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Articolo 2105 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Obbligo di fedeltà

Dispositivo dell'art. 2105 Codice Civile

Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio [2106, 2125].

Ratio Legis

Il dovere di fedeltà impone l'osservanza di due obblighi di natura negativa:
a) divieto di concorrenza;
b) obbligo di riservatezza.
la cui violazione importa responsabilità disciplinare (v. 2106), nonché l'obbligo al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro. Accanto alla tutela civilistica vi è quella penale per la protezione del segreto professionale ed aziendale (artt. 621-623 c.p.).

Massime relative all'art. 2105 Codice Civile

Cass. civ. n. 3543/2021

La violazione del dovere di fedeltà sancito dall'art. 2105 c.c. riguarda la concorrenza che il prestatore possa svolgere non già, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia svolto illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, incluso il periodo di preavviso, al tal fine assumendo rilievo anche il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, che impone a ciascuna delle parti il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

Cass. civ. n. 24619/2019

In tema di licenziamento disciplinare, ai fini della valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all'infrazione contestata, il giudice di merito deve esaminare la condotta del lavoratore, in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del "disvalore ambientale" che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere, per gli altri dipendenti dell'impresa, a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi.

Cass. civ. n. 10239/2019

Va sanzionata con il licenziamento, in quanto confliggente con l'obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c., la condotta del dipendente, il quale abbia taciuto di aver costituito una società potenzialmente concorrente con l'attività svolta dal suo datore di lavoro.

Cass. civ. n. 26496/2018

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.

Cass. civ. n. 19092/2018

L'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro deve avvenire nel rispetto dei limiti di continenza formale, il cui superamento integra comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro e può costituire giusta causa di licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato dall'impresa al proprio dipendente per avere proferito a voce alta, alla presenza del direttore generale e di un lavoratore, frasi ingiuriose all'indirizzo del primo, percepite anche da altri dipendenti e da due ospiti esterni).

Cass. civ. n. 14527/2018

L'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro può essere considerato comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro, e costituire giusta causa di licenziamento, quando avvenga con modalità tali che, superando i limiti della continenza formale, si traduca in una condotta gravemente lesiva della reputazione, con violazione dei doveri fondamentali alla base dell'ordinaria convivenza civile.

Cass. civ. n. 9590/2018

La previa contestazione dell'addebito, necessaria nei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.; per ritenere integrata la violazione del principio di specificità è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione.

Cass. civ. n. 25654/2017

Il dovere di fedeltà del lavoratore nei confronti del datore di lavoro permane sia durante il processo sia dopo la sentenza di reintegra, e anche durante le ferie del lavoratore, poiché il licenziamento dichiarato illegittimo incide solo sulla continuità di fatto delle prestazioni lavorative, non essendo idoneo ad interrompere il rapporto, tutte le volte in cui sia disposta la reintegrazione nel posto di lavoro, con il ripristino della situazione precedente, ai sensi dell'art. 18 st. lav.

Cass. civ. n. 16629/2016

In caso di impossessamento di documenti aziendali da parte del lavoratore, al fine di esercitare il diritto di difesa in giudizio, cui va in ogni caso riconosciuta prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell'azienda, occorre valutare la legittimità delle modalità di apprensione ed impossessamento, posto che le stesse potrebbero di per sé concretare ipotesi delittuose o, comunque, integrare giusta causa di licenziamento per violazione dell'art. 2105 c.c., ove in contrasto con i criteri comportamentali imposti dal dovere di fedeltà e dai canoni di correttezza e buona fede, sì da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto idonee a legittimare il licenziamento le modalità di apprensione della documentazione, consistenti nella registrazione di una conversazione tra presenti all'insaputa dei partecipanti e nell'impossessamento di una e-mail non destinata alla visione del lavoratore).

Cass. civ. n. 25682/2014

Il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ., anche ove i documenti prodotti non abbiano avuto influenza decisiva sull'esito del giudizio, operando, in ogni caso, la scriminante dell'esercizio del diritto di cui all'art. 51 cod. pen., che ha valenza generale nell'ordinamento, senza essere limitata al mero ambito penalistico.

Cass. civ. n. 18459/2014

La violazione del divieto di concorrenza posto a carico del lavoratore subordinato dall'art. 2105 cod. civ., riguarda non già la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella svolta illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso.

Cass. civ. n. 3822/2011

In tema di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il principio secondo cui il carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude la sanzionabilità in sede disciplinare, quando la natura della prestazione dovuta dal lavoratore richieda un ampio margine di fiducia esteso ai comportamenti privati non trova applicazione, ove il comportamento del prestatore si estrinsechi in comportamenti che siano espressione della libertà di pensiero, in quanto la tutela di valori tutelati costituzionalmente (art. 21 Cost.) non può essere recessiva rispetto ai diritti-doveri connaturali al rapporto di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso l'illegittimità del licenziamento irrogato, per violazione dell'obbligo di fedeltà, ad un direttore esecutivo di testata giornalistica che aveva pubblicato presso altre case editrice un volume relativo ad argomenti trattati anche dalla rivista della quale era dipendente).

Cass. civ. n. 14176/2009

L'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall'art. 2105 c.c., dovendo integrarsi con gli arti. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso l'illegittimità del licenziamento irrogato, per violazione dell'obbligo di fedeltà, ad un lavoratore che aveva svolto la pratica legale curando, in sede giudiziaria o extragiudiziaria, interessi di terzi in conflitto con quelli del datore di lavoro, ritenendo irrilevante la scarsa complessità dell'attività o il ridotto impegno richiesto dalla stessa).

Cass. civ. n. 2474/2008

Ai fini della configurabilità di una violazione dell'obbligo di fedeltà previsto dall'art. 2105 c.c., che si specifica nel divieto di concorrenza nei confronti del prestatore di lavoro subordinato — divieto che riguarda non già la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella svolta illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso — non sono sufficienti gli atti che esprimano il semplice proposito del lavoratore di intraprendere un'attività economica concorrente con quella del datore di lavoro, essendo invece necessario che almeno una parte dell'attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto.

In tema di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c. ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i dovere connessi a) suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno; tale contrarietà, peraltro, nel caso di dipendente di società, va necessariamente rapportata agli interessi del soggetto giuridico società e non agli interessi di un singolo socio o di un gruppo, anche se di maggioranza (nella specie, la S.C., nel confermare la sentenza impugnata, ha ritenuto che la condotta del dipendente di acquisto di quote azionarie e di successiva vendita delle stesse al maggior concorrente della società datrice di lavoro — attività in sé legittima sul piano del diritto societario ancorché suscettibile di autonoma valutazione nell'ambito del rapporto di lavoro — non integrasse gli estremi della giusta causa di licenziamento, tant'è che il Consiglio di amministrazione della società aveva escluso che fosse suo compito intervenire sui diritti dei soci al trasferimento delle azioni, restando privo di rilevanza che la suddetta operazione avesse sconvolto l'assetto societario a danno del socio di maggioranza).

Cass. civ. n. 16377/2006

Integra violazione del dovere di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., ed è potenzialmente produttiva di danno, la costituzione, da parte di un lavoratore dipendente, di una società per lo svolgimento della medesima attività economica svolta dal datore di lavoro. (Fattispecie in cui il dipendente, ricorrente, aveva costituito con altri una cooperativa di produzione e lavoro, all'interno della quale si era impegnato a svolgere la stessa attività che svolgeva per il proprio datore di lavoro, facendo diretta concorrenza a questi).

Cass. civ. n. 9056/2006

Il dovere di fedeltà, sancito dall'art. 2105 c.c., si sostanzia nell'obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi; pertanto, rientra nella sfera di tale dovere il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l'imprenditore-datore di lavoro nel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che sia necessaria, allo scopo, la configurazione di una vera e propria condotta di concorrenza sleale, in una delle forme stabilite dall'art. 2598 c.c. Nell'ipotesi di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore per assunta violazione del suddetto dovere di fedeltà, incombe al datore di lavoro l'onere di riscontrare rigorosamente i comportamenti attraverso i quali si sarebbe realizzata l'infedeltà del dipendente e, pertanto, la gravità della condotta di inaffidabilità tale da legittimare la sanzione del licenziamento. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell'enunciato principio, ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata, con la quale era stata accolta l'impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato nei confronti di un medico dipendente di una struttura sanitaria privata, sul presupposto del sistematico sviamento della clientela della struttura medesima presso altri laboratori per indagini soprattutto sugli allergeni, senza che, però, fosse emersa un'idonea prova, incombente sulla datrice di lavoro, sui singoli casi comportanti la violazione ripetuta dell'obbligo di fedeltà, anche in considerazione della circostanza che l'avviamento di pazienti presso altri istituti privati poteva essere in ipotesi giustificato dalla inidoneità del laboratorio appartenente all'azienda da cui dipendeva il lavoratore ad effettuare particolari complessi tipi di analisi e dalla necessità di osservare tempi più brevi per lo sviluppo di altre indagini).

Cass. civ. n. 13394/2004

Ai fini della configurabilità di una violazione dell'obbligo di fedeltà previsto dall'art. 2105 c.c., che si specifica nel divieto di concorrenza nei confronti del prestatore di lavoro subordinato — divieto che riguarda non già la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella svolta illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso — non sono sufficienti gli atti che esprimano il semplice proposito del lavoratore di intraprendere un'attività economica concorrente con quella del datore di lavoro, essendo invece necessario che almeno una parte dell'attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto.

Cass. civ. n. 19132/2003

Ai fini della configurabilità di una violazione del divieto di concorrenza previsto, nei confronti del prestatore di lavoro subordinato, dall'art. 2105 c.c. divieto che riguarda non già la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro, bensì quella illecitamente svolta nel corso del rapporto di lavoro non sono sufficienti gli atti preparatori di una attività economica concorrente, salvo che essa si concreti, durante la pendenza del rapporto, in atti sia pure iniziali di gestione.

Cass. civ. n. 12489/2003

L'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato va collegato ai principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., e, pertanto, impone al lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente, per cui, ai fini della violazione dell'obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore ex art. 2105 c.c., è sufficiente la mera preordinazione di una attività contraria agli interessi del datore di lavoro anche solo potenzialmente produttiva di danno. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto costituire violazione dell'obbligo di fedeltà l'attività del dipendente volta alla costituzione di una società, o anche di una impresa individuale, avente ad oggetto la medesima attività economica-commerciale svolta dal datore di lavoro.).

Cass. civ. n. 13329/2001

Lo svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze di un'impresa in concorrenza con il datore di lavoro può configurare la violazione del divieto di cui all'art. 2105 c.c., sotto il profilo della «trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l'imprenditore», solo ove tale concorrenza consista in atti rientranti in prestazioni di carattere intellettuale di notevole autonomia e discrezionalità, dato che proprio coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato sono in grado — al di fuori dell'ipotesi di divulgazione di notizie riservate o di metodi di lavoro peculiari — di porre in essere quella concorrenza più intensa che il legislatore ha inteso reprimere.

Cass. civ. n. 13188/2001

La sottrazione di documenti aziendali costituisce per il lavoratore violazione dei doveri di lealtà e correttezza imposti dall'articolo 2105 c.c., senza che rilevi in contrario l'intento dello stesso lavoratore di fare della documentazione un uso meramente processuale, atteso che il contrasto fra il diritto del dipendente alla tutela giurisdizionale (esercitato con la produzione di quei documenti) e il diritto del datore di lavoro alla riservatezza non può essere risolto unilateralmente dal lavoratore, ma deve essere valutato nella sede giudiziaria, nella quale il datore di lavoro, a fronte dell'eventuale ordine d'ispezione o di esibizione, può resistere a tale comando rimanendo esposto alle conseguenze che il giudice può trarre da tale suo comportamento.

Cass. civ. n. 519/2001

L'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c. e quelli, ad esso collegati, di correttezza e buona fede, cui è tenuto il dipendente nell'esecuzione del contratto di lavoro devono essere riferiti esclusivamente ad attività «lecite» dell'imprenditore, non potendosi certo richiedere al lavoratore la osservanza di detti obblighi, nell'ambito del dovere di collaborazione con l'imprenditore, anche quando quest'ultimo intenda perseguire interessi che non siano leciti. (Nella specie la sentenza impugnata, confermata sul punto dalla Suprema Corte, aveva escluso che costituisse inadempimento ai suddetti obblighi il comportamento di un lavoratore consistito nell'aver fotocopiato la distinta di spedizione di merce venduta a terzi dalla società datrice di lavoro senza la relativa documentazione fiscale e nell'aver poi trasmesso la suddetta fotocopia alla Guardia di finanza, la quale aveva avviato un accertamento fiscale nei confronti dell'azienda).

Cass. civ. n. 10287/2000

Incorre nella violazione del dovere di fedeltà, di cui all'art. 2105 c.c., il dipendente di un'azienda commerciale che, avvalendosi di un'associazione di dipendenti da lui stesso costituita e presieduta, svolga attività concorrente con quella della datrice di lavoro, acquistando prodotti da quest'ultima, al prezzo scontato praticato ai dipendenti, e rivendendoli a terzi a prezzo maggiore, seppure scontato rispetto al prezzo praticato dall'azienda nei confronti della clientela.

Cass. civ. n. 5629/2000

La prestazione d'opera da parte del lavoratore subordinato a favore di terzi concorrenti costituisce una violazione dell'obbligo di fedeltà che, se è irrilevante sotto il profilo penale qualora compiuta fuori del normale orario di lavoro, integra il reato di truffa se svolta nell'orario normale, da parte di soggetto che lucra la retribuzione, fingendo di svolgere il lavoro che gli è stato affidato, mentre svolge altra attività. Ne consegue che, ove sorga il giustificato dubbio che un dipendente incaricato di mansioni da espletare al di fuori dei locali dell'azienda in realtà si renda responsabile di un comportamento illecito di tale genere, è giustificato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati per verifiche al riguardo, né sono ravvisabili profili di illiceità a norma dell'art. 2, secondo comma, della legge n. 300 del 1970, il quale, prevedendo il divieto per il datore di lavoro di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell'attività lavorativa e il divieto per queste ultime di accedere nei locali dove tale attività è in corso, nulla dispone riguardo alla verifica dell'attività lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali da parte di soggetti non inseriti nel normale ciclo produttivo. (Omissis).

Cass. civ. n. 2949/1997

I comportamenti posti in essere dal lavoratore licenziato (il quale richieda la reintegrazione nel posto di lavoro) nel periodo intermedio tra il licenziamento e l'ordine di reintegrazione possono avere rilievo sotto il profilo dell'eventuale violazione dell'obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.), che permane anche nel periodo suddetto, e possono anche giustificare un nuovo licenziamento, tenendo conto però che dalla violazione di tale obbligo (violazione nella specie consistente nello svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze di altro datore di lavoro, operante in concorrenza con il datore di lavoro originario) non consegue automaticamente una facoltà per quest'ultimo di procedere ad un nuovo licenziamento, dovendo in ogni caso valutarsi la gravità in concreto della condotta inadempiente del lavoratore e la sussistenza della proporzionalità tra tale condotta e l'estremo rimedio costituito dalla risoluzione del rapporto.

Cass. civ. n. 512/1997

Nell'ipotesi in cui la giusta causa del licenziamento consista nella violazione dell'obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore, ai sensi dell'art. 2105 c.c. (violazione per la cui sussistenza basta anche la mera preordinazione di una attività contraria agli interessi del datore di lavoro, potenzialmente produttiva di danno, quale, nella specie, la costituzione di una società diretta a far concorrenza al datore di lavoro) trattandosi di obbligo imposto direttamente dalla legge, non ne è necessaria la previsione in un codice disciplinare affisso in luogo accessibile a tutti i lavoratori, a norma dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, né rileva l'accertamento dell'intensità dell'elemento psicologico della mancanza.

Cass. civ. n. 11437/1995

Il carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude la sanzionabilità in sede disciplinare, quando la natura della prestazione dovuta dal lavoratore subordinato richieda un ampio margine di fiducia esteso ai comportamenti privati. Infatti gli artt. 2104 e 2105 c.c., richiamati dalla disposizione dell'art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata avente ad oggetto un facere, e che l'obbligo di fedeltà vada inteso in senso ampio e si estenda a comportamenti che per la loro natura e le loro conseguenze appaiono in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa. (Nella fattispecie, il giudice di merito, con sentenza annullata dalla Suprema Corte, aveva dichiarato l'illegittimità della sanzione disciplinare irrogata al funzionario di una cassa di risparmio che aveva emesso, sul suo conto corrente presso la medesima cassa, assegni privi di copertura per oltre 9 milioni di lire).

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Consulenze legali
relative all'articolo 2105 Codice Civile

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E. C. chiede
mercoledì 22/05/2024
“Salve,
sono uno sviluppatore software dipendente di una spa con sedi in tutto il mondo e il motivo per il quale vi contatto è che vorrei ricevere maggiori delucidazioni in merito all'articolo 2105 del codice civile. Necessito di ciò poichè vorrei poter aprire una partita iva parallelamente senza incorrere in problematiche con l'azienda. Più nello specifico, oltre che al licenziamento, non vorrei ritrovarmi in una situazione in cui sarei costretto a dover addirittura risarcire l'azienda.

Di seguito la qualifica presente nel contratto:
"Lei sarà assunto con la qualifica di Impiegato di 1° Livello, applicazione del CCNL Aziende del Terziario, della
Distribuzione e dei Servizi e con assegnazione della mansione di Software Developer.
La Società si riserva la facoltà di modificare le mansioni a Lei attribuite nei limiti consentiti dall’art. 2103 c.c. e
della disciplina contrattuale in materia."


Nell'operatività quotidiniana, sviluppo applicazioni web per clienti grandi (centinaia di milioni di euro di fatturato annuo) mentre nel mio privato extra lavorativo, andrei a sviluppare e manutenere nel tempo siti web vetrina ed ecommerce. Nel lavoro svolto come dipendente, faccio uso di una tecnologia software (Angular) differente da quella utilizzata nel privato; in quest'ultimo invece farei uso di piattaforme open source come Wordpress e Prestashop. La figura dello sviluppatore è fin troppo generica in quanto nulla mi vieta un domani di studiare una nuova tecnologia e passare ad esempio allo sviluppo di applicazioni mobile ios e android, dunque pur essendomi documentato tantissimo, non riesco a capire qual è il punto in cui si verifica o meno una violazione del patto.

Nel contratto c'è scritto quanto segue:
"Le ricordiamo che, in costanza del rapporto di lavoro con la Società, Lei è tenuto a non svolgere, né
direttamente né indirettamente, alcuna altra attività lavorativa, in proprio, alle dipendenze o per conto terzi in
concorrenza con la Società"

Nel documento del regolamento aziendale firmato trovo invece quanto segue:

Art. 3 - Obbligo di diligenza e non concorrenza (artt. 2104 e 2105 c.c.)
1. Obbligo fondamentale di ciascun Dipendente è quello di:
- svolgere la propria attività lavorativa e le proprie prestazioni con diligenza, efficienza e correttezza, utilizzando al
meglio gli strumenti e il tempo a disposizione ed assumendo le responsabilità connesse agli adempimenti, al fine
di ottimizzare la soddisfazione del datore di lavoro e dei clienti finali di Alten Italia S.p.A.;
- evitare ogni situazione o attività che possa condurre a conflitti di interesse con la società datrice di lavoro e con i
clienti finali della stessa;
- impegnarsi a curare e migliorare le proprie competenze e professionalità, arricchendole con l’esperienza e la
collaborazione dei colleghi, assumendo un atteggiamento costruttivo e propositivo.
2. Accanto a questi obblighi fondamentali ciascun dipendente è tenuto a uniformare il proprio comportamento al rispetto
degli artt. 2104 e 2105 del Codice Civile e precisamente:
- nello svolgimento della prestazione deve utilizzare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione e dalla
responsabilità ad essa collegata;
- deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dai superiori dai quali
dipende gerarchicamente;
- non deve trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con le attività svolte da Alten Italia S.p.A.;
- non deve divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in
modo da poter recare ad essa pregiudizio.


Dunque, sperando di aver esposto in modo chiaro il mio problema, vi chiedo se a parer vostro un'eventuale mia attività in parallelo possa espormi a rischio o meno. Online leggevo inoltre che un eventuale patto di non concorrenza prevederebbe anche una definizione di tempistica, territorialità e corrispettivo a fronte del corretto adempimento. Quest'ultimo pare sia legato all'articolo 2125 mentre nel mio contratto e regolamento vengono menzionati 2104 e 2105.

Resto in attesa di vostre delucidazioni e resto a disposizione nel fornirvi ulteriori materiali per affrontare il discorso.

Cordiali Saluti”
Consulenza legale i 31/05/2024
Ai sensi dell’art. 2105 c.c., “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, ne' divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.

Da tale precetto derivano due distinti doveri: divieto di concorrenza, che cessa con l’estinzione del rapporto di lavoro, e obbligo di riservatezza, che sussiste, anche successivamente alla cessazione del rapporto, fino a quando vi sarà l’interesse dell’imprenditore a tale segretezza.

La violazione di tali divieti costituisce una grave violazione dei doveri fondamentali del lavoratore e, determinando una lesione degli interessi del datore di lavoro, ben potrà essere sanzionata con il licenziamento disciplinare o, successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, con il risarcimento dei danni patrimoniali cagionati all’ex datore di lavoro, purché ve ne sia fornita la prova.

L’art. 2105 c.c. riguarda le attività del dipendente in costanza del rapporto di lavoro e non ha nulla a che vedere con l’art. 2125 che regola il patto di non concorrenza. Quest’ultimo, se stipulato, limita le attività dell’ex dipendente una volta cessato il rapporto di lavoro.

Tanto premesso, se l’attività che si intende svolgere non si esplicherà in attività concorrenziale al datore di lavoro, se non verranno utilizzate informazioni riservate, relative all’azienda per cui si lavora, apprese in ragione del rapporto di lavoro subordinato, se non si farà uso di metodi di produzione, brevetti, invenzioni industriali del datore, se, in concreto, non verrà cagionato nessun pregiudizio all’azienda, in termini di calo del volume di affari, in quanto si opererà in ambiti estranei a quelli tipici dell’oggetto sociale, non sussisterà alcuna preclusione di natura giuridica, allo svolgimento dell’attività in proprio.

Tuttavia, nel caso di specie si tratta proprio dello stesso tipo di attività, anche se in ambiti diversi, ed il rischio che venga considerata in concorrenza, anche solo potenziale, con il datore di lavoro è abbastanza concreto.

Secondo la giurisprudenza, infatti, integra violazione del dovere di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., ed è potenzialmente produttiva di danno, la costituzione, da parte di un lavoratore dipendente, di una società per lo svolgimento della medesima attività economica svolta dal datore di lavoro (fattispecie in cui il dipendente, ricorrente, aveva costituito con altri una cooperativa di produzione e lavoro, all'interno della quale si era impegnato a svolgere la stessa attività che svolgeva per il proprio datore di lavoro, facendo diretta concorrenza a questi - Cassazione civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 16377 del 18 luglio 2006).

Sarebbe, inoltre, opportuno controllare che all’interno delle clausole contrattuali, non sia previsto un obbligo di comunicazione al datore di lavoro, delle iniziative imprenditoriali intraprese dal lavoratore dipendente.

Nel caso di specie non si può escludere che la Società per cui si lavora ritenga concorrenza sleale l’attività in proprio come sviluppatore software. Ciò porterebbe a controversie con la società, anche se la stessa per ottenere un risarcimento dovrebbe dimostrare i danni subiti.

A parere di chi scrive sarebbe opportuno comunicare alla Società l’intenzione di avviare l’attività in proprio, in modo da evitare fin da subito equivoci.


M. U. chiede
giovedì 04/04/2024
“Buonasera, vorrei sottoporre ai vostri esperti la seguente problematica.
Sono proprietaria di un immobile all’ interno di un villaggio dove per parecchi anni vi è stato un dipendente (ora in pensione dal 31/12/23 che identificheremo come A), assunto con qualifica di custode con alloggio ma che ha sempre svolto principalmente mansioni di giardiniere presso le proprietà private e manutentore (vascone raccolta acqua/depuratore ecc.). Già da parecchi anni aveva un aiutante (a tempo determinato che identificheremo B) che è stato poi assunto da maggio 2023 per sostituirlo (unica differenza senza alloggio).
Ora è stata convocata un’assemblea per il prossimo 12 aprile, con all’ordine del giorno:
1. l’assunzione (non si sa in che forma) di questo ex dipendente A che esce dalla porta e rientra dalla finestra paventando la “necessità di una persona esperta che conosce bene il villaggio”, ma secondo me con mansioni di custode per potergli riassegnare la casa/alloggio che utilizza per scopi personali.
Abbiamo sopportato parecchie situazioni difficili, contestando spesso le irregolarità ma pensavamo che con la pensione sarebbe finito l’incubo invece non è così. Questa persona A in tutti questi anni passati si presentava in assemblea con un numero di deleghe anche oltre i limiti previsti dal C.C., poiché la maggior parte dei proprietari vive fuori Sardegna. Ha sempre avuto la maggioranza dei millesimi in assemblea (a volte divisi con la moglie) dunque decideva su tutto, vantandosene pure.
Aveva carta bianca con gli amministratori per le spese e molto spesso abbiamo riscontrato irregolarità. Si occupava e lo fa tuttora di affittare alcune case, oltre a lavori di muratura, giardinaggio (con i mezzi del condominio di cui tutti paghiamo carburante e pezzi di ricambio). Inoltre lui e la moglie si occupavano del lavaggio della biancheria delle case affittate utilizzando luce e acqua della casa del custode. Nonostante gli sia stato intimato di lasciare la casa continua a occuparla sine titulo, sicuramente con l’ appoggio dell’amministratore.
Vorrei il vostro illustre parere in merito:
1) si può impedire la riassunzione di questa persona A? La maggioranza può imporcelo?
2) può il dipendente B assunto come custode senza alloggio svolgere l’attività prevalente di giardiniere (oltre a diversi altri lavoretti) quasi esclusivamente per la maggior parte del tempo presso proprietà private (solo in minima parte su parti condominiali) con esclusione della mia e altre cinque proprietà che però sono costrette ad accollarsi le spese.
Si ringrazia anticipatamente.”
Consulenza legale i 16/04/2024
Il principio generale previsto dal 1° comma dell’art.1137 del c.c. prevede che a fronte di una delibera assembleare regolarmente approvata dalla legge, la minoranza dissenziente debba sottostare alle decisioni prese dalla maggioranza. Ovviamente se l’iter per l’approvazione della delibera presenta delle irregolarità vi è la possibilità di impugnare quanto deciso entro i termini perentori indicati sempre dal medesimo art. 1137 del c.c.
Per dare quindi una prima risposta al quesito sub A) possiamo dire che, se la proposta di riassunzione raggiungerà le maggioranze previste dalla legge, la minoranza dovrà accettare la riassunzione di A, ovviamente a patto che la delibera non presenti una qualche violazione di legge. Per fare un esempio pratico è ovvio che, se A, o chi per lui, si presenterà in assemblea con un numero di deleghe che superano il limite previsto dall’art. 67 delle disp. att. c.c. (norma applicabile a condomini con più di venti partecipanti), vi sarebbero gli estremi per annullare per via giudiziaria la delibera che acconsente alla riassunzione del custode, a patto che l’impugnazione sia proposta tempestivamente.
La vicenda descritta tuttavia non può essere risolta solo dal punto di vista assembleare.

Il quesito infatti accenna a diversi comportamenti tenuti da A, pare con il beneplacito dell’organo amministrativo del complesso, che potrebbero anche costituire le basi per richiedere la revoca dell’amministratore e la sua sostituzione con un diverso soggetto nominato dal giudice, del tutto dissociato dall’ ex custode. Si fa riferimento in particolare: alla presenza di irregolarità nei bilanci condominiali, all’ utilizzo della casa del custode per fini estranei agli interessi comuni, il considerare come condominiali interventi di manutenzione fatti su proprietà esclusive di alcuni condomini, a quanto pare, compiacenti e, infine, il non vigilare adeguatamente sui lavoratori assunti dal condominio, ed in particolare sul loro rispetto da pare loro dell'obbligo di fedeltà previsto dall'art. 2105 del c.c. (sul punto si veda meglio la seconda parte del presente parere)

Tutti questi comportamenti potrebbero giustificare una richiesta di revoca dell’attuale amministratore, ma purtroppo il quesito non offre spunti sufficienti per poter approfondire meglio l’argomento in questa sede.

Per quanto riguarda il quesito sub. B è ovvio che tale soggetto in linea di massima è stato assunto per occuparsi delle parti comuni dell’edificio: nulla vieta che egli possa poi anche occuparsi di interventi di piccola manutenzione sulle proprietà degli altri condomini, ma il costo di tali lavori e i compensi dati a B non potranno essere inseriti nel bilancio del condominio e ripartiti tra tutti gli altri proprietari: una delibera che approvasse un bilancio così redatto sarebbe gravemente nulla e impugnabile davanti alla autorità giudiziaria in ogni tempo, anche a distanza di anni. Gli oneri attinenti alle parti in proprietà esclusiva dell’edificio devono essere infatti sopportati individualmente dai singoli condomini.

Vi è poi una questione sotto il profilo giuslavoristico.
Infatti, sia A che B, in quanto lavoratori subordinati, sono tenuti all’obbligo di fedeltà nei confronti del datore di lavoro, in questo caso il condominio.

L’obbligo di fedeltà del lavoratore ha come fonte principale l’art. 2105 cod. civ. che sancisce espressamente il divieto per il prestatore di lavoro di «trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio».
Ratio della norma è quella di tutelare l’interesse economico del datore di lavoro.

La portata dell’obbligo previsto dall’art. 2105 cod. civ. è stata ampliata dalla giurisprudenza di legittimità, fino a ricomprendere anche tutte quelle condotte «che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nella organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere il vincolo fiduciario del rapporto stesso» (Cfr. Cass sez. lav. 30/10/2017, n.25759; conforme: Trib. Milano n. 3221/2011).

La Cassazione, infatti, ritiene che il contenuto dell’obbligo di fedeltà del lavoratore non si limiti ai solo divieti espressamente sanciti dalla norma in esame, perché detta norma deve essere integrata con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi.

Pertanto, sia A che B potranno svolgere i lavori di giardinaggio e simili sulle proprietà private al di fuori dell’orario di lavoro, come secondo lavoro, ma non potranno utilizzare i mezzi del condominio.

Infatti, utilizzando i mezzi del condominio per il loro secondo lavoro ledono di fatto gli interessi economici del condominio e, pertanto, vengono meno al loro obbligo di fedeltà.

In secondo luogo, sia A che B, devono svolgere le mansioni per le quali sono stati assunti. Per le mansioni specifiche si dovrà fare riferimento al CCNL applicato ed eventualmente ad ulteriori specificazioni contenute nel contratto individuale sottoscritto.

In generale, si tratterà presumibilmente di compiti che hanno a che fare con il condominio nella sua generalità, ma non con i singoli condomini.

Da un lato, svolgendo lavori per i singoli condomini durante l’orario di lavoro, sia A che B trascurano le mansioni per le quali sono stati assunti, rendendosi quindi inadempienti sia dal punto di vista contrattuale che disciplinare.

Dall’altro, vi è il rischio di un infortunio proprio mentre vengono svolti i lavori extra (ad esempio, mentre il custode si trova nel giardino di un condòmino per eseguire qualche lavoro): tale incidente non verrebbe coperto dall’assicurazione Inail, proprio perché al di fuori del luogo di lavoro, che è rappresentato dalla sua guardiola e dalle parti comuni del condominio.

Sia l’inadempimento delle mansioni, sia l’infedeltà del dipendente sono comportamenti che possono portare a sanzioni disciplinari e persino al licenziamento. Il lavoratore infedele è, peraltro, tenuto al risarcimento dei danni arrecati.

Naturalmente, si dovrà anche tenere conto delle direttive che sono state impartite. Infatti, nel caso in cui sia l’amministratore ad ordinare a B di svolgere i lavori di giardinaggio sulle proprietà private, o, addirittura, sia una delibera assembleare - per quanto illegittima - a prevedere tali mansioni, non si potrà imputare al custode la responsabilità. Infatti, B è tenuto a rispettare le direttive del datore di lavoro (rappresentato dall’amministratore di condominio). Il lavoratore può contestare che le mansioni affidate rientrino in quelle previste dal contratto. Tuttavia, il dipendente non può semplicemente rifiutarsi di eseguire la prestazione perché, a suo dire, le nuove mansioni sono illegittime: una condotta del genere sarebbe classificabile come insubordinazione e, quindi, passibile di licenziamento.


Patrizia V. chiede
sabato 13/11/2021 - Lazio
“Siamo una microazienda srl (con 6 dipendenti) e abbiamo un appalto (gara MEPA) con l'università di (omissis) che prevede l'impiego di 2 nostre risorse presso l'ente per attività di consulenza. E' possibile prevedere una clausola per cui i nostri dipendenti durante il periodo dell'appalto (gara MEPA) non possano essere assunti con concorso pubblico presso il suddetto Ente ?”
Consulenza legale i 18/11/2021
Nel caso di specie sono possibili due vie.

Da un lato si potrebbe prevedere un patto di stabilità, ovvero una clausola, stipulata di solito in sede di assunzione, ma possibile anche successivamente, con cui una parte o entrambe si impegnano a non recedere dal rapporto per un certo periodo di tempo, garantendo così una durata minima al contratto di lavoro.
Un simile accordo è ritenuto legittimo dalla giurisprudenza maggioritaria. Infatti, in un caso analogo, la Cassazione, sez. lav., sentenza 26 ottobre 2016, n. 21646 ha affermato che «il lavoratore subordinato, come ha facoltà di disporre liberamente del proprio diritto di recedere dal rapporto di lavoro (v. Cass. n. 17010/2014; Cass. n. 17817/2005), così può liberamente concordare una durata minima del rapporto stesso, che comporti, fuori dell’ipotesi di giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 c.c., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del suddetto periodo minimo di durata».

In caso di violazione del patto di stabilità, si può anche prevedere una penale. La penale, tuttavia, non può essere eccessivamente onerosa e limitare eccessivamente la possibilità di recesso, altrimenti potrebbe essere considerata nulla.

Nel caso di specie, la durata del patto di stabilità dovrebbe coincidere con il periodo dell’appalto. Quest’ultimo, tuttavia, non dovrebbe avere una durata eccessiva (per esempio, 10 anni).
Altrimenti anche in caso di eccessiva durata, il patto di stabilità potrebbe essere considerato nullo.

In alternativa (o anche in aggiunta) al patto di stabilità potrebbe essere stipulato un patto di non concorrenza, ovvero un accordo scritto tra datore di lavoro e lavoratore con cui le parti convengono di prolungare, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, gli obblighi di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. imposti al lavoratore nel corso dello svolgimento del rapporto stesso.
Il patto di non concorrenza è regolato dall’art. 2125 c.c., il quale al comma 1 individua una serie di cause di nullità dello stesso: “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo”.

La delimitazione dell’oggetto del patto di non concorrenza può essere determinata non già (o non solo) sulla base delle attività che l’ex dipendente è tenuto a non svolgere ma anche sulla base dei soggetti a favore dei quali l’ex dipendente non potrà svolgere una determinata attività lavorativa, tra questi potrà essere inserito appunto l’ente con il quale l’azienda ha stipulato l’appalto.



F.S. chiede
domenica 24/10/2021 - Lazio
“Buongiorno,

vorrei sapere se l'art. 2105 può trovare applicazione anche in una azienda che ha CESSATO LE OPERAZIONI; come è il caso ad esempio di Alitalia, che recentemente ha pubblicamente chiuso le attività il 14 ottobre us.
Per un dipendente che NON abbia dato le dimissioni da una azienda in tale posizione "fuori mercato", può comunque delinearsi un addebito di inottemperanza dell'obbligo di fedeltà, con riferimento anche all'art 2557 sul divieto di concorrenza, anche laddove tale concorrenza sarebbe di fatto impossibile? Ovviamente parliamo di un dipendente che, seguendo l'esempio specifico di cui sopra, avesse cominciato la sua attività in una società dello stesso settore (ITA airways sarebbe l'esempio perfetto) dal GIORNO SUCCESSIVO rispetto al termine di attività dell'altra.

Il dipendente potrebbe eventualmente subire il licenziamento da entrambe le società, oppure solo dalla società che aveva chiuso?

Grazie”
Consulenza legale i 30/10/2021
Secondo la giurisprudenza, l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. persiste anche in tutte quelle situazioni in cui il rapporto di lavoro è sospeso (cassa integrazione, malattia del dipendente, congedo parentale, impugnazione del licenziamento).

Nel caso di specie, nonostante la prima azienda abbia cessato le operazioni, il rapporto di lavoro è comunque ancora in essere e – anche se per assurdo – l’azienda potrebbe riprendere le operazioni.
Il lavoratore che non abbia dato le dimissioni e dal giorno successivo alla cessazione delle attività abbia iniziato a lavorare presso una diversa azienda dello stesso settore si pone potenzialmente in contrasto con l’obbligo di fedeltà.

Infatti, a differenza dell’art. 2598 c.c. che presuppone il verificarsi di un danno causato della concorrenza sleale, l’art. 2105 c.c. comporta una lesione del vincolo fiduciario che può anche non essere accompagnato dal realizzarsi di un danno economico per l’azienda.
Le conseguenze saranno eventualmente sul piano disciplinare, fino ad arrivare al licenziamento.

È, pur vero, tuttavia, che secondo la giurisprudenza fanno eccezione all’obbligo di fedeltà “i comportamenti dovuti alla necessità di provvedere mezzi di sussistenza alternativi a quelli del rapporto cessato e di fatto non più corrisposti, ricerca che il lavoratore svolge ovviamente nell'ambito della propria professionalità, e quindi anche, eventualmente, presso la concorrenza” (Cass. 10663/2004).
Nel caso di specie, pertanto, il dipendente potrebbe giustificarsi appunto adducendo l’esigenza di procurarsi un nuovo lavoro nell’ottica dell’imminente licenziamento per cessazione attività.
Il licenziamento però deve essere stato quantomeno prospettato perché se l’azienda avesse invece intenzione di cedere l’azienda o un ramo di azienda la questione si porrebbe in termini differenti.

Il problema si pone anche per la nuova azienda, nel caso in cui quest’ultima non sia a conoscenza del fatto che sia ancora in essere un rapporto di lavoro tra il proprio dipendente e l’azienda che ha cessato le attività.
Il dipendente sembrerebbe voler, come si suol dire, “tenere il piede in due scarpe”.

Data la particolarità della situazione, si consiglia di informare entrambe le società della contemporanea sussistenza dei rapporti di lavoro.

Per quanto riguarda l’art. 2598 c.c., dal momento che lo stesso presuppone, come visto, la dimostrazione di un danno a carico dell’azienda non sembra possa rilevare nel caso di specie, in cui un danno sembrerebbe attualmente improbabile. Naturalmente, il dipendente non dovrà trasmettere informazioni, know how e quant’altro alla nuova azienda altrimenti si rientrerebbe nelle ipotesi dell’art. 2598 c.c. con una potenziale richiesta di risarcimento del danno.




F. chiede
martedì 07/09/2021 - Toscana
“Buonasera,
premetto quanto segue:
Lavoro come dipendente impiegato full-time per un'azienda di software gestionali dove mi occupo di vendite e la mia mansione principale è quella della tentata vendita, svolta prevalentemente al di fuori dei locali aziendali, ovvero recandomi presso i clienti e potenziali clienti. Nel corso degli anni ho acquisito un discreto pacchetto clienti.
Il mio quesito è questo:
vorrei iniziare a svolgere, parallelamente, una seconda attività da autonomo come agente assicurativo con mandato. Chiaramente l'intento sarà quello di andare a proporre i prodotti assicurativi ai clienti che sto seguendo con l'azienda presso cui sono impiegato. Ufficialmente questa attività verrà svolta solo al di fuori dell'orario lavorativo. Premesso che né le compagnie assicurative, né i prodotti assicurativi sono in concorrenza con l'azienda per cui lavoro e con i suoi prodotti, potrò svolgere entrambe le attività nel rispetto della legge e senza correre il rischio di licenziamento? Sfruttare la clientela dell'azienda per andargli a proporre prodotti di altra società (ripeto, non sono in concorrenza) costituisce una violazione del dovere di fedeltà? Sarei inoltre obbligato a mettere a conoscenza il mio datore di lavoro di questa mia iniziativa? Se invece non dicessi niente, cosa rischierei se il datore di lavoro lo venisse a scoprire?
Grazie in anticipo per la risposta che vogliate darmi

cordialmente

Consulenza legale i 15/09/2021
Il lavoratore autonomo titolare di partita IVA non ha alcun vincolo di orario, pertanto, non ci sarebbero incompatibilità orarie nello svolgimento dei due lavori.
Quindi il lavoratore alle dipendenze di un’azienda privata potrà svolgere, al di fuori dell’orario di lavoro, la propria attività di lavoro autonomo.

Non vige neppure l’obbligo di comunicare all’azienda la decisione di intraprendere una seconda attività, a patto che venga rispettato interamente il contratto firmato con l’azienda. Pertanto, il secondo lavoro da autonomo non deve in alcun modo minimizzare o pregiudicare l’incarico da dipendente.

Ad ogni modo il dipendente sarà legato all’obbligo di fedeltà all’impresa (art. 2105 c.c.) per la quale lavora.

Secondo tale norma, tutti i dipendenti hanno l’obbligo di non esercitare attività in concorrenza con il proprio datore di lavoro (salvo diverso accordo tra le parti). Questo significa che un secondo lavoro è possibile solo nella misura in cui riguardi un campo completamente diverso di attività o settore merceologico.
Il lavoratore dipendente deve inoltre rispettare un dovere di riservatezza che impone di non comunicare a terzi – neanche ad altri datori di lavoro – tutte le informazioni di cui sia a conoscenza proprio in virtù delle sue mansioni.
Ricapitolando, il lavoratore dipendente non potrà svolgere attività libero professionale in concorrenza con quella dell’imprenditore, né rivelare all’esterno dati, modalità di lavoro, metodi di produzione o notizie.
L’inadempimento di tali obblighi può condurre ad un licenziamento per giusta causa.

Nel caso di specie, pur non essendovi incompatibilità tra le due attività, l’utilizzo della lista clienti potrebbe essere considerato una violazione dell’obbligo di riservatezza.

La giurisprudenza ha più volte evidenziato che costituisce patrimonio aziendale con ingente valore economico, il complesso dei dati relativi alle liste clienti e fornitori di un’impresa anche se non espressamente qualificato come “informazione segreta”.

La comunicazione a terzi della lista clienti può costituire, quindi, da un lato una violazione dell’obbligo di riservatezza, dall’altro, nel caso in cui sia anche solo potenzialmente lesiva degli interessi del datore di lavoro, un’ipotesi di concorrenza sleale.

Da un lato, pertanto, potrebbe esporre il dipendente ad un procedimento disciplinare per violazione dell’obbligo di riservatezza, che potrebbe portare ad un licenziamento in tronco, per giusta causa.

Dall’altro, potrebbe comportare una responsabilità aquiliana per concorrenza sleale nel caso in cui il datore di lavoro dimostrasse i danni subiti.
Tale ultima ipotesi risulta meno probabile nel caso di specie, considerato che le due aziende non sono in concorrenza tra loro. Tuttavia, non impossibile, dato che il datore di lavoro potrebbe lamentare, per esempio, un danno all’immagine per la diffusione dei dati dei clienti.

Per tali ragioni si consiglia, pur in assenza di un obbligo in tal senso, di comunicare comunque al datore di lavoro la decisione di intraprendere il secondo lavoro e di evitare di comunicare liste clienti alla nuova società per cui si lavorerà.


Benedetto Z. chiede
mercoledì 26/05/2021 - Lazio
“Buon pomeriggio,
Io sono stato licenziato per giusta causa a marzo 2021.
Con il mio avvocato abbiamo impugnato il licenziamento ed adesso stiamo preparando il ricorso in tribunale secondo il rito fornero con richiesta di nullità e quindi con eventuale richiesta della indennità sostitutiva della reintegra (non intendo toranre a lavorare dal mio ex datore di lavoro) oltre che del risarcimento danno.
Io sono un responsabile commerciale e sto ricevendo diverse offerte dai concorrenti, inoltre sto valutando la possibilità di lavorare come agente di commercio nello stesso settore.
E' chiaro che il mio valore professionale vale solo nel campo in cui lavoro ed è dato dalle mie conoscenze commerciali: se andassi a lavorare in un altro settore dovrei ricominciare da zero.
La mia domanda è fondamentalmente questa:
Come posso, nelle more del giudizio, lavorare nello stesso settore del mio ex datore di lavoro senza violare il patto di fedeltà che mi sembra valga durante tutta l'impugnazione? Posso farlo dichiarando subito che voglio optare per l'indennità sostitutiva della reintegra? in questo caso cosa perderei? Se lavorassi in concorrenza cosa potrei rischiare?
In sostanza, come mi consigliare di agire? la giusta causa di licenziamento assolutamente non c'è quindi pensiamo di poter vincere facilmente; ho bisogno di lavorare ma al tempo stesso non vorrei compromettere la situazione facendo passi avventati
Saluti
Benedetto”
Consulenza legale i 04/06/2021
Secondo la giurisprudenza costante della Cassazione, il dovere di fedeltà del lavoratore nei confronti del datore di lavoro (art. 2105 c.c.) permane sia durante il processo sia dopo la sentenza di reintegra e anche durante le ferie del lavoratore (Cass.9925/2009). Il licenziamento dichiarato illegittimo incide solo sulla continuità di fatto delle prestazioni lavorative, non essendo idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro, tutte le volte in cui sia disposta la reintegrazione nel posto di lavoro, con il ripristino della situazione precedente, ai sensi dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (Cass. 25654/2017; Cass. 2949/1997, 7380/1990, 5486/1995, 2756/1996).

Gli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro rimangono a carico del lavoratore in virtù dell’obbligo di coerenza con la volontà di proseguire il rapporto, espressa con l’impugnazione del licenziamento, salvo i comportamenti necessitati dallo scopo di reperire fonti di sostentamento alternative alla retribuzione di fatto non più corrisposta, con una ricerca svolta dal lavoratore nell’ambito della propria professionalità e quindi anche, eventualmente, presso la concorrenza” (Cass. 25654/2017; Cass. 18459/2014, 10663/2004, 2949/1997).

In particolare, “il lavoratore che impugni il licenziamento e che esprima con ciò la volontà di riprendere a collaborare (art. 2094 cod. civ.) nell'impresa, ha un onere di coerenza, che affonda le sue radici nel principio di identità, con tale volontà. Con la sua impugnazione, dà inizio a un procedimento diretto alla ricostituzione del rapporto; nell'attesa della decisione giudiziale, non può compiere atti contrari al suo obiettivo, che non è solo la ricostituzione del rapporto, ma anche l'efficacia della ricostituzione, implicita nella domanda secondo legge, dal momento della cessazione, con ripresa de jure del rapporto come mai interrotto, e quindi anche con la persistenza, richiesta dallo stesso lavoratore ricorrente, dei propri obblighi, ex tunc, e cioè anche per il periodo nel quale sono compresi i comportamenti in discussione. […] Il quadro normativo come sopra ricostruito soffre una sola eccezione, con esso coerente, proposta da autorevole dottrina: i comportamenti dovuti alla necessità di provvedere mezzi di sussistenza alternativi a quelli del rapporto cessato e di fatto non più corrisposti, ricerca che il lavoratore svolge ovviamente nell'ambito della propria professionalità, e quindi anche, eventualmente, presso la concorrenza” (Cass. 10663/2004).

Dalla giurisprudenza richiamata si evince che l’obbligo di fedeltà permane durante il procedimento di impugnazione del licenziamento, ma è collegato alla domanda di reintegrazione da parte del lavoratore.

Tale obbligo non dovrebbe, quindi, sussistere nel caso in cui il lavoratore opti fin dalla proposizione del ricorso per l’indennità sostitutiva.

La giurisprudenza, infatti, non esclude che il lavoratore possa optare per la indennità sostitutiva senza attendere l'accertamento giudiziale della illegittimità del licenziamento, atteso che, come il diritto-dovere alla reintegrazione, la facoltà di optare per l'indennità sorge con l'illegittimo recesso.

Le Suprema Corte ha più volte affermato che “il legislatore ha inteso attribuire all'elemento fiduciario, che connota il rapporto di lavoro, una valenza bidirezionale, nel senso che la rottura di quel vincolo può essere posta a fondamento, per un verso, del licenziamento e, per altro verso, del diritto del lavoratore - in luogo del ripristino del rapporto che sia da questi valutato negativamente (per la perdita della reciproca stima, per ostilità ambientale ecc.) - all'attribuzione dell'indennità sostitutiva in conseguenza di un recesso di cui sostenga l'illegittimità" (Cass. 10.11.2008 n. 26920 e a Cass. 25.1.2011 n. 1690)

Facendo proprio tale orientamento le Sezioni Unite hanno evidenziato che la indennità sostitutiva, nata come istituto per così dire processuale connesso alla provvisoria esecutività della sentenza di reintegrazione, si evolve in "istituto sostanziale nel momento in cui si sgancia dall'ordine di reintegrazione: diventa una delle conseguenze del licenziamento illegittimo in regime di tutela reale. Se il lavoratore illegittimamente licenziato può chiedere al giudice solo la condanna del datore di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva, quest'ultima si "affianca" all'indennità risarcitoria e va a completare il quadro delle conseguenze economiche compensative del licenziamento illegittimo" (Cass. S.U. 27.8.2014 n. 18353).

Hanno poi aggiunto che, qualora l'opzione venga esercitata già con la domanda introduttiva del giudizio, "non c'è alcuna obbligazione con facoltà alternativa e non si può ritenere che il rapporto sarà risolto solo quando l'indennità sarà pagata; ma al contrario il rapporto è da intendersi risolto già al momento della comunicazione dell'opzione del lavoratore, che in tal modo rende partecipe il datore di lavoro del suo disinteresse a proseguire il rapporto ove il licenziamento sia ritenuto illegittimo dai giudice".

Tale orientamento è stato ribadito anche dalle pronunce successive (vedi ex multis, Cass. 24026/2016).

Dal momento che, come sottolineato dalla Cassazione, il rapporto è da intendersi risolto già al momento della comunicazione dell’opzione da parte del lavoratore, l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. viene meno con l’esercizio di tale opzione.

Pertanto, nel caso di specie, se il lavoratore optasse per l’indennità sostitutiva della reintegra, fin dalla proposizione del ricorso, non dovrebbe rispettare l’obbligo di fedeltà durante il procedimento e potrebbe iniziare a lavorare per la concorrenza.

Naturalmente, nell’ipotesi di sottoscrizione di un patto di non concorrenza, l’obbligo di fedeltà si estenderebbe anche dopo l’esercizio dell’opzione e per tutta la durata prevista nello stesso.

Inoltre, è da tenere presente che, il venir meno dell’obbligo di fedeltà, non esclude che si possa incorrere, ricorrendone i presupposti, nell’ipotesi della concorrenza sleale.

È lecito, in via generale, che l’ex dipendente continui a svolgere la propria attività in concorrenza con la precedente azienda per cui lavorava, venendo assunto quindi da un’azienda concorrente o iniziando un’attività concorrenziale in proprio (ad esempio costituendo una nuova società).

Ma vi sono dei limiti allo svolgimento di un’attività lavorativa da parte dell’ex dipendente, superati i quali l’attività diventa illecita, in quanto concorrenza sleale fonte di responsabilità dell’ex dipendente (e in taluni casi anche della nuova azienda) nei confronti della ex azienda.

L’utilizzo delle conoscenze e dei rapporti commerciali da parte di un ex dipendente non vincolato da un legittimo patto di non concorrenza è lecito. Pertanto, l’ex dipendente è in linea di principio libero di esercitare attività in concorrenza con l’ex datore di lavoro, purché tale attività non costituisca un caso di concorrenza sleale.

La concorrenza sleale è disciplinata dall’art. 2598 del Codice Civile, il quale stabilisce che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
  • usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;
  • diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;
  • danneggia l’azienda concorrente utilizzando qualsiasi mezzo che viola i presupposti della correttezza professionale.
Tra gli atti “non conformi alla correttezza professionale”, previsti dall’art. 2598 n. 3 c.c., rientra il caso di illecito commesso da parte di un ex dipendente che si verifica più frequentemente nella pratica: lo sviamento della clientela.

In conclusione, verificata l’assenza di un patto di non concorrenza e tenendo presenti i limiti imposti dalla normativa sulla concorrenza sleale, una volta esercitata l’opzione circa l’indennità sostitutiva della reintegra, si potrà tranquillamente iniziare a lavorare per la concorrenza o intraprendere l’attività di agente, senza temere ripercussioni riguardanti l’obbligo di fedeltà.


Anonimo chiede
domenica 16/05/2021 - Lombardia
“Buongiorno,

attualmente sono dipendente e mi occupo di vendere e consegnare alla clientela una ampia gamma di prodotti, specifico che sulle vendite mi viene riconosciuto un premio obiettivo del 1%.

Nel tempo ho costituito un interessante pacchetto clienti.

Non essendo assolutamente in sintonia con la dirigenza della società per cui lavoro, ho pensato di costituire una SRL con una ditta che commercia gli stessi prodotti ed in alcuni casi è fornitrice della società di cui sono dipendente, in poche parole le due srl sono concorrenti.

Era mia intenzione, inizialmente aprire una partita iva e fare il procacciatore d’affari per la società concorrente, con la quale ho già accordi in merito.

Praticamente, dal primo giorno di mancato preavviso (preavviso che NON darei), lavorerei come libero professionista per la società concorrente dell’attuale ditta in cui lavoro come dipendente.

Successivamente, dopo aver costituito una nuova SRL, sia io che la società, per la quale svolgerei la nuova mansione di procacciatore d’affari e consegna del materiale, ed una terza società che commercia in prodotti attinenti la mia area merceologica, diverremmo soci, ed abbandonerei la partita iva.

Descrivo i passi che vorrei intraprendere:

apertura partita iva mentre sono ancora dipendente;

mentre sono dipendente ma al di fuori dell’orario di lavoro, farei la ricerca del capannone per la nuova società;

mentre sono dipendente ma al di fuori dell’orario di lavoro, organizzerei il capannone;

mentre sono dipendente ma al di fuori dell’orario di lavoro, cercherei il personale per la nuova società;

darei le dimissioni volontarie;

NON rispetterei il previsto preavviso di 15 giorni e non mi recherei più nella ditta da cui mi sono dimesso, facendomi trattenere la quota prevista in questi casi;

dal primo giorno dei 15 giorni di mancato preavviso inizierei l’attività del procacciatori d’affari con partita iva;

dal primo giorno, dei 15 giorni del periodo di preavviso (che NON DAREI), andrei a visitare tutti i vecchi clienti della ditta per cui lavoravo e mi proporrei quale nuovo fornitore e se del caso farei delle vendite, specifico che quanto venderei è esattamente identico a quanto vendevo per la società dalla quale mi sono licenziato;

successivamente aprirei una nuova SRL nella quale confluirebbero come soci lo scrivente (che chiuderebbe la partita iva), la società per la quale avrei fatto il procacciatore d’affari ed una terza società.

Dato che vorrei fare questo passo seguendo scrupolosamente i dettami di legge chiedo quanto segue:

facendo i passi di cui sopra mi esporrei ad una causa intentata dalla società per la quale lavoravo da dipendente;

in caso ci fosse questa eventualità ci sarebbe la possibilità di fare quanto sopra senza esporsi ad eventuali cause.

Ringraziando anticipatamente, cordialmente saluto.”
Consulenza legale i 24/05/2021
Per quanto riguarda gli atti che verrebbero realizzati in costanza di rapporto, anche se al di fuori dell’orario di lavoro, viene innanzitutto in rilievo il dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., il quale prevede il divieto per il lavoratore di compiere attività a favore di terzi (sia durante sia fuori l’orario del lavoro) idonee ad entrare in conflitto con gli interessi economici del datore di lavoro.

Il lavoratore non può intraprendere alcuna attività imprenditoriale in settore analogo a quello in cui è operante il datore di lavoro, indipendentemente che ciò rilevi ai fini della slealtà della concorrenza ai sensi dell’art. 2598 c.c.

L’azione di responsabilità fondata sulla violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. ha infatti natura autonoma rispetto all’azione per concorrenza sleale. Quest’ultima, infatti, configura un illecito extracontrattuale tipizzato, che può concorrere con la prima, ma non condizionarne la sussistenza.

Solitamente la violazione dell’art. 2105 c.c. ha rilievo sul piano disciplinare, rendendo giustificato il licenziamento, ma non esclude anche la possibilità di una richiesta di risarcimento del danno da parte dell’azienda.
In giurisprudenza, tuttavia, è controverso se per integrare la violazione dell’art. 2105 c.c. sia necessaria una effettiva lezione procurata dalla condotta in concorrenza del lavoratore.
Secondo un primo orientamento sviluppato dalla Suprema Corte, infatti, ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore è sufficiente la mera preordinazione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro che sia anche solo potenzialmente produttiva di danno (Cass. Civ. sez. lav., 30/01/2017, n. 2239 ; Cass. Civ., sez. lav., 09/08/2013 n. 19096; Cass. Civ. n. 1878/2005). La Cassazione ha infatti riconosciuto la liceità del licenziamento del lavoratore subordinato per il semplice fatto di aver sottoscritto una partecipazione in una società di capitali svolgente attività concorrenziale rispetto a quella del datore
Un secondo orientamento della Corte di Cassazione, invece, richiede non già la mera potenzialità lesiva della condotta concorrenziale, ma è necessario che almeno una parte dell’attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto (Cfr. Corte appello Brescia sez. lav., 31/01/2019; Cass. Civ. sez. lav., 09/03/2017, n.6091; Conformi_ Cass. Civ., sez. lav., 26/08/2003, n. 12489; Cass. Civ., sez. lav., n. 2478/2008). In tal senso, dunque, sarebbe illegittimo l’addebito nei confronti del lavoratore dipendente a tempo parziale che, nel residuo orario disponibile, lavori nell’azienda del familiare, operante nello stesso settore del datore di lavoro, qualora concretamente non si profili un pur minimo animus nocendi, cioè una consapevolezza del danno arrecato al datore di lavoro originario, nonché l’espletazione di effettiva attività integrante concorrenza.

Si precisa peraltro che il contenuto dell’obbligo di cui all’art. 2105 cod. civ. viene esteso ex lege anche alle ferie e all’eventuale fase di impugnazione del licenziamento.

Tornando al caso di specie, per l’attività svolta in costanza di rapporto di lavoro potrebbe esserci il rischio di una causa intentata dall’azienda, soprattutto nel momento in cui le azioni attuate configurino comunque un danno nei confronti dell’azienda. Se si tratta, come riferito, di attività meramente preparatorie, il rischio dovrebbe essere minimo, a meno che non si utilizzino informazioni e segreti dell’azienda datrice di lavoro.

Nel caso di specie, secondo quanto riferito, non è stato sottoscritto alcun patto di non concorrenza, quindi l’operatività dell’obbligo di fedeltà dovrebbe terminare con le dimissioni, dal momento che non si effettuerebbe il preavviso lavorato e si sarebbe disposti a vedersi decurtata la relativa indennità.
Infatti, secondo la giurisprudenza “nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso” (Cass. 4 novembre 2010, n. 22443; Cass. 30 settembre 2013, n. 23222; Cass. 6 giugno 2017, n. 13988; Cass. 26 ottobre 2018, n. 27294; Cass. ordinanza 11 febbraio 2021, n. 3543).

Sotto il profilo giuridico, è lecito che un soggetto che ha prestato attività lavorativa come dipendente di un’azienda, una volta cessato il proprio rapporto di lavoro con la stessa (in seguito a dimissioni o a licenziamento, o al termine della durata del rapporto di lavoro) svolga la propria attività lavorativa nello stesso ambito in cui lavorava in precedenza nella precedente azienda, sfruttando le competenze, conoscenze ed abilità maturate nel periodo in cui lavorava in quest’ultima.
È quindi lecito, in via generale, che l’ex dipendente continui a svolgere la propria attività in concorrenza con la precedente azienda per cui lavorava, venendo assunto quindi da un’azienda concorrente o iniziando un’attività concorrenziale in proprio (ad esempio costituendo una nuova società).

Tuttavia, vi sono dei limiti allo svolgimento di un’attività lavorativa da parte dell’ex dipendente, superati i quali l’attività diventa illecita, in quanto concorrenza sleale fonte di responsabilità dell’ex dipendente (e in taluni casi anche della nuova azienda) nei confronti della ex azienda.

Vi sono innanzitutto ipotesi in cui la prosecuzione dell’attività degli ex dipendenti in proprio costituisce concorrenza sleale, e quindi illecita.

L’utilizzo delle conoscenze e dei rapporti commerciali da parte di un ex dipendente non vincolato da un legittimo patto di non concorrenza è lecito. Pertanto, l’ex dipendente è in linea di principio libero di esercitare attività in concorrenza con l’ex datore di lavoro, purché tale attività non costituisca un caso di concorrenza sleale.

La concorrenza sleale è disciplinata dall’art. 2598 del Codice Civile, il quale stabilisce che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
  • usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;
  • diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;
  • danneggia l’azienda concorrente utilizzando qualsiasi mezzo che viola i presupposti della correttezza professionale.
Le prime due ipotesi costituiscono le fattispecie tipiche di concorrenza sleale:
  • la “confusione” si ha quando l’imprenditore (in questo caso l’ex dipendente) indirizza al pubblico dei potenziali acquirenti un messaggio idoneo a generare il falso convincimento che i suoi prodotti e/o le sue attività siano riconducibili ad un imprenditore concorrente (il suo ex datore di lavoro);
  • l’“imitazione servile” si ha quando l’ex dipendente sviluppa un prodotto violando un brevetto della società in cui lavorava, e/o sfruttando informazioni tecniche di carattere confidenziale dell’ex datore di lavoro.
La terza ipotesi (la violazione della correttezza professionale) costituisce invece una clausola generale della fattispecie di concorrenza sleale, che ricomprende cioè tutti i comportamenti illeciti diversi da quelli specificatamente descritti nei precedenti punti n. 1) e 2) del medesimo articolo.

Tra gli atti “non conformi alla correttezza professionale”, previsti dall’art. 2598 n. 3 c.c., rientra il caso di illecito commesso da parte di un ex dipendente che si verifica più frequentemente nella pratica: lo sviamento della clientela.

Il tentativo di sviare il cliente altrui, tuttavia, di per sé non è illecito, in quanto rientra nel gioco della concorrenza. Affinché l’appropriazione della clientela altrui costituisca un illecito sviamento di clientela, occorre che essa sia ottenuta, direttamente, o indirettamente con un mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale. Si dovrà accertare, pertanto, caso per caso, analizzando le concrete modalità con cui opera un ex dipendente.
Il caso tipico è quello che si verifica allorché l’ex dipendente sfrutti informazioni riservate (conoscenze, competenze, know how, contatti e rapporti) acquisite nel corso del suo precedente impiego, quali:
  • listino prezzi;
  • condizioni commerciali e di vendita;
  • caratteristiche e schede tecniche dei prodotti;
  • archivio clienti e contatti.
Tuttavia, è necessario che le informazioni siano effettivamente riservate, cioè non ricavabili in altri modi e non connesse alle proprie capacità professionali. In questo modo, infatti, l’ex dipendente riesce ad inserirsi nel mercato e fare concorrenza all’ex datore di lavoro prima e con costi minori rispetto a quelli che sarebbero stati necessari se avesse ottenuto autonomamente le stesse notizie.
Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto illecito (anche in assenza di un patto di non concorrenza) il comportamento dell’ex lavoratore che:
  • forte dei contatti che si erano creati nell’impresa del datore, aveva indotto i vecchi clienti del datore a cambiare, recandosi presso l’impresa da poco costituita;
  • aveva utilizzato le tecniche di costruzione di impianti caldaia apprese presso la precedente impresa in cui aveva lavorato per produrre i macchinari della ditta fondata da poco dallo stesso;
  • aveva utilizzato dati tecnici e commerciali della sua ex azienda per formulare offerte più vantaggiose alla clientela;
  • aveva proposto a un fornitore in esclusiva di utensili dell’ex datore di lavoro di fornirgli gli stessi utensili, ostentando presso la propria qualità di ex dipendente e proponendo prezzi scontati.
Se effettivamente dovesse trattarsi di concorrenza sleale, l’azienda potrebbe innanzitutto agire in via cautelare urgente, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., con una c.d. azione inibitoria, cioè ottenere un provvedimento che ordini la cessazione della condotta illecita da parte dell’ex dipendente.
Per ottenere tale provvedimento, occorre dimostrare:
  • il fumus boni juris, cioè che l’ex dipendente si è appropriato di clientela in modo illecito;
  • il periculum in mora, ciò che il comportamento dell’ex dipendente ha causato e sta causando un danno gravissimo; ciò implica che occorre agire in giudizio molto celermente.
In secondo luogo, l’azienda potrà chiedere all’ex dipendente il risarcimento dei danni. Questi potranno consistere in:
  • lucro cessante, cioè mancati guadagni (calo di fatturato) da parte dell’impresa che abbia subìto lo sviamento di clientela;
  • danno emergente, cioè spese che l’impresa ha dovuto affrontare a seguito della perdita di clientela (ad es. spese promozionali, spese per reclutare nuovi dipendenti, etc.).
L’onere della prova spetterà al danneggiato, quindi all’azienda, che dovrà dimostrare:
  • che l’ex dipendente si è appropriato dei propri clienti in modo illecito (cioè sfruttando informazioni riservate);
  • che a causa di questo comportamento illecito ha subìto un danno, cioè abbia subìto una effettiva perdita di fatturato o abbia dovuto sostenere costi aggiuntivi.
Naturalmente, l’azione di concorrenza sleale potrà essere intentata dall’azienda anche nei confronti della società per la quale lavorerà e di cui diventerebbe socio l’ex dipendente.


Pierenrico L. chiede
martedì 30/06/2020 - Lombardia
“Buongiorno,
sono titolare di un'impresa di pulizie. Mi trovo in questa situazione:
una mia dipendente assunta nel 2006 con contratto full time e di cui avevo pienissima fiducia (compagna di un mio ex dipendente titolare di un'impresa di pulizie da gennaio di quest'anno) oltre a lavorare con il suo compagno gli fa pubblicità, assieme ad un'altra mia dipendente assunta nel 2004.
Posso fare lettera di richiamo? Una delle 2 ha ammesso di aver sbagliato, però pubblicizza ancora la ditta per cui non lavora.
Grazie e cordiali saluti”
Consulenza legale i 02/07/2020
Per quanto riguarda la lavoratrice con contratto full time che lavora anche con il compagno titolare di altra impresa di pulizie, sorge innanzitutto un problema riguardante l’orario di lavoro e il numero massimo di ore lavorate.
Non è possibile lavorare per più di 48 ore ogni settimana. Tale regola è fissata nell’interesse del dipendente e del suo diritto al riposo settimanale e giornaliero.
Poiché questo limite non può mai essere oltrepassato, è impossibile avere un impiego full time e un altro che sia part-time o addirittura full time.

Proprio per far sì che questo divieto non venga mai violato, la legge impone al dipendente, che prende servizio presso due o più aziende, di comunicare al proprio datore l’ammontare di ore in cui già lavora, proprio perché spetta a quest’ultimo garantire il diritto al riposo settimanale (almeno 24 ore consecutive ogni 7 giorni) e il diritto al riposo giornaliero (11 ore consecutive ogni 24 ore).

In caso di superamento dell’orario di lavoro massimo settimanale, infatti, i datori di lavoro sarebbero passibili di sanzioni.
La mancata comunicazione da parte del dipendente, a sua volta, costituisce comportamento valutabile disciplinarmente e quindi passibile di sanzioni.

In secondo luogo, il comportamento della dipendente che presta la propria opera per una azienda concorrente viola il divieto di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., alla lettura integrale del quale si rimanda.
È quindi fatto divieto al dipendente di svolgere attività che possano – in qualunque modo – entrare in conflitto con quelle del datore di lavoro, e tale divieto permane sia durante che fuori l'orario di lavoro.

In questi casi non vi è dubbio che il comportamento è passibile di sanzione, ed anzi potrebbe rientrare nella giusta causa di recesso (cfr. Cass. n. 17366/2015). Inoltre, il datore di lavoro ha facoltà di chiedere il risarcimento dell'eventuale danno patrimoniale subito a seguito della condotta sleale del proprio dipendente.

L’obbligo di fedeltà viene in rilievo anche in relazione all’altra dipendente che, pur non lavorando per l’impresa concorrente, le fa pubblicità.
In questo caso, si dovrà valutare le concrete modalità con le quali la dipendente ha violato l’obbligo di fedeltà e parametrare di conseguenza la sanzione disciplinare. Nel caso di specie, se anche si dovesse trattare di condotte di lieve entità, siamo di fronte ad una recidiva, pertanto la lettera di richiamo sarà sicuramente giustificata. Si tenga conto che la sentenza della Cass. n. 3467/2017 ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che aveva prestato la propria immagine per pubblicizzare un’azienda concorrente ed aveva reiteratamente disatteso le richieste di ridurre od eliminare le conseguenze della sua precedente condotta.


Cristiano B. chiede
venerdì 19/04/2019 - Piemonte
“Buongiorno,
ricevo oggi la seguente comunicazione dalla azienda per cui lavoro:

"Oggetto: non disclosure Agreement - NDA
Durante lo svolgimento dell'attività lavorativa il lavoratore è tenuto ad attenersi alla disciplina del rapporto di lavoro, all'osservanza di tutte le norme di legge.
In particolar modo, in armonia con precise disposizioni di legge (v. artt. 2105 C.C. e 622-623 C.P.) e di contratto, richiamiamo la Sua attenzione sulla necessità di mantenere la più rigorosa riservatezza su notizie e dati che potranno venire a Sua conoscenza nello svolgimento delle sue mansioni durante l'esecuzione del presente contratto (vedi anche Diligenza del lavoratore).
Parimenti il lavoratore, in considerazione delle particolari attività che vengono svolte, deve attenersi ad un comportamento di stretto riserbo e non divulgare all'interno ed all'esterno notizie riguardanti l'organizzazione, i metodi e le tecnologia adottate durante lo svolgimento delle commesse, ovunque esse abbiano luogo (vedi anche Diligenza del lavoratore). Inoltre il lavoratore durante il rapporto di lavoro deve comunicare immediatamente alla società se, direttamente o indirettamente, tramite un familiare o un terzo, ha assunto la gestione, la cointeressenza di una attività/società che risulti in concorrenza con le attività svolte dall'azienda.
Gli obblighi di riservatezza esplicati nella presente comunicazione, operano anche successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, con i medesimi contenuti.
L'eventuale violazione delle obbligazioni esplicate nella presente comunicazione potrà costituire, oltre che un inadempimento delle obbligazioni connesse al rapporto di lavoro con conseguenze riguardo alla conservazione del rapporto di lavoro, anche un illecito civile e penale, con ogni ulteriore conseguenza di legge."

Pongo un quesito, sono perplesso dalla parte sotto indicata:
"Inoltre il lavoratore durante il rapporto di lavoro deve comunicare immediatamente alla società se, direttamente o indirettamente, tramite un familiare o un terzo, ha assunto la gestione, la cointeressenza di una attività/società che risulti in concorrenza con le attività svolte dall'azienda."

questo punto parla di un obbligo di non concorrenza, mi pare che venga menzionato nell'articolo 2125 C.C.secondo il quale dovrebbe essere pattuito un corrispettivo e definiti i limiti di tempo e luogo.

Chiedo gentilmente consiglio sulla correttezza di quanto ricevuto prima di firmare detto documento per accettazione.

In attesa di un cortese riscontro porgo cordiali saluti.”
Consulenza legale i 30/04/2019
Così come correttamente evidenziato nell’incipit della comunicazione, l’obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro ha come fonte principale la norma contenuta nell’art. 2105 c.c. che così recita: “il prestatore di lavoro non deve trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.
Il c.d. dovere di fedeltà durante il rapporto di lavoro, in buona sostanza, impone l’osservanza da parte del lavoratore di due obblighi di natura negativa; due divieti.
- Il primo è il divieto di concorrenza, consistente nel divieto di prestare, in costanza di rapporto di lavoro, attività lavorativa o imprenditoriale direttamente o indirettamente, in concorrenza con l’attività economica del proprio datore di lavoro.
- Il secondo è il divieto di divulgazione a terzi di notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Alla violazione dei suddetti obblighi consegue la responsabilità disciplinare del lavoratore che ai sensi dell’art. 2106 c.c.; la responsabilità civile, consistente nel dovere di risarcire l’eventuale danno o pregiudizio arrecato al datore di lavoro e la responsabilità penale ex artt. 622 e 623 c.p..
Alla luce di quanto fin qui detto, il dovere di fedeltà è da considerarsi un elemento necessario ed essenziale del rapporto di lavoro, oltre che connaturante la prestazione del lavoratore. Pertanto, in relazione ad esso, non è previsto alcun corrispettivo aggiuntivo rispetto alla retribuzione.
Il patto di riservatezza consiste nella formalizzazione, tra le parti del rapporto di lavoro (datore e lavoratore), degli specifici obblighi a carico del lavoratore nel rispetto di quanto previsto dall’art. 2105 c.c.
Diverso dal patto di riservatezza, eventualmente sottoscritto ai fini e per gli effetti dell’art. 2105 c.c., è il patto di non concorrenza ai sensi di quanto previsto dall’art. 2125 c.c..
Infatti, il descritto obbligo di fedeltà ed il correlato divieto di concorrenza ex art. 2105 c.c. sono tuttavia destinati ad esaurirsi con il venir meno del rapporto lavorativo.
Il datore di lavoro che abbia necessità di vedere tutelati alcuni suoi beni ed interessi connaturati alla propria specifica attività aziendale può ricorrere ad una pattuizione accessoria al contratto di lavoro, disciplinata dall’art. 2125 c.c., che può essere conclusa al momento dell'assunzione, nel corso del rapporto oppure al momento della cessazione del medesimo.
L’art. 2125 c.c., infatti, prevede espressamente che con la detta pattuizione accessoria possa essere limitato lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Ai sensi dello stesso articolo, il patto è nullo se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. Inoltre, la durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si stratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi.
Il rispetto di specifici limiti di oggetto, di tempo e di luogo, è necessario al fine di consentire al lavoratore di avere un margine per poter svolgere successivamente una attività non coperta da vincolo, idonea ad assicurargli un guadagno adeguato alle sue esigenze personali e familiari. Diritto quest’ultimo che è costituzionalmente garantito dall’[[n36Cost]] della Costituzione.

L’oggetto del patto deve essere dettagliatamente definito e può ricomprendere limiti all'assunzione presso un altro datore, all'avvio di un'attività autonoma, all'associazione in cooperativa, a collaborazioni autonome o anche parasubordinate.

Inoltre, si evidenzia che l’oggetto del patto può comprendere anche la limitazione o il divieto di svolgimento di mansioni diverse da quelle espletate durante il precedente rapporto di lavoro, ma esse devono risultare indicate con precisione.

Allo stesso modo, l’accordo deve necessariamente individuare un’area geografica in cui vige il divieto, non potendo vietare di svolgere attività concorrente ovunque nel mondo o comunque in aree geograficamente troppo estese.

In ordine ai margini di durata del patto di non concorrenza, si evidenzia che, laddove nel patto le parti convengano una durata superiore a quella prevista dall’art. 2125 c.c., essa verrà automaticamente ridotta, in conformità a quanto stabilito dalla legge.

Elemento essenziale ed imprescindibile dell’accordo è la previsione di un corrispettivo in favore del lavoratore, in ragione della limitazione a costui imposta. Tale corrispettivo non deve essere meramente simbolico o iniquo o sproporzionato in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno; indipendentemente dall’utilità che ne derivi per il datore di lavoro.

Il suddetto corrispettivo può essere corrisposto mensilmente nel corso del rapporto o dopo che questo sia cessato, oppure può consistere in una somma una tantum versata alla cessazione del rapporto, oppure ancora pagata un certo periodo dopo la cessazione del rapporto allorché il datore abbia verificato il rispetto delle obbligazioni oggetto del patto di non concorrenza.
È da tenere in considerazione che la violazione del patto di non concorrenza da parte del lavoratore, dà diritto al datore di lavoro di agire in giudizio chiedendo il rispetto del vincolo assunto e quindi la cessazione dello svolgimento dell’attività vietata dall’accordo, oppure domandare la risoluzione del patto e la restituzione del corrispettivo, nonché il risarcimento del danno subito a seguito dell’inadempimento. Si osserva che, essendo particolarmente complicato dar prova del danno subito e considerando anche la difficoltà in termini di quantificazione dello stesso, generalmente viene inserita all’interno del patto di non concorrenza una penale.

Detto quanto sopra, il Patto di Riservatezza in esame risulta essere conforme al dettato dell’art. 2105 c.c. non riscontrandosi in esso gli elementi caratterizzanti il Patto di non Concorrenza ex art. 2125 c.c.

Massimo chiede
lunedì 27/08/2018 - Campania
“Salve,
nell'azienda per cui lavoro viene sovente effettuato una sovrafatturazione nei confronti del cliente: es. se una risorsa ha - lavorato per l'azienda X n. 20 ore ne vengono fatturate n. 30.
Presumo che questo comportamento si rifletta nel reato di TRUFFA.
Le mie domande:
- rivelare questa attività illecita al cliente potrebbe avere conseguenze negative per me? (es. lesione rapporto fiduciario con il mio datore di lavoro)
- rivelare questa attività illecita alla Guardia di Finanza potrebbe avere conseguenze negative per me? (es. lesione rapporto fiduciario con il mio datore di lavoro).
Grazie
Massimo”
Consulenza legale i 05/09/2018
L’art. 2105 del codice civile sancisce l’obbligo di fedeltà del dipendente nei confronti dell’azienda.
Il fine della norma è quello di tutelare il datore di lavoro a fronte di situazioni, illegittime, disciplinarmente rilevanti, ove il lavoratore si renda responsabile di una condotta scorretta poiché posta in essere in violazione del concetto stesso di fedeltà al proprio datore di lavoro, nell'ambito della condivisione di obiettivi comuni che portano oltre che all'erogazione della retribuzione anche al profitto per l'impresa.

Non sarebbe concepibile un sistema ove il lavoratore possa, in costanza di rapporto, agire a danno della stessa azienda per la quale sta lavorando.
L'obbligo di fedeltà rientra nella più ampia categoria del dovere di cooperazione da parte del dipendente che lo pone in una posizione di condivisione e non di conflitto rispetto all'azienda: chiaramente tale concetto (come più volte ribadito anche dalla Cassazione) non può estendersi senza limiti. Infatti, l’interpretazione di tale norma non può spingersi sino al punto di vietare al dipendente di denunciare fatti che possano avere anche astrattamente rilevanza penale e che si siano verificati sul luogo di lavoro.

Una tale lettura della norma sancirebbe una garanzia di omertà in favore del datore di lavoro che però non può trovare tutela alcuna all’interno dell’ordinamento giuridico come, invece la trova il diritto del dipendente a sporgere denuncia o querela nei confronti del proprio datore di lavoro, per fatti di rilevanza penale.
Secondo la Corte di Cassazione, infatti, il lavoratore che presenta una denuncia-querela, anche se poi archiviata, per reati commessi dal datore di lavoro non può essere licenziato per giusta causa, salvo però, che risulti il carattere calunnioso o la consapevolezza, da parte del lavoratore dipendente, dell’insussistenza dell’illecito denunciato. Ciò che l’ordinamento giuridico pretende, pertanto, è la buona fede dell’azione del lavoratore. Egli rischia di perdere il proprio posto di lavoro se, contrariamente, agisce in malafede, avendo conoscenza dell’innocenza del proprio capo e, ciò nonostante, lo querela. In questo caso, configurandosi gli estremi del reato di calunnia, il lavoratore dipendente potrebbe essere controquerelato, appunto, per tale fattispecie delittuosa.

Alla luce di ciò, la denuncia formulata in buona fede da un dipendente nei confronti del legale rappresentante della società datrice di lavoro, per qualsiasi illecito penale, non può giustificare l’eventuale successivo licenziamento del lavoratore dipendente, anche se le accuse formulate, sempre in buona fede, non dovessero poi risultare veritiere. La giusta causa di licenziamento scatta solo se ne emerge il carattere calunnioso, nel senso che il lavoratore che ha sporto la querela deve essersi mosso nella consapevolezza della non veridicità dei fatti ascritti al proprio datore di lavoro.

Considerazioni ulteriori possono valere anche in aggiunta alle precedenti in merito al primo quesito.
È d’uopo osservare, infatti, che tra gli obblighi a carico del lavoratore, che come abbiamo visto sopra, costituiscono il presupposto del vincolo fiduciario che lo lega all'impresa, vi è quello di fedeltà previsto dall’art. 2105 c.c. ai sensi del quale, nello specifico, Il prestatore di lavoro non deve divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Emerge, pertanto l’elemento della riservatezza rispetto alle informazioni e notizie di cui il dipendente viene a conoscenza in esecuzione delle proprie mansioni. Entrano in considerazione, dunque, tutte quelle informazioni che riguardano l'organizzazione aziendale, i flussi economici, le commesse, i clienti, i rapporti con i fornitori, lo stato del bilancio, il numero dei dipendenti, e ogni altra vicenda dell'azienda che se rivelata, anche al cliente stesso, può risultare dannosa per l'azienda anche in termini di perdita di profitto e di competitività rispetto ad altre aziende concorrenti. Tale danno potrà essere oggetto di esose richieste di risarcimento a carico del lavoratore che, nel mancato rispetto di quanto previsto dall’art. 2105 c.c., abbia violato la sopra descritta riservatezza, violazione cui consegue anche la responsabilità disciplinare del lavoratore ai sensi dell'art. 2106 c.c.

Massimo L. chiede
venerdì 24/08/2018 - Lombardia
“Salve,
sono da diversi anni vittima di demansionamento e di mobbing all'interno dell'attuale azienda per cui lavoro.
Di nascosto ho registrato alcune conversazioni con il mio responsabile o l'Ufficio del Personale.
Tali registrazioni a volte contengono insulti e denigrazioni nei miei confronti.
Sto valutando di agire nei confronti dell'azienda sia in sede penale che civile.
- Posso utilizzare tali registrazioni come prove all'interno dell'eventuale procedimento penale e/o civile?
- Una volta presentate durante il procedimento penale e/o civile il datore di lavoro potrebbe utilizzare queste registrazioni contro di me adducendo alla "lesione del rapporto fiduciario datore di lavoro - lavoratore"?
Grazie
M”
Consulenza legale i 03/09/2018
Secondo la Cassazione, chi partecipa a una conversazione accetta il rischio di essere registrato e, pertanto, ben si può utilizzare il registratore, ma a condizione che ciò non avvenga in determinati luoghi ove il soggetto registrato fa maggiore affidamento sul rispetto della sua privacy, come la propria casa, gli altri luoghi di privata dimora e il posto di lavoro, l’ufficio, lo studio.
Rileva non poco che l’acquisizione delle riproduzioni meccaniche da parte dei soggetti in causa possa ritenersi lecita e permessa. Non di rado, infatti, accade, che le prove vengano acquisite con mezzi o modalità illegali, illegittimi o contrari a principi stabiliti dalle norme poste a tutela della Privacy e, addirittura, ai principi costituzionali, essendo assai frequenti le acquisizioni illecite di intercettazioni telefoniche non autorizzate o, addirittura, le registrazioni di immagini.
È assolutamente vietato registrare le conversazioni in casa del soggetto “intercettato” (o, come già detto, nei luoghi ove il soggetto registrato fa maggiore affidamento sul rispetto della sua privacy). E' invece pienamente lecito utilizzare il registratore o la telecamera dentro la propria casa, il proprio ufficio, in un luogo pubblico come la strada.
Detto quanto sopra, al fine di rendere verosimile la registrazione è necessario che la qualità audio sia chiara, in modo che le voci possano essere riconosciute e ricondotte ai loro effettivi autori e che quanto ne è oggetto possa essere chiaramente contestualizzato in un ambito spaziale e/o temporale.

In ambito processuale, ai sensi dell’2712 c.c, la registrazione della conversazione fa piena prova delle cose e dei fatti in esse rappresentati, a condizione che la parte contro la quale è prodotta in causa non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime. La registrazione suddetta, in quanto formata fuori del processo e senza le relative garanzie può essere disconosciuta, contestando anche, ad esempio, che le conversazioni o le dichiarazioni contenute nella registrazione audio siano realmente avvenute.
Il disconoscimento però non può essere operato con una generica affermazione dovendo esso fondarsi su chiare ed esplicite ragioni che giustifichino oggettivamente l’inattendibilità della registrazioni. Tali ragioni devono essere, ovviamente, credibili.
La contestazione deve essere fatta dalla controparte e non può avvenire da parte del giudice. Per cui, se la controparte fa una contestazione generica o si dimentica di farla, o la fa tardivamente, il giudice è tenuto a ritenere dimostrato il fatto evidenziato nella registrazione.

Per quanto concerne la problematica relativa alla eventuale lesione del rapporto fiduciario, nella vicenda prospettata, bisogna osservare che spesso accade che sul posto di lavoro un lavoratore, per determinate circostanze, si trovi nella delicata situazione di dover agire in sede giudiziaria nei confronti del proprio datore di lavoro al fine di veder tutelati i propri diritti.
Ciò effettivamente implica una attenta valutazione del problema relativo alla effettiva sussistenza di una eventuale giusta causa di recesso. Il tema è stato attentamente esaminato dalla giurisprudenza ed è stato affermato che non possa costituire di per sé giusta causa di licenziamento il comportamento del lavoratore che denunci alle autorità giudiziarie penali (o anche civili) un fatto commesso dal datore di lavoro nei suoi confronti e che divulghi la notizia della denunzia all’interno del luogo di lavoro (Cass. 16/12/00, n. 1749).
Ad avviso della Suprema Corte, per la verifica della legittimità o meno del licenziamento intimato, spetta comunque al giudice di merito accertare tutte le modalità del caso concreto, tenendo conto dell’esito del processo penale (o civile), e appurare se il lavoratore si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare con dolo o colpa grave la soglia del rispetto della verità oggettiva, nonché se dalla divulgazione della notizia all’interno dell’azienda sia derivato al datore di lavoro un effettivo pregiudizio, consistente nell’offesa dell’onore e della reputazione del medesimo, tale da metterne in discussione la credibilità (così Cass. 16/10/2000, n. 13738).
Quindi, in linea di principio, nel nostro ordinamento il lavoratore è libero di promuovere un azione giudiziaria nei confronti del proprio datore di lavoro senza per ciò stesso rischiare la perdita del posto di lavoro o andare incontro a eventuali rappresaglie.

Detto ciò, al fine di tutelare in via immediata il proprio rapporto di lavoro, prima di assumere iniziative giudiziali, è comunque sempre consigliabile porre in essere tutte le opportune valutazioni del caso, anche in ordine alle particolari condizioni del rapporto intercorrente con i vertici aziendali e con i superiori gerarchici, tenendo in debita considerazione le tempistiche giudiziarie che si rendessero necessarie al fine di dover eliminare gli effetti di un eventuale licenziamento ritorsivo.

Massimo L. chiede
lunedì 28/05/2018 - Lombardia
“Salve,
vorrei a breve presentare un ricorso al Garante Privacy nei confronti dell'azienda per cui lavoro attualmente (omissis).
Vorrei sapere se presentando tale ricorso al Garante corro il rischio di ledere il rapporto fiduciario con il mio datore di lavoro e, pertanto, il rischio di essere licenziato.”
Consulenza legale i 11/07/2018
Il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, dovendosi integrare l'art. 2105 c.c con gli art. 1175 c.c. e 1375 c.c., che impongono l'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro.

Sul posto di lavoro capita che un lavoratore per determinate circostanze si possa trovare nella situazione di dover agire in sede giudiziaria nei confronti del proprio datore di lavoro per la tutela dei propri diritti.

Il problema della sussistenza di una giusta causa di recesso in relazione all’iniziativa giudiziaria intrapresa dal lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro è stato attentamente esaminato dalla giurisprudenza.

A tal proposito, è stato affermato che non possa costituire di per sé giusta causa di licenziamento il comportamento del lavoratore che denunci alle autorità giudiziarie “penali” (ma vale anche per le autorità giudiziarie civili e le autorità amministrative) un fatto posto dal datore di lavoro nei suoi confronti e che divulghi la notizia della denunzia all’interno del luogo di lavoro (Cass. 16/12/00, n. 1749).

Ad avviso della Suprema Corte, è necessario appurare se il lavoratore si limiti a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare con dolo o colpa grave la soglia del rispetto della verità oggettiva; e, non arrechi pregiudizio consistente nell’offesa dell’onore e della reputazione del datore del datore di lavoro con la divulgazione della notizia, tale da mettere in discussione la credibilità dello stesso. (così Cass. 16/10/2000, n. 13738).

Quindi, in linea di principio, nel nostro ordinamento il lavoratore è libero di promuovere un azione giudiziaria (o amministrativa) nei confronti del proprio datore di lavoro senza per ciò stesso rischiare la perdita del posto di lavoro o andare incontro a eventuali rappresaglie. In ogni caso, è consigliabile mettere in conto che il rapporto intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore potrebbe rimanerne negativamente condizionato.

Raffaele D. I. chiede
mercoledì 07/03/2018 - Puglia
“Un socio di s.r.l. con partecipazione del 50% del capitale, socio dipendente all'interno della s.r.l. con qualifica di cuoco, ha inteso aprire in forma individuale attività di ristorante concorrenziale con la S.r.l. che esercita la stessa attività. Può iniziare tale attività?
Si trova in regime di concorrenza sleale e di sviamento della clientela? Può il socio di minoranza (40% di partecipazione) anch'esso socio dipendente proporre azione di risarcimento danni? Considerato inoltre che l'altro socio (10% di partecipazione) è il padre del socio che sta per iniziare la nuova attività in proprio e che l'amministratore è la madre del medesimo? Credo che siamo nel pieno di un conflitto di interessi in danno della società e del socio di minoranza (40%).
Vi prego di darmi indicazioni sul comportamento da tenere e sulle azioni a tutela da intraprendere. Resto in attesa e ringrazio anticipatamente.”
Consulenza legale i 24/04/2018
Preliminarmente, è necessario distinguere tra divieto di concorrenza e divieto di concorrenza sleale. Da un lato, infatti, non esiste nel nostro ordinamento un generale divieto di concorrenza: al contrario, l’art. 41 della Costituzione sancisce il principio della libertà di iniziativa economica privata. Esistono, semmai, specifici divieti di concorrenza relativi a singole fattispecie, di regola limitati anche sotto il profilo temporale.
Dall’altro, la concorrenza sleale invece è attività illecita, in quanto tale sempre vietata dagli artt. 2598 ss. c.c.
In particolare le diverse fattispecie di concorrenza sleale sono le seguenti:
1) uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri; imitazione servile dei prodotti di un concorrente; compimento, con qualsiasi altro mezzo, di atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;
2) diffusione di notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito; appropriazione di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;
3) uso diretto o indiretto di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.
In materia societaria, non vi sono norme di carattere generale che proibiscano al socio di svolgere attività in concorrenza con quella esercitata dalla società. Un divieto di questo tipo è infatti previsto dall’art. 2301 del c.c. per le società in nome collettivo ed è estensibile ai soci accomandatari delle società in accomandita semplice giusta il rinvio contenuto nell’art. 2318 del c.c. Ciò si spiega con la natura strettamente personale di queste società e del loro rapporto con i soci.
Per i soci di società a responsabilità limitata, invece, il codice civile non prevede analogo divieto. Questo significa che, in assenza di esplicita previsione statutaria, e sempre che non venga stipulato un apposito patto di non concorrenza, al socio di s.r.l. non è, di per sé, inibito lo svolgimento di attività in concorrenza con quella della società. Come ha ben chiarito il Tribunale di Milano, Sez. specializzata in materia di impresa, con ordinanza resa il 08.05.2014, “il socio non amministratore di una società a responsabilità limitata non è infatti destinatario di un obbligo di non intraprendere attività concorrenti con quella della società, ma esso è certamente soggetto al divieto di svolgere attività di concorrenza sleale”.

Nella fattispecie in esame la soluzione va ricercata nella disciplina giuslavoristica. Nel nostro caso, infatti, il socio “infedele” è anche dipendente della società. In proposito l’art. 2105 del c.c., rubricato “Obbligo di fedeltà”, stabilisce tra l’altro che il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza col datore di lavoro.
In proposito Cass. Lav., 2239/2017, in senso conforme al proprio consolidato orientamento, ha chiarito che, ai fini della violazione dell'obbligo di non concorrenza, non è necessario acquisire la prova di "comportamenti illeciti" né tanto meno di un tentativo di sviamento della clientela, “bastando ad integrare la violazione dell'obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c., la mera attività del dipendente di trattazione di affari in concorrenza, per conto proprio o di una impresa terza".
Infatti - sempre secondo la sentenza da ultimo citata - l’azione di responsabilità fondata sulla violazione dell'obbligo ex art. 2105 c.c. ha natura autonoma rispetto all’azione per concorrenza sleale; la prima ha carattere contrattuale ed oggetto ampio, abbracciando ogni attività concorrenziale e non soltanto quelle costituenti illecito aquiliano ex articolo 2598 c.c.
Invece l’azione di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., configurante un illecito extracontrattuale tipizzato, è azione diversa, che potrebbe concorrere con l'illecito contrattuale ex art. 2105 cc. ma non certo condizionarne la sussistenza.
La sentenza in esame precisa altresì che la violazione dell'obbligo di fedeltà costituisce titolo di responsabilità contrattuale per gli eventuali danni che ne siano derivati al datore di lavoro.

Alla luce delle considerazioni che precedono, deve concludersi che, nel caso in esame, l’esercizio da parte del socio e dipendente della s.r.l. della medesima attività esercitata da quest’ultima costituisca violazione dell’obbligo di fedeltà gravante sul lavoratore, e ciò anche a prescindere dall’eventuale sussistenza di atti di concorrenza sleale come tipizzati dall’art. 2598 c.c., i quali sarebbero in ogni caso illeciti.
Maggiormente problematica risulta, invece, la risposta agli interrogativi contenuti nella seconda parte del quesito, ovvero quali siano nel caso concreto le iniziative adottabili dal socio di minoranza. Non vi è dubbio che la violazione dell’obbligo di fedeltà possa dar luogo sia all’adozione di sanzioni disciplinari nei confronti del lavoratore (che potrebbero giungere nei casi più gravi fino al licenziamento) sia ad un’azione risarcitoria da parte del datore di lavoro.
La difficoltà risiede, semmai, nei rapporti di carattere personale del socio - dipendente “infedele” con il resto della compagine sociale nonché con l’amministrazione della società, considerando che il socio che ha posto il quesito si trova in minoranza. In una situazione quale quella delineata è prevedibile ed anzi probabile una inerzia degli organi sociali nell’assumere provvedimenti sanzionatori e nell’esercitare azioni legali nei confronti del dipendente in questione.
Occorre però osservare che l’eventuale inerzia degli amministratori in tal senso, magari a seguito di espressa diffida da parte del socio di minoranza, potrebbe rilevare ai fini dell’art. 2476 del c.c., che disciplina la responsabilità degli amministratori e i poteri di controllo dei soci.
Infatti gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo per l'amministrazione della società. L'azione di responsabilità contro gli amministratori è promossa da ciascun socio, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi, salvo il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio che provi di essere stato direttamente danneggiato da atti dolosi o colposi degli amministratori.
L’articolo in questione aggiunge peraltro, al comma 7, che sono solidalmente responsabili con gli amministratori i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi: tale forma di responsabilità presuppone, oltre alla produzione di un danno, anche la concorrente responsabilità degli amministratori.


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