Un
tribunale aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato dalla
società datrice di
lavoro a una sua dipendente, ordinandone la reintegrazione.
La decisione veniva, tuttavia, riformata in grado di
appello: i giudici di secondo grado infatti ritenevano legittimo il licenziamento, comminato a seguito di contestazione disciplinare con cui era stato addebitato alla lavoratrice, cassiera presso il punto vendita della società, di aver omesso di consegnare una certa quantità di buoni sconto sulla spesa a clienti titolari di una tessera promozionale. Detti buoni erano stati, poi, spesi presso il punto vendita dal marito della dipendente stessa, il giorno successivo.
Secondo la Corte d’Appello, contrariamente alle conclusioni raggiunte dal Tribunale, dalla prova testimoniale sarebbe emersa la prova della volontaria omessa consegna del buoni spesa ai clienti da parte della cassiera; vi sarebbero state, infatti, circostanze di fatto dalle quali desumere, ex art.
2729 del c.c., la
prova presuntiva del volontario e non consentito utilizzo in proprio favore di tali buoni spesa.
In tema di prova per presunzioni, la Suprema Corte ha ricordato il proprio costante convincimento, secondo cui “
spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo”.
Sulla base di tali considerazioni, la Cassazione ha giudicato corretto il “ragionamento probatorio presuntivo” seguito dalla Corte d’Appello, che aveva ritenuto provata la consapevole volontà della lavoratrice di utilizzare per sé, con la complicità del marito, buoni sconto che aveva abbinato ad una tessera smarrita tempo addietro dalla proprietaria.
In secondo luogo, la Suprema Corte ha condiviso le valutazioni dei giudici d’appello anche laddove riconducono la
condotta della lavoratrice nell’ambito della previsione di cui all'art.
2105 del c.c.
La norma in questione, precisano i giudici di legittimità, nel prescrivere un
dovere di fedeltà a cui è assoggettato il lavoratore, enuncia
solo alcune manifestazioni di obblighi negativi come mere ipotesi esemplificative di una più vasta gamma di comportamenti, anche positivi ma pur sempre riconducibili, in senso ampio ed in collegamento ai doveri di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 del c.c., all'obbligo di fedeltà.
Oltretutto, come rilevato nella sentenza impugnata, la gravità della condotta era tale da ledere l'elemento fiduciario, indipendentemente da una valutazione economica dell'entità del
danno causato alla datrice di lavoro, certamente non rilevante.
Si legge nella pronuncia in commento: “
la verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, quindi anche del giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato, si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che, ove siano vagliate dal giudice di appello con un apprezzamento in fatto che esamina tutti gli elementi decisivi che sono stati oggetto di discussione tra le parti, come nel caso di specie, non possono essere più oggetto di doglianza in sede di legittimità”.
La Cassazione ha pertanto rigettato il ricorso.