Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto il ricorso proposto da un lavoratore, che aveva impugnato il licenziamento disciplinare che gli era stato intimato, per aver “pronunciato frasi lesive della reputazione e del decoro del datore di lavoro” nel corso di una riunione sindacale.
Secondo il lavoratore, in particolare, il licenziamento doveva considerarsi illegittimo in quanto non era stato affisso il codice disciplinare in azienda e comunque non era stato rispettato il principio di proporzionalità rispetto al fatto contestato.
La Corte d’appello, tuttavia, non aveva dato ragione al lavoratore, osservando “come fosse incontroverso che il lavoratore aveva effettivamente pronunciato, davanti ad una numerosa platea, le frasi oggetto di addebito disciplinare e come le stesse, costituendo accuse di reati e di violazione delle convenzioni che regolano l'attribuzione dei finanziamenti all'Ente, travalicassero l'esercizio del diritto di critica, integrando espressioni diffamatorie, gravemente lesive dell'onore e del decoro dell'ente, e dando luogo ad una violazione del dovere di cui all'art. 2105 c.c. tale da ledere in modo irrimediabile il rapporto di fiducia che lega le parti del rapporto di lavoro”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore decideva quindi di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Nemmeno la Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva di poter dar ragione al lavoratore, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, che la Corte d’appello aveva correttamente rigettato il ricorso proposto dal lavoratore, essendo stata “accertata la veridicità della condotta addebitata in sede disciplinare (e cioè che le frasi riportate nella lettera di contestazione, costituenti gravi accuse, anche di fatti penalmente rilevanti, erano state effettivamente pronunciate dal M. e di fronte ad una numerosa platea composta da circa duecento persone)”.
Di conseguenza, la Corte d’appello aveva del tutto adeguatamente valutato la condotta del lavoratore come idonea “a integrare una giusta causa di recesso datoriale, alla stregua del principio, secondo il quale l'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore, che non si contenga entro i limiti del rispetto della verità oggettiva e si traduca in una condotta lesiva del decoro dell'impresa, costituisce violazione del dovere di cui all'art. 2105 c.c. ed è comportamento idoneo a ledere definitivamente il rapporto di fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando integralmente la sentenza di secondo grado e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.