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Articolo 1454 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Diffida ad adempiere

Dispositivo dell'art. 1454 Codice Civile

Alla parte inadempiente(1) l'altra può intimare per iscritto di adempiere in un congruo termine, con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto s'intenderà senz'altro risoluto.

Il termine non può essere inferiore a quindici giorni, salvo diversa pattuizione delle parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine minore.

Decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto(2).

Note

(1) Purché l'inadempimento sia grave (v. 1454 c.c.).
(2) In tal caso la risoluzione avviene di diritto e la pronuncia del giudice è di natura accertativa.

Ratio Legis

Con la diffida ad adempiere il legislatore consente alla parte di valersi di uno strumento rapido per slegarsi dal contratto e, al contempo, di uno strumento per spingere la controparte a tenere fede all'impegno assunto, sotto la minaccia, appunto, della risoluzione.

Spiegazione dell'art. 1454 Codice Civile

L'istituto della risoluzione per volontà privata unilaterale costituisce uno dei casi in cui l'ordinamento giuridico ammette, sotto determinate condizioni, il principio eccezionale dell'autotutela privata

E’ questo l'istituto della risoluzione per volontà privata unilaterale, istituto che, per la sua snellezza e praticità è destinato a sostituire quello della risoluzione giudiziale ex art. 1453: i presupposti per la risoluzione sono identici nei due casi.

Si ha qui un potere privato di risoluzione che deriva direttamente dalla legge: è questo uno dei casi in cui l'ordinamento giuridico, sotto determinate condizioni, ammette il principio eccezionale dell'autotutela privata. La possibilità della parte inadempiente di ricorrere all'autorità giudiziaria (ad es., per far valere l’impossibilità sopravvenuta dalla prestazione ex art. 1463) vale ad eliminare i pericoli che sono insiti nella unilateralità della dichiarazione del contraente deluso.

L'istituto ha un precedente nel § 326 B.G.B., pur essendo notevoli le differenze strutturali e funzionali che intercorrono tra il nostro istituto della risoluzione per inadempienza e il Ruckstritt del B.G.B.


I presupposti richiesti per il funzionamento dell'istituto

Il nuovo istituto riposa: a) da un canto, sulla diffida di adempiere, da farsi per iscritto (senza peraltro che si renda necessario l'intervento dell'ufficiale giudiziario, come invece era previsto nell'articolo 253 del Progetto ministeriale); b) dall'altro canto, sull'onere della prefissione di un (congruo) termine perentorio, decorso inutilmente il quale, la risoluzione avviene ipso iure

Pertanto, l'intimazione consegue l'effetto di rendere inutile la sentenza costitutiva e di ricollegare la risoluzione del contratto direttamente alla dichiarazione del contraente deluso (sotto il presupposto di fatto dell'inutile decorso del termine).

A) La diffida deve consistere nell'intimazione di adempiere entro un congruo termine con la espressa dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto s'intendere senz'altro risolto.

Si tratta quindi di una dichiarazione precettiva in quanto tende a provocare nel destinatario un contegno (eterocomando); si tratta inoltre di una dichiarazione c.d. recettizia, e il termine di adempimento in essa contenuto comincerà a decorrere dal momento in cui detta diffida perviene a conoscenza del destinatario (1334).

B) Durante il termine fissato nella diffida, la parte inadempiente può sanare la mora, ed in tal modo evitare la risoluzione: la legge ammette cioè in questo caso l'adempimento tardivo.

Questo principio sta a denotare che alla diffida ad adempiere non è possibile ricorrere nei seguenti casi:

α) quando non sia possibile applicare le disposizioni sulla mora, come avviene nei casi di violazione di obbligazioni negative (1222);

β) quando la prestazione non compiuta è diventata inutile per il creditore (qui si prescinde dall'ipotesi considerata nell'art. 1457).

Come si potrebbe infatti in questi casi fissare un termine per l'adempimento tardivo?

Il termine da concedersi al contraente inadempiente ha da essere, normalmente, non inferiore ai quindici giorni. Potrà essere inferiore: 1) quando ciò sia stato pattuito precedentemente; 2) quando sia ammesso dagli usi; 3) quando, per la natura del contratto, risulti congruo un termine minore dei 15 giorni (ciò, ad es., potrebbe verificarsi nel caso in cui un termine di 15 giorni sarebbe tale da fare venire meno l'interesse del creditore alla prestazione).

Dato il silenzio della legge, l'inadempiente non può essere tenuto a prestare, entro il termine fissato, anche i danni per il ritardo: per evitare la risoluzione basta che esso, entro quel termine, esegua la prestazione originaria.


Formalità richiesta perché la risoluzione sia opponibile ai terzi

Trascorso inutilmente il termine fissato nella diffida, la risoluzione del contratto si verifica automaticamente: il meccanismo della risol. è identico a quello visto per la risol. giudiziale. Se detto contratto, così risolto, rientra nella categoria di quei negozi per la cui efficacia rispetto ai terzi è richiesta la trascrizione (2643), affinché la risoluzione di esso sia opponibile a quei terzi che ancora non avessero trascritto il loro acquisto, sarà necessaria la trascrizione di un atto da cui risulti la risoluzione stessa: ora, se la parte inadempiente non volesse prestarsi a porre in essere un atto di accertamento della risoluzione, sarà necessario ottenere una sentenza che accerti la risoluzione, e sarà tale sentenza che avrà da essere trascritta.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

232 Non è necessario, nel sistema da me delineato, che il creditore chieda al giudice la risoluzione del contratto.
Ho previsto nell'art. 255 una forma di risoluzione per autorità del creditore che, senza negare al debitore la tutela giudiziaria, possa raggiungere più speditamente l'effetto medesimo, che sarebbe prodotto dalla pronuncia giudiziaria.
Il creditore, per atto di ufficiale giudiziario, può, cioè, diffidare il debitore ad adempiere entro un termine non inferiore, ai trenta giorni, ove diversamente non sia stato pattuito nel contratto o la natura di questo non richieda un termine minore. La diffida deve contenere la dichiarazione che, decorso infruttuosamente il termine assegnato, il contratto si intenderà senz'altro risolto.
L'utilità di questa forma sta nel fatto che essa consente di determinare senza indugi la posizione delle parti in confronto del contratto non adempiuto. La unilateralità della dichiarazione non deve impressionare. Il controllo del giudice non mancherà; ma sarà soltanto eventuale e posteriore, come nel caso di clausola risolutiva. Il giudice, ove sorga contestazione, accerterà l'avvenuta risoluzione, e perciò non potrà più accordare alcuna dilazione per l'adempimento.
E' chiaro che la diffida dovrà essere notificata solo dopo la scadenza del termine stabilito per l'esecuzione della prestazione. Essa, è da avvertire, non sostituisce procedure speciali preesistenti, che abbiano carattere monitorio e che ugualmente
adducono alla risoluzione del contratto: così non potrà essere usata nel caso di morosità dall'inquilino, che trova, nel titolo 2° del R. decreto 7 agosto 1936, n. 1531, un rimedio di processo spedito, atto a far raggiungere, nel tempo più breve di quello che potrebbe essere necessario in un ordinario giudizio di risoluzione, lo stesso effetto che la diffida descritta nell'art. 255 fa conseguire speditamente in altre situazioni contrattuali.
Noto, ancora, che la risoluzione per autorità del creditore fu prevista nel progetto del codice di commercio del 1925, e che non è sostanzialmente un istituto nuovo per il nostro diritto.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

233 La inutile scadenza della dilazione concessa dal giudice a senso dell'art. 253 e del termine concesso dal creditore nella diffida dell'art. 255 (sempre che questa non sia stata oggetto di contestazione dell'altro contraente o sia stata comunque considerata legittima) provoca la risoluzione del contratto (art. 256).
Da allora nessuna delle parti può offrirne o pretenderne l'esecuzione, e la risoluzione si produce senza che sia necessaria una espressa pronuncia.

Massime relative all'art. 1454 Codice Civile

Cass. civ. n. 18392/2022

In tema di inadempimento contrattuale, una volta conseguita attraverso la diffida ad adempiere la risoluzione del contratto al quale accede la prestazione di una caparra confirmatoria, l'esercizio del diritto di recesso è definitivamente precluso, cosicchè la parte non inadempiente che limiti fin dall'inizio la propria pretesa risarcitoria alla ritenzione della caparra ad essa versata o alla corresponsione del doppio della caparra da essa prestata, in caso di controversia, è tenuta ad abbinare tale pretesa ad una domanda di mero accertamento dell'effetto risolutorio.

Cass. civ. n. 39/2021

In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, la controdiffida diretta a contestare la sussistenza di una qualsiasi delle condizioni cui è subordinata la risoluzione di diritto conseguente alla diffida ad adempiere, non sospende né evita tale effetto.

Cass. civ. n. 14243/2020

In tema di adempimento dell'obbligazione contrattuale, la mancata previsione di un termine entro il quale la prestazione deve essere consensualmente eseguita non sempre impone alla parte adempiente l'obbligo di costituire in mora l'altra ex art. 1454 c.c. e, quindi, di fare ricorso al giudice a norma e per gli effetti di cui all'art. 1183 c.c. Infatti, può essere sufficiente, in relazione agli usi, alla natura del rapporto negoziale ed all'interesse delle parti, che sia decorso un congruo spazio di tempo dalla conclusione del contratto, per il quale possa ritenersi in concreto superato ogni limite di normale tolleranza.

Cass. civ. n. 8943/2020

In tema di diffida ad adempiere, la fissazione al debitore di un termine per l'adempimento inferiore ai quindici giorni trova fondamento solo in presenza delle condizioni di cui all'art. 1454, comma 2, c.c., ovvero allorché ricorra una specifica previsione derogatoria o quando il termine abbreviato sia congruo rispetto alla natura del contratto o agli usi. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata che aveva ritenuto congruo il termine ridotto assegnato avuto riguardo al fatto che sulla base di una precedente missiva il debitore era già inadempiente e non aveva contestato il termine assegnatogli)

In tema di risoluzione di diritto del contratto ex art. 1454 c.c., essendo la diffida ad adempiere un atto recettizio, il termine di quindici giorni assegnato al debitore perché provveda all'adempimento decorre dal momento in cui il documento è giunto nella sfera di conoscenza del destinatario, sicché non risulta decisiva la data di invio della comunicazione scritta contenente la diffida, bensì quella in cui l'atto è pervenuto al recapito cui era indirizzato.

Cass. civ. n. 22002/2019

In tema di diffida ad adempiere, costituisce un accertamento di fatto la valutazione di congruità del termine assegnato al debitore ai sensi dell'art. 1454, comma 2, c.c., anche se inferiore a quello legale.

Cass. civ. n. 15052/2018

Ai sensi dell'art. 1454 c.c., il contraente che si avvale dello strumento dalla diffida deve essere già vittima dell'altrui inadempimento. Pertanto, deve escludersi che detta diffida possa essere intimata prima della scadenza del termine di esecuzione del contratto, trattandosi di uno strumento offerto ad un contraente nei confronti dell'altro che sia inadempiente per ottenere una celere risoluzione del contratto senza dovere attendere la pronuncia del giudice.

Cass. civ. n. 10860/2018

In tema di diffida ad adempiere intimata da un procuratore, la necessità che la relativa procura abbia forma scritta agli effetti risolutivi di cui all'art. 1454 c.c. non implica la sua allegazione alla diffida medesima, essendo sufficiente che tale procura sia portata a conoscenza del debitore con mezzi idonei, salvo il diritto dell'intimato a farsene rilasciare copia ai sensi dell'art. 1393 c.c.

Cass. civ. n. 27530/2016

In tema di diffida ad adempiere, l'unico onere che, ai sensi dell'art. 1454 c.c., grava sulla parte intimante è quello di fissare un termine entro cui l'altra dovrà adempiere alla propria prestazione, pena la risoluzione "ope legis" del contratto, poiché la "ratio" della norma è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all'esecuzione del negozio, mediante un formale avvertimento alla parte diffidata che l'intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell'adempimento. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto generica e, pertanto, inidonea, la diffida priva dell'indicazione, con congruo anticipo, del giorno e dell'ora prescelto dal promissario alienante per la stipula del contratto definitivo dinanzi al notaio scelto concordemente dalle parti).

Cass. civ. n. 15070/2016

In difetto di clausola risolutiva espressa, la risoluzione del contratto per inadempimento può essere ottenuta solo mediante intimazione ad adempiere ex art. 1454 c.c., essendo privo di effetto l'atto unilaterale con cui la parte dichiari risolto il contratto.

Cass. civ. n. 9317/2016

Il contraente che abbia intimato diffida ad adempiere, dichiarando espressamente che allo spirare del termine fissato, il contratto sarà risolto di diritto, può rinunciare, anche dopo la scadenza nel termine indicato nella stessa e anche attraverso comportamenti concludenti, alla diffida ed al suo effetto risolutivo.

Cass. civ. n. 4205/2016

In caso di reiterazione di atti di diffida ad adempiere, il termine previsto dall'art. 1454 c.c. decorre dall'ultimo di essi, sicché lo "spatium agendi" di quindici giorni, che necessariamente deve intercorrere tra il ricevimento della diffida e l'insorgenza della fattispecie risolutoria, deve essere rispettato a far data dall'ultima diffida; tuttavia la reiterazione della diffida non esclude che l'inadempimento del diffidato si sia già manifestato alla scadenza del termine assegnato con la prima diffida, potendosi individuare nella rinnovazione un interesse del diffidante ad un tardivo adempimento della controparte, con la concessione quindi di un nuovo termine che impedisca l'effetto risolutorio di diritto collegato alla prima diffida.

Cass. civ. n. 11493/2014

In materia di diffida ad adempiere, il giudizio sulla congruità del termine di quindici giorni previsto dall'art. 1454 cod. civ. non può essere unilaterale ed avere ad oggetto esclusivamente la situazione del debitore, ma deve prendere in considerazione anche l'interesse del creditore all'adempimento ed il sacrificio che egli sopporta per l'attesa della prestazione. Ne consegue che la valutazione di adeguatezza va commisurata - tutte le volte in cui l'obbligazione del debitore sia divenuta attuale già prima della diffida - non rispetto all'intera preparazione all'adempimento, ma soltanto rispetto al completamento di quella preparazione che si presume in gran parte compiuta, non potendo il debitore, rimasto completamente inerte sino al momento della diffida, pretendere che il creditore gli lasci tutto il tempo necessario per iniziare e completare la prestazione. (Omissis).

In tema di inadempimento contrattuale, mentre nella proposizione di una domanda di risoluzione di diritto per l'inosservanza di una diffida ad adempiere, può ritenersi implicita, in quanto di contenuto minore, anche la domanda di risoluzione giudiziale di cui all'art. 1453 cod. civ., non altrettanto può dirsi nell'ipotesi inversa, di proposizione soltanto di quest'ultima domanda, restando precluso l'esame della domanda di risoluzione di diritto a meno che i relativi fatti che la sostanziano siano stati allegati in funzione di un proprio effetto risolutivo. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, annullato il lodo arbitrale, si era limitata ad escludere l'intervenuta risoluzione di diritto di un contratto preliminare di compravendita immobiliare a seguito di diffida ad adempiere, senza indagare sulla implicita domanda di risoluzione giudiziale del contratto medesimo).

Cass. civ. n. 19105/2012

In tema di diffida ad adempiere, ai sensi dell'art. 1454, secondo comma, c.c., il termine assegnato al debitore, cui è strumentalmente collegata la risoluzione di diritto del contratto, può essere anche inferiore a quindici giorni, non ponendo detta norma una regola assoluta, purché tale minor termine risulti congruo per la natura del contratto o secondo gli usi, costituendo, in ogni caso, l'accertamento della congruità del termine giudizio di fatto di competenza del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici.

Cass. civ. n. 3477/2012

In tema di diffida ad adempiere, l'unico onere che, ai sensi dell'art. 1454 c.c., grava sulla parte intimante è quello di fissare un termine, entro cui l'altra dovrà adempiere alla propria prestazione pena la risoluzione "ope legis" del contratto, poiché la "ratio" della norma è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all'esecuzione del negozio, mediante un formale avvertimento alla parte diffidata che l'intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell'adempimento.

Cass. civ. n. 14877/2011

In caso di reiterazione di atti di diffida ad adempiere, il termine previsto dall'art. 1454 c.c. decorre dall'ultimo di essi, con la conseguenza che lo "spatium agendi" di quindici giorni, che necessariamente deve intercorrere tra il ricevimento della diffida e l'insorgenza della fattispecie risolutoria, deve essere rispettato a far data dall'ultima diffida.

Cass. civ. n. 10687/2011

In tema di inadempimento del contratto preliminare di compravendita immobiliare contenente un termine, non rispettato alla scadenza, per la stipulazione del definitivo, l'esercizio dell'azione di esecuzione in forma specifica, ai sensi dell'art. 2932 c.c., dell'obbligo di concludere il medesimo, non presuppone necessariamente la natura essenziale di detto termine, né la previa intimazione di una diffida ad adempiere alla controparte, essendo sufficiente la sola condizione oggettiva dell'omessa stipulazione del negozio definitivo che determina di per sé l'interesse alla pronunzia costitutiva, a prescindere da un inadempimento imputabile alla controparte stessa.

Cass. civ. n. 14292/2010

Affinché la diffida ad adempiere, intimata alla parte inadempiente da un soggetto diverso dall'altro contraente, possa produrre gli effetti di cui all'art. 1454 c.c., è necessario che quel soggetto sia munito di procura scritta del creditore, indipendentemente dal carattere eventualmente solenne della forma del contratto destinato a risolversi, atteso che, come si desume anche dagli artt. 1324 e 1392 c.c., la diffida medesima, quale manifestazione di volontà che si sostanzia in un potere unilaterale incidente sulla sorte del rapporto contrattuale tanto da determinare la risoluzione "ipso jure" del vincolo sinallagmatico, ha natura negoziale.

Cass. civ. n. 8250/2009

In materia di diffida ad adempiere, il giudizio sulla congruità del termine di quindici giorni previsto dall'art. 1454 c.c. non può essere unilaterale ed avere ad oggetto esclusivamente la situazione del debitore, ma deve prendere in considerazione anche l'interesse del creditore all'adempimento ed il sacrificio che egli sopporta per l'attesa della prestazione; ne consegue che la valutazione di adeguatezza va commisurata - tutte le volte in cui l'obbligazione del debitore sia divenuta attuale già prima della diffida - non rispetto all'intera preparazione all'adempimento, ma soltanto rispetto al completamento di quella preparazione che si presume in gran parte compiuta. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che - essendo passata in giudicato una sentenza di cui all'art. 2932 c.c. che subordinava l'effetto traslativo della compravendita al pagamento del residuo prezzo - aveva ritenuto incongruo il termine di quindici giorni concesso al debitore, non considerando che la diffida ad adempiere era stata notificata dal creditore oltre quattro mesi dopo il passaggio in giudicato della sentenza, e che nel frattempo il debitore aveva il dovere di attivarsi nella preparazione dell'adempimento).

Cass. civ. n. 23315/2007

In tema di contratti a prestazioni corrispettive, la diffida ad adempiere ha lo scopo di realizzare, pur in mancanza di una clausola risolutiva espressa, gli effetti che a detta clausola si ricollegano e, cioè, la rapida risoluzione del rapporto mediante la fissazione di un termine essenziale nell'interesse della parte adempiente, cui è rimessa la valutazione di farne valere la decorrenza e che può rinunciare ad avvalersi della risoluzione già verificatasi; tale diffida è stabilita nell'interesse della parte adempiente e costituisce non un obbligo ma una facoltà che si esprime a priori nella libertà di scegliere questo mezzo di risoluzione del contratto a preferenza di altri e a posteriori nella possibilità di rinunciare agli effetti risolutori già prodotti, il che rientra nell'ambito delle facoltà connesse all'esercizio dell'autonomia privata al pari della rinuncia al potere di ricorrere al congegno risolutorio di cui all'art. 1454 c.c.

Cass. civ. n. 3742/2006

La diffida ad adempiere di cui all'art. 1454 c.c. esige la manifestazione univoca della volontà dell'intimante di ritenere risolto il contratto in caso di mancato adempimento della controparte entro un certo termine, restando escluso che tale manifestazione possa sopraggiungere in un momento successivo alla diffida.

Cass. civ. n. 8910/1998

In tema di diffida ad adempiere, l'unico onere che, ai sensi dell'art. 1454 c.c., grava sulla parte intimante è quello di fissare un termine entro il quale l'altra parte dovrà adempiere alla propria prestazione, pena la risoluzione ope legis del contratto, poiché la ratio della norma citata è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all'esecuzione del negozio, mercé un formale avvertimento alla parte diffidata che l'intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell'adempimento. (Nella specie, il giudice di merito, rilevata l'assenza, in seno alla diffida intimata alla controparte dal promittente venditore di un immobile, dell'indicazione del giorno, dell'ora e del luogo della stipula notarile, aveva ritenuto l'inidoneità dell'atto a produrre gli effetti di risoluzione suoi propri. La Corte di legittimità, nel cassare la sentenza e nel sancire il principio di diritto di cui in massima, ha, ancora, aggiunto che, sebbene la scelta del notaio fosse stata già operata, in sede di stipula del preliminare, dal promissario acquirente, l'onere di contattare il notaio stesso gravava, comunque, su quest'ultimo, sì che nessun rilievo poteva annettersi alla circostanza dell'omessa indicazione, da parte del promittente venditore, di giorno, ora e luogo dello stipulando contratto definitivo).

Cass. civ. n. 12092/1995

Il potere del giudice di valutazione della congruità del termine assegnato alla parte inadempiente per adempiere è esercitabile soltanto in rapporto alla diffida ad adempiere prevista dall'art. 1454 c.c. ai fini della risoluzione del contratto, ma non in rapporto all'invito ad adempiere previsto dall'art. 1183 c.c., che prevede, in mancanza di determinazione del tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, la possibilità per il creditore di esigerla immediatamente. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la Suprema Corte ha cassato la sentenza del merito, la quale, relativamente ad un contratto preliminare di vendita, aveva ritenuto che l'invito ad adempiere rivolto al promissario acquirente, non qualificabile come diffida ad adempiere, conteneva un termine incongruo, avuto riguardo al fatto che il saldo, di non trascurabile entità, non poteva approntarsi senza congruo preavviso).

Cass. civ. n. 3566/1995

La diffida ad adempiere può essere fatta nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo, non richiedendo la legge una forma particolare, ed è sufficiente per la sua operatività che essa pervenga nella sfera di conoscibilità del destinatario. (Nella specie la sentenza impugnata confermata dalla S.C. aveva ritenuto che l'invio di una lettera raccomandata costituisce mezzo idoneo a diffidare ed a costituire in mora l'amministratore di un condominio).

Cass. civ. n. 5979/1994

L'assegnazione da parte del creditore con la diffida ad adempiere di un termine inferiore a quello di giorni quindici stabilito dall'art. 1454 c.c. o comunque non congruo comporta l'impossibilità di utilizzare la diffida ai fini della risoluzione di diritto del contratto, ma non esclude la riammissione in termini della parte inadempiente.

Cass. civ. n. 9085/1990

La regola secondo cui il termine concesso al debitore con la diffida ad adempiere, cui è strumentalmente collegata la risoluzione di diritto del contratto, non può essere inferiore a quindici giorni, non è assoluta, potendosi assegnare a norma dell'art. 1454 comma secondo c.c., un termine inferiore ritenuto congruo per la natura del contratto e per gli usi. L'accertamento della congruità del termine costituisce un giudizio di fatto di competenza del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici.

Cass. civ. n. 5017/1990

La risoluzione del contratto in difetto di una clausola risolutiva espressa, della quale la parte dichiari di avvalersi, può essere ottenuta, a norma dell'art. 1454 c.c. soltanto mediante intimazione ad adempiere in un congruo termine indicato come risolutorio; a tal fine la semplice dichiarazione unilaterale della parte di ritenere il contratto risolto, configurandosi come mera pretesa che non consente all'altra parte l'attuazione del rapporto, deve considerarsi priva di effetti e quindi non preclusiva della successiva domanda di adempimento, alla quale è ostativa, a norma dell'art. 1453, secondo comma, c.c. solo la domanda giudiziale di risoluzione.

Cass. civ. n. 4066/1990

La diffida ad adempiere di cui all'art. 1454 c.c. esige la manifestazione univoca della volontà dell'intimante di ritenere risolto il contratto in caso di mancato adempimento entro un certo termine. Non è pertanto sufficiente per produrre l'effetto risolutivo del rapporto costituito fra le parti, previsto dalla norma richiamata, la manifestazione della generica intenzione «di agire in tutte le sedi più opportune», senza specificare se si intenda ottenere l'adempimento o la risoluzione del contratto.

Cass. civ. n. 4535/1987

La valutazione in ordine alla congruità del termine assegnato dal creditore al debitore con la diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. va compiuta con esclusivo riferimento alla diffida stessa e al periodo in essa indicato, senza che possa avere rilievo il fatto che in precedenza vi siano state altre diffide rimaste infruttuose.

Cass. civ. n. 3867/1985

La diffida ad adempiere, intimata a norma dell'art. 1454 c.c., ha l'effetto di rimettere in termini il debitore fino alla data assegnata con la diffida medesima, con la conseguenza che il suo inadempimento può essere dedotto a sostegno di una successiva, domanda di risoluzione del contratto solo quando si sia protratto oltre quella data.

Cass. civ. n. 542/1985

Il termine fissato nella diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. — il quale è diverso dal termine originario di adempimento e soggiace ad un'autonoma disciplina — non può essere inferiore a quello minimo di quindici giorni previsto, dalla norma citata, configurandosi, altrimenti, l'inidoneità della diffida alla produzione di effetti risolutivi del rapporto costituito, salvo che, per diversa pattuizione delle parti, per la natura del contratto o secondo gli, usi, risulti congruo un termine minore. Non è, pertanto, giustificata l'assegnazione di un termine minore con riferimento a precedenti solleciti rivolti al debitore per l'adempimento, in quanto tale circostanza non attiene alla natura del contratto ma ad un comportamento omissivo del debitore.

Cass. civ. n. 2089/1982

La diffida ad adempiere, di cui all'art. 1454 c.c., pur non richiedendo l'uso di formule sacramentali, esige comunque la manifestazione in modo inequivocabile della volontà dell'intimante, da un lato, di ottenere l'adempimento del contratto entro un certo termine e, dall'altro, di considerare risolto il contratto stesso come effetto dell'inutile decorrenza del termine.

Cass. civ. n. 590/1982

La diffida ad adempiere, che non prefigga il preciso termine entro cui il contraente inadempiente deve adempiere sotto pena di risoluzione del contratto, è in contrasto con il precetto dell'art. 1454 c.c., in quanto determina nel diffidato una situazione di incertezza obiettiva, impedendogli di giudicare se il termine stesso sia congruo — come la legge prescrive — ed esaurendosi, in sostanza, nella pretesa che spetti soltanto al contraente adempiente di giudicare ex post se la prestazione dell'altro contraente successiva alla diffida, ove si verifichi, ottemperi o meno alla diffida medesima quanto al termine di adempimento.

Cass. civ. n. 132/1982

Ai fini della risoluzione del contratto per inadempimento, la diffida ad adempiere costituisce soltanto una facoltà, non un obbligo per la parte adempiente, ed ha lo scopo di provocare lo scioglimento di diritto del rapporto. La parte adempiente, infatti, può direttamente proporre la domanda, tendente alla risoluzione del rapporto, attraverso una pronunzia costitutiva del giudice, sulla base del solo fatto obiettivo dell'inadempimento di non scarsa importanza.

Cass. civ. n. 3851/1978

La diffida ad adempiere, nella sua struttura logica e sistematica, è uno strumento offerto ad un contraente nei confronti dell'altro inadempiente per una celere risoluzione del contratto, affinché il contraente adempiente non resti vincolato all'altro fino alla pronuncia del giudice e possa provvedere con altri alla realizzazione del suo interesse negoziale.

Cass. civ. n. 118/1976

La diffida ad adempiere, ai sensi dell'art. 1454 c.c., presuppone l'inadempienza del diffidato in ordine ad un'autonoma obbligazione contrattuale, e richiede l'assegnazione di un congruo termine per l'adempimento dell'obbligazione medesima; detta diffida, pertanto, non è ravvisabile in un atto intimato con esclusivo riferimento ad un'attività strumentale e preparatoria, rispetto alla realizzazione del risultato finale voluto dai contraenti, con la costituzione dell'obbligazione o comunque con l'assegnazione di un termine solo per l'inizio dell'esecuzione dell'obbligazione, ed a prescindere dall'epoca in cui l'esecuzione stessa debba essere completata.

Cass. civ. n. 2210/1973

Poiché deve considerarsi inadempiente il contraente che, in pendenza del termine, abbia manifestato in modo certo ed inequivoco di non voler eseguire la sua obbligazione, nulla vieta che, in costanza di tale comportamento, l'altra parte possa avvalersi della diffida ad adempiere prevista dall'art. 1454 c.c. anche prima della scadenza pattuita, per conseguire quegli effetti risolutori che derivano dalla suddetta norma.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1454 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

M. C. chiede
mercoledì 14/09/2022 - Lombardia
“Buongiorno,
il 5-6-2021 ho sottoscritto con una ditta un contratto per vari interventi per l'efficienza e la riqualificazione energetica col superbonus 110%. La ditta ha richiesto da me una cauzione di €3.000 (versata il 13-7-2021) restituibile a fine lavori, la cui data non era definita nel contratto. I lavori non sono mai iniziati, a causa delle vicende note (blocco crediti e altre modifiche alla legge, fatte dal governo). La scadenza per effettuare i lavori (dopo varie modifiche) fu stabilita dal governo al 31-12-2022, con il 30% dei lavori da effettuarsi entro il 30-9-2022 (anche questa ultima scadenza stabilita dal governo dopo varie modifiche).
Dato che ora è impossibile che la ditta riesce ad effettuare il 30% dei lavori entro il 30-9-2022, ho già mandato loro una semplice email per chiedere la restituzione della cauzione e loro mi hanno risposto "le indichiamo le modalità di recesso dal contratto" (i furbi cercano di far sì che io receda unilateralmente così non mi devono ridare la cauzione).

Ora pensavo di mandare alla ditta la vostra lettera di Diffida ad adempiere entro il 30-9-2022 e la restituzione della cauzione da me versata, ma il vostro modello mi chiede il termine improrogabile entro cui la prestazione doveva essere eseguita, ma questa non era scritta nel contratto. La posso mandare ugualmente? Un contratto senza termine per la sua esecuzione è valido?

Grazie, distinti saluti.”
Consulenza legale i 21/09/2022
Un contratto che non preveda un termine per l’adempimento non è invalido: infatti il termine viene considerato elemento accidentale, e non essenziale, del contratto.
Semmai è necessario fare un po’ di chiarezza su cosa sia la diffida ad adempiere, prevista dall’art. 1454 del c.c..
Essa consiste in una intimazione, fatta per iscritto e rivolta alla parte inadempiente, di eseguire la propria prestazione in un congruo termine, con l’espresso avvertimento che, decorso inutilmente detto termine, il contratto s'intenderà senz'altro risolto.
La norma precisa anche che tale termine di regola non può essere inferiore a quindici giorni (salvo diversa pattuizione delle parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine minore).

Dunque il termine che si richiede di indicare nella redazione della diffida ad adempiere non è quello previsto dal contratto, ma quello che la parte adempiente assegna all’altra per l’esecuzione della prestazione, pena la risoluzione di diritto del contratto stesso.

E. C. chiede
martedì 06/09/2022 - Toscana
“Buonasera, in data 03 maggio 2022, la mia società ha stipulato un contratto per un servizio che comprendeva il sito web + pagine ecomm. Abbiamo pagato tre mesi, nel mese di agosto la società che ci doveva fare il servizio non ha presentato fattura, quindi noi non abbiamo pagato. Ad oggi la società ci ha presentato proposte, ma nulla è stato messo in rete. Nel mese di luglio ed agosto abbiamo sollecitato di adempiere, anche se noi, non molto convinti di quello che ci avevano presentato abbiamo spinto affinché facessero qualcosa, ma ad oggi non abbiamo avuto risposte. I rapporti con la Società sono tutti documentabili dal gruppo fatto da loro su WhatsApp. Vi chiedo se è possibile recedere dal contratto per inadempienza e se è lecito richiedere quanto è stato versato. Saluti”
Consulenza legale i 29/09/2022
L’esame della documentazione fornita ha evidenziato che, nel contratto concluso tra le parti, non è previsto uno specifico termine per l’esecuzione della prestazione da parte del professionista; l'accordo si limita a fissare una durata minima del vincolo, indicando quale “data inizio lavori” il giorno di ricezione del primo bonifico.
Occorre precisare che un’analisi “a distanza” dell’inadempimento nel nostro caso non è agevole, sia perché potrebbero esservi questioni tecniche tali da richiedere il parere di un soggetto competente, sia perché, come previsto appunto dall’art. IV del contratto, la realizzazione del servizio comporta un'attività particolarmente importante di confronto tra professionista e cliente al fine di concordarne tutti gli aspetti (“La realizzazione del Servizio viene concordata col CLIENTE…”; “L’aspetto e l’organizzazione grafica del Servizio viene proposta in base alle esigenze esposte dal CLIENTE…”), come dimostra peraltro la copia dei messaggi WhatsApp inviati in visione.
Tuttavia, e ferme restando le precisazioni di cui sopra, la lettura degli allegati ha evidenziato come il Cliente abbia più volte sollecitato (tramite messaggi WhatsApp e email) la realizzazione del servizio, che non risulta completata nonostante i mesi trascorsi dalla conclusione del contratto e nonostante i pagamenti effettuati.
Ciò che il cliente può fare, a questo punto, è inviare una diffida ad adempiere (art. 1454 del c.c.), ossia una intimazione, fatta per iscritto, di adempiere entro un congruo termine (di regola non inferiore a quindici giorni), con l’espresso avvertimento che, decorso inutilmente tale termine, il contratto s'intenderà senz'altro risolto (si parla, infatti, di risoluzione di diritto del contratto).
Naturalmente, è anche possibile che il professionista, destinatario della diffida, contesti la versione dei fatti del cliente e deduca, ad esempio, a sua volta un inadempimento da parte del cliente; inoltre, laddove sorgano contestazioni e si giunga dinanzi a un giudice, questi dovrà valutare la “non scarsa importanza” dell’inadempimento ai sensi dell’art. 1455 del c.c..
Infatti, come ha chiarito la giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. II, sentenza 04/09/2014, n. 18696), “l'intimazione da parte del creditore della diffida ad adempiere, di cui all'art. 1454 cod. civ., e l'inutile decorso del termine fissato per l'adempimento non eliminano la necessità, ai sensi dell'art. 1455 cod.civ., dell'accertamento giudiziale della gravità dell'inadempimento in relazione alla situazione verificatasi alla scadenza del termine ed al permanere dell'interesse della parte all'esatto e tempestivo adempimento”.
In sede di giudizio potrà essere richiesta anche la restituzione degli importi già versati; sul punto, è vero che, ai sensi dell'art. 1458 del c.c., "la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite": tuttavia, la giurisprudenza ha chiarito (Cass. Civ., Sez. III, 20/10/1998, n. 10383) che per "prestazioni già eseguite" devono intendersi "quelle con le quali il debitore abbia pienamente soddisfatto le ragioni del creditore". Invece, nel caso descritto nel quesito, risulta - quanto meno dalle informazioni fornite - che controparte, nonostante i pagamenti effettuati, non abbia adempiuto alle obbligazioni assunte con il contratto.
Non assume rilevanza nel nostro caso la previsione di una sedicente “clausola risolutiva espressa”, che attribuisce al professionista - e solo ad esso - il diritto di risolvere il contratto “a seguito di qualsiasi inadempimento del Cliente circa le obbligazioni di cui agli articoli V (Obblighi e responsabilità del cliente) e XII (Condizioni di Pagamento) del presente contratto”; si segnala comunque, per l’eventualità in cui la controparte intendesse avvalersene, che una clausola di questo tipo potrebbe essere considerata “clausola di stile”, non idonea a produrre gli effetti della clausola risolutiva espressa previsti dall’art. 1456 del c.c..
Da ultimo, si suggerisce di prestare particolare attenzione alla clausola contenuta all’art. XVI, ai sensi del quale “Qualunque azione giudiziaria derivante dalla fornitura del Servizio dovrà essere iniziata, a pena di decadenza, entro il termine massimo di 3 mesi dal verificarsi del fatto che ha dato origine alla relativa pretesa”; occorre tenere presente, comunque, che ai sensi dell’art. 2965 del c.c. è nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l'esercizio del diritto.

Alessandro C. chiede
giovedì 08/10/2020 - Lombardia
“A marzo 2020 ho richiesto ad un falegname un preventivo per la posa di un cassonetto. Il professionista mi ha sottoposto l'offerta e io ho firmato l'accettazione dell'intervento. A distanza di 7 mesi, non avendo ancora dato la caparra e non avendo (nonostante lo abbia più volte sollecitato) ottenuto una data di intervento, scrivo al professionista richiedendo l'annullamento del preventivo. Potrei essere obbligato a versare una parte della caparra legata alla produzione del cassonetto ? potrebbe in qualche modo il professionista obbligarmi a onorare il preventivo da me accettato ?”
Consulenza legale i 14/10/2020
Il tipo di contratto concluso tra le parti è quello che il codice civile definisce “contratto d’opera”, il quale viene specificatamente disciplinato agli articoli dal 2222 al 2228 c.c.
L’art. 2222 c.c. qualifica come tale quel contratto con il quale una persona (il falegname) si obbliga nei confronti di un’altra persona (il cliente o committente) a compiere verso un corrispettivo una determinata opera o servizio (il cassonetto e relativa installazione), con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del cliente.

Il successivo art. 2223 del c.c. prevede che le disposizioni relative a tale fattispecie contrattuale si applicano anche nel caso in cui il prestatore dell’opera si obblighi a fornire, oltre alla propria opera, anche la materia (nel caso di specie il truciolare con rivestimento in melaminico con cui verrà realizzato il cassonetto).
Nelle norme che seguono a quelle sopra citate, invece, vengono disciplinati alcuni caratteri fondamentali del contratto, come le regole da applicarsi in caso di difformità e vizi dell’opera, le ipotesi di recesso o di impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione della prestazione, mentre nulla viene detto in merito ad aspetti altrettanto rilevanti quali, i tempi di consegna (aspetto di essenziale importanza per il committente) e le modalità di riscossione del pagamento da parte del prestatore.

A ciò può aggiungersi che, nella prassi, quasi mai le parti redigono un vero e proprio contratto che disciplini ogni aspetto del loro accordo, in quanto nella migliore delle ipotesi l’artigiano o il prestatore in genere si limita a redigere un preventivo di spesa per fissare il corrispettivo, che viene poi sottoscritto per accettazione dal committente.
Può perfino accadere che il preventivo non esista affatto e che gli accordi si limitino quindi ad essere verbali, oppure ancora che il preventivo esista, ma che non venga mai sottoscritto dal cliente.

Sembra abbastanza evidente che in situazioni di questo tipo nessuna delle due parti possa essere garantita durante il rapporto e che quindi sia frequente scivolare nel disaccordo e nel conseguente contenzioso anche per lavori di importo esiguo.

Ebbene, in mancanza di alcuna determinazione contrattuale in ordine ai tempi di espletamento dell’attività, il codice civile offre al committente due possibilità.
Da un lato può avvalersi della facoltà di recedere unilateralmente dal rapporto contrattuale ex art. 2227 del c.c.. In tal caso, tuttavia, lo stesso committente sarà tenuto ad adempiere, in via obbligatoria, a tre diverse prestazioni, e precisamente:
  1. rimborsare i lavori eseguiti fino a quel momento, valutandoli secondo il prezzo concordato nel preventivo sottoscritto, a prescindere dall'utilizzabilità dell'opera parzialmente completata, che in ogni caso diviene di sua proprietà;
  2. indennizzare le spese sostenute dal prestatore, ossia quelle non incluse nell'attività fino ad allora posta in essere (sono tali, ad esempio, quelle sostenute per l’acquisto di materiali non incorporati nella parte di opera già eseguita, spese di trasporto, retribuzioni di eventuali ausiliari di cui si è avvalso, rimborso di spese generali e varie);
  3. rimborso del mancato guadagno, ovvero dell'utile netto che l’artigiano avrebbe percepito qualora avesse potuto portare a termine l'opus secondo le previsioni contrattuali (questo sarà pari alla differenza tra il prezzo dei lavori ineseguiti e l'ammontare presunto delle spese necessarie).

Altra possibilità che può riconoscersi al committente è quella di avvalersi dell’ordinario strumento della risoluzione del contratto, ex art. 1453 del c.c., per inadempimento del prestatore.
Infatti, la Corte di Cassazione, Sez. III civ., con sentenza n. 2123 del 29/02/1988 ha affermato che nel contratto d'opera la prestazione di colui che si è obbligato a compiere l'opera non comprende solo lo svolgimento di un'attività lavorativa ma anche la produzione del risultato utile promesso; pertanto, tale prestazione non può ritenersi adempiuta quando, nonostante il trascorrere di un ragionevole periodo di tempo dal conferimento dell'incarico, risulti evidente che il prestatore d'opera, per negligenza o per difetto di preparazione, non abbia raggiunto il risultato pattuito.
In tal caso il prestatore d’opera non avrà diritto al pagamento di un corrispettivo, potendo l'art. 2227 c.c. invocarsi solo in caso di produzione di un risultato (almeno in parte) utile.

Indubbiamente, affinché ci si possa avvalere di questo strumento suggerito (la risoluzione del contratto), è necessario che la stessa sia preceduta da una formale diffida ad adempiere, ossia che il committente adempiente intimi per iscritto (e non solo verbalmente) al prestatore d’opera, ex art. 1454 del c.c., di adempiere alla propria prestazione in un congruo termine (è consigliabile utilizzare una raccomandata con ricevuta di ritorno).
Nella medesima diffida occorrerà manifestare espressamente la propria volontà che, trascorso inutilmente quel termine, il contratto si intenderà risolto di diritto.

Ebbene, analizzando la proposta contrattuale fatta pervenire a questa Redazione, ci si accorge che, seppure scarna, contiene quegli elementi essenziali del contratto d’opera che non vengono disciplinati dal codice, ed in particolare la determinazione, seppure approssimativa, dei tempi di consegna (2/3 settimane lavorative) e le modalità di pagamento (alla consegna a fine lavori).

Considerato che il contratto si è perfezionato con la sottoscrizione per accettazione nel mese di marzo scorso, e dunque in pieno lockdown (in cui è stato impossibile per chiunque svolgere attività lavorativa e rispettare gli impegni contrattualmente assunti), sembra innegabile che dalla ripresa delle attività lavorative siano trascorsi ben più di 2/3 settimane.
Pertanto, si ha tutto il diritto di avvalersi del rimedio della risoluzione contrattuale per inadempimento del prestatore d’opera di cui all’art. 1454 c.c., per la quale è indispensabile una preventiva e formale diffida ad adempiere (con fissazione di un termine non superiore a cinque giorni), non potendo ritenersi sufficiente un semplice invito orale ad adempiere, come si presume sia stato fatto finora.
Trascorso il termine di 5 gg., il contratto potrà ritenersi definitivamente risolto e nulla sarà dovuto al prestatore d’opera.


Raffaele F. chiede
giovedì 23/07/2020 - Puglia
“Salve. Nell'ambito di una morosità locatizia (contratto non abitativo, io locatore) ho agito il 1/5/2020 una risoluzione contrattuale ex art. 1454 cc dopo aver fatto regolare messa in mora (ex art.1219 cc). Nella messa in mora -anche rifacendomi alle preziose indicazioni presenti sul sito brocardi.it- mi sono procurato di argomentare la gravità dell'inadempimento (annosa e persistente condotta inadempiente rispetto ai termini di pagamento quadrimestrali così come evidenziata dalle date di versamento degli assegni e soprattutto da recente scrittura privata in cui il locatario sottoscriveva l'impegno a puntuali versamenti mensili). Il legale che mi segue -premesso che mi sono mosso in modo autonomo fino alla risoluzione- ritiene che la mia azione risolutiva sia in qualche modo viziata e che quindi il contratto è ancora valido (tra l'altro -ora che ci penso- ha qualche giorno fa autorizzato il mio inquilino a farmi un bonifico per la prima mensilità oggetto di morosità e di risoluzione quando forse avremmo dovuto accettarla al più come risarcimento o altra voce). Mi suggerisce dunque -dopo aver organizzato un incontro con il mio inquilino- di fare un nuovo contratto (a condizioni più stringenti) in modo da "sanare" questa situazione risolutiva anomala e attendere tempi "migliori" per agire una più lineare procedura di sfratto per morosità (che non è stato possibile agire in questo caso causa Decreti Covid). Io non concordo con il mio legale che -citando una diffusa prassi giudiziale- disconosce totalmente l'azione risolutoria unilaterale ex art.1454 riconoscendo come legittima solo quella giudiziale o concordata (come nella clausola risolutiva espressa). A mio parere (a) ho agito legittimamente la risoluzione, (b) avrei inoltre diritto ad agire lo sfratto (cioè la morosità resta in piedi anche se ho risolto e inoltre mi sembra di aver capito che ai sensi dell'art. 55 L 392/78 nella locazione non-abitativa il locatario non può adempiere per sanare) oppure (c) dovrei agire un cosiddetto 700 (un giudizio per occupazione sine titulo). Senza entrare oltre nel merito vorrei dunque sottoporre a codesto Ufficio Legale la mia questione unitamente alla documentazione allo scopo di ottenere un parere che mi aiuti a prendere una decisione. In particolare dopo VS lettura della documentazione vorrei una risposta ai seguenti quesiti: (1) se la risoluzione è stata agita da me legittimamente e se potete fornirmi sentenze e materiali utili a sostenerlo in sede giudiziale, (2) se resta il mio diritto di agire lo sfratto (3) se il bonifico fattomi dal mio inquilino 2 giorni fa ad inficiare in qualche modo le mie ragioni/posizione giuridica e se devo/posso fare qualcosa per rimediare (mandarlo indietro con nota, ecc...). In attesa di istruzioni per inviare documentazione e per Vs competenze saluto cordialmente. Raffaele F.”
Consulenza legale i 28/07/2020
La diffida ad adempiere disciplinata dall’art. 1454 del c.c. è l’istituto giuridico che più entra in gioco nel momento in cui la nostra controparte a cui siamo legati da un rapporto contrattuale non adempie alla sua prestazione. Il caso che è stato illustrato nel quesito è, purtroppo, molto frequente: il conduttore non paga i canoni di locazione mensili e quindi il proprietario contesta il mancato pagamento, assegna al proprio debitore un congruo termine entro cui regolarizzare lo scoperto e trascorso tale termine il contratto ex art. 1454 del c.c. deve considerarsi senz’altro risolto.
Anche se la diffida ad adempiere è un tipo di lettera molto comune che può essere anche predisposta senza l’ausilio di un legale, essa è un atto che va redatto con cognizione di causa, ed assolutamente consigliabile rivolgersi comunque ad un professionista per evitare di cadere in classici errori di chi è poco avvezzo alla materia: cosa che è puntualmente avvenuta nel caso di specie.

Nel momento in cui si redige una diffida ad adempiere la comunicazione deve essere estremamente stringata, e devono sostanzialmente risultare con chiarezza tre importanti elementi: la contestazione del mancato pagamento del debito (in questo caso i canoni di locazione rimasti impagati), l’assegnazione al debitore di un congruo termine entro cui regolarizzare l’insoluto e, infine, la cosa più importante: la chiara manifestazione di volontà che trascorso il predetto termine assegnato il contratto deve considerarsi risolto ai sensi dell’ art. 1454 del c.c. Altro non deve essere scritto. Nella corposa corrispondenza che si è intrattenuta con la controparte, la chiara manifestazione di volontà di risolvere il contratto si è persa in un “fiume di inchiostro” in cui ci si dilunga a descrivere la bontà di varie soluzioni transattive che non hanno fatto altro che implicitamente rimettere nei termini il debitore, aspetto che in caso di contenzioso sicuramente potrebbe essere sfruttato da un abile legale.

È giusto chiarire che chi scrive non è assolutamente contrario alle proposte transattive, anzi, ma è giusto che la stesura e la modalità di esternarle alla controparte sia affidata ad un professionista. Per fare un esempio, durante un contenzioso sovente i legali delle parti coinvolte intrattengono una fitta corrispondenza scritta in cui vengono illustrate varie ipotesi transattive, che, ovviamente, prima di essere presentate alla controparte devono essere discusse con i propri clienti. Vi è un fatto importante però: per precise disposizioni deontologiche, le comunicazioni tra legali non possono essere prodotte in giudizio dall’avvocato che ne è destinatario, e il farlo comporterebbe per quest’ ultimo delle gravi conseguenze professionali. Ciò comporta nei fatti che il loro contenuto, rimanendo riservato e non producibile, non va a pregiudicare l’azione legale che si è intrapresa o che si andrà ad intraprendere. Tale garanzia di segretezza non può essere riconosciuta alla corrispondenza fatta direttamente dalle parti, la quale potrà essere liberamente prodotta in giudizio e basandosi su di essa è possibile che la difesa della controparte possa sostenere che non vi sia una chiara manifestazione della volontà di risolvere il contratto. Si prenda per esempio la lettera del 21 marzo a cui si fa costante riferimento nella corrispondenza intercorsa: in tale missiva non si evince in maniera chiara e netta una volontà di risolvere il contratto, si dice che seguirà successivamente una dichiarazione di risoluzione (ma quindi il contratto non è stato risolto: il vincolo è ancora in essere!), facendo precedere tutto ciò da un vago invito a trattare. La missiva del 21 marzo doveva già contenere la chiara volontà di risolvere il contratto scaduto il termine assegnato per il pagamento.

A parere di chi scrive si pensa che le perplessità del collega che assiste l’autore del quesito sulla efficacia della diffida inviata, nascano dalla modalità in cui la stessa è scritta più che da una effettiva legittimità di tale tipologia di risoluzione contrattuale, che è largamente utilizzata nella pratica e prevista dal codice civile. Ad onor del vero è anche giusto dire che tutti gli errori redazionali che si sono detti potrebbero essere sanati attraverso una diffida ad adempiere redatta per mezzo di un legale e in maniera tecnicamente corretta.
Al di là di questa premessa, è giusto chiedersi se, stante la situazione di emergenza sanitaria che ancora stiamo vivendo, sia giusto procedere ad uno sfratto per morosità alla luce della normativa emergenziale attualmente in vigore.

In questo senso è giusto rendere conto del fatto che il Decreto "Cura Italia", convertito con la L. n. 27 del 24.04.2020, ha di fatto bloccato l’esecuzione di qualsiasi provvedimento di sfratto per morosità fino alla fine del mese di settembre del 2020, termine che non si esclude possa essere ulteriormente prorogato alla fine del mese di dicembre del 2020 (ma nel momento in cui si sta scrivendo, non ci è ancora certezza di questa ulteriore proroga).
E’ vero che tale disposizione non impedisce di iniziare comunque la procedura per ottenere il provvedimento, ma nei fatti anche questi procedimenti sono bloccati. Stante la situazione di emergenza sanitaria, infatti, negli uffici giudiziari ogni procedimento che non è strettamente urgente è di fatto rinviato d’ufficio, in attuazione di precise circolari emesse dai vertici degli uffici giudiziari stessi, le quali a loro volta attuano quanto prevede la normativa emergenziale. Per fare un esempio pratico, nell’ ufficio giudiziario in cui solitamente opera chi sta scrivendo, le udienze dei procedimenti di sfratto iscritti in tale periodo vengono all’oggi rinviate d’ufficio di 4-5 mesi.

Alla luce di quanto detto ci si sente di condividere la linea consigliata dal collega che sta assistendo l’autore del quesito, anche perché una eventuale azione giudiziaria sarebbe all’oggi paralizzata.
In merito all’avvenuto pagamento di alcune mensilità, non si vede il motivo per respingere il pagamento: al di là del fatto che il contratto possa considerarsi risolto o meno, il conduttore ha proceduto legittimamente al pagamento di un debito che era dovuto, anzi il rifiuto dell’offerto pagamento farebbe scattare la mora del creditore disciplinata dagli artt. 1206 e ss. del c.c. Secondo quanto dispone l’art. 1207 del c.c. se il creditore è in mora: è a suo carico l'impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore; non sono più dovuti gli interessi né i frutti della cosa che non siano stati percepiti dal debitore ed infine, il creditore è pure tenuto a risarcire i danni derivati dalla sua mora e a sostenere le spese per la custodia e la conservazione della cosa dovuta.


Marco chiede
giovedì 29/05/2014 - Lazio
“Nel 2012 ho stipulato un contratto preliminare per acquisto di un appartamento mai concluso, e vista l'inerzia del venditore nel voler risolvere la situazione vorrei iniziare una procedura che mi consenta di ottenere la proprietà dell'immobile del quale, nel frattempo sono diventato il possessore materiale. Ciò premesso, sarei del parere di spedire con raccomanda un'intimazione ad adempiere entro 30 giorni, significando che scaduto quest'ultimo termine in maniera infruttuosa è mia volontà adire le vie legali. Nella stessa lettera vorrei anche ricordargli che il prezzo stabilito a causa del mancato rispetto delle parti e tempi contrattuali sarà decurtato dal valore: - dei lavori non ultimati, - del credito d'imposta non goduto, - e di altre spese impreviste imputabili a lui. Detto ciò volevo sapere se decorso il termine fissato nell'intimazione, il contratto si risolve automaticamente per inadempienza e cosa fare dopo: 1. chiedere una esecuzione in forma specifica del contratto per ottenere il trasferimento di proprietà e il pagamento dei danni subiti da decurtare dal prezzo; 2. Chiedere il doppio della caparra confirmatoria di 300000€=600.000. In quest'ultima ipotesi, poiché il proprietario risulta "nullatenente" ma al momento ha 2 appartamenti intestati (di cui uno è quello oggetto di trattazione), come posso fare per ottenere i soldi anche attraverso un eventuale pignoramento? devo inoltre specificare che a complicare la situazione esiste un' ipoteca bancaria su tutti e due gli immobili di proprietà del venditore di circa 200.000 cadauno, cifra ben superiore al residuo che devo ancora pagare. Grazie”
Consulenza legale i 29/05/2014
L'invio di una intimazione ad adempiere differisce nella sostanza da una diffida per la risoluzione.
L'intimazione, ex art. 1219 del c.c., è l'atto con cui il creditore richiede formalmente e con formule imperative l'esecuzione della prestazione: scopo dell'intimazione è quello di costituire in mora il debitore, con gli effetti previsti dalla norma.
Al contrario, la diffida ad adempiere inviata ai sensi dell'art. 1454 del c.c. è la comunicazione formale con cui si dà al debitore un termine per adempiere, decorso il quale il contratto s'intenderà risolto. Decorso il termine previsto dalla diffida, la risoluzione del contratto si verifica ope legis (automaticamente), per cui non è richiesta alcuna pronuncia costitutiva del giudice.

Se si vuole mantenere l'immobile, quindi, è bene fare attenzione nella lettera a non menzionare mai la parola "diffida" o "risoluzione", limitandosi a chiedere l'adempimento dell'obbligo assunto con il contratto preliminare entro un certo termine, senza minacciare la risoluzione del contratto. Difatti, una volta che il debitore abbia ricevuto la diffida ad adempiere ex art. 1454, si ritiene che la volontà di risolvere il contratto non possa più essere revocata: si pregiudicherebbe così il raggiungimento del vero obiettivo, cioè quello di mantenere in vita il preliminare e chiedere che sia concluso il contratto definitivo.

L'azione giudiziale da esercitare trascorso il termine dato per l'adempimento nell'intimazione, è quella di cui all'art. 2932 del c.c., nell'ambito della quale si dovrà domandare:
- che il giudice emetta una sentenza che tenga luogo del contratto definitivo non concluso per colpa dell'inerzia del venditore;
- che il giudice valuti l'esistenza di un danno (nell'importo indicato dall'attore-acquirente, che deve provare di aver subito un pregiudizio) e condanni il convenuto-venditore a risarcirlo, nella somma che riterrà dimostrata in giudizio;
- che siano rifuse le spese di lite all'attore.

La restituzione del doppio della caparra confirmatoria non può essere invece richiesta assieme alle altre domande sopra indicate, per le seguenti ragioni.
La caparra consiste in una somma di denaro (o cose fungibili) che viene immediatamente consegnata alla controparte al momento della stipula del contratto. Essa ha principalmente la funzione di determinare preventivamente il danno economico subito dalla parte a causa dell'inadempimento dell'altra.
La caparra va restituita (in misura doppia) laddove la parte non inadempiente abbia esercitato, in conseguenza del grave inadempimento dell'altra, il recesso dal contratto: recesso, che comporta l'obbligo per il promissario acquirente di restituire l'immobile, cosa che invece è estranea al suo obiettivo.
Tutt'al più, la giurisprudenza ha ritenuto che, qualora venga chiesta in giudizio l'esecuzione del contratto e il risarcimento del danno, la caparra possa essere trattenuta in funzione di garanzia dell'adempimento dell'obbligazione risarcitoria (Cass. civ. n. 11356/2006): nel caso di specie, però, il promissario acquirente non è in possesso della caparra, e quindi tale funzione di garanzia non può trovare applicazione.

La soddisfazione del credito riguarda un momento successivo al giudizio di cognizione. Supponendo che il venditore venga condannato al risarcimento del danno in misura superiore al residuo di prezzo che dovrebbe ricevere (fino al quale il giudice potrebbe operare una compensazione), l'acquirente-creditore riuscirà ad ottenere soddisfazione sul secondo immobile di proprietà del debitore solo se:
- il credito per il quale venne iscritta l'ipoteca sia stato in buona parte estinto (ad es., nel caso di mutuo, siano state pagate quasi tutte le rate);
- l'immobile abbia comunque un valore di realizzo al momento della vendita per incanto tale da soddisfare prima il credito residuo della banca e poi il suo.
Per importi fino ad alcune migliaia di euro, è forse preferibile tentare altri tipi di pignoramento (più economici e rapidi di quello immobiliare, che può durare svariati anni) come quello del conto corrente bancario o di beni mobili del debitore.

Giulia chiede
mercoledì 21/12/2011 - Veneto
“Che rapporto c'è tra l'atto di costituzione in mora ex art.1219 e la diffida ex art.1454? Da come sono formulati i due articoli sembra che, intimando il debitore ad adempiere entro un certo termine, si tratti al tempo stesso sia di diffida che di costituzione in mora.”
Consulenza legale i 02/01/2012

La costituzione in mora è un sollecito che il creditore rivolge al debitore affinché questi adempia la propria prestazione. Dalla costituzione in mora del debitore, la legge fa scaturire alcuni effetti a beneficio del creditore:
- l'inizio della decorrenza degli interessi moratori, nella misura dell'interesse legale, se non diversamente pattuiti;
-l'interruzione del termine di prescrizione;
-l'obbligo in capo al debitore di risarcire l'eventuale danno
- nonché il passaggio del rischio che la prestazione divenga impossibile in capo al debitore.

Vi sono casi in cui in cui la costituzione in mora è automatica, come nelle ipotesi espressamente previste ex art. 1219 c.c. n. 1,2 e 3, cioè quando l'inadempimento deriva da un fatto illecito, quando la controparte ha dichiarato per iscritto di non voler eseguire la prestazione o quando è scaduto il termine in caso di prestazione da eseguire al domicilio del creditore.

La diffida ad adempiere, invece, richiede la volontà espressa di produrre l'effetto giuridico della risoluzione del contratto in caso di protrazione dell'inadempimento dell'altra parte. Il contraente adempiente intima all'altra parte di adempiere entro un determinato termine, oltrepassato il quale automaticamente il rapporto si scioglie in virtù della diffida inviata.


Marzio chiede
giovedì 02/12/2010

“Se un coniuge in comunione legale vende da solo un bene della comunione, il contratto è annullabile entro l'anno ex art 184.
Se la controparte è inadempiente e il coniuge contraente fa la diffida ad adempiere entro un termine successivamente scaduto, la successiva disponibilità dell'altro coniuge a convalidare il negozio originario produce qualche effetto sulla effettuata diffida rendendola proveniente da soggetto non unicamente legittimato?”

Consulenza legale i 08/12/2010

La convalida ex art. 184 del c.c., comma 1, da parte del coniuge che non ha partecipato al negozio concluso dall’altro coniuge non ha effetti invalidanti sulla diffida inviata da quest’ultimo. Al contrario, rende la diffida legittima perché la vendita è valida e non più annullabile. Ciò perché l’istituto della convalida ha la finalità di sanare un atto invalido, cioè carente di un suo presupposto di validità al momento della sua stipulazione.
Essendo il terzo contraente inadempiente, i coniugi potranno esperire le azioni più opportune per vedere riconosciute le proprie pretese.


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