(massima n. 1)
Il contratto di associazione in partecipazione, che si qualifica per il carattere sinallagmatico fra l'attribuzione da parte di un contraente (associante) di una quota di utili derivanti dalla gestione di una sua impresa e di un suo affare all'altro (associato) e l'apporto da quest'ultimo conferito, non determina la formazione di un soggetto nuovo e la costituzione di un patrimonio autonomo, nè la comunanza dell'affare o dell'impresa, i quali restano di esclusiva pertinenza dell'associante. Ne deriva che soltanto l'associante fa propri gli utili e subisce le perdite, senza alcuna partecipazione diretta ed immediata dell'associato, il quale può pretendere unicamente che gli sia liquidata e pagata una somma di denaro corrispondente alla quota spettante degli utili e all'apporto, ma non che gli sia attribuita una quota degli eventuali incrementi patrimoniali, compreso l'avviamento, neppure se ciò le parti abbiano previsto nel contratto, in quanto una clausola di tal fatta costituisce previsione tipica dello schema societario, come tale incompatibile con la figura disciplinata dagli artt. 2549 e segg. c.c., con la conseguenza che al contratto complesso, in tal modo configurabile, deve applicarsi soltanto la disciplina propria del contratto di associazione in partecipazione, ove sia accertato che la funzione del medesimo sia quella in concreto prevalente.