito senza rispettare le corrette pendenze), nonché il nesso di causalità che lega tali elementi (nesso che apparirebbe piuttosto evidente, ma che dovrà comunque essere oggetto di prova davanti al giudice).
Prima di iniziare una causa ordinaria, tuttavia, si consiglia di iniziare il prima possibile un procedimento di accertamento tecnico preventivo (art. 696 del c.p.c.), detto anche ATP, in quanto, prima che il danno degeneri e sia necessario porvi urgentemente rimedio, è bene che la situazione dei luoghi venga "cristallizzata" (fotografata) in una perizia redatta da un tecnico nominato dal Tribunale: tale perizia, che verrà elaborata nel contraddittorio tra le parti, potrà essere usata nel futuro giudizio per il risarcimento dei danni, al contrario della semplice perizia di parte, che agli occhi del giudice non ha valore vincolante. L'ATP può essere anche esperito con scopo conciliativo (art. 696 bis del c.p.c.) e allora sarà il perito del tribunale a formulare una proposta transattiva alle parti, per evitare che queste diano vita ad un giudizio ordinario dai tempi non brevissimi e dagli esiti incerti.
Anche la denuncia di danno temuto (art. 1172 del c.c.) è un'azione adatta nel caso di specie, ma essa potrebbe non rispondere all'immediato interesse del proprietario del box (che è quello di riparare il danno), in quanto il giudice potrà sì imporre al vicino di provvedere ad ovviare il pericolo, ma, trattandosi di un giudizio a cognizione sommaria, potrebbe non ordinare direttamente di ricostruire il giardino con le pendenze corrette, lasciando tale decisione al giudice del giudizio di merito pieno: potrà al massimo imporre il pagamento di una cauzione. Nel frattempo, però, il danno potrebbe aggravarsi e un'eventuale lavoro di "contenimento" effettuato nel garage potrebbe pregiudicare la possibilità di provare nel futuro giudizio la conformazione dei luoghi così com'era in origine e quindi la fonte del danno.
In via residuale, non è da escludere di ipotizzare una responsabilità del condominio: per quanto riguarda l'origine del danno, si dovrà dimostrare che esso è stato causato (o concausato) dall'incuria e dall'omessa manutenzione del muro di contenimento; più semplice sarà dimostrare che l'aggravamento del danno è causa del condominio perché non ha prontamente agito per ovviare alla situazione, benché la stessa fosse ben nota ai condomini da tempo.
2. Competenza a intraprendere opere straordinarie ed urgenti su bene condominiale
Posto, quindi, che se si possa provare la responsabilità del vicino o del costruttore, ogni spesa di rifacimento dovrà essere a questi addebitata, c'è da capire come muoversi nelle more della definizione del giudizio di merito.
Una volta fatta eseguire la perizia dal C.T.U. (consulente tecnico di ufficio), si dovrà prima di tutto chiedere la convocazione di un'assemblea condominiale per rappresentare a tutti i condomini la situazione di urgenza e la necessità di effettuare i lavori. Se l'assemblea non assumerà alcuna determinazione in merito, resta al singolo proprietario la possibilità di intraprendere i lavori di sua iniziativa: di regola, egli non avrebbe diritto al rimborso, a meno che non si tratti di spesa urgente (art. 1134 del c.c.). E' "urgente" la spesa che non possa essere differita senza che da ciò ne discenda un danno per il condominio. La giurisprudenza ha chiarito che per "opere urgenti" devono intendersi "quelle che, secondo il criterio del buon padre di famiglia, appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa comune (Cass., Sez. II, 6.12.1984, n. 6400; Cass., Sez. II, 26.3.2001, n. 4364), l'urgenza dovendo essere commisurata alla necessità di evitare che la cosa comune arrechi a sé o a terzi o alla stabilità dell'edificio un danno ragionevolmente imminente, ovvero alla necessità di restituire alla cosa comune la sua piena ed effettiva funzionalità" (Cass., Sez. II, 19.12.2011, n. 27519). Ad esempio, la Cassazione, con sentenza del 12.8.2011, n. 17236, ha ritenuto urgente la spesa inerente alla riparazione del tetto comune da cui filtrava acqua in caso di maltempo. Va ricordato che, se si sceglie questa strada, competerà al condomino dimostrare che sussisteva l'urgenza, ossia la necessità di eseguire l'opera senza ritardo (tra le molte, v. Cass. n. 9743/2010). Ciò implica che se il condomino non possa provare la causa del suo intervento presuntivamente urgente (ad esempio l'esistenza di una tubazione rotta), nessun rimborso gli sarà dovuto.
Il compito dell'amministratore in questi casi è senza dubbio quello di compiere tutti gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio (v. nuova formulazione dell'art. 1130 del c.c. n. 4). Se viene meno a questo dovere, egli è sanzionabile con la revoca (che può essere deliberata in ogni tempo dall'assemblea, con la maggioranza prevista per la sua nomina oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio, v. art. 1129). Più difficile è individuare una sua responsabilità personale per il risarcimento dei danni.

F. M. chiede
venerdì 28/03/2014
“Sono proprietario di un immobile residenziale sito su un fondo sottostante al fondo del mio vicino. Il mio fondo, come previsto anche nell'art.913 C.C., riceve ovviamente le acque che scolano naturalmente, ma non solo: il vicino raccoglie le acque reflue piovane del suo tetto in una cisterna interrata. Quando questa è colma, le acque in eccesso ivi convogliate, fuoriescono da un tubo "occultato" nel terreno ed orientato verso il confine con il mio fondo. In tal modo le acque si accumulano presso il muretto di contenimento che divide le proprietà, lo scavalcano (pregiudicandone la stabilità) e scorrono concentrate e copiose sul mio fondo. Ricevo quindi delle acque convogliate. È giusto? Come posso tutelarmi? Quali azioni legali sono possibili?
In qualche modo può essere interessato anche il Comune di residenza che ha concesso le autorizzazioni per lo costruzione dell'immobile del vicino ma probabilmente non relative alla cisterna?”
Consulenza legale i 04/04/2014
Come correttamente indicato nel quesito, ai sensi dell'art. 913 c.c. il proprietario del fondo inferiore è tenuto a ricevere le acque che scolano dal fondo più elevato. La norma, però, è molto chiara nello stabilire che deve trattarsi di acque che scolino naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo. Inoltre, è sancito che il proprietario del fondo superiore non possa rendere lo scolo più gravoso.
Nel caso di specie, esistendo una cisterna (opera umana) che provoca lo scarico delle acque su fondo altrui, affinché tale scarico sia consentito, deve esistere una apposita servitù. L'art. 913 del c.c., infatti, secondo la dottrina e giurisprudenza dominante, prevede una limitazione legale della proprietà, non una servitù prediale (Cass. 13301/2002).
La servitù di scarico di acque piovane potrebbe essere stata costituita per contratto o per usucapione: la prima ipotesi risulta esclusa nel caso in esame, in base a quanto riferito; la seconda fattispecie non può realizzarsi in quanto la servitù non è goduta mediante opere visibili (si parla di servitù non apparente, non usucapibile per legge, art. 1061 del c.c.).

Pertanto, escluso che il proprietario del fondo superiore goda di una servitù di scarico, si deve guardare all'art. 908 del c.c., il quale stabilisce che il proprietario deve costruire i tetti in maniera che le acque piovane scolino sul suo terreno e non può farle cadere nel fondo del vicino.

Sulla base della normativa richiamata, è possibile sostenere che lo scarico delle acque meteoriche proveniente dal convogliamento delle stesse mediante una cisterna (ed un tubo "nascosto" che conduce al fondo confinante, che rafforza l'idea della mala fede del vicino) sia illegittimo.

Se il vicino non pone rimedio alla situazione spontaneamente, sarà possibile esperire una azione di manutenzione (art. 1170 del c.c.), volta alla cessazione della turbativa del possesso di un immobile: tale azione, però, può essere intrapresa solo entro l'anno dall'inizio della turbativa.
In alternativa, ai sensi dell'art. 1172 del c.c., il proprietario del fondo inferiore potrebbe agire con azione di danno temuto, in quanto ha ragione di temere che da cosa (la cisterna) presente sul fondo vicino possa derivare pericolo di un danno grave e prossimo all'oggetto del suo diritto. L'autorità giudiziaria dovrà dare i corretti provvedimenti per ovviare al pericolo, disponendo, in caso, idonea garanzia per i danni eventuali.
Se le due azioni sopra indicate non fossero esperibili (per decadenza o per altre ragioni), si potrà sempre chiedere al giudice competente l'emissione di un provvedimento cautelare d'urgenza ex art. 700 del c.p.c., con domanda di inibitoria del comportamento illecito del vicino. Con questo tipo di azione cautelare si mira a bloccare l'attività dannosa, ma un eventuale risarcimento del danno dovrà essere richiesto in un separato giudizio ordinario. Nel caso di specie, poiché vi sono danni al muretto di separazione delle proprietà, si consiglia di chiedere un previo accertamento tecnico (art. 696 del c.p.c.) ai fini di "fotografare" la situazione di fatto in una perizia ottenuta nel contraddittorio tra le parti. Se l'accertamento preventivo è chiesto a fini conciliativi (art. 696 bis del c.p.c.) non è neppure necessario dimostrare il carattere di urgenza della verifica tecnica.

Riccardo F. chiede
martedì 29/10/2013 - Lombardia
“Ho un problema di infiltrazioni d'acqua nel mio immobile e precisamente nella cantina. L'acqua in questione filtra dal terreno proveniente da un cantina di un immobile prospicente la mia casa.
Faccio presente che lo stesso immobile in questione ha una canalizzazione dell'acqua piovana alquanto approssimativa visto che la stessa filtra nella cantina attraverso una condotta per poi defluire anche nella mia cantina. Faccio altresì presente che la cantina del dirimpettaio ha una distanza dal mio immobile di appena 3 metri e che fra la mia casa e quella del dirimpettaio passa un vicolo comunale; ho sentito il comune ma mi ha risposto che la questione è di carattere tra privati. Vorrei sapere se il mio dirimpettaio è tenuto a sistemare i pluviali affinché l'acqua possa essere canalizzata nelle sedi opportune. Grazie, distinti saluti.”
Consulenza legale i 05/11/2013
Dalla descrizione dei luoghi riportata nel quesito si evince che sembra esistere il diritto del proprietario della cantina soggetta ad infiltrazioni a chiedere al vicino di deviare opportunamente la canalizzazione dell'acqua piovana affinché questa non penetri nella sua proprietà.
Nel caso di specie non sembra configurarsi l'ipotesi di cui all'art. 913 del c.c., in base al quale il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo, poiché i due fondi non sono posti su livelli diversi.
Piuttosto, sembra operare l'art. 908 del c.c., che vieta al proprietario di un immobile di costruire i tetti in maniera che le acque piovane cadano sul fondo del vicino. Nonostante l'utilizzo del solo termine "tetti", la giurisprudenza ha generalmente inteso che è vietato far confluire acque meteoriche sul terreno del vicino anche da una falda sporgente, da un tubo buttafuori o da un pluviale discendente. Si reputa nel caso di specie irrilevante che l'acqua piovana di fatto passi anche attraverso la cantina del vicino, dato che l'effetto è pur sempre quello di uno stillicidio vietato.
Pertanto, è possibile chiedere al dirimpettaio di deviare opportunamente i pluviali affinché l'acqua piovana non debba più passare attraverso la sua cantina e da lì nella cantina del danneggiato. Qualora egli non dovesse ottemperare alla richiesta in via bonaria, sarà opportuno presentare un ricorso ai sensi dell'art. 1172 del c.c. con il quale si denuncia la situazione di danno con potenziale aggravamento dello stesso e si chiede al giudice di provvedere per ovviare al pericolo.
Quanto sopra detto non vale nel caso in cui sia possibile provare l'esistenza di una servitù di stillicidio, che nel caso di specie si presume non sia stata concordata dalle parti. Residua solamente l'ipotesi di una eventuale usucapione della servitù nel corso degli anni, che però deve essere dimostrata dal proprietario del fondo dominante (v. Cass. n. 8527/1996: "Colui che agisce in confessoria servitutis ha l'onere di fornire la prova dell'esistenza di tale diritto — presumendosi il fondo preteso servente libero da pesi e limitazioni — mediante uno dei modi di costituzione o di acquisto (artt. 1058 e ss. c.c.) non essendo all'uopo sufficiente la mera esistenza di opere visibili e permanenti, non costituendo l'esistenza di siffatti elementi un autonomo modo di acquisto della servita, ma solo il presupposto dell'acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia").

Fausto chiede
lunedì 29/04/2013 - Piemonte
“Spett. Redazione,
sono proprietario di una casa in montagna i cui terreni sono costeggiati da un piccolo canale che raccoglie le acque di scolo provenienti dai terreni a monte (si tratta di una zona molto ricca di falde acquifere) e che si disperdono liberamente su un sottostante terreno abbandonato confinante con la mia proprietà, formando una sorta di piccola palude. La scorsa estate, durante i lavori di bonifica del terreno di mia proprietà, a seguito di un lieve rialzamento dello stesso, le acque che dal piccolo canale sboccano nell'acquitrino in questione hanno preso a scorrere ANCHE (e non esclusivamente) sulla linea di confine del terreno, trovando un percorso più agevole. Ciò ha provocato le proteste di un vicino che possiede una casa a valle il quale sostiene che l'acqua del canale a monte e dell'acquitrino, che usa per irrigare l'orto, sono INTERAMENTE di sua proprietà.
Preciso che:
l'acqua, prima che svolgessi i lavori di risanamento del mio terreno, si spandeva liberamente sul terreno attiguo formando una sorta di palude e nessuno aveva mai svolto opere di manutenzione per convogliarle in una data direzione;
che, anche dopo i lavori da me svolti, l'acqua continua ad arrivare in abbondanza al pozzetto dove viene imbrigliata per essere convogliata alla sottostante casa del vicino che protesta;
che il terreno confinante con il mio, sul quale l'acqua si disperde e sul quale è costruito il pozzetto di raccolta, NON è di proprietà del vicino che sostiene di avere diritti sull'intero canale.
Desidero sapere se le rivendicazioni del vicino possono avere un fondamento ed eventualmente come potrei procedere per tutelarmi.
Distinti saluti”
Consulenza legale i 13/05/2013
Nel caso di specie, il proprietario del fondo a valle sembra reputarsi titolare di una c.d. servitù di scolo, che consiste nel diritto di assicurarsi il defluvio delle acque che provengono da un fondo altrui (art. 1094 del c.c. ss.). Si tratta di una servitù attiva, per effetto della quale il titolare del fondo servente è privato della possibilità di deviare il corso degli scoli e potrà utilizzare le acque di cui dispone secondo quanto previsto dall'art. 1096 del c.c..
L'esercizio della servitù attiva di scoli presuppone l'esistenza, sul fondo servente (quindi sul fondo superiore), di opere destinate a raccogliere gli scoli e a farli pervenire nel fondo dominante (art. 1095 del c.c.: "Nella servitù attiva degli scoli il termine per l'usucapione comincia a decorrere dal giorno in cui il proprietario del fondo dominante ha fatto sul fondo servente opere visibili e permanenti destinate a raccogliere e condurre i detti scoli a vantaggio del proprio fondo").
Se non esistono tali opere e le acque defluiscono naturalmente, senza previa raccolta e senza che sul fondo servente esistano cavi o canali di scolo o altre opere funzionalmente destinate all'esercizio della servitù, la servitù non sarà più apparente (e quindi usucapibile), bensì negativa e non apparente, come tale non usucapibile: in questo caso, il proprietario del fondo servente è tenuto solamente a non ostacolare o deviare il deflusso delle acque dal proprio fondo.
V'è da precisare che, ai fini della configurabilità della servitù, deve trattarsi in ogni caso di acque precedentemente utilizzate nel fondo superiore.
Non sembrano ravvisabili nel caso di specie i presupposti per l'esistenza di una servitù di scolo. Il vicino non potrà far valere un eventuale acquisto della servitù a titolo originario per usucapione ventennale, mancando le opere destinate a raccogliere e condurre gli scoli a vantaggio del fondo dominante (dovrà provare un titolo negoziale, che nella specie non sembra esistere); né il fondo superiore fa uso di tali acque, che si limitano a scorrere su di un canale che costeggia il terreno.
Il fatto che i fondi non siano materialmente confinanti, invece, non costituisce un ostacolo alla servitù, in quanto la contiguità dei fondi in materia di servitù prediali va intesa nel senso che tra essi possa esistere una relazione di servizio.
L'art. 913 del c.c., invece, secondo la dottrina e giurisprudenza dominante, prevede una limitazione legale della proprietà, non una servitù prediale (Cass. 13301/2002), in base alla quale il proprietario del fondo inferiore è tenuto a ricevere le acque reflue provenienti dal fondo superiore. Il contenuto della norma, che impone a carico dei rispettivi proprietari dei fondi un obbligo di non fare, è volto al sostanziale mantenimento della situazione naturale dei fondi. Questa norma non sembra applicabile nel caso di specie, atteso che il vicino sostiene di avere un diritto all'utilizzo delle acque e non un obbligo di riceverle.

Giuseppe chiede
mercoledì 06/02/2013 - Calabria
“Nel mio terreno vi è una vasca: una volta riempita, lo scolo attraversa la mia proprietà e raggiunge la vasca del vicino. Il canale di scolo è stato costruito da miei antenati, principalmente per irrigare il terreno sottostante di mia proprietà, e poi per lo scolo.
Domanda: il fondo dominante, oltre il diritto di scolo che nessuno gli nega, ha il diritto di entrare nel mio terreno il qualsiasi momento per controllare il sopracitato canale? Grazie.”
Consulenza legale i 13/02/2013
Nel caso di specie il proprietario del fondo confinante è titolare di una servitù di scolo, che consiste nel diritto di assicurarsi il defluvio delle acque che provengono da un fondo altrui (art. 1094 del c.c. ss.). Si tratta, quindi, di una servitù attiva, per effetto della quale il titolare del fondo servente è privato della possibilità di deviare il corso degli scoli e potrà utilizzare le acque di cui dispone secondo quanto previsto dall'art. 1096 del c.c..

L'ingresso nel fondo servente da parte del proprietario del fondo dominante è giustificabile solo laddove egli debba svolgere lavori di manutenzione o di riparazione sulle opere destinate a raccogliere gli scoli.

I lavori di manutenzione/riparazione, tuttavia, possono essere svolti sul presupposto che il cavo di raccolta degli scoli presente sul fondo servente sia stato costruito dal titolare della servitù attiva: in tal senso, la legge prevede una presunzione di paternità dell'opera in capo al proprietario del fondo dominante, ove quest'ultimo lo spurghi regolarmente e curi la manutenzione delle sponde. Diversamente, non potrebbe essergli consentito di eseguire sul fondo altrui lavori manutentivi a scadenza ripetitiva (che implicano numerosi e continui accessi alla proprietà altrui), se tali lavori non fossero strettamente funzionali all'esercizio di una servitù a favore del proprio fondo (v. Azzaro, Scoli e avanzi d'acqua, in Digesto civ., XVIII, Torino, 1998, 185).

La presunzione di paternità viene meno se esiste un titolo che dispone diversamente o se vi è un segno o una prova contraria che il cavo non appartiene al vicino, ma al titolare del fondo servente. Il caso di specie sembra rientrare in quest'ultima ipotesi, in quanto il canale di scolo è stato costruito dai titolari del fondo servente (seppure in epoca risalente) e non da quello del fondo dominante.

La prova del titolo (con cui si dimostri che il canale di scolo venne costruito dagli antenati del proprietario del fondo servente), può essere data mediante un qualsiasi atto, come un contratto o un testamento. I "segni", invece, possono consistere in un'epigrafe o un caposaldo, o in qualsiasi altro segno che possa rendere nulla la presunzione (il superamento della quale è rimesso al prudente apprezzamento del giudice del merito).

E' poi la legge stessa a prevedere che la presunzione non operi se il proprietario del fondo servente abbia costruito o mantenga opere (idrauliche) sul suo terreno: in altre parole, in tale situazione si ritiene dimostrato che il cavo presente sul suo fondo abbia una funzione diversa da quella di raccogliere e convogliare gli scoli in favore del proprietario del fondo inferiore. Ciò che avviene nel caso di specie, in cui lo scolo è utilizzato principalmente per l'irrigazione del campo da esso attraversato.

Pertanto, è possibile sostenere che, essendo il canale di scolo stato costruito dal proprietario del fondo servente e visto che egli svolge presumibilmente tutte le opere di manutenzione e riparazione (in quanto egli stesso lo utilizza per il proprio terreno), il vicino - cioè il titolare della servitù - non abbia diritto di accedere in ogni momento al fondo altrui, in quanto non dovrebbe svolgervi alcuna attività strettamente connessa al suo diritto reale.

Calogero chiede
domenica 25/11/2012 - Sicilia
“Vorrei porre un quesito: ricevo acqua piovana dal fondo di terreno situato sopra al mio, giustamente parlando di acqua piovana devo lasciarla scorrere naturalmente. Il mio vicino che si trova nella mia stessa situazione, invece di lasciar scorrere l'acqua naturalmente, effettua dei solchi con la zappa e la invia tutta nel mio terreno, non solo: effettua dei solchi anche nel mio di terreno, in modo da farla confluire e defluire tutta dal mio terreno, cosa devo fare? grazie”
Consulenza legale i 26/11/2012

Ai sensi dell'art. 913 del c.c. il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo. Il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo, nè il proprietario del fondo superiore può renderlo più gravoso.

Tale norma impone una limitazione legale al diritto di proprietà di colui che essendo proprietario del fondo inferiore deve ricevere le acque reflue provenienti dal fondo superiore. Tuttavia, è bene precisare che è fatto divieto di compiere alterazioni dello stato dei luoghi che possano comportare una sensibile modifica del deflusso delle acque, rendendo più gravosa la condizione dell'uno o dell'altro fondo. Solo in caso di necessaria modificazione del deflusso naturale delle acque è prevista un'indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio.

Nel caso descritto dal quesito risulta che i soggetti che devono sopportare la limitazione del proprio diritto di proprietà ricevendo le acque reflue siano due. Entrambi quindi devono sopportare tale "peso" senza poter modificare lo stato di fatto dei terreni. Pertanto, sarà possibile sicuramente chiedere il risarcimento di tutti i danni ricollegabili al comportamento scorretto oltre che vietato dalla legge tenuto dal vicino, che, alla pari, avrebbe dovuto sopportare lo scolo delle acque reflue senza modificare arbitrariamente lo stato dei luoghi. Inoltre, in via d'urgenza, è possibile il ricorso ad un provvedimento d'urgenza ex art. 700 del c.p.c. al fine di ottenere la cessazione delle azioni lesive perpetrate dal vicino.


Sonia chiede
giovedì 16/02/2012 - Sicilia
“Tra la mia abitazione e il terreno del mio vicino vi è un muro che segna un confine... Per natura la mia abitazione si trova in pendenza verso il terreno del vicino e per evitare che si raccolga troppa acqua, nel muro sono stati integrati dei tubi che deviano l'acqua dal mio giardino al terreno confinante (da sottolineare che l'acqua non finisce su pavimenti o entrate di abitazioni;inoltre l'acqua non reca alcun danno cadendo da un metro sul terreno che viene utilizzato come parcheggio, non può considerarsi ne aiuola ne prato). La deviazione tramite i tubi esiste da più di 50 anni, ma il vicino lo ha notato adesso e dice di potermi denunciare (in più lui usufruisce del terreno solo d'estate, venendo in villeggiatura). Vorrei sapere se ho torto e, se così fosse, come posso rimediare per evitare eventuali problemi. Grazie.”
Consulenza legale i 17/02/2012

L'art. 913 del c.c., in tema di scolo delle acque, ponendo a carico del proprietario sia del fondo inferiore che del fondo superiore l'obbligo di non alterare la configurazione naturale del terreno, non vieta tutte le possibili modificazioni incidenti sul deflusso naturale delle acque, ma soltanto quelle che alterino apprezzabilmente tale deflusso, rendendo più gravosa la condizione dell'uno o dell'altro fondo. In tema di scolo delle acque, quindi, la regola dell'articolo in commento - per il quale il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque dal fondo più elevato - trova applicazione soltanto allorché il deflusso avvenga "naturalmente". Qualora, invece, sia intervenuta l'opera dell'uomo, è necessario stabilire se essa abbia aggravato la situazione del fondo inferiore quale era precedentemente all'opera stessa, tenendo altresì conto al sevizio di quale fondo detta opera sia stata costruita.

L'esecuzione di manufatti che rendano più gravoso il naturale scolo delle acque non legittima il proprietario del fondo inferiore al risarcimento per tutti i danni, anche imprevedibili e lontani nel tempo, che comunque obiettivamente si possono collegare alla modifica.

Nel caso di specie (se si è bene intesa la situazione delle opere svolte e dello stato dei luoghi), sulla scorta di quanto riferito, praticare dei fori di drenaggio nel muro che separa il proprio immobile da altra proprietà, al fine di prevenire fenomeni di ristagno e umidità, potrebbe essere considerata un'opera "abusiva" in quanto potrebbe aver peggiorato la condizione del fondo servente e, quindi, aver integrato la violazione di cui all'art. 913 c.c. (in tema si veda anche Cass. Civ. 2010/21320).


Giuseppe chiede
giovedì 06/10/2011 - Veneto
“Buongiorno,

l'art. 913 c.c. è applicabile nel caso di un complesso abitativo nel quale il proprietario dell'ultima abitazione intenda predisporre una cementificazione che impedisca il naturale deflusso delle acque piovane?

Grazie”
Consulenza legale i 13/10/2011

Le norme relative ai rapporti di vicinato, tra cui quella dell'art. 913 del c.c., trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli proprietari (Cass. civ., n. 12520/2010).

Il caso di specie riguarda rapporti tra diversi proprietari di un complesso condominiale composto di unità immobiliari autonome ma funzionalmente collegate, pertanto, trova spazio l'art. 913 c.c. se non risulta in contrasto con la disciplina di natura speciale applicabile alle cose comuni ed, in particolare, l'art. 1102 del c.c. che prevede la facoltà per ciascun partecipante di usare liberamente la cosa comune, rispettando il limite del pari uso altrui.

A tal riguardo, si precisa che l’art. 913 c.c. riguarda solo fondi posti a livelli diversi. Il proprietario del fondo inferiore ha obbligo di ricevere le acque che scolano naturalmente, cioè non in conseguenza di lavori compiuti, dal fondo superiore; in altre parole, il primo non può impedire lo scolo, né il secondo renderlo più gravoso; soltanto se, a fronte delle esigenze dell’agricoltura, si rende necessaria una modifica del deflusso naturale, sarà dovuta un’indennità a chi subisce l’aggravamento della servitù.

Nella fattispecie particolare, quindi, se l'attività edile ricade sulla proprietà esclusiva del vicino occorrerà verificare in concreto l’applicabilità dello stesso art. 913 c.c.

Se il condomino intraprende i lavori sul verde comune o su altri spazi che ricadono tra le parti comuni del complesso condominiale, trova applicazione la disciplina speciale che regola la comunione e impone l'uso nei limiti che non arrechi pregiudizio agli altri partecipanti.

L'attività di cementificazione che il vicino si appresta a realizzare, in ogni caso, può essere bloccata con il ricorso ad un'azione di nunciazione (denuncia di nuova opera) disciplinata dall'art. 1170 del c.c. se si teme possa derivarne un imminente e provato danno al proprio fondo.


Chiara chiede
venerdì 11/03/2011 - Toscana

“E' considerato stillicidio anche quello causato da panni stesi ?”

Consulenza legale i 11/03/2011

Poiché, ai sensi dell’art. 908 del c.c. e dell’art. 913 del c.c., salvo diverse ed espresse previsioni convenzionali, il fondo inferiore non può essere assoggettato allo scolo delle acque di qualsiasi genere, diverse da quelle che defluiscono dal fondo superiore secondo l'assetto naturale dei luoghi, lo stillicidio sia delle acque piovane sia, a maggior ragione, di quelle provenienti dall'esercizio di attività umane (come, ad es., dallo sciorinio di panni stesi mediante sporti sul fondo alieno) può essere legittimamente esercitato soltanto se trovi rispondenza specifica in un titolo costitutivo di servitù "ad hoc" o comunque - ove connesso alla realizzazione di un balcone aggettante sull'area di proprietà del vicino - sia stato esplicitamente previsto tra le facoltà del costituito diritto reale. Infatti, l'apertura di un balcone non può che integrare una servitù avente un duplice oggetto la parziale occupazione dello spazio aereo sovrastante il fondo del vicino, in deroga alle facoltà dominicali di cui all'art. 840 del c.c. comma 2, e il diritto di veduta e di affaccio in deroga alle distanze prescritte dall'art. 905 del c.c.ma non anche le diverse facoltà esercitate in deroga a uno dei principi informatori della proprietà fondiaria dei quali gli artt. 908 e 913 c.c. sono espressione. Così si è chiaramente pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza n. 7576 del 28.3.2007.


VALERIA M. G. chiede
mercoledì 06/10/2010
“il mio vicino ha costruito un opera sul suo fondo dalla quale sono derivati e derivano ingenti infiltrazioni d'acqua che penetrano nella mia abitazione.
quali rimedi?”
Consulenza legale i 08/10/2010

Va preliminarmente accertato se la costruzione realizzata dal vicino sia stata fatta rispettando le norme sulle distanze tra gli edifici.


Antonio chiede
mercoledì 24/02/2010

“Il mio fondo è inferiore, ma il mio vicino che è al fondo superiore ha operato nell'anno 2000 una ristrutturazione di una casa ed ha cementificato abbondantemente il proprio giardino aumentando di fatto lo scolo delle acque verso il fondo inferiore. Cosa posso fare per impedire ciò, visto che lo scolo è stato reso più gravoso e che va a riempire un pozzo nero, facendo fuoriuscire i liquami sia sul fondo superiore che su quello inferiore?
Grazie.”

Consulenza legale i 20/12/2010

Il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo. Il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo, né il proprietario del fondo superiore può renderlo più gravoso. Secondo un consolidato ed unanime orientamento dottrinario e giurisprudenziale, la soggezione del proprietario del fondo inferiore a ricevere le acque reflue provenienti dal fondo superiore, stabilita dall’art. 913 del c.c. riguarda una limitazione legale della proprietà. Tuttavia è fatto divieto di compiere alterazioni dello stato dei luoghi che possano comportare una sensibile modifica del deflusso delle acque, rendendo più gravosa la condizione dell'uno o dell'altro fondo. Solo in caso di modificazione necessaria (quindi, eccezionalmente, in relazione ad opere di sistemazione o trasformazione agraria), è dovuta una mera indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio. Diversamente, il proprietario del fondo inferiore è legittimato ad agire per il ripristino dello stato naturale dei luoghi (se è operazione di facile attuazione e non eccessivamente onerosa) o all’esecuzione di opere eliminative (attuazione di un sistema alternativo per consentire lo scolo e il deflusso delle acque), purché esista un nesso causale fra l'opera dell'uomo e l'aggravamento dello stato di soggezione naturale del fondo inferiore nei riguardi di quello superiore. Il proprietario del fondo inferiore, in questo caso, può anche chiedere il risarcimento per quei danni immediatamente percepibili che obiettivamente si possono collegare alla modifica vietata. In via d’urgenza, è possibile il ricorso ad un provvedimento ex art. 700 del c.p.c.


N. chiede
giovedì 17/02/2022 - Sicilia
“Salve
Il lotto di terreno del mio villino è limitrofo, con pari quota, ad un lotto viciniore diviso da un muro di cemento che forma la base di una recinzione divisoria realizzata al 50% delle spese con il precedente proprietario, oggi defunto.
Nella parte inferiore del terreno limitrofo è stata realizzata una incisione/ canaletta che convoglia gran parte delle sue acque piovane nella canaletta parallela
in cemento realizzata nel mio terreno attraverso un foro realizzato, a mia insaputa, nel muretto di cemento divisorio.
A causa di questo scolo la mia canaletta si intasa frequentemente di terriccio e di foglie, provoca lo sversamento delle acque piovane nel mio terreno che diviene un acquitrino e causa la morte dei miei alberi da frutta.
Inoltre, sempre a mia insaputa, è stato realizzato un altro foro da cui fuoriesce un tubo in plastica in corrispondenza di un corpo di fabbrica (presumibilmente un servizio igienico) costruito quasi addossato al citato muretto di cemento divisorio.
Mi sono accorto di recente di questa situazione quando ho fatto pulire da un operaio agricolo la recinzione che nel tempo era stata ricoperta da rampicanti rigogliosi piantati dagli eredi del proprietario e che avevano invaso anche il mio terreno impedendomi di fatto di accorgermi dell'accaduto.
Non ho idea del periodo di realizzazione dei fori.
Non ho reperito i contatti degli attuali proprietari che, abitando in città, pare che frequentino di rado il loro villino (notizia ricevuta da un operaio che vi stava effettuando dei lavori agricoli.)
Il medesimo operaio invitato a non continuare nel suddetto convogliamento delle acque, ha risposto che aveva operato da tempo in quel modo e che poteva operare diversamente solamente su ordine del proprietario invitandomi a contattarlo.
Premetto che vorrei mantenere rapporti non conflittuali con il vicino
ma, considerati infruttuosi i tentativi di un contatto operati attraverso alcuni suoi parenti, chiedo di conoscere l'iter da seguire per ottenere il pristino dei luoghi originari.
Nella convinzione che l' esecuzione di queste opere abbiano alterato in modo sensibile lo scolo naturale delle acque del vicino, il sottoscritto, proprietario del fondo confinante ma non inferiore, come può esercitare il diritto ad agire per il ripristino dello stato naturale dei luoghi?
In caso di eventuale lungaggine giudiziaria chiedo di sapere se posso fare turare i fori da parte di un edile per non aggravare ulteriormente le condizioni del mio frutteto.”
Consulenza legale i 03/03/2022
Occorre premettere il vicino, per legittimare la propria condotta, non potrebbe invocare l’art. 913 c.c., nella parte in cui prevede che “il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo”: dunque, tale norma presuppone non solo che i fondi confinanti siano posti a livelli diversi, ma, soprattutto, che il deflusso delle acque sia naturale, condizioni entrambe non verificate nel caso in esame.
Per scrupolo, si osserva che, in base al terzo comma dell’articolo in commento, se per opere di sistemazione agraria dell'uno o dell'altro fondo si rende necessaria una modificazione del deflusso naturale delle acque, è dovuta un'indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio: naturalmente la necessità della modifica del deflusso naturale delle acque dovrebbe essere dimostrata dal proprietario del fondo confinante.
Secondo la giurisprudenza (Cass. civ., Sez. II, 26/04/2000, n. 5333), comunque, “la norma di cui all'ultimo comma dell'art. 913 c.c. ammette solo eccezionalmente, in relazione ad opere di sistemazione o trasformazione agraria, la possibilità di modificare il deflusso delle acque previa corresponsione di una mera indennità al proprietario del fondo finitimo (derogando all'ipotesi generale che obbliga l'autore delle modifiche alla riduzione in pristino o alla esecuzione di opere eliminative), ma non presuppone che, ogni qualvolta dette opere debbano essere compiute, la modificazione dello scolo possa venir realizzata senza alcun limite, poiché l'interesse del fondo superiore a potenziare la propria produttività va conciliato con il contrapposto interesse del fondo inferiore a non veder ridotta la propria con la conseguenza che, ove la modifica dello scolo abbia provocato un assoggettamento ben più gravoso del fondo inferiore, rispetto a quello preesistente (dovuto all'originario dislivello tra i fondi e al naturale deflusso delle acque), le modifiche (quantunque necessarie per lavori di sistemazione o trasformazione agraria) assumono indubitabili connotati di illiceità (ponendosi contro il generale divieto dell'art. 913 c.c. di rendere più gravoso lo scolo) e non consentono all'autore la semplice corresponsione dell'indennizzo, obbligandolo, per converso a restituire l'acqua al suo naturale deflusso mediante l'esecuzione di opere che neutralizzino l'aggravamento ripristinando nella originaria quantità ed intensità lo scolo naturale”.
Nel nostro caso, peraltro, è quanto meno dubbio che il vicino possa richiamare anche il terzo comma della norma, in assenza di un dislivello e, dunque, di un preesistente scolo naturale delle acque piovane.
Ad avviso di chi scrive, la fattispecie descritta nel quesito deve essere analizzata alla luce di quanto previsto dall’art. 1043 c.c., in materia di scarico coattivo di acque.
Infatti, per costante giurisprudenza, “la servitù coattiva di scarico può essere domandata per liberare il proprio immobile sia da acque sovrabbondanti potabili o non potabili, provenienti da acquedotto o da sorgente esistente nel fondo o dallo scarico di acque piovane, sia dalle acque impure, risultanti dal funzionamento degli impianti agricoli od industriali o degli impianti e servizi igienico-sanitari degli edifici” (Cass. Civ., Sez. VI - 2, ordinanza 06/05/2021, n. 11840; conf. Cass. Civ., Sez. II, sentenza 09/10/2013, n. 22990; Cass. Civ., Sez. II, 19/02/2007, n. 3750).
Occorrerà dunque verificare se sussistano i presupposti per la costituzione della servitù coattiva di scarico; come precisato da Cass. Civ., Sez. II, 14/05/2003, n. 7410, “i presupposti per la costituzione di una servitù di scarico coattivo ex art. 1043 c.c. non differiscono, compatibilmente con il diverso contenuto della servitù, da quelli contemplati dall'art. 1037 c.c. per la costituzione della servitù di acquedotto coattivo, applicabili in virtù del richiamo operato dalla prima di dette norme alle disposizioni degli articoli precedenti per il passaggio delle acque, occorrendo, pertanto, come per l'acquedotto coattivo che il passaggio richiesto - sempre che il proprietario del fondo non abbia altre alternative per liberarsi dalle acque di scarico, anche con la creazione di una servitù volontaria - sia il più conveniente ed il meno pregiudizievole per il fondo servente, avuto riguardo alle condizioni dei fondi vicini, al pendio e alle altre condizioni per la condotta, per il corso e lo sbocco delle acque e riferendosi il criterio del minor pregiudizio esclusivamente al fondo servente e quello della maggior convenienza anche al fondo dominante il quale non deve essere assoggettato ed eccessivo disagio o dispendio”.
Nel quesito non viene chiarito da quanto tempo siano state realizzate la canaletta e le altre opere descritte, chiarimento necessario al fine di poter valutare l’eventuale acquisto per usucapione della servitù.
In ogni caso, per ottenere il ripristino della situazione naturale dei luoghi, o, anche in via subordinata, di una situazione meno pregiudizievole per il fondo inferiore, qualora falliscano i tentativi di risoluzione bonaria della controversia, sarà inevitabile il ricorso al giudice, ad esempio con l’actio negatoria servitutis di cui all’art. 949 c.c., della quale naturalmente andranno vagliati attentamente i presupposti.
Rimane da valutare la possibilità di utilizzare un procedimento sommario come l’azione di manutenzione (art. 1170 c.c.), che però deve essere esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dalla turbativa.
Si sconsiglia, invece, di ricorrere a soluzioni “fai da te”, come la prospettata chiusura dei fori, per evitare che proprio il vicino possa a sua volta proporre l’azione di reintegrazione o di spoglio prevista dall’art. 1168 c.c., in quanto il nostro ordinamento non vede di buon occhio i tentativi di farsi giustizia da sé (il codice penale prevede, all'art. 392, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni).
Si ricorda, infine, che i diritti reali rientrano tra le materie per cui è prevista la c.d. mediazione obbligatoria (art. 5 D. Lgs. n. 28/2010), che potrebbe rivelarsi utile per prevenire il successivo contenzioso.

Nicola L. chiede
giovedì 29/04/2021 - Campania
“Buongiorno a voi,
sono proprietario di metà di una villa bifamiliare. Nel mio giardino si è aperta una voragine per la rottura di un tratto di 5 metri di un canale sotterraneo, in cemento, proveniente dal giardino del vicino, che serve ad incanalare e convogliare le acque piovane discendenti da un colatoio naturale della collina retrostante la sua porzione di casa che termina proprio nei pressi del suo giardino.Questo canale attraversa in diagonale per 20 metri il suo giardino dopodiché attraversa per 5 metri il mio giardino, tutto a circa 6 metri di profondità, unendosi (sempre nel mio giardino) all'imbocco di un successivo canalone analogo che attraversa in profondità un fondo in dislivello presente innanzi al mio giardino.Di questo canale di scolo non ero a conoscenza né io, che ho ACQUISTATO da mio padre, né il mio vicino che ha ACQUISTATO dal precedente proprietario che aveva costruito insieme a mio padre questa bifamiliare. Specifico che nemmeno mio padre ed il suo amico forse erano a conoscenza del canale in quanto si limitarono a comprare la terra dove questo insiste, da un proprietario, per costruirci la bifamiliare dividendo in due parti uguali anche il fondo su cui essa sorge. La metà del fondo toccato all'amico è quello da cui parte il canalone di scarico. Per risolvere la questione abbiamo incaricato un ingegnere di ripristinare il manufatto nel punto di rottura.Vorrei sapere come vanno ripartite le spese anche considerando che da pochi giorni un parente del mio vicino ha visto condonato un edificio più piccolo costruito attaccato alla porzione originaria della bifamiliare del mio vicino (col suo benestare ovviamente), trasformando l'intero complesso in una casa trifamiliare. Mi interessa sapere circa la ripartizione delle spese per la riparazione del canalone, soprattutto in vista di una futura e probabile rottura del tratto di venti metri presente sottoterra nel fondo del vicino.
Grazie”
Consulenza legale i 03/05/2021
L’art. 913 del c.c. al suo 1° comma ci dice che: "Il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l'opera dell'uomo". il successivo 2° comma, al fine di attuare il predetto principio, pone in capo ai proprietari sia dei fondi superiori che di quelli inferiori un obbligo di non fare, volto ad impedire che gli stessi pongano in essere sulle loro proprietà opere che impediscano e rendano più gravoso lo scolo e il deflusso delle acque (tra le tante: Cass. Civ.,Sez.II n.13097 del 15.06.2011). Tale obbligo di non fare non impedisce però al proprietario del fondo sottostante di porre in essere tutti quegli interventi tese ad agevolare il deflusso e permettere che l’acqua piovana defluisca verso i fondi circostanti.

Per quanto ci è dato capire questo è ciò che avvenne a suo tempo quando i due fondi sottostanti erano di un unico proprietario: fu costruito un sistema di canali teso a far meglio defluire le acque, magari per poi utilizzarle per fini agricoli.

Il successivo art. 917 del c.c. ci dice che: "Tutti i proprietari, ai quali torna utile che le sponde e gli argini siano conservati o costruiti… devono contribuire nella spesa in proporzione del vantaggio che ciascuno ne ritrae". Tale norma introduce un criterio oggettivo di riparto delle spese di manutenzione basato sulla utilità che ciascun proprietario trae dall’opera. Sarebbe quindi opportuno rivolgersi ad un tecnico che rediga una tabella di riparto attuativa del criterio indicato dall’art. 917 del c.c. da utilizzare per suddividere le spese di manutenzione del canale che attraversa i due fondi.

Si precisa che per costante giurisprudenza l'art. 917 del c.c. si applica solo quando l’esigenza di manutenzione o ricostruzione deriva dalla fisiologica vetustà dell’opera (e pare essere questo il caso), non se la rottura deriva da un comportamento negligente di uno dei proprietari: in questo caso trova applicazione l’ordinaria normativa sul risarcimento del danno.


Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.