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Articolo 1809 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Restituzione

Dispositivo dell'art. 1809 Codice Civile

(1)Il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto(2).

Se però, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e impreveduto bisogno(3) al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata.

Note

(1) La previsione in esame costituisce argomento a favore della tesi per cui il comodato è contratto unilaterale che prevede obbligazioni a carico del solo comodatario (v. 1803 c.c.).
(2) Tali ipotesi costituiscono cause di estinzione del contratto.
(3) Secondo alcuni anche un bisogno non urgente legittima il diritto alla restituzione.

Ratio Legis

La previsione costituisce naturale sviluppo di quanto stabilito dall'art. 1803 del c.c.. La gratuità del comodato (1803, 2 c.c.), inoltre, giustifica il diritto del comodante ad esigere l'immediata restituzione del bene se ne ha necessità.

Spiegazione dell'art. 1809 Codice Civile

Oggetto della restituzione

La cosa dev'essere restituita cum omni causa, con cioè tutti gli accessori ed anche coi frutti (le fonti citano, ad esempio, la cavalla col puledro, tanto se è nato prima, quanto se e nato durante il comodato). Se l'uso era impossibile senza la percezione dei frutti, la cosa dev'essere restituita in quello status fructifer in cui venne consegnata.


Tempo

Il tempo della restituzione si desume dal termine pattuito, o, in difetto, da quello deducibile dall'uso della cosa stessa, sempre salva, in ogni caso, la possibilità d'immediata risoluzione del rapporto, per urgente e impreveduto bisogno del comodante.


Luogo

Il luogo della restituzione — in mancanza di specifici patti — è determinato dagli usi, e — se questi non dispongono — è desunto dalla natura della prestazione o da altre circostanze (art. 1282 del c.c.): solo quando da tutto ciò non si possa ricavare alcun elemento, si fa capo alle norme generali (art. 1882 del c.c.). Sia gli usi, sia la natura della prestazione, sia le altre circostanze sono univoci nel far presumere che sia il comodatario a portare la cosa al comodante, e non questo a chiederla al domicilio del comodatario stesso. In tal senso è comunemente interpretata la volontà delle parti, e così sembrano orientate anche le fonti.


Restituzione anticipata

Della possibilità di risoluzione del contratto per sopravvenuta eccessiva onerosità per il comodante (nel che si sostanzia la facoltà accordata ad esso di richiedere la immediata restituzione della cosa, prima della scadenza del termine), già si è trattato più sopra.

Nessun termine di preavviso deve essere dato: solo nell'interpretazione del § 605 del B. G. B. (che prevede un'analoga norma) viene accordata, in omaggio alla buona fede, che, dopo la disdetta (Kiindingung), il comodatario abbia, a sua disposizione, un modico lasso di tempo, per portare a termine l'atto d'uso iniziato (meissige Frist zur Erledigung).


Esclusione della compensazione

Circa la disponibilità di ritardare la restituzione della cosa (o il suo valore equivalente) accampando diritti di credito in compensazione, dobbiamo riferirci a quanto già dedotto.


Effetti della mancata restituzione

Se it comodatario abbia alienato (nel qual caso è responsabile anche di appropriazione indebita), o colposamente disperso, la cosa comodata, il comodante non potrà più chiedere per impossibilita oggettiva la restituzione della cosa stessa, ma solo — come risarcimento del danno — i1 suo corrispondente valore.


Resta da sapere però quand'è che avviene questa trasformazione della prestazione specifica in quella pecuniaria dello id quod interest. II che ha una grande importanza nel caso di fallimento del comodatario, per decidere se al comodante spetti il pagamento in moneta piena, o fallimentare.

La giurisprudenza, formatasi soprattutto a seguito del clamoroso dissesto della Banca Italiana di Sconto, riteneva che la conversione avesse luogo alla scadenza del contratto, e poiché questa era posteriore alla moratoria, ne deduceva l'obbligo per il fallimento di pagare l'intero valore delle cose comodate al comodante.

La legge fallimentare (art. 79 r. d. 16 marzo 1942, n. 267) è andata in senso contrario, disponendo che è il momento della comparsa della cosa che deve prendersi in considerazione. Pertanto, se alla apertura del fallimento la cosa non c'era più, né il curatore riesce a rintracciarla, del pagamento al comodante dello equivalente valore risponderà il fallito: il che vale quanto dire che il pagamento sarà fatto in moneta fallimentare.

Se, invece, la scomparsa della cosa è avvenuta dopo, sarà il fallimento che ne risponderà, e il pagamento avverrà così integralmente.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 1809 Codice Civile

Cass. civ. n. 36057/2021

L'attore in restituzione, il quale deduca che un immobile è stato concesso in godimento in forza di un contratto (nella specie, comodato precario), ha l'onere di provare la fonte del proprio diritto e la successiva estinzione del rapporto obbligatorio, e quindi il venir meno del titolo legittimante l'ulteriore godimento della cosa da parte del convenuto.

Cass. civ. n. 22309/2020

La circostanza che un immobile concesso in comodato sia destinato ad attività commerciale non è sufficiente per ritenere il relativo contratto soggetto ad un termine implicito, sicché il comodante può domandare la restituzione del bene prima della cessazione di tale attività.

Cass. civ. n. 27939/2018

In tema di comodato di immobile per uso abitativo a tempo determinato, il fallimento del comodante dopo la stipula del contratto, ai sensi dell'art. 1809, comma 2, c.c., genera l'obbligo del comodatario di restituire il bene immediatamente al curatore, avuto riguardo alla sua necessità di procedere alla liquidazione del cespite libero da persone e cose, per il migliore soddisfacimento dei creditori concorsuali (principio enunciato dalla S.C. nell'interesse della legge).

Cass. civ. n. 20448/2014

Ai sensi dell'art. 1809, secondo comma, cod. civ., il bisogno che giustifica la richiesta del comodante di restituzione del bene non deve essere grave ma imprevisto (e, dunque, sopravvenuto rispetto al momento della stipula del contratto di comodato) ed urgente, senza che rilevino bisogni non attuali, né concreti o solo astrattamente ipotizzabili. Ne consegue che non solo la necessità di un uso diretto ma anche il sopravvenire d'un imprevisto deterioramento della condizione economica del comodante - che giustifichi la restituzione del bene ai fini della sua vendita o di una redditizia locazione - consente di porre fine al comodato, ancorché la sua destinazione sia quella di casa familiare, ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante.

Cass. civ. n. 20371/2013

Chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederla in comodato ed è, in conseguenza, legittimato a richiederne la restituzione, allorché il rapporto venga a cessare. Pertanto, il comodante che agisce per la restituzione della cosa nei confronti del comodatario non deve provare il diritto di proprietà, avendo soltanto l'onere di dimostrarne la consegna e il rifiuto di restituzione, mentre spetta al convenuto dimostrare di possedere un titolo diverso per il suo godimento.

Cass. civ. n. 20183/2013

La nozione di "urgente e impreveduto bisogno", di cui al secondo comma dell'art. 1809 c.c., fa riferimento alla necessità del comodante - su cui gravano i relativi oneri probatori - di appagare impellenti esigenze personali, e non a quella di procurarsi un utile, tramite una diversa opportunità di impiego del bene. Tale valutazione va condotta con rigore, quando il comodatario di un bene immobile abbia assunto a suo carico considerevoli oneri, per spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, in vista della lunga durata del godimento concessogli. (Nella specie, la S.C, in un caso di esercizio del recesso da parte del comodante, in vista della fruizione di un finanziamento pubblico per interventi edilizi sull'immobile, ha rilevato l'omessa indagine, spettante al giudice di merito, sia in ordine alla necessità e imprevedibilità degli interventi edilizi da finanziare, a fronte dell'assunzione degli oneri di manutenzione, anche straordinaria, da parte del comodatario, sia in ordine all'eventuale sufficienza della mera sospensione temporanea del rapporto contrattuale).

Cass. civ. n. 2103/2012

Quando un bene immobile sia dato in comodato da uno dei genitori affinché funga da residenza familiare dei futuri coniugi, il vincolo di destinazione appare idoneo a conferire all'uso, cui la cosa deve essere destinata, il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell'art. 1809, primo comma, c.c.; ne consegue che, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato.

Cass. civ. n. 12882/2009

Non sono applicabili al comodato immobiliare le norme contenute nell'articolo 6 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, ed in particolare quella di cui al comma sesto di detto articolo, che ha introdotto un criterio di quantificazione predeterminato e forfettario del risarcimento del danno da occupazione illegittima degli immobili, individuandolo nella misura del 20 per cento del canone di locazione, con esclusione di ogni altro risarcimento previsto dall'articolo 1591 c.c. Trattasi, infatti, di norme eccezionali, di efficacia temporanea e destinate ad agevolare la transizione verso il nuovo regime pattizio delle locazioni e, pertanto, la loro applicazione è rigorosamente limitata ai contratti di locazione.

Cass. civ. n. 7539/2003

La scadenza del termine convenuto per il comodato ne determina l'estinzione ed il conseguente obbligo contrattuale di restituzione del bene ricevuto, il cui inadempimento è idoneo a produrre un danno nel patrimonio del comodante, danno che il comodatario deve risarcire, ove non provi che l'inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile.

Cass. civ. n. 7195/2003

In tema di comodato, poiché è sufficiente avere la disponibilità materiale della cosa per concederla ad altri a tale titolo, il comodante che agisce in giudizio per la restituzione della cosa nei confronti del comodatario ha soltanto l'onere di dimostrarne la consegna e il rifiuto di restituzione, e non anche di provare il suo diritto di proprietà su di essa, mentre spetta al convenuto dare la prova di un diverso titolo per il suo godimento.

Cass. civ. n. 539/1997

Chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederla in locazione, comodato o costituirvi altro rapporto obbligatorio ed è, in conseguenza, legittimato a richiederne la restituzione allorché il rapporto venga a cessare.

Cass. civ. n. 8326/1990

Il proprietario comodante può avvalersi, al fine di conseguire il rilascio del bene concesso ad altri in godimento, sia dell'azione di rivendica che della azione contrattuale di natura obbligatoria; in questa seconda ipotesi, l'attore non ha l'onere di provare la proprietà del bene medesimo, bensì soltanto l'esistenza del contratto di comodato e le sue implicazioni di carattere soggettivo, senza che possa rilevare al riguardo di tale regime probatorio che il convenuto abbia eccepito l'usucapione del bene in suo favore, in quanto tale pretesa non è idonea a trasformare in reale l'azione tipicamente personale proposta nei suoi confronti.

Cass. civ. n. 1083/1981

Poiché l'azione promossa dal comodante nei confronti del comodatario e diretta ad ottenere la restituzione della cosa concessa in comodato è di natura personale e prescinde dalla prova del diritto di proprietà, può essere proposta da chiunque, avendo avuta la disponibilità materiale della cosa stessa, dimostri di averla consegnata ad altri a titolo gratuito affinché se ne servisse per un uso determinato, con l'obbligo di custodirla con la diligenza del buon padre di famiglia e di restituirla alla scadenza del contratto, ovvero a sua richiesta.

Cass. civ. n. 211/1981

Nel comodato il termine di restituzione della cosa può essere fissato anche in relazione ad un evento futuro ed incerto, perché elemento essenziale caratterizzante il comodato è la gratuità della concessione del godimento della cosa per un uso determinato, e non anche la precarietà della concessione (esistente solo quando non sia stato pattuito un termine finale del rapporto, nel qual caso, a norma dell'art. 1810 c.c., il comodatario è tenuto alla restituzione della cosa non appena il comodante la richiede), per cui la determinazione del momento, nelle sue varie possibili modalità, della cessazione del rapporto, con il conseguente attualizzarsi dell'obbligo di restituzione della cosa, è lasciato all'autonomia negoziale delle parti.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1809 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

M. R. chiede
domenica 08/12/2024
“Sono comodatario di due terreni in virtù di contratti decennali con scadenza 2031, registrati ma non trascritti.
Il primo terreno appartiene a due comproprietari, ma il contratto è stato firmato solo da uno dei due, ma ogni anno entrambi hanno preteso una quantità dei frutti del terreno, come previsto in contratto.
Ora ho ricevuto la disdetta immediata del contratto a firma di uno dei due, ma scrivendo che la comunicazione era effettuata anche a nome dell’altro comproprietario, e chiedendo anche per l’anno in corso un quantitativo dei frutti del terreno, come da contratto.
Di fronte alla mia richiesta di attendere la scadenza del contratto, hanno sostenuto che esso è nullo, in quanto privo della firma di uno dei due comproprietari.
Si potrebbe sostenersi la ratifica dell’altro proprietario non firmatario, che tra l’altro pur essendo comproprietario da diversi decenni, si é sempre disinteressato della gestione del terreno?
Mentre per un altro terreno, sempre con scadenza 2031, il comodante è deceduto ed ora l’erede ne pretende la restituzione. Ne ha diritto?”
Consulenza legale i 16/12/2024
La fattispecie che viene sottoposta ad esame necessita di essere affrontata sotto due diversi profili, ovvero quello della validità del contratto di comodato e quello della validità di una sua disdetta anticipata.
Sotto il primo aspetto viene in considerazione la mancata sottoscrizione del contratto da parte di uno dei comproprietari, situazione presa in esame sia dalla giurisprudenza di merito che da quella di legittimità, entrambi aderenti alla tesi della sua validità, tesi che trova il suo fondamento nella considerazione secondo cui il comodato di cosa comune da parte di un comproprietario debba farsi rientrare nell’ambito della c.d. gestione d’affari, con la conseguenza che lo stesso rimane valido ed efficace stante la mancata preventiva opposizione da parte dei comproprietari non stipulanti (così Tribunale di Napoli sentenza 16.03.2022, Cass. n. 22540/2019, Cass. n. 11135/2012).

Si afferma, infatti, che, al pari di ciò che accade per il contratto di locazione, il comodato sottoscritto da uno dei comproprietari con il comodatario è efficace, potendo l’opposizione del comproprietario non comodante rilevare solo nel caso in cui venga manifestata e portata a conoscenza del medesimo prima della stipula del contratto (cfr. comma 2 dell’art. 2031 del c.c.), in modo tale così da porre il comodatario al riparo da sopravvenuti contrasti che dovessero eventualmente sorgere tra gli stessi comodanti.

In particolare, con la sentenza n. 11135/2012 le SS.UU. della Corte di Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto:
La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito della gestione d’affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 del c.c., sicchè, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705 del c.c. comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 c.c., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa”.

In questo modo, sempre secondo la Suprema Corte, è possibile tutelare l’affidamento del terzo nel regolamento di interessi originario, cosicchè lo stesso non può essere tenuto a subire gli effetti delle sopravvenute modifiche della volontà di contrarre che si verificano tra i comproprietari dell’immobile concesso in godimento e gli interessi del comunista non comodante.
Rimane in ogni caso salva la facoltà di quest’ultimo di ratificare l’operato del comproprietario comodante, con conseguente diritto di ottenere l’adempimento degli obblighi derivanti dal contratto alla cui conclusione non ha partecipato, ratifica che in questo caso deve ravvisarsi nello stesso comportamento posto in essere in epoca successiva alla stipula del contratto, consistente nel riconoscere il comodatario come detentore del fondo e nel pretendere e far propri annualmente un determinato quantitativo di frutti (anche se ciò non risulta espressamente previsto nel contratto trasmesso a questa Redazione, sebbene nel quesito si dica il contrario).

Accertata la validità del contratto, pur se mancante della sottoscrizione da parte di uno dei comproprietari, occorre adesso analizzare la questione della validità di una sua risoluzione anticipata.
Nel messaggio PEC ricevuto dal comodatario, la parte comodante dichiara di voler interrompere il rapporto e di pretendere l’immeditata restituzione dei fondi invocando l’art. 1810 del c.c..
Ebbene, si ritiene che il riferimento a tale norma sia del tutto errato, in quanto l’art. 1810 c.c. fa espresso riferimento, come risulta dalla sua stessa rubrica, al contratto di comodato senza determinazione di durata, fattispecie che non può dirsi ricorrere nel caso in esame, considerato che con espressa pattuizione la durata del contratto viene convenuta in dieci anni (“…con decorrenza dal 25 febbraio 2021 e termine al 25 febbraio 2031…”).
L’ipotesi disciplinata dall’art. 1810 c.c., infatti, integra la fattispecie del c.d. comodato precario, il quale si caratterizza proprio per la circostanza che la scadenza del contratto si fa dipendere potestativamente dalla volontà del comodante, il quale può farla cessare ad nutum, mediante richiesta di restituzione del bene (cfr. Cass. SS.UU. n. 20448/2014, Cass. civ. Sez. II n. 5987 del 10.05.2000).

In questo caso, invece, risultando espressamente pattuito un termine tra le parti, dovrà farsi applicazione dell’art. 1809 c.c., norma che pone in capo al comodatario l’obbligo di restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto, fatto salvo quanto previsto dal secondo comma della medesima norma, il quale disciplina una particolare ipotesi di recesso del comodante prima della scadenza del termine pattuito, analoga a quella di cui al comma 3 dell’art. 1804 del c.c..
Il fondamento di tale facoltà di recesso si individua nella presunta volontà delle parti, sussistente al momento della stipula del contratto, che la cosa non serva al comodante, con la conseguenza che la durata del rapporto sarà influenzata, oltre che dalla scadenza del contratto, anche dal bisogno eventuale del comodante.
Si tenga presente che il bisogno di aver restituito il bene non deve necessariamente essere grave o, comunque, tale che, se non soddisfatto, il comodante ne riceverebbe un danno (ovviamente, non può neppure consistere in un mero capriccio).

In giurisprudenza si sostiene che il giudizio sulla esistenza del bisogno imprevisto e urgente del comodante, quando il comodato sia soggetto a termine, debba essere compiuto effettuando una comparazione tra il bisogno che il comodante intende soddisfare con la richiesta di restituzione ed il pregiudizio che il comodatario sarà costretto a sopportare a seguito della restituzione, nonché tenendo conto delle alternative possibili per ciascuna delle parti (così Cass. civ. Sez. III ordinanza n. 18334 del 27.06.2023).

Le considerazioni fin qui svolte, dunque, consentono di giungere alle seguenti conclusioni:
il contratto di comodato in esame deve ritenersi pienamente valido ed efficace anche nei confronti della parte che sostiene di non averlo sottoscritto, dovendosi peraltro ravvisare nel suo comportamento, successivo alla conclusione del contratto, una ratifica dell’operato dell’altro comproprietario, il quale si intende abbia agito, oltre che in nome proprio, anche quale gestore d’affari del primo.
La parte comodante non potrà pretendere la restituzione del bene ex art. 1810 c.c. in quanto si tratta di comodato a termine, mentre sarà legittimata ad esercitare tale suo diritto ex art. 1809 comma 2 c.c., purchè fornisca adeguata prova dell’urgente ed imprevedibile bisogno della cosa a cui fa riferimento tale norma.
In caso di eventuale controversia tra le parti, il giudice chiamato a pronunciarsi dovrà effettuare un bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti.


R. P. chiede
venerdì 09/12/2022 - Lazio
“Il quesito è questo.
Vivo e risiedo con mio marito in un appartamento di mia proprietà al secondo piano di un edificio e posseggo un locale di 35 metri quadrati al piano terra dello stesso edificio in cui si accede da parti comuni. Nel 2007 ( circa), in seguito alla vendita della loro abitazione, mio figlio e mia nuora vengono ad abitare con noi a titolo provvisorio e qui stabiliscono la loro residenza. Nel corso del tempo, per cause varie, si trasferiscono per brevi periodi in altre abitazioni mantenendo qui la loro residenza dove rientrano più stabilmente con la loro bambina ,a fine 2016 o inizio 2017, allo scopo di esserci di aiuto, visto l'aggravarsi delle nostre condizioni di salute. Per comodità ci siamo anche adattati alternativamente ad usufruire dello spazio del locale al piano terra.
In sostanza siamo conviventi sullo stesso stato di famiglia e residenti allo stesso indirizzo, dove io come proprietaria continuo a pagare regolarmente le utenze tramite domiciliazione bancaria.
Ora accade che il 28 febbraio del 2021, mia nuora parte furtivamente per l'Inghilterra sottraendo illecitamente la bambina di 6 anni A ottobre del 2021 mio figlio ottiene l'ordine di rimpatrio della bambina dall'Alta Corte Giustizia in Inghilterra. Mia nuora rifiuta di rientrare, viene però in visita alla bambina nel mese di maggio del corrente anno. In questa circostanza per agevolare la visita viene ospitata nuovamente presso di noi, per un breve periodo (1 mese circa come da lei inizialmente dichiarato) e senza consegnarle le chiavi di casa. In seguito alla sua manifestazione di voler riportare in Inghilterra la bambina per le vacanze estive e alla conseguente opposizione di mio figlio, lei decide di non partire ancora per un tempo indefinito, nonostante l'invito a procurarsi un altro alloggio . Non trattasi certamente di riconciliazione come da lei dichiarato e viste le reiterate minacce verso mio figlio. Ottobre 2022, considerato ormai irrimediabilmente compromesso il loro rapporto mio figlio deposita ricorso per la separazione. Alla prima udienza viene tutto rinviato a febbraio 2023. Nessun provvedimento attualmente preso in quella sede.
Il quesito è questo:
Vista l'assenza di un qualsiasi accordo verbale o scritto sull'utilizzo della mia abitazione,ma visto che ciò veniva concesso spontaneamente con modalità diverse a seconda delle esigenze esclusivamente con spirito solidale verso membri della famiglia, domando:
Mio figlio e mia nuora sono considerati ospiti o comodatari? E in base a ciò come e con quali modalità posso agire per revocare l'utilizzo della mia abitazione e mettere fine a questa ormai scomoda convivenza soprattutto nei confronti di mia nuora che si ostina a pretendere di rimanermi in casa a suo esclusivo piacimento?
Grazie”
Consulenza legale i 23/12/2022
Occorre premettere, innanzitutto, che la mancanza di un atto formale non esclude l’esistenza di un contratto di comodato, il quale non richiede la forma scritta neppure quando abbia ad oggetto beni immobili. Appare peraltro difficile sostenere che, alla base della concessione in godimento dell’immobile, non vi sia neppure un accordo verbale e che si tratti di semplice ospitalità. Infatti, sia pur con alterne vicende, risulta che chi pone il quesito abbia concesso il godimento dell'immobile al nucleo familiare costituito dal figlio, dalla nuora e dalla bambina. Possiamo anche affermare che il medesimo immobile ha costituito, almeno per un certo periodo di tempo, la "casa familiare". Peraltro, la coabitazione è stata anche formalizzata, nel senso che gli interessati hanno formalmente dichiarato la propria residenza nell'immobile.
Il problema si pone proprio in vista della separazione: occorre infatti stabilire se esso - soprattutto alla luce del comportamento della nuora - possa continuare a essere considerato “casa familiare”, con la conseguenza, in caso di risposta affermativa, dell'assegnazione al genitore collocatario della minore in sede di separazione.
In realtà, il testo attuale dell’art. 337 sexies del c.c. non prevede alcun automatismo tra affidamento della prole e assegnazione della casa familiare, ma stabilisce che "il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli”.
La situazione, dunque, è delicata, dal momento che l’immobile è attualmente la casa in cui vive la bambina; d’altra parte, anche alla luce dei fatti riferiti nel quesito (da cui si desumono gravi comportamenti della madre, che potrebbero rivestire anche rilevanza penale), non è neppure scontato che la bambina venga affidata alla madre e “collocata” presso di lei. Sul punto, però, non è possibile in questa sede formulare previsioni, considerando anche che c’è un giudizio di separazione pendente e che a breve dovranno essere emessi i provvedimenti provvisori ex art. 709 del c.p.c.
Inoltre, quanto alla possibilità di agire in giudizio per la restituzione dell’immobile, la giurisprudenza delle Sezioni Unite (29/09/2014, n. 20448) ha affermato che “l'ipotesi di comodato di casa familiare si inquadra nello schema del comodato a termine, il quale rappresenta figura concettualmente diversa dal comodato senza determinazione di durata (c.d. precario) disciplinato dall'art. 1810 del c.c., in quanto risulta implicita nella previsione di destinazione dell'immobile ad abitazione familiare la determinazione della durata della concessione, che va rapportata a tale uso”.
Infatti il codice civile contempla, sotto il profilo della durata, due tipi di comodato:
  • quello a termine, previsto dall’art. 1809 del c.c., cui è equiparata l’ipotesi in cui il termine di durata possa desumersi dall’uso che deve farsi del bene: in tali casi il comodante può richiedere la restituzione anticipata (cioè prima della scadenza del termine convenuto o prima che il comodatario abbia finito di servirsi della cosa) solo se sopravvenga “un urgente e impreveduto bisogno” al comodante stesso;
  • il comodato cosiddetto precario, previsto appunto dall’art. 1810 c.c., caratterizzato dal fatto che il comodatario è obbligato a restituire il bene non appena il comodante lo richiede.
Ora, la giurisprudenza della Cassazione successiva alla citata pronuncia delle Sezioni Unite ha chiarito che “qualora il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare già formato od in via di formazione, si configura un comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. In siffatta ipotesi, per effetto della concorde volontà delle parti, si imprime al comodato un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all'uso il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo solo dalla volontà, ad nutum, del comodante” (Cass. civ., Sez. III, 03/12/2015, n. 24618).

Loredana M. chiede
mercoledì 04/11/2020 - Campania
“Buongiorno mio padre è il proprietario di un locale c2 sotto la sua abitazione che per urgenza familiare lo utilizzava mia sorella per viverci con la sua famiglia (4 componenti). Successivamente dopo violenze fisiche e psicologiche da parte del marito denuncia il tutto ai servizi sociali avendo ancora un figlio minore ma l’ex marito fa in modo che il figlio dica al giudice di voler stare con il padre e gli concede di vivere nella casa. Sono trascorsi dice anni e il ragazzo ha compiuto la maggiore età, mia sorella ha dovuto trovare un monolocale per viverci e il suo ex marito vive nella casa (c2) non pagando nulla e avendo anche il contatore dell’acqua in comune non ne paga nemmeno il consumo inoltre da qualche giorno segretamente ha portato una donna che (non solo rimane chiusa in casa per non farsi vedere e non si sa chi sia..,) ma ha chiuso con un catenaccio una zona di accesso di spazio comune al fabbricato. Chiedo pertanto come si può denunciare “la convivenza di questa donna che non si sa se sia scappata o altro?” E mio padre non sa nulla di chi vive nella sua proprietà. Come mio padre (persona anziana con reddito basso) può riavere il suo immobile? L’ex marito di mia sorella come obbligarlo a togliere il catenaccio per avere accesso all’area perimetrale del fabbricato dove vi sono sia la condotta idrica che fognaria che necessita di lavori di manutenzione urgenti causa danni idrogeologici ? Attendo in un vostro interessamento con soluzione veloce
Grazie”
Consulenza legale i 10/11/2020
Il rapporto giuridico che in questo momento lega l’ex genero al titolare dell’immobile ove vive è quello scaturente da un contratto di comodato, il quale normalmente prende origine da un rapporto di pura cortesia, per poi assumere rilevanza giuridica nel momento in cui materialmente l’immobile viene consegnato a chi o a coloro che lo andranno ad abitare.

La sua definizione e disciplina giuridica si rinviene agli artt. 1803 e ss. c.c., norme dalla cui lettura si ricava innanzitutto che si tratta di un contratto essenzialmente gratuito (non è previsto il pagamento di alcun corrispettivo da parte di chi usufruisce dell’immobile, essendo improntato, per l’appunto, a cortesia e fiducia e nascendo dalla volontà del comodante di sopperire ad una temporanea esigenza altrui) oltre che di un contratto libero nella forma (ossia, non è richiesto che venga concluso per iscritto, essendo sufficiente per il suo perfezionarsi la consegna dell’immobile).
Perché il contratto di comodato venga validamente ad esistenza, occorre che le parti ne determino, sia pure in forma tacita, l’uso e, subordinatamente, il tempo per cui la cosa viene comodata.
Tale determinazione può anche essere tacita, nel qual caso saranno i fatti e le circostanze che diedero origine alla gratuita concessione della cosa a determinare altresì il contenuto del comodato.
Pertanto, il comodatario sarà obbligato alla restituzione della cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne sia servito in conformità all’uso per cui gli era stato concesso (art. 1809 del c.c.).
Inoltre, proprio il suo carattere essenzialmente gratuito è alla base della regola per cui la sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno del comodante, giustifica la richiesta di immediata restituzione della cosa, anche prima della scadenza del termine stabilito o prima che il comodatario abbia cessato di servirsene (in conformità all’uso convenuto).

Un’ipotesi particolarmente diffusa nella prassi, e di cui si è occupata in diverse occasioni la giurisprudenza, è proprio quella descritta nel caso in esame, ossia dei genitori che concedono in comodato al figlio sposato un immobile da destinare a casa familiare.
Capita molto spesso che, in seguito alla crisi coniugale ed al conseguente giudizio di separazione, il giudice assegni l’immobile in favore del coniuge affidatario dei figli, il quale può anche coincidere con la parte estranea al gruppo familiare del comodante (generalmente la nuora).
In questi casi, all’interesse del comodante di agire in giudizio perché si dichiari la cessazione del comodato precario e si condanni, l’oramai ex nuora, al rilascio dell’immobile nonché al pagamento di un compenso per il relativo godimento, è chiaro che si contrappone l'interesse della comunità familiare, in particolare della prole, alla conservazione dell'ambiente domestico (trattasi, evidentemente, di interessi tanto delicati quanto contrapposti, che richiedono un ben ponderato bilanciamento).
Ebbene, dinanzi a fattispecie analoghe a quella appena delineata, la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di ritenere che si debba individuare una successione ex lege del coniuge assegnatario nell’originario rapporto di comodato, con conseguente applicabilità della disciplina propria di tale contratto.
Il comodatario riceverebbe l’immobile non a titolo personale, ma quale rappresentante dell’intero nucleo familiare a favore del quale è concesso il godimento dell’immobile.
Pertanto, se ne è dedotto che, ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie dal genitore ad uno dei due coniugi) si è dinanzi ad una ipotesi di comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare, e ciò perché si è impresso al bene un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari.
La stessa Corte di Cassazione giunge ad affermare che, in presenza di funzionale destinazione dell’immobile a casa familiare, deve escludersi la figura del comodato precario, non potendo in tal caso sussistere un termine e dovendosi questo implicitamente far coincidere con il compimento della funzione di centro della comunità domestica propria della casa coniugale.

Facendo applicazione dei principi sopra esposti, dunque, si ritiene che nel caso in esame il comodante, proprietario dell’immobile e padre di chi pone il quesito, non possa incontrare alcuna difficoltà nell’agire in giudizio per ottenerne la restituzione, considerato che:
  1. non vi è mai stato alcun provvedimento giudiziale di assegnazione di quell’immobile, peraltro con destinazione urbanistica C2 e, dunque, neppure destinabile ad abitazione;
  2. non costituisce più il centro della originaria comunità domestica, avendo la madre lasciato l’abitazione e godendo di altro immobile;
  3. il figlio ha ormai raggiunto la maggiore età.

Per quanto concerne la chiusura abusiva dell’area comune all’intero fabbricato, a prescindere dal fatto che lì vi trovi o meno la condotta idrica e fognaria, si tratta di un atto del tutto illegittimo, con conseguente diritto da parte del legittimo proprietario a rimuovere immediatamente quel catenaccio.
Pertanto, si consiglia, come primo atto, di far pervenire all’ex genero una formale diffida (preferibilmente redatta da un legale), con la quale gli si intima di rimuovere senza alcuna dilazione il catenaccio ovvero di consegnare copia delle chiavi.
Qualora lo stesso non abbia alcuna intenzione di provvedere spontaneamente, si dovrà necessariamente fare ricorso all’autorità giudiziaria, mediante l’esercizio di quell’azione che si definisce di reintegrazione nel possesso, disciplinata all’art. 1168 del c.c. e da esercitare secondo le norme dettate agli artt. 703 e ss. c.p.c.
Uno dei presupposti essenziali di tale azione è che non sia trascorso un anno dall’avvenuto spoglio, condizione che in questo caso indubbiamente sussiste, considerato che l’atto illegittimo è stato posto in essere solo da qualche giorno.

Nella particolare ipotesi, poi, in cui sussista un’effettiva ed indifferibile urgenza di effettuare lavori sugli impianti idrici e/o fognari, ci si potrà rivolgere al giudice ex art. 700 del c.p.c., per ottenere un provvedimento d’urgenza, da eseguire coattivamente anche contro la volontà dell’ex genero e con l’ausilio dell’ufficiale giudiziario territorialmente competente.


FRANCESCO M. chiede
martedì 19/05/2020 - Calabria
“RIFERIMENTO CONSULENZA Q202025416

Occorre precisare due ipotesi:
1) la separazione avviene prima del termine di scadenza del contratto (1.11.2020). In tal caso nulla osta in quanto ovviamente posso stipulare un nuovo comodato (e nuova scadenza) con mio figlio separato.
2) la separazione si verifica dopo che il predetto termine sia scaduto.
Personali considerazioni e richieste:
A) Il comodato è stato registrato nel 2019. La registrazione, credo, fornisca data certa erga omnes e l’atto è a tutti gli effetti valido ed efficace tra le parti al momento della stipula. La registrazione in ritardo, com’è noto, è ammessa con il versamento delle maggiori imposte a sanatoria assolvendo ex post agli obblighi fiscali e all’eventuale debenza della registrazione.
La Corte di Cassazione (Corte Cass., Sez. Un., Sentenza n. 13603 del 21/07/2004) ha stabilito il principio per il quale il provvedimento di assegnazione con il quale il Giudice della separazione o del divorzio dispone l'assegnazione della casa coniugale - anche a favore del coniuge che non sia titolare di diritti reali o personali sul bene nei confronti del terzo proprietario - non investe il titolo negoziale che regolava la utilizzazione dell'immobile prima del dissolvimento della unità del nucleo familiare, alla stregua del quale continuano ad essere disciplinate le obbligazioni derivanti dal rapporto tra le parti, venendo soltanto a "concentrare" l'esercizio dei diritti e delle obbligazioni esclusivamente in capo al coniuge assegnatario a favore del quale, pertanto, non viene costituito alcun nuovo diritto che va a limitare la preesistente situazione giuridica del dominus (corte cass. 2018). In altri termini, il provvedimento di assegnazione non mira ad innovare la situazione precedente, creando ex novo un titolo di legittimazione ad abitare. E se trattasi di situazione precedente, ciò riguarda anche il caso in cui il comodato sia stato stipulato prima del matrimonio. Trattasi quindi di “subentro” del coniuge affidatario della casa nel comodato in essere con tutti gli obblighi e diritti in esso previsti. Tale principio è avulso dai casi giudicati. E quindi, se trattasi di “subentro” del coniuge affidatario nel comodato in essere e cioè di “trasferimento” ad esso del comodato con tutte le prescrizioni in esso contenute, ritengo che le proroghe stipulate a seguito della clausola pattizia del comodato, là dove si prevede che “Qualsiasi modifica al presente accordo dovrà essere fatta per iscritto e sottoscritta da entrambe le parti a pena di nullità, costituiscono un unicum con il comodato medesimo e quindi ne seguono la medesima sorte. Diversamente, si rinverrebbe contraddizione con quanto statuito dalla Consulta in quanto il provvedimento di assegnazione influirebbe sul titolo negoziale (a prescindere dal momento della stipula anche con uno solo dei coniugi, nel caso in cui esso non viene destinato a casa coniugale ma per uso proprio e con un termine certo) creando tale provvedimento (di assegnazione) una sorta di nuovo titolo sostitutivo dell’originario ovvero una limitazione di esso in relazione a norme pattizie non interamente utilizzabili. E se il comodato, comprensivo di tutte le norme pattizie costituisce un unicum, non investito dal provvedimento di assegnazione, le proroghe in previste dalle norme pattizie, legittimamente potrebbero essere sottoscritte solo tra me e mio figlio e non anche dalla moglie. La Corte di Cassazione ma solo in riferimento alla fattispecie esaminata (da qui la evulsione del principio sopra esposto dal giudicato) e cioè quella di comodato ad uso di abitazione familiare stipulato in costanza di matrimonio, statuisce che la nuora, pur non essendo parte formale del contratto, ne è comunque parte sostanziale. Il comodatario riceverebbe l’immobile, infatti, non a titolo personale, bensì quale rappresentante dell’intero nucleo familiare a favore del quale è concesso il godimento dell’immobile.
Per quanto precede, quale è il motivo per cui è d’impedimento o sconsigliata la proroga da stipulare solo con mio figlio?
B) Qualora stipulassi un nuovo contratto di comodato prima della separazione quali comodatari mio figlio e mia nuora, ovvero solo con mio figlio, prevedendo la motivazione “ per uso proprio”, la stessa potrebbe essere considerata surrettizia e come tale non apposta essendo sostanzialmente “per motivi della famiglia”?. Stabilendo comunque un termine finale certo, alla sua scadenza avrei la certezza di rientrare nella disponibilità dell’immobile a prescindere della motivazione dell’atto (desunta o meno)?.
C) Qualora invece stipulassi con ambedue i coniugi prima della separazione, un contratto di affitto dell’immobile, questa tipologia contrattuale richiede necessariamente motivazioni ( esempio utilizzo per casa familiare, uso proprio ecc. )?. Nel caso negativo, potrò rientrare nella disponibilità dell’immobile alla scadenza contrattuale?
D) Una proroga del termine di scadenza potrebbe tramutare ovvero intendere il comodato a “tempo indeterminato” invece che “a tempo determinato “e quindi precario ancorché in presenza di termine finale certo?
E) l’affidamento della figlia alla madre, quali conseguenze può avere ai fini della riconsegna dell’immobile alla scadenza pattuita con o senza proroghe?. E nelle ipotesi di cui ai punti B) e C)?
F) Come precisato nella prima richiesta di consulenza, mia nuora è proprietaria in un comune adiacente di un appartamento di poco più piccolo di quello di mia proprietà oggetto del comodato de quo, Mio figlio non è proprietario di appartamenti e/o immobili. I coniugi vertono in regime di separazione dei beni. Qualora in sede di separazione il mio appartamento fosse assegnato a mia nuora, la proprietà esclusiva della nuora di altro immobile ha influenza in merito all’assegnazione alla medesima dell’appartamento di mia proprietà ovvero tale proprietà assume rilievo unicamente al fine della quantificazione dell’assegno di separazione o divorzio costringendo in tal caso il coniuge non assegnatario in affitto?. (potrebbe in astratto verificarsi il caso che la moglie assegnataria fosse proprietaria di un numero imprecisato di appartamenti!).
G) richiedo comunque motivati consigli.
Per motivi di privacy, Vi prego voler fornire la risposta unicamente via e-mail e non pubblicarla sul vostro sito.”
Consulenza legale i 22/05/2020
Va premesso che la sentenza delle Sezioni Unite n. 13603/2004, menzionata nel quesito, si riferisce ad un caso in cui l'immobile era stato concesso in comodato per essere destinato ad abitazione familiare del comodatario, ma contiene alcune precisazioni che risultano utili anche ai fini della presente consulenza.
Nel nostro caso, però, l’immobile è stato concesso in comodato per uso proprio del comodatario, e solo in un secondo momento lo stesso è stato adibito ad abitazione del nucleo familiare, formatosi successivamente. Inoltre, come già spiegato nel precedente quesito 25416, l’espressa previsione di un termine di durata fa sì che, nel nostro caso, il comodante possa richiederne la restituzione alla scadenza.
Il suggerimento di evitare, ove possibile, una proroga del contratto esistente è dettato semplicemente da una maggiore cautela, nel timore che un eventuale provvedimento di assegnazione della casa familiare possa tenere conto della situazione di fatto nel frattempo creatasi: da anni, infatti, l’appartamento viene utilizzato come casa familiare.
Tuttavia, l’elemento principale da tenere in considerazione rimane la previsione di un termine certo di durata del contratto.
Ora, per rispondere insieme alle domande sub A e B, va detto che, in linea di principio, potrebbe stipularsi una proroga del contratto in favore del figlio, ribadendo anche la destinazione ad uso personale del comodatario; però, in sede di separazione, una tale pattuizione “stonerebbe” con l’attuale situazione di fatto, in cui l’immobile è effettivamente (e sin dalla formazione del nucleo familiare) adibito a casa familiare.
Si potrebbe, questo sì, fissare un termine breve di durata per la proroga, onde consentire al comodatario di riacquistare, alla scadenza, la disponibilità dell’immobile senza dover attendere anni. La giurisprudenza già esaminata nel precedente quesito, come si è visto, distingue molto chiaramente l’ipotesi in cui sia stato stabilito un termine di durata.
Si sconsiglia, invece, la stipula di contratto di locazione (prospettata nella domanda C), non solo perché esiste un sistema normativo che impone una durata minima delle locazioni abitative, ma soprattutto perché l’art. 6 della legge 392/1978 (legge sull’equo canone) dispone la successione nel contratto del coniuge assegnatario della casa familiare, in caso di separazione giudiziale (mentre in caso di separazione consensuale al conduttore succede l'altro coniuge “se tra i due si sia così convenuto”).
Quanto alle domande sub D ed E, cui possiamo dare risposta congiunta, va fatta chiarezza su alcuni punti.
Innanzitutto va precisato che ogni decisione del giudice, nelle separazioni in cui vi siano figli minori o comunque non autosufficienti, va adottata avendo come esclusivo riferimento l'interesse morale e materiale della prole (art. 337 ter del c.c.). Ciò vale sia per l’affidamento dei figli, sia per l’assegnazione della casa familiare. Quest'ultima viene normalmente assegnata al genitore col quale i figli risiedono prevalentemente, in quanto di solito ciò corrisponde al citato criterio dell’interesse morale e materiale della prole (art. 337 sexies del c.c.: “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli”).
Anzi, proprio questo criterio, definito come “esclusivo”, prevale su ogni altra considerazione quale, ad esempio, l’eventualità che il coniuge collocatario sia proprietario o comunque disponga di altri immobili.
Detto questo, il “collocamento” (termine infelice, ma ampiamente usato) dei figli presso la madre, o il loro affidamento esclusivo, non sposta di per sé i termini della questione oggetto del quesito.
Se la decisione sull’affidamento (anche in sede di provvedimenti provvisori ed urgenti emessi dal Presidente del Tribunale nella prima fase della separazione) dovesse intervenire prima della scadenza del contratto originario (un po’ improbabile, dato che mancano pochi mesi), e la casa familiare fosse assegnata alla moglie, la previsione del termine di durata consentirebbe, comunque, al comodante di rientrare nella disponibilità dell’immobile.
Qualora, invece, tale decisione giungesse a contratto già prorogato, come visto in precedenza la proroga per un breve periodo (ad esempio un anno) consentirebbe al proprietario di ottenere la restituzione dell’immobile alla scadenza del termine.
Ricordiamo, sul punto, quanto argomentato nella precedente consulenza: infatti l’ormai nota sentenza delle Sezioni Unite n. 13063/2004 distingue esplicitamente l’ipotesi “in cui, unitamente alla previsione della destinazione a casa familiare, le parti abbiano espressamente ed univocamente pattuito, all'atto della conclusione del contratto, un termine finale di godimento del bene, configurandosi in detta fattispecie un contratto a tempo determinato, tale da comportare l'estinzione del vincolo alla scadenza convenuta”. Sempre le Sezioni Unite, con la successiva sentenza 20448/2014, hanno precisato che “la sentenza del 2004 [...] non intendeva affermare che, ogniqualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorché disgregata. Ha infatti in primo luogo [...] invitato i giudici di merito a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l'occupazione [...]”.
Ad ogni modo, non bisogna dimenticare che l’immobile di cui trattasi è la casa in cui vive una minore, e che non solo il giudice, ma anche le parti coinvolte dovrebbero tenere presente una soluzione che tenga conto soprattutto degli interessi di quest’ultima.

Alex Z. chiede
giovedì 20/02/2020 - Piemonte
“Buongiorno, voglio fare un contratto di comodato d'uso per un terreno agricolo che non posso comprare perché sono svizzero e il terreno è più di 1000 mq.
L'agente immobiliare mi ha detto che questo contratto si può fare solamente per una durata di nove anni, ma io vorrei farlo per 50 anni.
E' giusto che questa forma di contratto ufficialmente sia limitata a nove anni?”
Consulenza legale i 26/02/2020
Il codice civile disciplina due diverse forme di comodato, e precisamente il c.d. comodato propriamente detto, regolato dagli articoli dal 1803 al 1809 c.c., ed il comodato c.d. precario, a cui fa riferimento l’art. 1810 del c.c. rubricato “comodato senza determinazione di durata”.
Quest’ultimo si definisce precario perché tutte le volte in cui manca la pattuizione espressa di un termine o risulta impossibile desumere tale termine dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodante avrà il diritto di richiedere ad nutum la restituzione del bene.

L’art. 1809 del c.c., invece, disciplina il comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che ne consente di stabilire la scadenza contrattuale, il quale si caratterizza per la facoltà del comodante di esigere la restituzione immediata della cosa solo in caso di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno.
E’ a questo particolare tipo contrattuale che va generalmente ricondotta l’ipotesi più frequente di comodato di bene immobile, ossia quello pattuito per la destinazione dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, nel qual caso il termine viene individuato in relazione appunto alla particolare destinazione del bene.

Ipotesi diversa è quella a cui qui si fa riferimento, in quanto oggetto del contratto dovrà essere un immobile non abitativo, e precisamente un terreno con destinazione agricola.
Ci si è chiesti, in assenza di espresse indicazioni normative, se in tale ipotesi sia possibile legare la durata del contratto alla vita del concessionario (di fatto la determinazione di un termine pari a 50 anni può assimilarsi alla durata della vita del comodatario).
In dottrina, mentre alcuni autori hanno ritenuto che ciò sia ammissibile, altri hanno invece preferito esprimere un’opinione negativa, ritenendo che debba applicarsi analogicamente l’art. 1573 del c.c. dettato in tema di locazione, il quale stabilisce appunto per la locazione di immobili una durata massima trentennale, deducendone che questo può considerarsi il termine massimo per il quale può essere attribuito un diritto personale di godimento su di un bene immobile.

La giurisprudenza, invece, ritiene ammissibile e legittimo il comodato vita natural durante, configurandolo come un contratto sottoposto a termine incerto, o meglio è incerto quando tale evento si verificherà, ma è certo il suo verificarsi (certus an incertus quando).

Ora, considerato che la fissazione di un termine di durata del contratto pari a 50 anni non può che assimilarsi alla sottoposizione del contratto ad un termine pari alla vita del beneficiario, al fine di evitare di incorrere nel rischio che un giudice, investito di una eventuale controversia sorta in ordine alla durata di tale contratto, possa considerare lo stesso come stipulato senza determinazione di tempo, ciò che si consiglia è di fissare in trenta anni il termine di durata del contratto, rispettando così il termine massimo che il legislatore ha stabilito per il contratto di locazione, a cui il comodato può per certi versi assimilarsi.

Tale limite temporale, perfettamente legittimo e conforme a legge, porrà l’interprete (cioè il giudice) nella condizione di non poter qualificare quel comodato come precario, con diritto, come visto sopra, del comodante di pretendere la restituzione del bene in qualunque momento.

Per quanto riguarda la forma che tale contratto dovrà avere, nessuna norma del codice civile impone l’adozione di un particolare formalismo, a differenza di quanto avviene per la locazione ultra novennale di beni immobili, per la quale il n. 8 dell’art. 1350 del c.c. richiede, sotto pena di nullità, il rispetto della forma dell’atto pubblico o della scrittura privata (così Cass. Civ. Sez. II n 1083/1981).
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. Civ. Sez. II n. 1018/1976 e Cass. Civ. Sez. III n. 8548/2008) nessun requisito di forma è richiesto quand’anche il comodato immobiliare fosse stato convenuto vita natural durante del comodatario.
Pertanto, soltanto ragioni di opportunità consigliano che, nel caso di comodato avente ad oggetto beni immobili, di esso si faccia constare la conclusione per il tramite di una scrittura, in quanto soltanto la scrittura, accompagnata dalla realità, cioè dalla consegna materiale del bene, consentirà più agevolmente di dare prova delle condizioni contrattuali, nell’interesse sia del comodante che del comodatario.
L’adozione dell’atto scritto, infatti, consentirà:
  1. dal lato del comodante che si possa evitare l’insorgere di situazioni potenzialmente ambigue in ordine al titolo in forza del quale il comodatario si trovi a vantare la disponibilità materiale del bene, impedendogli di invocare in suo favore il perfezionamento dell’usucapione;
  2. dal lato del comodatario, consentirà che possa trovare piena applicazione il disposto di cui all’art. 1180 del c.c., norma che, in tema di diritti personali di godimento, regola il conflitto tra più aventi causa, riconoscendo il diritto al godimento del bene a chi per primo dimostri di averlo conseguito.

In ogni caso, anche nell’ipotesi in cui ci si decidesse a rispettare la forma scritta (ciò che si consiglia), non sussisterebbe alcun obbligo di dare pubblicità a tale contratto per il tramite della trascrizione, costituendo il sistema della trascrizione un sistema chiuso, come si ricava dagli artt. 2643 e 2645 c.c.
Sarà invece necessario provvedere, entro il termine di venti giorni, alla registrazione del contratto presso l’Agenzia delle Entrate, con pagamento di un’imposta fissa di registro pari a duecento euro, ma ciò non potrà che risolversi a vantaggio di entrambe le parti, in quanto varrà a dare certezza alla data di stipula del contratto.

Volendo a questo punto trarre le conclusioni di quanto sopra detto, ciò che si suggerisce, per evitare di incorrere in inconvenienti futuri, è di stipulare un contratto di comodato per un termine massimo di trenta anni e di redigere il contratto in forma scritta.
Il rispetto di tale termine eviterà che il giudice possa qualificare quel contratto come stipulato a tempo indeterminato, con diritto del comodante di pretendere la restituzione del bene in qualunque momento.
Il recesso da parte del comodante, invece, sarà consentito ex art. 1811 del c.c., in caso di morte del comodatario, anche nel caso in cui sia stato convenuto un termine, e ciò trova la sua giustificazione nel carattere strettamente fiduciario che lega le parti originarie del contratto.


Giacomo M. chiede
giovedì 31/01/2019 - Sardegna
“Buonasera,
nel 1986 ho concesso in comodato oneroso ( Lire 150.000) a mio fratello un terreno con fabbricato già costruito ( anche se nella scrittura si parla di "erigendo laboratorio") perché se ne servisse per l'attività artigianale per un periodo di 20 anni con espressa rinuncia alla restituzione,
adesso , siamo in lite per la divisione anche di altri beni, vorrei sapere cosa mi spetta, se posso chiedere la restituzione e cosa dovrei pagare”
Consulenza legale i 03/02/2019
Il comodato è un contratto con il quale una parte (comodante) consegna ad un’altra (comodataria) una cosa perché questa se ne serva per un tempo o per un uso determinato con l’obbligo di restituirla (articolo 1803 codice civile).

Si tratta di un contratto essenzialmente gratuito, anche se la giurisprudenza costante ritiene che l'esistenza di un modesto contributo pecuniario corrisposto dal comodatario, non escluda il carattere di essenziale gratuità del comodato, dovendosi verificare piuttosto se il vantaggio fornito al comodante si ponga come corrispettivo del godimento della cosa e assuma natura di controprestazione (Cassazione Civile sentenza n.485/2003).
A tal proposito, nel caso in esame, non è chiaro se l'importo di lire 150.000 (attuali circa 77 euro) sia stato corrisposto mensilmente oppure in un'unica soluzione. In questa seconda ipotesi, non vi sarebbe alcun problema visto il carattere meramente simbolico dell'importo.
Nel primo caso, invece, laddove si sia trattato di un canone mensile (seppur basso, in effetti) in una eventuale sede giudiziale potrebbero esservi questioni interpretative in ordine al tipo di contratto. Infatti, la corresponsione di un canone mensile farebbe qualificare il contratto come locazione e non come comodato, con tutte le conseguenze del caso, prima fra tutte il rinnovo automatico del contratto.

Ciò posto, ipotizzando di essere di fronte a un effettivo contratto di comodato, la "anomalia" nel contratto in esame (quello sottoscritto nel 1986) è la rinuncia alla restituzione dell’immobile nonostante fosse stata ivi prevista una precisa durata (venti anni).
Infatti, per espressa previsione normativa “il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto” (art. 1809 c.c.).
Orbene, come dispone il secondo comma dell’art. 1322 c.c., nel nostro ordinamento vige quella viene definita autonomia contrattuale. Cioè le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico.
Ci si deve quindi chiedere, nel caso in esame, se una clausola che comporti una rinuncia alla restituzione nonostante il decorso del termine contrattualmente previsto persegua un interesse meritevole di tutela.
A parere di chi scrive, una simile clausola deve intendersi affetta da nullità in quanto in palese contrasto con la causa e l’oggetto del contratto di comodato (basti pensare alla definizione contenuta nell’art. 1803 c.c.).
Pertanto, decorsi i venti anni dalla sottoscrizione, laddove il comodatario rifiuti la restituzione, il comodante potrebbe legittimamente eccepire la nullità della predetta clausola.
Per inciso: se dopo la scadenza decorrono altri venti anni e il possessore ha continuato a possedere il bene come se fosse il proprietario, potrebbe opporre l’intervenuta usucapione.

Quindi, la risposta alla prima domanda contenuta nel quesito in merito alla restituzione deve intendersi affermativa.

Con riguardo invece alle altre due domande (cosa spetta e cosa si deve pagare) si osserva quanto segue.
In base all’art. 1808 c.c, il comodatario ha diritto di essere rimborsato soltanto delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti.
Come ha sottolineato la Suprema Corte con la sentenza n. 21023/2016 “il comodatario che debba affrontare spese relative a tasse o manutenzione dell'immobile al fine di poterlo utilizzare, può liberamente scegliere se provvedervi o meno, ma, se decide di sostenerle, lo fa nel suo esclusivo interesse e non può, conseguentemente, pretenderne il rimborso dal comodante”.

Quindi, le spese ordinarie non dovranno in alcun modo essere rimborsate a Suo fratello.

Dovranno essere eventualmente rimborsate solo quelle necessarie e urgenti laddove venga data prova di ciò.

Circa infine la domanda su cosa Le spetta, oltre la restituzione del bene dato in comodato, occorre a monte chiedersi se possano essere richiesti anche dei danni per l’occupazione sine titulo, dopo la scadenza del contratto.
In merito a tale aspetto, la giurisprudenza di legittimità ritiene che il danno non sia “in re ipsa” e che vada cioè provato.
Nella sentenza numero 14222 del 2012, ad esempio, la Corte di Cassazione ha infatti sottolineato che: “l'esistenza di un danno in re ipsa costituisce oggetto di una presunzione iuris tantum, che poggia sul presupposto dell'utilità normalmente conseguibile dal proprietario nell'esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene insite nel diritto dominicale. Ne consegue, in particolare, che la presunzione in parola non può operare allorché risulti positivamente accertato che il proprietario si sia intenzionalmente disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso ogni forma di utilizzazione, non potendosi, in tal caso, ragionevolmente ipotizzare la sussistenza di un concreto pregiudizio derivante dai mancato godimento del bene per effetto dell'illecito comportamento altrui”. Tale principio, viene ribadito anche nella giurisprudenza successiva quale, ad esempio, la sentenza Cass. Civ. n.13071/2018.

Ciò posto, nel caso in esame, riteniamo che sarebbe assai arduo provare dei danni in giudizio, considerato anche che il bene non era mai stato richiesto nonostante il contratto di comodato fosse scaduto, anche alla luce della clausola di rinuncia alla restituzione in forza della quale il comodatario ha continuato a detenere l’immobile (fermo che, come sopra precisato, in caso di opposizione alla restituzione riteniamo possa essere eccepita la nullità di detta clausola).

Da ultimo, per quanto riguarda l’altro fabbricato concesso in comodato nel 2007 con durata di dieci anni (a parte l’aspetto della clausola di rinuncia alla restituzione) valgono le stesse osservazioni testé evidenziate.

GIUSEPPE G. chiede
giovedì 12/01/2017 - Sicilia
“Sono Single e convivo da 15 anni circa con la mia compagna a casa di lei, la cui figlia e suo marito aventi un bambino di 18 mesi e 7 cani, mi hanno chiesto la mia villetta con un contratto di comodato d'uso gratuito pagando solo le tasse comunali, quali Tari, Tasi, acqua, luce. Etc.....
Per cautelarmi dagli imprevisti, vorrei conoscere gli eventuali rischi a riottenere una villetta, che sarebbe la mia prima ed unica casa, qualora si verificassero degli imprevisti. L'obiettivo principale è la vendita, ma attualmente il mio quasi genero non ha un contratto a tempo indeterminato e l'azienda presso cui lavora continuamente rinnova ogni sei mesi un contratto a tempo determinato. Finché lui non ottiene il lavoro a tempo indeterminato, la banca non può concedere il mutuo.
La mia intenzione è quella di attendere un anno circa in quanto mio genero asserisce che il suo contratto a tempo indeterminato dovrebbe essere attuato al massimo fra un anno.
Comunque se ciò non si verifica e nel frattempo dovessi trovare un acquirente , la natura del comodato d'uso , che verrà registrato, prevede il mio diritto a riavere la mia villetta .
Però se loro non hanno trovato una villetta adeguata alle loro esigenze, possono avere il diritto di rimanere ,visto la presenza di minori, finché non trovano una casa adeguata ?
Attendo i vostri consigli legali o pratici prima di procedere
Distinti Saluti

Consulenza legale i 18/01/2017
Il comodato è un contratto che prevede la consegna di un bene ad una parte affinché se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l’obbligo di restituzione della stessa cosa (art. 1803 c.c.)
Tale contratto può essere stipulato tanto a tempo determinato quanto a tempo indeterminato. Nel primo caso, l’art. 1809 c.c. afferma come l’obbligo di restituzione del bene insorga non appena sia decorso il termine convenuto ovvero il comodatario si sia servito del bene in conformità al contratto. Inoltre, nonostante la determinazione della durata, il comodante può richiedere la restituzione del bene nel caso in cui sopravvenga un “urgente ed impreveduto bisogno” in capo al comodante stesso. Nel secondo caso, in assenza di un termine di durata, l’art. 1810 c.c. afferma come il comodatario debba restituire il bene non appena il comodante ne faccia richiesta.

Nel caso di specie, ciò che Le consigliamo di fare è di optare per un comodato d’uso gratuito con la previsione di una durata (che può essere di un anno o di altro tempo per Lei più consono). Alla scadenza del suddetto, Lei potrà valutare se rinnovare il medesimo comodato oppure richiedere la restituzione della villetta.

Si precisa che – laddove Lei voglia vendere il bene concesso in comodato – una sentenza della Cassazione ha affermato che il comodatario debba lasciare libero l’immobile a discrezione dell’acquirente – nuovo proprietario (C. Cass., 18/1/2016 n. 664). In particolare “se il proprietario vende l’immobile concesso in comodato, il comodatario non può far valere il proprio diritto verso il nuovo proprietario: questi può dunque pretendere che il comodatario cessi il suo utilizzo del bene e metta il nuovo proprietario nella condizione di poter pienamente disporre del bene in questione”: in altre parole, nel caso di vendita precedente allo spirare del termine del comodato, nel contratto di compravendita Lei è tenuto a precisare che tale bene è concesso in comodato, poi sarà l’acquirente a poter esigere l’immobile o ad attendere la scadenza del contratto.

Infine, potrebbe prevedere espressamente nel contratto di comodato che andrà a sottoscrivere che, nel caso trovi un acquirente per la villetta, il comodato si dovrà sciogliere. Per fornire la prova che ha effettivamente trovato un acquirente (e che non è solo un pretesto) potrà prevedere nel comodato che sarà sua cura far notificare al comodatario il contratto preliminare di compravendita da parte dell'agenzia immobiliare che farà da mediatrice nella vendita. Potrà ulteriormente prevedere che dal giorno della notifica del preliminare il comodatario avrà 30 giorni per lasciare libero l'immobile.


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