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Articolo 2549 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Nozione

Dispositivo dell'art. 2549 Codice Civile

Con il contratto di associazione in partecipazione(1) l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto(2) [1350, n. 9, 2533].

Nel caso in cui l'associato sia una persona fisica l'apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro(3).

[Le disposizioni di cui al secondo comma non si applicano, limitatamente alle imprese a scopo mutualistico, agli associati individuati mediante elezione dall'organo assembleare di cui all'articolo 2540, il cui contratto sia certificati dagli organismi di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, nonché in relazione al rapporto fra produttori e artisti, interpreti, esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento](4).

Note

(1) L'associazione in partecipazione si caratterizza per il carattere sinallagmatico tra l'attribuzione da parte dell'associante di una quota di utili derivante dalla gestione di una sua impresa o di altro affare e l'apporto da questi conferito per l'esercizio dell'impresa o dell'affare.
(2) Per distinguere il contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato ed il contratto di lavoro subordinato bisogna innanzitutto guardare il nomen iuris con cui viene qualificato, ma occorre poi accertare se lo schema negoziale pattuito abbia le caratteristiche del negozio concluso.
Ove la prestazione lavorativa sia stabilmente inserita nell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d'impresa e senza ingerenza nella gestione, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato, in forza del principio stabilito dall'art. 35 Cost.
(3) Comma così sostituito dall'art. 53, comma 1, lett. a) del D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015.
Testo previgente aggiunto dall'art. 1, comma 28, L. 28 giugno 2010, n. 92 oggi abrogato: [Qualora l'apporto dell'associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non può essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associati, con l'unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all'associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo. In caso di violazione del divieto di cui al presente comma, il rapporto con tutti gli associati il cui apporto consiste anche in una prestazione di lavoro si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato].
(4) Comma abrogato dall'art. 53, comma 1, lett. b) del D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015.

Ratio Legis

Il rapporto di associazione in partecipazione ha come elemento essenziale la partecipazione dell'associato al rischio di impresa ed alla distribuzione degli utili, ma anche delle perdite.
É un negozio sinallagmatico, per la connessione che intercorre tra l'attribuzione da parte dell'associato di una quota di utili e la gestione dell'affare o dell'impresa da cui deriva.

Spiegazione dell'art. 2549 Codice Civile

L'istituto dell'associazione in partecipazione, di cui agli articoli 2549 ss., che si qualifica per il carattere sinallagmatico fra l'attribuzione da parte di un contraente (associante) di una quota degli utili, anche forfettari, derivanti dalla gestione di una sua impresa o di un suo affare all'altro (associato) e l'apporto, da quest'ultimo conferito, che può essere di qualsiasi natura, purché strumentale per l'esercizio di quell'impresa o per lo svolgimento di quell'affare, non determina la formazione di un soggetto nuovo o la costituzione di un patrimonio autonomo, ne la comunione dell'affare o dell'impresa, che restano di esclusiva pertinenza dell'associante; pertanto, e solo l'associante che fa propri gli utili, salvo, nei rapporti interni, il suo obbligo di liquidare all'associato la sua quota di utili e a restituirgli l'apporto. Da tale istituto si differenzia la figura, di origine anglosassone, delle «joint venture» e — fra l'altro e più in particolare — quelle delle «joint venture corporations», con il quale termine si indicano forme di associazione temporanea di imprese finalizzate all'esercizio di un'attività economica in un settore di comune interesse, nelle quali le parti prevedono la costituzione di una società di capitali, con autonoma personalità giuridica rispetto ai «conventerers», alla quale affidare la conduzione dell'iniziativa congiunta.

Con l'associazione in partecipazione — la cui prova non esige l'atto scritto — e compatibile, anche nell'ipotesi in cui l'associato conferisca solo la propria attività lavorativa, la pattuizione di un guadagno minimo per l'associato medesimo, essendo tale pattuizione (che perciò non e di per se sola dimostrativa della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato) coerente con il divieto, sancito dall'art. 2553, che le perdite che colpiscono l'associato possano superare il valore del suo apporto (Cass. n. 4235/1988). Nel contratto di associazione in partecipazione agli utili dell'impresa o di uno o più affari, il diritto di recesso deve riconoscersi a ciascuno dei contraenti ove manchi la previsione del termine di durata del rapporto, con la conseguenza che l'istituto del recesso unilaterale a norma del secondo comma dell'art. 1373 e applicabile sia al contratto sopra richiamato che ai rapporti di cointeressenza agli utili senza partecipazione alle perdite, che costituisce una figura particolare del contratto di cui all'art. 2549 (Cass. n. 4473/1993). Il contratto di associazione in partecipazione per un periodo di tempo determinato non e un contratto basato sull'elemento della fiducia e, pertanto, non e consentito il recesso unilaterale anticipato (Cass. n. 13649/2013). Il principio espresso dall'art. 1458, comma 1, secondo cui gli effetti retroattivi della risoluzione non operano per le prestazioni già eseguite, riguarda i contratti ad esecuzione continuata o periodica, ossia soltanto quelli in cui le obbligazioni di durata sorgono per entrambe le parti e l'intera esecuzione del contratto avviene attraverso coppie di prestazioni da realizzarsi contestualmente nel tempo. Pertanto, ad essi non può ricondursi il contratto di associazione in partecipazione ex art. 2549, con il quale l'associante attribuisce all'associato, come corrispettivo di un determinato apporto unitario, una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari, trattandosi, a differenza del contratto di società, di un negozio bilaterale, che crea un singolo scambio fra l'apporto e detta partecipazione (Cass. n. 22521/2011).
L'inerzia totale o comunque il mancato perseguimento da parte dei fini cui e preordinata l'attività di gestione dell'impresa o dell'affare costituente oggetto del contratto sinallagmatico di associazione in partecipazione può legittimare l'azione di risoluzione per inadempimento secondo le regole di cui agli artt. 1453 e 1454, anche nel caso in cui il contratto medesimo non preveda particolari controlli dell'associato o termini per l'inadempimento dell'obbligo assunto dalla controparte, qualora — secondo l'insindacabile apprezzamento del giudice del merito — il suddetto comportamento omissivo si protragga oltre ogni ragionevole tolleranza (Cass. n. 6701/1992).


Massime relative all'art. 2549 Codice Civile

Cass. civ. n. 20159/2022

In tema di associazione in partecipazione, l'autonomia che, di regola, si accompagna alla titolarità esclusiva dell'impresa e della gestione da parte dell'associante trova limite sia nell'obbligo del rendiconto ad affare compiuto o del rendiconto annuale della gestione che si protragga per più di un anno, ex art. 2552, comma 3, c.c., sia, in corso di durata del rapporto, nel dovere generale di esecuzione del contratto secondo buona fede, che si traduce nel dovere specifico di portare a compimento l'affare o l'operazione economica entro il termine ragionevolmente necessario a tale scopo; ne consegue che, alla stregua dei principi generali sulla risoluzione dei contratti sinallagmatici per inadempimento, applicabili all'associazione in partecipazione, l'inerzia o il mancato perseguimento da parte dell'associante dei fini cui l'attività d'impresa o di gestione dell'affare è preordinata determina un inadempimento che, quando si protragga oltre ogni ragionevole limite di tolleranza può, perciò, secondo l'apprezzamento del giudice del merito, dar luogo all'azione di risoluzione del contratto, secondo le regole indicate negli artt. 1453 e 1455 c.c.

Cass. civ. n. 10496/2020

La natura sinallagmatica del contratto di associazione in partecipazione rende applicabile la disciplina della risoluzione per inadempimento, che richiede una valutazione di gravità degli addebiti, da effettuarsi alla luce del complessivo comportamento delle parti, dell'economia generale del rapporto e del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto sancito dall'art. 1375 c.c., che, per l'associante, si traduce, nel dovere di portare a compimento l'impresa o l'affare nel termine ragionevolmente necessario. Alla pronuncia di risoluzione consegue, oltre all'effetto liberatorio per le prestazioni ancora da eseguire, anche quello restitutorio per quelle già eseguite, con obbligo, per l'associante, di restituire l'apporto ricevuto dall'associato, non essendo l'associazione in partecipazione riconducibile alla categoria dei contratti ad esecuzione continuata.

Cass. civ. n. 19937/2017

In tema di associazione in partecipazione, nel caso di fallimento dell'associante, che determina lo scioglimento dell'associazione ai sensi dell'art. 77 l. fall., l'associato ha diritto di far valere nel passivo del fallimento il credito per quella parte dei conferimenti che non è assorbita dalle perdite a suo carico, costituendo elemento essenziale del contratto, come si evince dall'art. 2549 c. c., la pattuizione a favore dell'associato di una prestazione correlata agli utili di impresa e non ai ricavi, i quali ultimi rappresentano in se stessi un dato non significativo circa il risultato economico effettivo dell'attività di impresa.

Cass. civ. n. 1692/2015

La riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, esige un'indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante e l'esistenza per l'associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell'organizzazione aziendale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato un'associazione in partecipazione nella ampia autonomia dell'associato - privo di vincoli di orario - nella gestione del rapporto con i fornitori e nella fissazione di prezzi e condizioni di vendita delle merci, nell'assenza di controllo da parte dell'associante sulle presenze dell'associato, nella partecipazione di questi agli utili ed alle perdite in relazione all'andamento dei singoli esercizi).

Cass. civ. n. 13649/2013

Il contratto di associazione in partecipazione per un periodo di tempo determinato non è un contratto basato sull'elemento della fiducia e, pertanto, non è consentito il recesso unilaterale anticipato.

Cass. civ. n. 1817/2013

In tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato, l'elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d'impresa risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l'apporto della prestazione da parte dell'associato, dovendosi verificare l'autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d'impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell'associato nella gestione dell'impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale "favor" accordato dall'art. 35 Cost., che tutela il lavoro "in tutte le sue forme ed applicazioni".

Cass. civ. n. 22521/2011

Il principio espresso dall'art. 1458, primo comma, c.c., secondo cui gli effetti retroattivi della risoluzione non operano per le prestazioni già eseguite, riguarda i contratti ad esecuzione continuata o periodica, ossia soltanto quelli in cui le obbligazioni di durata sorgono per entrambe le parti e l'intera esecuzione del contratto avviene attraverso coppie di prestazioni da realizzarsi contestualmente nel tempo. Pertanto, ad essi non può ricondursi il contratto di associazione in partecipazione ex art. 2549 c.c., con il quale l'associante attribuisce all'associato, come corrispettivo di un determinato apporto unitario, una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari, trattandosi, a differenza del contratto di società, di un negozio bilaterale, che crea un singolo scambio fra l'apporto e detta partecipazione.

Cass. civ. n. 13968/2011

Il contratto di associazione in partecipazione, che si qualifica per il carattere sinallagmatico fra l'attribuzione da parte di un contraente (associante) di una quota di utili derivanti dalla gestione di una sua impresa e di un suo affare all'altro (associato) e l'apporto da quest'ultimo conferito, non determina la formazione di un soggetto nuovo e la costituzione di un patrimonio autonomo, nè la comunanza dell'affare o dell'impresa, i quali restano di esclusiva pertinenza dell'associante. Ne deriva che soltanto l'associante fa propri gli utili e subisce le perdite, senza alcuna partecipazione diretta ed immediata dell'associato, il quale può pretendere unicamente che gli sia liquidata e pagata una somma di denaro corrispondente alla quota spettante degli utili e all'apporto, ma non che gli sia attribuita una quota degli eventuali incrementi patrimoniali, compreso l'avviamento, neppure se ciò le parti abbiano previsto nel contratto, in quanto una clausola di tal fatta costituisce previsione tipica dello schema societario, come tale incompatibile con la figura disciplinata dagli artt. 2549 e segg. c.c., con la conseguenza che al contratto complesso, in tal modo configurabile, deve applicarsi soltanto la disciplina propria del contratto di associazione in partecipazione, ove sia accertato che la funzione del medesimo sia quella in concreto prevalente.

Cass. civ. n. 4524/2011

In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato, pur avendo indubbio rilievo il "nomen iuris" usato dalle parti, occorre accertare se lo schema negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se questa si sia svolta con lo schema della subordinazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la sussistenza di elementi caratterizzanti la associazione in partecipazione, ossia la partecipazione agli utili e la sottoposizione di rendiconti, ed aveva invece ravvisato la subordinazione nelle concrete modalità di svolgimento del rapporto, caratterizzate dal pagamento di retribuzione a cadenze fisse, da direttive tecniche e continui controlli della prestazione).

Cass. civ. n. 13179/2010

L'associazione in partecipazione ha, quale elemento causale indefettibile di distinzione dal rapporto di collaborazione libero-professionale, il sinallagma tra partecipazione al rischio d'impresa gestita dall'associante e conferimento dell'apporto lavorativo dell'associato. Ne consegue che l'associato il cui apporto consista in una prestazione lavorativa deve partecipare sia agli utili che alle perdite, non essendo ammissibile un contratto di mera cointeressenza agli utili di un'impresa senza partecipazione alle perdite, tenuto conto dell'espresso richiamo, contenuto nell'art. 2554, secondo comma, c.c., all'art. 2102 c.c., il quale prevede la partecipazione del lavoratore agli utili "netti" dell'impresa.

Cass. civ. n. 24871/2008

In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell'impresa, la causa del primo è ravvisabile nello scambio tra l'apporto dell'associato all'impresa dell'associante ed il vantaggio economico che quest'ultimo si impegna a corrispondere all'associato medesimo. Non costituiscono elementi caratterizzanti del contratto, invece, sia la partecipazione alle perdite, atteso che l'associato che lavori in un'impresa con risultati negativi comunque è soggetto in senso lato ad un rischio economico, sia la mancanza dell'effettività di controllo da parte dell'associato sulla gestione dell'impresa, posto che diversamente si desume dall'art. 2552, comma terzo, cod. civ., sia la circostanza che la partecipazione possa essere commisurata al ricavo dell'impresa anziché agli utili netti, in quanto l'art. 2553 cod. civ consente alle parti di determinare la quantità della partecipazione dell'associato agli utili.

Cass. civ. n. 1420/2002

Nel contratto di associazione in partecipazione, che mira, nel quadro di un rapporto sinallagmatico con elementi di aleatorietà, al perseguimento di finalità in parte analoghe a quelle dei contratti societari, è elemento costitutivo essenziale, come si evince chiaramente dall'art. 2549 c.c., la pattuizione a favore dell'associato di una prestazione correlata agli utili dell'impresa, e non ai ricavi, i quali ultimi rappresentano in se stessi un dato non significativo circa il risultato economico effettivo dell'attività dell'impresa. (Principio enunciato in controversia relativa alla qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato o di associazione in partecipazione).

Cass. civ. n. 6757/2001

L'istituto dell'associazione in partecipazione di cui all'art. 2549 ss. c.c., che si qualifica per il carattere sinallagmatico fra l'attribuzione da parte di un contraente (associante) di una quota degli utili, anche forfettari, derivanti dalla gestione di una sua impresa o di un suo affare all'altro (associato) e l'apporto, da quest'ultimo conferito, che può essere di qualsiasi natura, purché strumentale per l'esercizio di quell'impresa o per lo svolgimento di quell'affare, non determina la formazione di un soggetto nuovo o la costituzione di un patrimonio autonomo, né la comunione dell'affare o dell'impresa, che restano di esclusiva pertinenza dell'associante; pertanto, è solo l'associante che fa propri gli utili, salvo, nei rapporti interni, il suo obbligo di liquidare all'associato la sua quota di utili e a restituirgli l'apporto. Da tale istituto si differenzia la figura, di origine anglosassone, delle joint venture e — fra l'altro e più in particolare — quelle delle joint venture corporations, con il quale termine si indicano forme di associazione temporanea di imprese finalizzate all'esercizio di un'attività economica in un settore di comune interesse, nelle quali le parti prevedono la costituzione di una società di capitali, con autonoma personalità giuridica rispetto ai conventerers, alla quale affidare la conduzione dell'iniziativa congiunta. Dall'associazione in partecipazione si differenzia anche l'associazione temporanea di imprese contemplate dalla legge n. 584 del 1997 che, pur non costituendo una persona giuridica distinta dalle imprese riunite che conservano la propria autonomia, è però caratterizzata da un rapporto di mandato con rappresentanza, gratuito ed irrevocabile, conferito collettivamente all'impresa «capogruppo» che è legittimata a compiere, con l'amministrazione, ogni attività giuridica connessa o dipendente dall'affare comune (di solito, appalto di opere pubbliche) e produttiva di effetti direttamente nei confronti delle imprese mandanti.

Cass. civ. n. 15175/2000

Nell'associazione in partecipazione, l'apporto cui è tenuto l'associato ex art. 2549 c.c. può essere della più varia natura, patrimoniale od anche personale. Esso può, pertanto, consistere anche nell'attività di intermediazione per la conclusione di determinati affari.

Non è incompatibile con la natura del contratto di associazione in partecipazione la previsione della corresponsione in favore dell'associato di una somma fissa priva di ogni riscontro con gli utili effettivamente conseguiti.

Cass. civ. n. 1188/2000

In tema di distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell'impresa, la riconducibilità del rapporto all'uno o all'altro degli schemi predetti esige un'indagine del giudice di merito (il cui accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità) volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante e l'esistenza per l'associato di un rischio di impresa (non immutabile dall'associante e non limitato alla perdita della retribuzione, con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato.

Cass. civ. n. 2315/1998

Al fine di stabilire se lo svolgimento di prestazioni lavorative sia da ricondurre ad un rapporto di lavoro subordinato o invece ad un rapporto associativo occorre accertare se il corrispettivo dell'attività lavorativa escluda o meno un apprezzabile rischio, se colui che la esplica sia assoggettato al potere disciplinare e gerarchico della persona o dell'organo che assume le scelte di fondo nell'organizzazione delle persone o dei beni e, ancora, se il prestatore abbia un potere di controllo sulla gestione economica dell'impresa.

Cass. civ. n. 3936/1997

La pattuita partecipazione dell'associato, il cui apporto abbia un contenuto patrimoniale, ai ricavi dell'impresa gestita in associazione, ancorché non sia perfettamente assimilabile alla partecipazione agli utili come previsto dall'art. 2549 c.c., non altera il tipo contrattuale sicché è ravvisabile pur sempre un'associazione in partecipazione e non già né un contratto atipico, né un contratto di lavoro subordinato atteso che la variabilità del fatturato comporta da un parte il diritto dell'associato al rendiconto e, d'altra parte, la presenza di un suo rischio patrimoniale incompatibilità con la subordinazione; né è ravvisabile un rapporto di parasubordinazione, che richiede che l'apporto dell'associato consista esclusivamente nella propria attività lavorativa e che quindi non è ravvisabile quando tale apporto abbia un contenuto patrimoniale. Consegue quindi che la lite avente ad oggetto tal genere di contratto rientra nella competenza del giudice civile ordinario.

Cass. civ. n. 7026/1995

Sono compatibili con il contratto di associazione in partecipazione le clausole che, nell'ambito dei criteri di ripartizione degli utili, prevedono il pagamento all'associato o all'associante di speciali indennizzi o corrispettivi per speciali apporti di energie lavorative o di beni strumentali. (Nella specie, si trattava di un contratto associativo stipulato tra il farmacista titolare di una farmacia ed un terzo, nel quale si prevedeva il diritto del farmacista — associante — a dedurre dagli utili da ripartire una somma di denaro per l'impegno di lavoro a cui era tenuto per la diretta gestione del servizio e per il valore locativo dell'immobile).

Cass. civ. n. 6951/1994

L'associazione in partecipazione, inquadrabile nella categoria dei contratti di collaborazione, prevede il conseguimento di un risultato comune attraverso l'apporto dei partecipanti, che è in parte patrimoniale e in parte personale, di modo che la cessazione di uno solo, ma essenziale elemento dell'apporto pattuito, ben può costituire causa di risoluzione del contratto; peraltro il giudice di merito, nel valutare la fondatezza della domanda di risoluzione per inadempimento, ai sensi dell'art. 1455 c.c. deve tener conto della gravità dell'inadempimento, che deve essere accertata sulla base di un criterio relativo, nel quadro complessivo del rapporto e dei reciproci interessi dei contraenti, tenendo presente che, quando l'inadempimento di una parte non sia grave, il rifiuto dell'altra non è di buona fede e, quindi, non è giustificato.

Cass. civ. n. 4473/1993

Nel contratto di associazione in partecipazione agli utili dell'impresa o di uno o più affari, il diritto di recesso deve riconoscersi a ciascuno dei contraenti ove manchi la previsione del termine di durata del rapporto, con la conseguenza che l'istituto del recesso unilaterale a norma del secondo comma dell'art. 1373 c.c. è applicabile sia al contratto sopra richiamato che ai rapporti di cointeressenza agli utili senza partecipazione alle perdite, che costituisce una figura particolare del contratto di cui all'art. 2549 c.c.

Cass. civ. n. 2016/1993

L'associazione in partecipazione, nella quale l'apporto dell'associato, avendo carattere strumentale all'esercizio dell'impresa o per lo svolgimento dell'affare dell'associante, può essere di qualsiasi natura e consistere anche nella prestazione di un'attività lavorativa (senza vincolo di dipendenza), non resta esclusa dal patto che attribuisca al primo un potere di controllo, ove la conduzione dell'impresa o dell'affare e la conseguente responsabilità verso i terzi rimangano a carico del secondo.

Cass. civ. n. 12052/1992

Il contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato si distingue dal contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell'impresa in quanto mentre il primo implica l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante e l'esistenza di un rischio d'impresa, il secondo implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell'associante d'impartire direttive ed istruzioni al cointeressato dell'impresa; per l'associazione in partecipazione con apporto della sola attività lavorativa non trova applicazione il principio della retribuzione sufficiente sancito dall'art. 36 della Costituzione con esclusivo riguardo al lavoro subordinato.

Cass. civ. n. 1476/1982

Nel contratto di associazione in partecipazione agli utili dell'impresa o di uno o più affari, il diritto di recesso, che deve riconoscersi a ciascuno dei contraenti ove manchi la previsione del termine di durata del rapporto, può ritenersi tacitamente esercitato solo in relazione ad atti o comportamenti incompatibili con la prosecuzione del rapporto stesso, come, da parte dell'associato, la richiesta di restituzione dell'apporto, e non anche, pertanto, in relazione ad istanze, ancorché sfocianti in contestazioni giudiziarie, che investano la fase di esecuzione del contratto, quale quella dell'associato di partecipare agli utili annuali di esercizio.

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Consulenze legali
relative all'articolo 2549 Codice Civile

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H. T. chiede
lunedì 15/05/2023
“Salve

vorrei investire pò di soldi degli amici usando il trading. Per poter farlo in una cornice legale e regolamentata pensavo di fondare una associazione in partecipazione secondo l'art. 2549 e seguenti. Siccome assumerei il ruolo del associante e il lavoro del trading peserebbe esclusivamente sulle mie spalle, chiederei agli amici associati una certa quota su eventuali profitti maturati.
Quindi chiedo a voi se questo è fattibile e perfettamente legale ?”
Consulenza legale i 19/05/2023
L’associazione in partecipazione di cui agli artt. 2549 e ss del c.c. non è altro che una forma di finanziamento da parte di un soggetto esterno ad una determinata impresa, i cui eventuali proventi/utili costituiranno la controprestazione dell’apporto.

Per costituire un’associazione in partecipazione con le finalità indicate, è necessario che l’associante sia una persona, fisica o giuridica, che esercita attività di impresa, in forma individuale o collettiva; al contempo l’associato può essere una persona giuridica o una persona fisica (purché non apporti lavoro), esercente o meno attività di impresa.
Sarà l’impresa associante a poter costituire un’associazione in partecipazione con soggetti terzi, che diventeranno gli associati.

Si rammenti che l’art. 2550 del c.c. dispone che l’associante non possa attribuire partecipazioni per la stessa impresa o per lo stesso affare ad altre persone senza il consenso dei precedenti associati.
L’art. 2553 del c.c. disciplina la divisione degli utili e delle perdite: salvo patto contrario, l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili; in ogni caso, le perdite a lui addossate non potranno mai superare l’ammontare dell’importo conferito.
La suddivisione degli utili, che è elemento essenziale del contratto di associazione in partecipazione, potrà così essere oggetto di libera negoziazione tra le parti.
L’associante, pertanto, non potrà direttamente chiedere una quota sui profitti maturati, bensì dovrà calcolare la partecipazione agli utili da parte degli associati in modo tale che parte di questi rimanga all’interno della società.

In ogni caso, a prescindere dalla veste giuridica addossata all’operazione, non può escludersi a priori che le autorità possano presumere che essa abbia la sostanza di attività gestione del risparmio per conto di soggetti terzi e, pertanto, richiederLe l’iscrizione all’apposito albo, previa la verifica dei requisiti necessari, come disciplinato dal D.M. 206/2008.

D. R. chiede
lunedì 07/02/2022 - Umbria
“Nell'Art. 2549, comma 2 si fa riferimento alla "prestazione di lavoro" della persona fisica. Si intende solo in riferimento al lavoro subordinato o anche alla prestazione d'opera. Ovvero, una persona Fisica (ditta individuale) può entrare a far parte di un'Associazione in partecipazione con una persona giuridica che stipula contratti d'appalto per la realizzazione di singoli servizi in subappalto ed essere remunerata con una partecipazione agli utili?”
Consulenza legale i 10/02/2022
L’associazione in partecipazione, la cui nozione è contenuta nell’art. 2549 del c.c., è un contratto in cui un soggetto, detto associato, offre ad un’impresa, detta associante, un determinato apporto, in relazione a uno o più affari, in cambio della partecipazione agli utili.

Se prima del riordino della disciplina dei contratti di lavoro attuato con il D. Lgs. n. 81 del 2015 l'associato in partecipazione poteva anche offrire quale apporto una vera e propria prestazione lavorativa, tale facoltà è oggi preclusa tutte le volte che l'associato in partecipazione è una persona fisica, come previsto dal comma 2 della medesima norma.
In questo caso il contributo degli associati può consistere in ogni altra forma di apporto all'attività di impresa, come ad esempio la fornitura di strumentazione o di somme di denaro a titolo di capitale.

L’associazione in partecipazione di una ditta individuale con una società associante non è di per sé vietata dalla legge, ma andrà compiuta una valutazione caso per caso.
La questione non risiede tanto nella distinzione tra lavoro subordinato e prestazione d’opera; al contrario, al fine di valutare se la messa a disposizione di prestazioni d’opera da parte della ditta individuale associata non celi, in realtà, l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, ci si deve soffermare in particolar modo sulla sussistenza del rischio di impresa in capo all’associato.
Sul punto la Suprema Corte è costante nel ritenere che l'associazione in partecipazione non si configura in assenza del rischio d'impresa; se ne riporta una pronuncia in merito: "Affinché un rapporto di lavoro possa qualificarsi come associazione in partecipazione con apporto di lavoro, è necessario che tale rapporto non abbia le caratteristiche proprie del contratto di lavoro subordinato e che dunque l'associato partecipi sia agli utili che alle perdite dell'impresa". (Cassazione civile, sez. lav., 21 febbraio 2018, n.4219)

Gli aspetti da considerare, nell'ambito di tale analisi, sono quindi rappresentati, in primo luogo, dall'eventuale esistenza di un trattamento retributivo in luogo di un'effettiva partecipazione agli utili.
In secondo luogo, il rapporto potrà configurarsi come lavoro subordinato (pur se formalmente definito diversamente) se, ad esempio, sussiste un inserimento stabile del lavoratore/ditta individuale nell'organizzazione aziendale, se non risultino poteri di controllo in capo all'associato e se non venga osservato l'obbligo di rendiconto da parte dell'associante.
Di contro, si considerano elementi idonei a configurare il rapporto come associazione in partecipazione aspetti quali un’ampia autonomia operativa dell'associato, anche in ordine all'osservanza degli orari lavorativi, mancanza di un potere disciplinare e direttivo da parte dell'associante e, ovviamente, sussistenza del rischio d'impresa in capo all'associato.

Premesso che, come già affermato, l’associazione in partecipazione di una ditta individuale con una società associante non è di per sé vietata dalla legge, se nel caso esposto effettivamente sussiste il rischio d’impresa in capo all’associato, la remunerazione è limitata ad una partecipazione agli utili e possono rinvenirsi almeno alcuni degli indici elencati, allora pare potersi affermare la legittimità dell’operazione.

Francesco M. chiede
lunedì 04/10/2021 - Lombardia
“Una società (A) partecipa quale associato in partecipazione, con apporto di capitali, con una società associante (B) ad una iniziativa immobiliare.

Poiché avrebbe bisogno di capitali può stipulare un autonomo contratto di associazione in partecipazione con un altro soggetto ( C) associandolo alla iniziativa in modo che alla fine avremmo:
- una associazione in partecipazione tra A (associato) e B (associante);
- una seconda associazione in partecipazione tra A associante e C associato il cui scopo sarebbe il finanziamento della prima operazione?”
Consulenza legale i 08/10/2021
L’associazione in partecipazione, la cui nozione è contenuta nell’art. 2549 del c.c., è un contratto in cui un soggetto, detto associato, offre ad un’impresa, detta associante, un determinato apporto, in relazione a uno o più affari, in cambio della partecipazione agli utili.

Se prima del riordino della disciplina dei contratti di lavoro attuato con il D. Lgs. n. 81 del 2015 l'associato in partecipazione poteva anche offrire quale apporto una vera e propria prestazione lavorativa, tale facoltà è oggi preclusa tutte le volte che l'associato in partecipazione è una persona fisica.
In questo caso il contributo degli associati può consistere in ogni altra forma di apporto all'attività di impresa, come ad esempio la fornitura di strumentazione o di somme di denaro a titolo di capitale (quale il caso esposto).

L’art. 2550 del c.c. limita le possibilità di utilizzo dello strumento dell'associazione in partecipazione, nel senso di impedire all'associante di attribuire partecipazioni per la stessa impresa o per lo stesso affare ad altri soggetti senza il consenso dei precedenti associati; è, comunque, fatto salvo il patto contrario.
All’associante B non sarebbe concesso stipulare un nuovo contratto di associazione in partecipazione con C senza il consenso dell’associato A.

Nel caso esposto, tuttavia, sarebbe l’associato A a stipulare a sua volta un contratto di associazione in partecipazione con C; di conseguenza, A verrebbe ad essere associato nei confronti di B e associante nei confronti di C.
L'operazione descritta, nei termini esposti, appare configurabile.
C, tuttavia, non diverrebbe associato di B, pertanto non potrebbe partecipare agli utili (ed eventualmente alle perdite) dell’iniziale iniziativa immobiliare da quest’ultima intrapresa; ma sarebbe soltanto associato di A e parteciperebbe agli utili che ad essa derivano dall’associazione in partecipazione con B, che corrisponderebbero ad una percentuale della sola quota di utili spettanti ad A dell’iniziativa immobiliare originaria.

CLAUDIO I. chiede
venerdì 23/04/2021 - Piemonte
“Buongiorno, sono un architetto, libero professionista; vorrei avere un chiarimento su un contratto di associazione in partecipazione stipulato con società che si occupa di sviluppo immobiliare; vi descrivo a grandi linee il fatto e se necessario vi inoltro il contratto. La società suddetta con la quale collaboro anche per altre operazioni immobiliari su mia precisa proposta ha acquistato un'area edificabile al fine di ottenere su di essa il rilascio di tutte le autorizzazioni tecniche-amministrative necessarie alla realizzazione di una media struttura commerciale, e dopodiché vendere l'area ad un costruttore o utilizzatore finale; a tal fine in forza di un contratto professionale con un collega sto sviluppando appunto un progetto urbanistico-edilizio ed in parallelo al contratto professionale ho stipulato con la società anche un contratto di associazione in partecipazione finalizzato allo sviluppo dell'operazione immobiliare impegnandomi ad apportare nella misura del 10% anche tutte quelle somme necessarie allo sviluppo dell'operazione e fissando un corrispettivo a mio favore pari al 10% degli utili che saranno conseguiti. Come già detto l'operazione è stata proposta da me e fin dall'inizio ho partecipato attivamente al raggiungimento dell'accordo tra le parti, mentre ad oggi in realtà l'attività che svolgo è unicamente di tipo progettuale in quanto altro professionista con qualifica di tipo legale ha curato la trattativa e il successivo accordo di vendita all'utilizzatore finale. Detto quanto con la presente al fine di non incorrere in carenze e contestazioni vorrei sapere se vi siano e quali possano essere altre posizioni che io debba assumere nell'ambito del contratto di associazione stipulato. Disponibile ad inoltrare il contratto attendendo riscontro porgo i migliori saluti.”
Consulenza legale i 04/05/2021
Il contratto di associazione in partecipazione sottoscritto è disciplinato dall’art. 2549 c.c., a mente del quale un soggetto (l'associante) attribuisce ad un’altra parte (all'associato) una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto.

Dall’analisi del contratto allegato risulta che l’affare oggetto di tale contratto riguardava, in particolare, lo sviluppo del lotto “C” e successiva “rivendita” (cfr. art. 6 del contratto). Il professionista associato avrebbe condiviso i risultati economici dell’affare (sia in termine di utile che di perdite) nella misura del 10%.

Dalla ricostruzione dei fatti risulta che l’affare (ovvero la vendita del lotto C) sia stata portata a termine e pertanto gli obblighi a carico dell’associato possono dirsi adempiuti.

Ciò detto, si deve comunque evidenziare come il contratto di associazione in partecipazione, per come è strutturato (ovvero con apporto di attività lavorativa da parte dell’associato), non è conforme al secondo comma dell’art. 2549 c.c., in forza del quale “nel caso in cui l'associato sia una persona fisica l'apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro”.

Essendo stato previsto nel contratto che l'apporto dell'associato sarebbe consistito anche in una prestazione di lavoro, non si può far rientrare il contratto tra il professionista e l'associante tra quello disciplinato dalla menzionata norma. Tuttalpiù si potrebbe parlare di un rapporto di lavoro tra professionista e associante (vuoi autonomo vuoi subordinato, a seconda del concreto atteggiarsi del rapporto nel corso dell'espletamento delle prestazioni da parte dell'associato).



Michele M. chiede
giovedì 06/02/2020 - Lombardia
“Buongiorno,

Sono una ditta individuale senza dipendenti e presto la mia opera anche manuale nello svolgimento di un contratto definito di "associazione in partecipazione" sottoscritto due anni fa.

Il contratto prevede che io contatti potenziali nuovi clienti, li contrattualizzi e che associante faccia l'investimento per l'acquisto dei macchinari da installare. Il 50% del costo sostenuto da Associante verrà da lui recuperato trattenendolo dalla mia percentuale di utili (calcolata pure in ragione del 50% dei ricavi).

Il mio consulente del lavoro ritiene il contratto nullo in quanto la ditta individuale non ha personalità giuridica e perché, nello svolgimento del contratto, presto la mia opera manuale presso il cliente.

Cortesemente chiedo:
- In caso di nullità del contratto, può Associante chiedermi la restituzione degli utili fino ad oggi da me percepiti ?
- Al termine del rapporto con Associante, è possibile chiedere mi venga restituito quanto trattenutomi per l'investimento sostenuto e quantificare anche un compenso per quei rapporti con i clienti che Associante continuerà ad intrattenere anche dopo la ns separazione ?

Grazie per la Vostra assistenza

Cordiali Saluti”
Consulenza legale i 12/02/2020
L’associazione in partecipazione è stata oggetto di numerosi interventi normativi intesi a reprimerne un utilizzo elusivo o, comunque, improprio.

Secondo il testo dell’art. 2549 c.c. “Con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto”.

Ai sensi della normativa previgente l’apporto dell’associato poteva consistere anche in una prestazione di lavoro, tuttavia l’art. 53 del decreto attuativo Jobs Act 15 giugno 2015, n. 81, rubricato “Superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro” prevede che l’associato in partecipazione che sia persona fisica non potrà più fornire, nemmeno in parte, apporto di lavoro ma esclusivamente risorse finanziarie.
Pertanto, il nuovo comma 2 dell’art. 2549 c.c. è stato così sostituito: “Nel caso in cui l'associato sia una persona fisica l'apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro”. Invece, la prestazione lavorativa potrà essere oggetto del contratto quando l’associato sia una persona giuridica.

Nel caso oggetto del presente parere è quindi corretto quanto riferito dal consulente del lavoro, ovvero che il contratto di associazione in partecipazione stipulato con una persona fisica in cui l’apporto consiste in una prestazione di lavoro è nullo per contrarietà a norme imperative.

Tuttavia, la disposizione di cui al d. lgs. n. 81/2015 non prevede alcuna sanzione o conseguenza in caso di violazione. Se l’eventuale contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro stipulato dovesse essere considerato nullo per contrarietà a norme imperative, non è chiaro cosa dovrebbe esserne del rapporto di lavoro comunque posto in essere.

Si dovrà pertanto individuare la tipologia negoziale entro cui sussumere la prestazione di lavoro, la quale dovrà essere ricondotta nell'alveo dell’autonomia ovvero della subordinazione, a seconda rispettivamente delle concrete modalità fattuali di svolgimento della prestazione lavorativa.

Perché venga qualificato come rapporto subordinato è necessario che l’associato sia stabilmente inserito nel contesto aziendale, non partecipi al rischio di impresa, non abbia autonomia operativa.
In tal caso, ai sensi dell’art. 2126 c.c. “La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”. All'associato spetterebbero quindi retribuzioni e contributi come se il rapporto fosse stato di lavoro subordinato fin dall'inizio.

Tuttavia, dalla descrizione fornita nel quesito non sembrerebbe possibile qualificare il rapporto in questione come rapporto di lavoro subordinato; piuttosto sembrerebbe possibile sussumere la prestazione in oggetto nel tipo lavoro autonomo.

In particolare, il rapporto in oggetto sembra avere molte caratteristiche del rapporto di agenzia.
Infatti, ai sensi dell’art. 1742 c.c. “Col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata”. Il contratto di agenzia ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un’attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell’agente, che si manifesta nell'autonoma scelta dei tempi e dei modi della prestazione, pur nel rispetto delle istruzioni ricevute.
In tal caso non è del tutto chiaro quale norma dovrebbe essere applicata per quanto riguarda gli utili percepiti, in quanto la normativa di riferimento tace al riguardo.

Secondo una prima interpretazione, si applicherebbe comunque l’art. 2126 c.c., pertanto l’associato avrebbe diritto alle provvigioni come agente, calcolate come una congrua percentuale sui ricavi dell’associante per ogni singolo contratto stipulato grazie all'operato dell’agente/associato.
In tale prospettiva, potrebbe trattenere gli utili percepiti nei limiti delle provvigioni di cui sopra e, se ne ricorrono i presupposti, richiedere ulteriori somme, trattenute a titolo di condivisione dei costi, se il risultato finale non è tale da garantire delle congrue provvigioni per ogni singolo affare.

Inoltre, qualificando il rapporto come un contratto di agenzia, per quanto riguarda i rapporti con i clienti che l’Associante continuerà a intrattenere anche dopo la cessazione del rapporto di associazione in partecipazione, potrà essere fatto valere l’art. 1748 c.c. “L'agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la proposta è pervenuta al preponente o all'agente in data antecedente o gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all'attività da lui svolta; in tali casi la provvigione è dovuta solo all'agente precedente, salvo che da specifiche circostanze risulti equo ripartire la provvigione tra gli agenti intervenuti”.

Se invece non si dovesse ritenere applicabile l’art. 2126 e il contratto fosse considerato nullo ab origine, gli utili eventualmente già corrisposti potrebbero essere ripetuti dall'associante ex art. 2033 c.c.
Tuttavia, l’associato potrebbe opporsi con l’eccezione di arricchimento ex art. 2041 c.c. (Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’ altra persona è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale), trattenendo gli utili a titolo di indennizzo.

Stante l’incertezza della normativa si suggerisce di farsi assistere da un legale per addivenire ad un accordo con l’associante che tuteli gli interessi dell’associato.

SERGIO C. chiede
martedì 26/11/2019 - Piemonte
“Rappresento la società B ed il quesito che si pone è il seguente:
Una società (A) è proprietaria di un ettaro di terreni agricoli del valore è pari ad €. 1.200.
Grazie alla società B, nel 2015 la società A stipulò con la società C un contratto di locazione di un’area di 100mq di detto terreno, su cui collocare una ripetitore, al canone annuo di €.7.000.

In pari data la società A e la società B stipularono accordo che, a fronte di detto contratto di locazione, stante lo sfruttamento e la migliore valorizzazione delle aree interessate ( circa mq. 80 ) riconosceva il 50% del canone annuo e per ogni anno di locazione.

Nel mese di maggio 2018, la società A e la società C, previa risoluzione del contratto di locazione, stipularono contratto di cessione della suddetta area di 80 mq al prezzo di €. 35.000.

A fronte di ciò la società B non potrà più percepire il 50% dei canoni di affitto del terreno agricolo di mq. 80 per gli anni a venire, restano, comunque il vantaggio economico che la società A ha ricevuto grazie all'intervento esclusivo della società B.

Pertanto, la società B si ritiene danneggiata! A fronte di tale danno la società B ha chiesto la corresponsione del 50% del corrispettivo della costituzione del diritto di superficie in virtù dell'accordo contrattuale di cui innanzi.
Purtroppo si è visto respingere la richiesta in quanto il legale della società A riferisce che, trattandosi di novazione, non spetta nulla.

DOMANDA: La società B, ritenendo di aver stipulato un contratto di associazione in partecipazione, può agire per ottenere una corresponsione di un importo a titolo di riconoscenza per il valore apportato all’area di terreno agricolo e/o a titolo di risarcimento danni per il venir meno del guadagno concordato (50% del canone annuo)?”
Consulenza legale i 30/11/2019
Prima di fornire un parere sull’eventuale sussistenza di profili risarcitori che legittimerebbero la società B ad agire contro la società A, occorre valutare se tra dette società si possa sostenere che fosse stato perfezionato un contratto di associazione in partecipazione ex art. 2549 del c.c. alla cui lettura integrale si rimanda.

Sostanzialmente, detto tipo di contratto si contraddistingue per un elemento essenziale: l’apporto dell’associato verso l’associante, che deve essere di natura patrimoniale e strumentale rispetto all’attività dell’associante.

La Cassazione ritiene che possa rientrare nel concetto di apporto anche l’attività di mediatore (cfr. Cass. Civile 15175/2000).

Ciò premesso, dall’analisi dei fatti prospettati, pare che possa sostenersi che tra la società A e la società B fosse stato concluso un contratto di associazione in partecipazione, in base al quale la società A si impegnava a corrispondere alla società B il 50% dei canoni locatizi del terreno in oggetto (gli utili), mentre la società B, come controprestazione, si era impegnata nel far sì che la società A potesse concludere l’affare rappresentato, per l’appunto, dalla sottoscrizione del contratto di locazione (apporto).

Nel caso in oggetto, l’apporto fornito dalla società B, elemento essenziale nei contratti di associazione in partecipazione, sarebbe consistita nell’attività di mediatore in favore della società A.

Alla luce della possibile qualificazione del rapporto tra la società A e la società B nei termini di un contratto di associazione in partecipazione, resta, dunque, da valutare se l’aver risolto, da parte della società A, il contratto di locazione anticipatamente rispetto alla sua naturale scadenza (così si deduce dal quesito prospettato), possa integrare un inadempimento su cui fondare una eventuale azione risarcitoria da parte della società B verso la società A.

Rientrando, infatti, il contratto in oggetto, tra i contratti sinallagmatici, ad esso potranno applicarsi i rimedi contrattuali previsti dagli artt. 1453 del cc. e ss.
Ebbene, seppur è vero che l’anticipata risoluzione del contratto di locazione non ha permesso alla società B di incamerare gli utili pattuiti (il 50% dei canoni corrisposti dal conduttore), è altrettanto vero che la scelta di costituire altri diritti da parte della società A sul terreno di proprietà è espressione delle prerogative che detta ultima società continua a possedere in merito alla gestione dei propri affari.

In forza di quanto sopra evidenziato, non sembra che possa riconoscersi in capo alla società B una pretesa in relazione al nuovo affare concluso dalla società A sul proprio terreno (costituzione del diritto superficie in favore di altro soggetto), in quanto esorbitante rispetto all’oggetto del contratto di associazione in partecipazione che, dai fatti per come descritti nel quesito, ineriva solamente la conclusione del contratto di locazione con la società C.

Fermo quanto sopra, tuttavia, non può non segnalarsi come la prematura interruzione dell’affare “mediato” dalla società B, ovvero la risoluzione anticipata del rapporto locatizio, potrebbe legittimare quest’ultima ad avanzare una azione di inadempimento contro la società A (sarebbe opportuno verificare anche quanto pattuito nell’accordo sottoscritto tra la società A e B).

In tal senso, la Corte di Cassazione ha così statuito: “Se è vero pertanto che l'associante è "dominus" delle scelte gestionali in vista del risultato economico (la ripartizione degli utili) previsto dalle parti (risultato peraltro incerto, per cui il contratto è di carattere aleatorio), è vero altresì che la colpa contrattuale dell'associante può venire in rilievo ai fini dei rimedi generali (azione di adempimento, domanda di risoluzione del contratto per inadempimento) offerti alla controparte nei contratti a prestazioni corrispettive (mentre restano inapplicabili, non trattandosi di contratto associativo, le norme in materia di società)” (Corte di Cassazione, sentenza n. 6701 del 2 giugno 1992).

GIAN P. M. chiede
giovedì 16/11/2017 - Toscana
“Buona sera alcuni anni fa (ottobre 2013 per la precisione) ho sottoscritto in qualità di associato (persona fisica) un contratto di associazione in partecipazione con apporto di capitale avente ad oggetto l'acquisto di un terreno edificabile in Brasile; il contratto aveva durata iniziale di 3 anni con proroga tacita di anno in anno; preciso di aver acquisito solo una quota parte dell'intero affare e trovandomi nella necessità di dover o recedere dal contratto o di cederlo a terzi volevo sapere quale sia la forma migliore; l'associante mi dice che può essere ceduta la mia quota con l'indicazione del subentrante che dovrà essere sottoposta all'approvazione degli altri associati;
Vorrei sapere in particolar modo se questi tipi di contratti prevedono qualche forma di registrazione e in caso di cessione della quota con presunta plusvalenza il tipo di tassazione; infine sarei a richiedere la vs assistenza per l'eventuale predisposizione dell'atto di cessione della quota e relativi costi;
Consulenza legale i 02/12/2017

Preliminarmente è bene avvertire che le considerazioni che seguono prescindono dalla lettura del contratto d’associazione, operazione essenziale per inquadrare correttamente la fattispecie.

L'istituto dell'associazione in partecipazione, disciplinato dagli artt. 2549 c.c. e seguenti, è un contratto sinallagmatico con il quale un contraente (associante) attribuisce una quota degli utili, anche forfettari, derivanti dalla gestione di una sua impresa o di un suo affare, all'altro contraente (associato), in cambio di un apporto di quest'ultimo di qualsiasi natura, purché strumentale per l'esercizio di quell'impresa o per lo svolgimento di quell'affare.

Nel caso specifico sembrerebbe che l’associato, in un’ottica di investimento, si sia impegnato ad apportare un capitale all’impresa dell’associante, in cambio quindi di un utile e che, nonostante l’affare non si sia completamente concluso, abbia la necessità di svincolarsi dal suddetto rapporto.

In giurisprudenza è stata esclusa la possibilità di recedere dal contratto di associazione in partecipazione ad nutum, ovverosia unilateralmente ed in via anticipata (Cass. n.13649/2013); quando non è previsto un termine, però, l’associato può rivolgersi al giudice affinché individui un termine ed un congruo preavviso entro il quale sia possibile esercitare il recesso, non essendo possibile configurare un rapporto di durata senza l’apposizione di un termine finale.

Nel caso specifico, invece, un termine c’è, in quanto le parti hanno previsto che il rapporto durasse tre anni e fosse prorogabile di anno in anno.

Dunque il diritto di recesso può essere esercitato dall’associato in occasione della scadenza annuale, così come previsto dal contratto, secondo le modalità previste dall’accordo.

Il problema è semmai comprendere quali possano essere gli effetti dell’esercizio del diritto di recesso.

La Suprema Corte in una risalente sentenza, ha ritenuto che per i contratti di associazione in partecipazione sia applicabile il secondo comma dell’art. 1373 c.c., norma dettata per i contratti ad esecuzione continuata o periodica, per i quali è garantita la facoltà di recesso anche dopo che il contratto abbia avuto un principio di esecuzione, senza che però tale recesso produca alcun effetto in ordine alle prestazioni già eseguite (Cass. n. 4473/1993).

In altre parole il recesso nei rapporti ad esecuzione continuata (o periodica) non riporta la situazione allo status quo ante, ma fa salvi gli effetti che in esecuzione del contratto si sono prodotti.

Essendo piuttosto complicato prevedere gli effetti dell’esercizio del recesso con riferimento al contratto di associazione in partecipazione, si sottolinea nuovamente che la situazione potrebbe essere valutata correttamente solo attraverso un’attenta analisi complessiva della vicenda e dei documenti.

A titolo puramente indicativo si può immaginare che qualora vi sia già stata una parziale distribuzione degli utili in base al rendiconto annuale, cui l’associante è tenuto, per l’associato resterebbe salvo quanto percepito, mentre se non è stato recuperato il capitale investito, questo dovrebbe essere restituito in proporzione alla realizzazione dell’impresa convenuta.

La cessione della propria posizione all’interno dell’associazione, si configura a tutti gli effetti come una cessione del contratto: il titolare di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive non ancora eseguite ovvero non ancora totalmente eseguite, sostituisce a sé un terzo (cessionario) nel rapporto, con il consenso dell’altro contraente (associante) (1406 c.c.).

L’effetto della cessione è l’estromissione del cedente dal rapporto contrattuale con conseguente sua liberazione, ma si sottolinea che l’associante per dare il consenso all’operazione potrebbe richiedere che il cedente garantisca anche l’adempimento del cessionario (art. 1410 c.c.).

Per quanto attiene ai profili fiscali del quesito, si chiarisce anzitutto che l’associazione in partecipazione è riconosciuta solo se il relativo contratto è stato stipulato nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata, così come indicato dall’Amministrazione Finanziaria in un comunicato stampa del 23.05.1987.
Ne deriva, quindi, che anche l’eventuale risoluzione del rapporto limitatamente ad un associato, rende opportuna la registrazione della scrittura privata con la quale la stessa è effettuata.
Sotto il profilo impositivo, la tassazione è diversa a seconda della natura dell’associato e del valore dell’apporto di capitale che può essere qualificato o non qualificato in base al superamento o meno di determinate soglie.
Sotto il primo profilo si considera l’ipotesi di un associato persona fisica non imprenditore, poiché questo sembra il caso di chi richiede il parere.
Sotto il secondo profilo, si evidenzia, più in particolare, che nel caso in cui i titoli dell’associazione in partecipazione sono negoziati in mercati regolamentati, se il valore dell’apporto dell’associato è maggiore del 5% del valore contabile del patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio approvato prima della stipula del contratto, la partecipazione sarà qualificata. Viceversa, se minore o uguale al 5%, si parlerà di partecipazione non qualificata.

Se i titoli dell’associazione in partecipazione non sono negoziati in mercati regolamentati e l’associazione è in contabilità ordinaria, se il valore dell’apporto dell’associato è maggiore del 25% rispetto al valore contabile del patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio approvato prima della stipula del contratto, la partecipazione sarà qualificata. Viceversa, se minore o uguale, sarà non qualificata.

Nel caso, invece, in cui i titoli dell’associazione in partecipazione non sono negoziati in mercati regolamentati e l’associazione è in contabilità semplificata, se il valore dell’apporto dell’associato è maggiore del 25% del valore delle rimanenze finali e del costo complessivo dei beni ammortizzabili al netto dei relativi ammortamenti, la partecipazione sarà qualificata. Viceversa, se minore o uguale, sarà non qualificata.

Fatte queste necessarie premesse, si evidenzia che, nel caso in cui l’apporto può considerarsi qualificato, i proventi sono tassati nella misura del 49,72% del loro ammontare, senza applicazione di ritenute.
Se, invece, il valore dell’apporto è non qualificato, i proventi sono tassati applicando la ritenuta a titolo di imposta del 26% sul loro intero ammontare (Circolare n. 26/E del 16 giugno 2004).

In caso di scioglimento o (scadenza) del contratto, anche limitatamente ad un solo associato o, come nel caso prospettato, in ipotesi di cessione della quota di associazione in partecipazione ad un terzo, occorre mettere a confronto la somma di denaro che riceve l’associato con l’apporto a suo tempo conferito. Nella somma percepita andranno inclusi anche gli utili maturati e non percepiti ed ogni ulteriore somma pattuita nel contratto in caso di risoluzione dello stesso.
La differenza, se positiva, costituisce reddito di capitale, così come espressamente previsto dall’art. 45, comma 1, del TUIR approvato con d.P.R. n. 917/86 ed andrà indicata nel quadro RL del modello di dichiarazione.
La tassazione di detto reddito di capitale avviene in conformità alla tassazione dei proventi che derivano dal contratto di associazione e, quindi, in caso di partecipazione qualificata, la tassazione opera in relazione al 49,72% di detta differenza e non è prevista alcuna ritenuta. In caso, invece, di partecipazione non qualificata, la tassazione opera sull’intero ammontare, con applicazione della ritenuta a titolo di imposta, ove possibile.

Con riguardo ai profili fiscali del quesito, invece, và considerato che l’associazione in partecipazione è riconosciuta solo se il relativo contratto è stato stipulato nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata, così come indicato dall’Amministrazione Finanziaria in un comunicato stampa del 23.05.1987. Ne deriva, quindi, che anche l’eventuale risoluzione del rapporto limitatamente ad un associato, rende opportuna la registrazione della scrittura privata con la quale la stessa è effettuata.

Sotto il profilo impositivo, la tassazione è diversa a seconda della natura dell’associato e del valore dell’apporto di capitale che può essere qualificato o non qualificato in base al superamento o meno di determinate soglie.
Sotto il primo profilo si considera l’ipotesi di un associato persona fisica non imprenditore, poiché questo sembra il caso di chi richiede il parere.
Sotto il secondo profilo, si evidenzia, più in particolare, che nel caso in cui i titoli dell’associazione in partecipazione sono negoziati in mercati regolamentati, se il valore dell’apporto dell’associato è maggiore del 5% del valore contabile del patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio approvato prima della stipula del contratto, la partecipazione sarà qualificata. Viceversa, se minore o uguale, sarà non qualificata.
Nel caso, invece, in cui i titoli dell’associazione in partecipazione non sono negoziati in mercati regolamentati e l’associazione è in contabilità ordinaria, se il valore dell’apporto dell’associato è maggiore del 25% del valore contabile del patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio approvato prima della stipula del contratto, la partecipazione sarà qualificata. Viceversa, se minore o uguale, sarà non qualificata.
Nel caso, invece, in cui i titoli dell’associazione in partecipazione non sono negoziati in mercati regolamentati e l’associazione è in contabilità semplificata, se il valore dell’apporto dell’associato è maggiore del 25% del valore delle rimanenze finali e del costo complessivo dei beni ammortizzabili al netto dei relativi ammortamenti, la partecipazione sarà qualificata. Viceversa, se minore o uguale, sarà non qualificata.
Detto ciò, occorre evidenziare che, nel caso in cui l’apporto può considerarsi qualificato, i proventi sono tassati nella misura del 49,72% del loro ammontare, senza applicazione di ritenute.
Se, invece, il valore dell’apporto è non qualificato, i proventi sono tassati applicando la ritenuta a titolo di imposta del 26% sul loro intero ammontare (Circolare n. 26/E del 16 giugno 2004).
In caso di scioglimento o (scadenza) del contratto, anche limitante ad un associato o, come nel caso prospettato, in ipotesi di cessione della quota di associazione in partecipazione ad un terzo, occorre mettere a confronto la somma di denaro che riceve l’associato con l’apporto a suo tempo conferito. Nella somma percepita andranno inclusi anche gli utili maturati e non percepiti ed ogni ulteriore somma pattuita nel contratto in caso di risoluzione dello stesso.
La differenza, se positiva, costituisce reddito di capitale, così come espressamente previsto dall’art. 45, comma 1, del TUIR approvato con D.P.R. n. 917/86 ed andrà indicata nel quadro RL del modello di dichiarazione.

La tassazione di detto reddito di capitale avviene in conformità alla tassazione dei proventi che derivano dal contratto di associazione e, quindi, in caso di partecipazione qualificata, la tassazione opera in relazione al 49,72% di detta differenza e non è prevista alcuna ritenuta. In caso, invece, di partecipazione non qualificata, la tassazione opera sull’intero ammontare, con applicazione della ritenuta a titolo di imposta, ove possibile.


Non avendo ulteriori informazioni circa il contratto oggetto dei quesiti, sarebbe inopportuno consigliarle di optare per una cessione della quota invece che per il recesso dall'associazione, ma sicuramente le consigliamo di muovere la sua scelta in base a tutte le considerazioni innanzi svolte.


Anonimo chiede
venerdì 21/04/2017 - Lazio
“una società deve partecipare ad una gara di appalto con un Ente Pubblico può parteciparvi con un contratto di associazione in partecipazione?
grazie”
Consulenza legale i 02/05/2017
La risposta al quesito non è, purtroppo, di facile soluzione.

Con il Decreto Legislativo18 aprile 2016, n. 50 – “Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” – è entrato in vigore il “Codice dei Contratti Pubblici”, che ha abrogato il precedente Decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 - "Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE".
Buona parte del contenuto di quest’ultimo è stato trasfuso nel testo dell’ultima modifica di legge, compresa la disciplina che interessa per la risposta al quesito in esame.

L’art. 48 del decreto n. 50/2016, relativo ai “Raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di operatori economici”, stabilisce testualmente: “(…) 9. E' vietata l'associazione in partecipazione. Salvo quanto disposto ai commi 17 e 18, è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta.
10. L'inosservanza dei divieti di cui al comma 9 comporta l'annullamento dell'aggiudicazione o la nullità del contratto, nonché l'esclusione dei concorrenti riuniti in raggruppamento o consorzio ordinario di concorrenti, concomitanti o successivi alle procedure di affidamento relative al medesimo appalto.
La norma è chiara nell’escludere la possibilità di adottare la forma giuridica in commento se si voglia partecipare ad una gara pubblica.

Tuttavia, il successivo articolo n. 105 del medesimo decreto, contenente la disciplina del subappalto, lascia supporre il contrario: “20. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai raggruppamenti temporanei e alle società anche consortili, quando le imprese riunite o consorziate non intendono eseguire direttamente le prestazioni scorporabili, nonché alle associazioni in partecipazione quando l'associante non intende eseguire direttamente le prestazioni assunte in appalto; si applicano altresì agli affidamenti con procedura negoziata.

E’ evidente che il legislatore non ha, purtroppo, rimediato ad una mancanza di coordinazione tra le norme che esisteva, in realtà, già nella vigenza della precedente disciplina del 2006.

L’art. 105 sopra richiamato, infatti, presuppone la legittima applicabilità dello schema associativo dell’associazione in partecipazione previsto dall’art. 2549 del codice civile anche in tema di appalti pubblici; tuttavia, al contempo, il testo dell’art. 48 contiene una prescrizione tassativa e preclude ad un’impresa appaltatrice - nell’ambito della propria libertà di organizzazione – la scelta di realizzare un’opera pubblica mediante lo schema contrattuale in commento.

La norma sul subappalto proviene dall’art. 18 comma 11 della legge 19 marzo 1990 n. 55 che prevedeva l’applicazione della disciplina ivi stabilita in tema di subappalti anche per le associazioni in partecipazione “quando l’associante non intende eseguire direttamente le opere o i lavori assunti in appalto”.
Tale norma, come sembra evidente, presuppone che l’appaltatore possa essere costituito da un’associazione in partecipazione e l’associante affidi l’esecuzione dei lavori all’associato.
Lo stesso si evince dall’art. 19 comma 3 della stessa legge, che vietava l’associazione anche in partecipazione o il raggruppamento di imprese che si fosse realizzato “in concomitanza o successivamente all’aggiudicazione della gara”, lasciando supporre che il contratto di associazione formato prima della partecipazione alla gara sarebbe pienamente legittimo.

Successivamente in sede di modifica della Legge n. 109/1994, con l’art. 9 della Legge n. 415/1998 (cosiddetta Merloni-ter) è stato introdotto il divieto inderogabile dell’adozione dello schema associativo in questione, senza cercare un coordinamento tra le norme.

Risulta, in realtà, evidente che anche se la legge n. 55/1990 non era mai stata riformulata nei suoi articoli 18 e 19, in base al principio della sopravvenienza di norma posteriore incompatibile con quella anteriore le citate disposizioni dovevano ritenersi implicitamente e parzialmente abrogate dall’art. 9 della legge n. 415/1998.
Il problema sta nella reintroduzione delle due diverse norme (art. 13 comma 5 bis Legge n. 109/1994 e successive modifiche e 18 comma 11 Legge n. 55/1990) nella stessa fonte di legge (il Codice dei lavori pubblici): in tal caso, infatti, la norma precedentemente abrogata riprende la sua efficacia nella nuova fonte (il decreto legislativo) determinandosi una contraddizione nel sistema.

E’ opportuno, quindi, per cercare di rispondere al quesito, precedere in via interpretativa per capire quale possa essere la soluzione logicamente e giuridicamente più fondata tra l’ammissione e la non ammissione dello schema dell’associazione in partecipazione nell’ambito degli appalti pubblici.

I limiti ed i divieti imposti dalla normativa italiana trovano una giustificazione nella volontà di evitare o quanto meno contenere il rischio che si inseriscano nella esecuzione dell'appalto imprese legate alla criminalità organizzata. A livello europeo, invece, prevale l’idea che un’impresa possa decidere liberamente il modello organizzativo con cui esercitare la propria impresa e quindi realizzare un’opera pubblica.
La disciplina in proposito prevista dalla direttiva comunitaria 2004/18/CEE stabilisce, infatti, all’art. 4 che “ai fini della presentazione di un’offerta o di una domanda di partecipazione le amministrazioni aggiudicatici non possono esigere che i raggruppamenti di operatori economici abbiano una forma giuridica specifica”. La stessa norma è contenuta nell’art. 11 della direttiva 2004/17/CEE concernente le procedure d’appalto nei cosiddetti settori speciali.
Conseguentemente, stabilire – nella normativa interna - un divieto di adozione di un determinato schema associativo sostanzialmente significa esigere che l’operatore (non) abbia una determinata forma giuridica e ciò in violazione delle norme ora citate.
Il legislatore comunitario, infatti, coerentemente con la sua impostazione liberalizzatrice in materia, vuole stabilire un principio di libertà di scelta riguardo all’organizzazione che l’impresa si voglia dare nella partecipazione alle gare per l’affidamento di commesse pubbliche.
Ugualmente, alcuna limitazione di forma viene stabilita nella norma comunitaria specifica sul subappalto (art. 25 della direttiva 2004/18/CEE e art. 37 direttiva 2004/17/CEE)

Ebbene, l’art. 4 della direttiva 2004/18/CEE, trattandosi di norma rivolta direttamente alle amministrazioni aggiudicatici, si può considerare norma self executing, il che significa – in buona sostanza – che essa è direttamente applicabile all’interno degli Stati europei senza bisogno di alcuna legge che la recepisca formalmente.
E’ vero che la stessa disposizione più avanti prevede che “al raggruppamento selezionato può essere imposto di assumere una forma giuridica specifica una volta che gli sia stato aggiudicato l’appalto” e comunque “nella misura in cui tale trasformazione sia necessaria per la buona esecuzione dell’appalto”.
Tuttavia questa prescrizione fa riferimento al momento esecutivo del contratto e non in sede di partecipazione alla gara.

Ora, la norma dell’art. 48 del Codice dei Contratti pubblici si inquadra nell’ambito dei requisiti di partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti, mentre la possibilità di chiedere invece una determinata forma giuridica si riferisce al momento esecutivo del contratto, ossia all’ambito di efficacia cui fa riferimento l’art. 105 del medesimo Codice (subappalto).
E proprio in quest’ambito si è visto che la norma codicistica presuppone la possibilità di adozione dello schema dell’associazione in partecipazione.

In conclusione, auspicando che il legislatore ponga rimedio a questo che sembra essere un mero difetto di coordinazione connesso con l’attività di ricezione nel codice delle varie norme contenute nelle molteplici fonti normative, si ritiene che tale difetto possa essere rimediabile attraverso lo strumento della disapplicazione della norma italiana in quanto contrastante con la norma comunitaria, con la conseguenza dell’ammissibilità alle gare di operatori economici che abbiano adottato l’associazione in partecipazione quale forma giuridica di collaborazione tra imprese.

Ciò, evidentemente, a livello teorico: stante, tuttavia, l’incertezza normativa di fatto, fino all’intervento delle modifiche legislative del caso, è consigliabile per l’operatore che voglia partecipare alla gara adottare una forma giuridica che non comporti rischi di nullità/inefficacia del contratto.

Anonimo chiede
martedì 22/11/2016 - Veneto
“L’argomento riguarda un accordo quadro di compartecipazione, tra la mia e la società A.

L’ accordo quadro, mi viene presentato e sottoscritto da un tecnico che si definisce incaricato dalla società A. Viene poi approvato integralmente dai rappresentati legali delle due società, con dichiarazioni separate, riferite al documento in oggetto. Prima ho inviato la mia, a cui viene dato riscontro e poi e’ arrivata la loro. L’accordo quindi non viene sottoscritto direttamente dalle parti, ma bisogna anche specificare che in questa fase non contiene transazioni con obbligo di firma pubblica.

Si può dire che questa prima approvazione è una ratifica di detto documento e ha determinato già un impegno contrattuale? Nel testo era anche espressamente prevista l’efficacia al momento della sua approvazione (quindi non sottoscrizione).

Nel caso specifico, trattandosi di ratifica di un documento redatto da un terzo, da parte di due soggetti, questa segue un meccanismo diverso da quello in cui i due soggetti si scambiano direttamente un documento, con l’intento di ottenere l’approvazione e che avviene quando è pienamente condiviso?

La società A , dopo la frase in cui dichiara di approvare il contenuto, continua con “tuttavia verranno aggiunte a detto accordo quadro delle clausole che saranno sottoposte all’esame della controparte “(quindi ad una mia approvazione ulteriore rispetto a quella già data).

Premesso che sia normale aggiungere, di comune accordo, delle clausole ad un accordo quadro, la non ancora avvenuta sottoscrizione congiunta del documento e/o la possibilità di integrazioni, possono rendere inefficace il documento già approvato con le dichiarazioni ?

Era previsto comunque successivamente un perfezionamento dell’accordo, con sottoscrizione congiunta del documento, aggiornato con i dati personali dei rispettivi rappresentanti legali, con gli allegati per le garanzie reciproche, con eventuali integrazioni, etc.

La domande (mi scuso se non sono tecnicamente appropriate) sono motivate dal fatto che la loro proposta di integrazione effettivamente poi mi è arrivata, ma essendo in contrasto con una parte essenziale del testo inizialmente approvato, l’ho dovuta contestare, senza poter proseguire nel perfezionamento dell’accordo e quant’altro previsto.

Questo ha bloccando l’avvio della compartecipazione, perché inspiegabilmente la società A non ha voluto rivedere le sue posizioni. Vorrei capire se ci sono elementi per far valere le mie ragioni in merito all’accordo iniziale, perché nel frattempo ci sono state della scadenze relative alla mia società, di cui erano anche loro a conoscenza e questo mi ha causato danni importanti.




Consulenza legale i 28/11/2016
Si presume ch quando si parla di "accordo quadro di compartecipazione tra due società" si intenda fare riferimento a ciò che il codice civile definisce associazione in partecipazione, prevista e disciplinata dall’art. 2549 e ss. c.c.. Trattasi di un contratto di collaborazione con il quale una parte, detta associante, attribuisce ad un’altra parte, l'associato, una partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari, in cambio di un determinato apporto di denaro o altre utilità.
Oltre che tra due società, come nel caso che si propone, si può avere associazione in partecipazione anche tra una società e una persona fisica o tra un’impresa individuale e una società.

La finalità del contratto è quella di realizzare una collaborazione tra più soggetti per l’esercizio di una attività economica a scopo di lucro, senza la creazione di un nuovo soggetto giuridico e la costituzione di un patrimonio autonomo, ne la comunione dell’affare e dell’impresa, che restano di esclusiva pertinenza dell’associante.

Posto, dunque, che ciò che si sia voluto realizzare sia proprio questo, va detto che il contratto di associazione non necessita di forma particolare e può perfezionarsi con il semplice consenso delle parti (anche tacito).
La forma scritta può essere necessaria in relazione all’esigenza di accordarsi sull’apporto e sulla misura della partecipazione dell’associato agli utili o alle perdite o sulla natura dell’apporto.

Trattandosi di un vero e proprio contratto, si applicheranno tutte le norme dettate dal codice civile in materia contrattuale, ed in particolare quelle relative alla sua formazione e conclusione nonché quelle disciplinanti il regime della responsabilità per il caso di mancata conclusione dell’accordo.

Si tratta di un contratto consensuale, poiché si costituisce attraverso il semplice consenso delle parti legittimamente manifestato.
Il principio consensualistico rappresenta una caratteristica fondamentale degli ordinamenti moderni; esso vuol significare che è sufficiente, per la conclusione del contratto, il mero consenso delle parti senza alcun elemento ulteriore.
Ciò risulta dagli artt. 1321, 1325, n. 1, c.c. (che parlano di accordo come requisito del contratto) e, più specificamente, dall’art. 1326c.c., secondo il quale, per la conclusione del contratto bastano proposta ed accettazione, nonché dall’art. 1376 c.c., il quale stabilisce che nei contratti con effetti reali il trasferimento si realizza col semplice consenso delle parti legittimamente manifestato (c.d. consenso traslativo).

Il contratto si conclude istantaneamente solo eccezionalmente (ad esempio quando le parti sono presenti ed il prezzo della cosa o del servizio è prefissato); di regola esso è preceduto dalle trattative intercorrenti tra le parti.
Pertanto, «il contratto si perfeziona solo quando è raggiunto l’accordo su tutti i punti, ed una delle parti fa la sua proposta che viene accettata dalla controparte».
Nel caso di specie, non essendosi mai raggiunto un accordo completo su tutti i punti, può dirsi che non si sia mai arrivati alla conclusione di un contratto, ma che in effetti si siano concretizzate soltanto delle trattative, qualificabili come «il materiale di costruzione del futuro contratto», fondamentali per il raggiungimento dell’accordo finale.
Esse hanno carattere preparatorio e strumentale, in quanto hanno valore soltanto nel caso in cui si arrivi ad un accordo, in difetto non avranno alcuna rilevanza giuridica.
Tuttavia, a seguito del comportamento scorretto delle parti, possono dar luogo alla c.d. responsabilità precontrattuale, prevista dagli artt. 1337 e 1338 c.c.
Le trattative possono ulteriormente svilupparsi sino a dare luogo ad appunti scritti, o ad un accordo denominato minuta, nel quale sono fissati i punti essenziali del futuro contratto.
Essa non vincola le parti ed ha valore meramente probatorio delle trattative intercorse tra le parti.
Proprio una minuta contrattuale si ritiene sia stata posta in essere nel caso di specie, nel corpo della quale i legali rappresentanti delle società interessate hanno tra l’altro previsto per la futura conclusione del contratto la forma scritta, ciò che si deduce dalla parte del quesito in cui è detto che era previsto un perfezionamento dell’accordo con sottoscrizione congiunta del documento.
Tali trattative, trasfuse nei documenti dei quali le parti hanno fatto uno scambio reciproco, potranno così costituire la fonte per far valere situazioni di responsabilità precontrattuale, prevista dagli artt. 1337-1338 c.c., norme le quali stabiliscono che «le parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto devono sempre comportarsi secondo buona fede».
La regola posta dall’art. 1337 c.c. non si riferisce alla sola ipotesi di rottura ingiustificata delle trattative, ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere, per le parti, di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto.
È discussa sia in dottrina che in giurisprudenza la natura di questo tipo di responsabilità e, precisamente, si discute se abbia natura contrattuale o extracontrattuale.
Non si tratta, peraltro, di un problema puramente teorico, perché è diversa la disciplina giuridica delle due forme di responsabilità ed, in particolare, cambia l’onere della prova, ed infatti:
a) nella responsabilità contrattuale esiste una presunzione di colpa a carico dell’inadempiente, il quale è tenuto a dimostrare che l’inadempimento o il ritardo non sono a lui imputabili (art. 1218 c.c.).
b) nella responsabilità extracontrattuale, invece, la presunzione non esiste e chi pretende il risarcimento dei danni deve dimostrare il comportamento colpevole della controparte, secondo il principio generale per cui chi afferma una pretesa deve dare la prova del suo fondamento (art. [2697 c.c.).
Preferibile è la teoria della natura extracontrattuale sostenuta in dottrina (Mirabelli, Bianca) ed in giurisprudenza (Cass. 29 aprile 1999, n. 4299); secondo tale tesi il danno risarcibile non è in relazione alla mancata conclusione del contratto o di un accordo già esistente tra le parti, ma al comportamento illecito di chi ha suscitato la fiducia nella conclusione del futuro contratto ed alle conseguenze che da ciò ne sono potute derivare.
Questo obbligo di comportarsi lealmente nei reciproci rapporti precontrattuali altro non è che una specificazione dell’obbligo generico del «neminem laedere» contenuto nell’art. 2043 c.c.


Luca chiede
giovedì 24/02/2011 - Veneto
“Con il contratto di associazione d'azienda con apporto di solo lavoro l'associato ha diritto a ferie e mensilità aggiuntive? matura il tfr? e quale metodo contributivo avrà?”
Consulenza legale i 25/02/2011

L’associazione in partecipazione, disciplinata all'art. 2549 del c.c. e ss., è un contratto con il quale l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto che può consistere anche in una prestazione di lavoro.

Esso si differenzia nettamente dal contratto di lavoro subordinato, delle cui tutele tipiche (ferie, TFR, licenziamento, etc.) è carente.
Nulla vieta alle parti di regolamentare convenzionalmente alcuni aspetti, quali ad esempio i giorni di ferie.

Quanto agli obblighi contributivi, gli associati che apportano prestazioni di lavoro, i cui compensi sono qualificati come redditi di lavoro autonomo ai sensi dell’articolo 53 (comma 2, lett. c) del T.U.I.R. 917/86, sono soggetti dal 1° gennaio 2004 all’obbligo di iscrizione nella Gestione separata dei lavoratori parasubordinati. Attualmente, nei rapporti di associazione in partecipazione il contributo previdenziale è per il 55% a carico dell’associante e per il 45% a carico dell’associato.


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