Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d'appello di Potenza aveva rigettato l’appello proposto da un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale della stessa città, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento a lui intimato.
Nello specifico, la società datrice di lavoro aveva giustificato il licenziamento in quanto il lavoratore era stato arrestato per possesso di droga e aveva successivamente patteggiato la pena in sede di giudizio penale.
Ritenendo il licenziamento illegittimo, il lavoratore decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza che aveva, invece, confermato la legittimità dello stesso.
Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello avrebbe errato nel confermare la sentenza di primo grado, fondando la propria decisione “esclusivamente sulla sentenza di patteggiamento per fatti estranei alla rapporto di lavoro”.
In sostanza, secondo il ricorrente, il licenziamento era stato ingiusto, in quanto motivato sulla base della sentenza di patteggiamento che l’aveva riguardato ma che non aveva ad oggetto fatti commessi nell’ambito del rapporto di lavoro.
A detta del ricorrente, dunque, la decisione di secondo grado doveva essere annullata, in quanto la Corte d’appello non aveva svolto alcune “indagine in concreto sull'effettiva lesione del vincolo fiduciario della condotta contestata, considerato che il contratto collettivo di categoria non attribuisce automaticamente alcuna valenza in tal senso alla sentenza penale di condanna”.
In altri termini, secondo il ricorrente, la sentenza di patteggiamento non era un elemento sufficiente per giustificare il provvedimento espulsivo, in quanto non era stato accertato che la stessa avesse fatto venir meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione al ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Evidenziava la Cassazione, infatti, che il giudice civile, nel decidere i casi che gli siano sottoposti, può valutare anche le prove raccolte in giudizio penale, anche se lo stesso sia stato definito con una sentenza di patteggiamento.
Precisava la Cassazione, inoltre, che “anche una condotta illecita, estranea all'esercizio delle mansioni del lavoratore subordinato, può avere un rilievo disciplinare, poichè il lavoratore è assoggettato non solo all'obbligo di rendere la prestazione, bensì anche all'obbligazione accessoria di tenere un comportamento extralavorativo che sia tale da non ledere nè gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro nè la fiducia che, in diversa misura e in diversa forma, lega le parti del rapporto di durata”.
Di conseguenza, una condotta illecita può giustificare il licenziamento “se presenti caratteri di gravità, che debbono essere apprezzati, tra l'altro, in relazione alla natura dell'attività svolta dall'impresa datrice di lavoro ed all'attività in cui s' inserisce la prestazione resa dal lavoratore subordinato”.
Evidenziava la Cassazione, in proposito, che “gli artt. 2104 e 2105 c.c., richiamati dalla disposizione dell'art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno infatti interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata, e si estenda a comportamenti che, per la loro natura e per le loro conseguenze, appaiano in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa”.
Per quanto riguarda, in particolare, il possesso di sostanze stupefacenti, in ambito extralavorativo, la Corte osservava che tale condotta doveva dirsi “idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poichè il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, condannando il medesimo al pagamento delle spese processuali.