Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Ascoli Piceno, aveva condannato una società al risarcimento del danno subito da due suoi dipendenti, rispetto ai quali il giudice aveva ordinato la reintegra nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo (art. 18 legge n. 300 del 1970)
Secondo la Corte d’appello, in particolare, la società avrebbe danneggiato tali lavoratori, in quanto li aveva reintegrati “in ritardo e in mansioni inferiori a quelle da loro precedentemente espletate”.
Ritenendo la decisione ingiusta, la società datrice di lavoro aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Evidenziava la ricorrente, a sostegno delle proprie ragioni, che la Corte d’appello non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 2103 c.c., avendo la stessa ravvisato il demansionamento di uno dei lavoratori “sulla sola base della sua assegnazione a mansioni di centralinista”.
Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte d’appello avrebbe violato, altresì, l’art. 18, comma 1, della legge n. 300 del 1970, in quanto la stessa avrebbe erroneamente posto a carico del datore di lavoro “l'onere di comparare il lavoratore da reintegrare con altre posizioni lavorative coinvolte e di valutare altre possibili alternative di collocazione non dequalificata”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione alla datrice di lavoro, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, “il lavoratore il cui licenziamento sia stato accertato come illegittimo deve essere ricollocato nel posto e nelle mansioni precedentemente occupate”.
Precisava la Cassazione, in sul punto, che il datore di lavoro che non provveda in tal senso andrà esente da responsabilità solamente nel caso in cui riesca a dimostrare “che il posto di lavoro del dipendente reintegrato (ovvero altro caratterizzato dall'espletamento di mansioni equivalenti) non esiste più per causa a lui non imputabile”.
Secondo la Cassazione, dunque, il datore di lavoro non può “reintegrare il dipendente in mansioni inferiori a quelle svolte al momento del licenziamento”, in quanto ciò porterebbe a vanificare quanto statuito dal giudice nel provvedimento di reintegra.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando integralmente la sentenza impugnata.