Corte cost. n. 179/2021
La sentenza 179/2021, emessa a seguito di un giudizio in via principale dello Stato nei confronti della Regione Marche, si concentra sul tema dell’organizzazione sanitaria con riferimento alla competenza statale in tema di tutela della salute. La questione ha una discreta rilevanza, poiché affronta il tema della “struttura sanitaria” in un sistema in cui l’organizzazione dei servizi resi al cittadino è estremamente diversificata da territorio a territorio in ragione della distribuzione costituzionale delle competenze stato/regioni. Si delinea perciò una centralità del legislatore regionale che può far parlare di veri e propri modelli di sanità regionali distinti, assai diversificati tra loro, producendo un sistema che presenta, com’è noto, vari pregi e limiti.
La questione è divenuta ancor più importante in conseguenza della recente crisi pandemica che ha messo in evidenza – se ancora ve ne fosse bisogno – la necessità di un sistema sanitario che, sebbene differenziato, conservi tratti essenziali comuni, nonché organizzazione e struttura efficienti.
In questo contesto la Corte è chiamata ad esprimersi su un tema centrale, collegato poi non troppo indirettamente con l’efficienza e l’amministrazione di risultato, quello del procedimento di nomina delle figure apicali (direttori di dipartimento delle aziende ospedaliere e dell’azienda unica regionale).
Oggetto degli strali dell’impugnazione statale è l’art. 1 della legge della Regione Marche 9 luglio 2020, n. 30 (Modifica alla legge regionale 20 giugno 2003, n. 13, “Riorganizzazione del Servizio Sanitario regionale”) che, modificando i commi 3 e 4 dell’art. 8 della legge della Regione Marche 20 giugno 2003, n. 13 (Riorganizzazione del Servizio Sanitario regionale), interviene proprio sul procedimento di nomina dei direttori di dipartimento delle aziende ospedaliere e dell’azienda sanitaria unica regionale (ASUR) della Regione Marche, stabilendo che questi debbano essere individuati dal direttore generale tra i dirigenti delle professioni sanitarie delle rispettive aree di competenza.
Disposizione che, preso a parametro l’art.117, comma terzo, Cost., si pone in contrasto, secondo quanto sostenuto dalla difesa statale, con l’art. 17-bis, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che richiede invece che: «[i]l direttore di dipartimento [sia] nominato dal direttore generale fra i dirigenti con incarico di direzione delle strutture complesse aggregate nel dipartimento».
Questa disposizione, evidentemente più restrittiva (ed esigente) rispetto alle qualifiche che devono possedere i soggetti destinati a ricoprire ruoli apicali nell’amministrazione ospedaliera, proprio per i riflessi che ciò può determinare sul livello dei servizi resi dall’amministrazione ospedaliera al cittadino, costituirebbe un principio fondamentale della legislazione statale in materia di «tutela della salute» ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.
A questo proposito, dal punto di vista delle fonti risultano interessanti le deduzioni della Regione Marche che preliminarmente osserva che non tutte le norme statali in materia di organizzazione e gestione delle aziende sanitarie assumono per ciò stesso lo status di principi fondamentali (e dunque inderogabili dalla legislazione regionali) e che, comunque, anche nel caso che la norma debba essere considerata alla stregua di un principio fondamentale della materia la normativa regionale ne potrebbe costituire una interpretazione costituzionalmente orientata; e, soprattutto, ancora la regione asserisce che l’invocata normativa statale è entrata in vigore precedentemente alla riforma del 2001, e dunque nella vigenza di un diverso assetto delle competenze Stato/Regioni (questione questa di evidente interesse sebbene del tutto non affrontata, forse volutamente, nelle considerazioni in diritto espletate dalla Corte). Tutto ciò che potrebbe far concludere, a giudizio della difesa regionale, che “la disposizione statale potrebbe essere qualificata come «norma di dettaglio cedevole», ossia come norma immediatamente efficace e auto-applicativa, ma derogabile dall’intervento successivo del legislatore regionale, proprio perché non costituente principio fondamentale della materia”.
Nell’ambito delle proprie valutazioni la Corte, in via generale, conferma che per propria costante giurisprudenza la disciplina degli incarichi di dirigenza sanitaria rientra nella materia “tutela della salute”, in quanto strettamente collegata alla erogazione di servizi pubblici (e sociali) al cittadino pur in un sistema di sanità differenziato, ed anzi forse proprio anche per questo (v. almeno sentenze n. 129 del 2012; n. 181 del 2006; n. 50 del 2007; n. 371 del 2008).
Dunque, rispetto alle altre amministrazioni pubbliche regolate dal d.lgs. 165/2001 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze pubbliche), la Corte osserva che una più marcata valenza della disciplina di principio generale statale trova peculiare giustificazione proprio in quanto il sistema sanitario, e segnatamente la relativa dirigenza, “opera nell’ambito, estremamente sensibile, dei diritti sociali costituzionalmente garantiti. A questa è richiesta una particolare competenza, non solo professionale e tecnica, ma anche gestionale”.
Nel quadro di tale disciplina, le disposizioni nazionali prevedono che l’organizzazione dipartimentale costituisce lo schema più diffuso e, dunque, il modello organizzativo ordinario. Cosicché l’intersezione delle competenze in materia è andato evolvendosi affinché “il processo di regionalizzazione e di aziendalizzazione del servizio sanitario avviato dal d.lgs. n. 502 del 1992” provvedesse ad “ovviare alle diffuse inefficienze che si erano registrate nell’organizzazione della sanità, “prevedendo l’innesto di criteri imprenditoriali e di moduli aziendalistici nell’organizzazione del servizio pubblico e disegnando un sistema di tendenziale separazione tra politica e amministrazione”.
Proprio quest’ultimo principio si struttura nella scelta discrezionale e, dunque, politica del Direttore generale che tuttavia deve possedere requisiti professionali specifici ed essere iscritto nell’elenco nazionale che individua i soggetti in possesso di tali caratteristiche.
La stessa nomina politica e discrezionale del Direttore generale incontra, per tale via, il limite della necessaria professionalità del nominato; ossia il novero dei nominabili è “controllato” a livello statale.
Partendo da questa medesima ratio, nel sistema disegnato dalla disciplina nazionale, la nomina comunque politica del Direttore generale contempla un ulteriore correttivo, a cascata, per le nomine dei Direttori di dipartimento che questi deve individuare necessariamente non tra i dirigenti generici ma tra i dirigenti con incarico di direzione delle strutture complesse aggregate nel dipartimento (comma 2 dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 502 del 1992):
Dunque, vincoli di competenza e professionalità simili a quelli che concernono la nomina del Direttore generale si riflettono sulle stesse scelte del Direttore generale per i ruoli apicali sottostanti, in modo che nel sistema sia assicurato un adeguato equilibrio tra potere discrezionale di nomina e professionalità della dirigenza sanitaria chiamata a tutelare diritti fondamentali dei cittadini che richiedono un elevato grado di competenze.
A giudizio della Corte che, pertanto annulla la disciplina impugnata, tali requisiti di professionalità costituiscono principio fondamentale per l’individuazione dei ruoli dirigenziali dei dipartimentali sanitari e, dunque, le garanzie sottese alla relativa normativa sono insuscettibili di essere attenuate a livello regionale.
Corte cost. n. 177/2021
La sentenza della Corte costituzionale 177/2021 consegue ad un ricorso in via principale avverso la L.R. Toscana n. 82/2020, in tema di economia circolare e installazione di impianti fotovoltaici.
In particolare, l’impugnazione dello Stato riguardava l’art. 2, commi 1, 2 e 3, della legge della Regione Toscana 7 giugno 2020, n. 82 (Disposizioni relative alle linee guida regionali in materia di economia circolare e all’installazione degli impianti fotovoltaici a terra. “Modifiche alla l.r. 34/2020 e alla l.r. 11/2011), in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, relativamente all’art. 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), nonché al decreto del Ministro dello sviluppo economico 10 settembre 2010 (Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili)”.
Nella sostanza tale normativa e - segnatamente - l’art. 2, comma 1, della legge indubbiata modificava l’art. 9 della legge regionale Toscana 21 marzo 2011, n. 11, recante «Disposizioni in materia di installazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili di energia. Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 39 (Disposizioni in materia di energia) e alla legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio)», mediante l’introduzione di un nuovo comma 1-bis, che prevedeva quanto segue: «[f]atte salve le aree individuate all’articolo 5, nelle aree rurali come definite dall’articolo 64 della legge regionale 10 novembre 2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio) e identificate negli strumenti della pianificazione territoriale e negli altri atti di governo del territorio di cui alla stessa L.R. 65/2014, è ammessa la realizzazione di impianti fotovoltaici a terra fino alla potenza massima, per ciascun impianto, di 8.000 chilowatt elettrici».
L’effetto della norma era quello di introdurre - per le aree rurali - un limite di potenza massimo, superiore a quello definito per legge, e, dunque, il divieto di realizzare in dette zone impianti fotovoltaici di potenza superiore agli 8.000 chilowatt elettrici.
Nello spazio della competenza concorrente “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, la legge regionale in discorso si è posta, in effetti, in contrasto con l’art.12 d.lgs. n.387/2003, attuativo della direttiva 2001/77CE in materia, e con le Linee Guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili (decreto del Ministro dello Sviluppo economico 10 settembre 2010). Il complesso normativo nazionale, al proposito, pur riconoscendo uno spazio di valutazione idoneo a tutelare tutti gli interessi pubblici coinvolti in sede di rilascio dell’autorizzazione unica regionale, non prevede espressamente alcun limite massimo di potenza per gli impianti allocati nelle aree rurali. Peraltro, non è da sottovalutare il fatto che la politica europea di settore si mostra come estremamente favorevole alla diffusione del fotovoltaico, cosa che in astratto contrasta con la previsione di limitazioni non filtrate nel prisma di una valutazione degli interessi pubblici sussistenti nel caso concreto.
Dal punto di vista delle fonti, questo primo profilo di impugnazione consente alla Corte di emarginare la funzione integrativa di norme di principio delle c.d. Linee guida che, provvedono ad esplicitare contenuti tecnici derivanti dalle norme di legge, con l’effetto di poter essere annoverate a pieno titolo tra le norme di provenienza statale (appunto di principio) che le norme regionali non possono contraddire:
Ed, infatti, la Corte proprio rispetto alle Linee guida sottolinea che “in particolare, queste ultime, approvate in sede di conferenza unificata, sono espressione della leale collaborazione tra Stato e Regioni e sono, pertanto, vincolanti, in quanto «costituiscono, in settori squisitamente tecnici, il completamento della normativa primaria» (sentenza n. 86 del 2019). Nell’indicare puntuali modalità attuative della legge statale, le Linee guida hanno «natura inderogabile e devono essere applicate in modo uniforme in tutto il territorio nazionale (sentenze n. 286 e n. 86 del 2019, n. 69 del 2018)» (sentenza n. 106 del 2020)”.
Su questi presupposti la Corte, disattese le controdeduzioni regionali che intendevano il limite degli 8000 chilowatt elettrici non come divieto assoluto ma come specificazione della normativa di principio nazionale, dichiara l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, della L.R. Toscana 82/2020. La Corte, in particolare, censura la norma proprio in quanto vincoli assoluti risultano incompatibili con le norme di principio nazionale anche contenute nelle Linee guida, laddove alle regioni è invece concesso di seguire un procedimento legato al caso concreto dei singoli territori che, a seguito di adeguata istruttoria, possono essere considerati addirittura incompatibili con l’istallazione di impianti fotovoltaici al ricorrere della sussistenza di interessi pubblici che comprovino l’inadeguatezza dei siti individuati. In definitiva, si conferma che alla regione non è concesso di imporre un vincolo generale non previsto nella normativa complessiva nazionale, ma è imposta una riserva di procedimento amministrativo per la valutazione degli interessi pubblici coinvolti nel singolo caso.
Per motivi ancora connessi al rapporto tra fonti la Corte annulla, di conseguenza, anche l’art. 2, comma 2, della legge regionale impugnata che, nella sostanza, introduce, ai fini del rilascio dell’autorizzazione unica per gli impianti a terra di potenza superiore a 1.000 chilowatt elettrici l’obbligatorietà di una “previa intesa con il comune o i comuni interessati dall’impianto”. Tale disposizione viene ritenuta dalla Corte contrastante con la fonte nazionale in quanto costituisce un aggravio procedimentale non contemplato nella disciplina di principio. Nell’ottica della semplificazione amministrativa, difatti, l’art. 12, comma 4, del d.lgs. n. 387 del 2003, nonché l’art. 14.1 delle Linee guida, disegnano, per il rilascio della predetta autorizzazione, un procedimento unico che deve essere svolto interamente in sede di conferenza di servizi.
Sistema di principio che, ontologicamente, confligge con la possibilità di aggravare il procedimento con ulteriori prescrizioni quali appunto l’obbligatorietà di accordi/intese espressi al di fuori del procedimento unico riunito nella conferenza di servizi.
In ultimo, la Corte dichiara fondata anche la terza questione esaminata, relativa all’art. 2, comma 3, della legge reg. Toscana n. 82 del 2020, che prevedeva “l’applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 2 «anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore» della legge regionale recante le disposizioni impugnate”.
Senza entrare nel merito della questione dell’efficacia temporale della normativa impugnata, la Corte osserva che la norma in discorso, limitandosi a regolare sul piano temporale gli effetti delle precedenti norme indubbiate, esprime il loro medesimo contenuto precettivo ed è, dunque, affetta dagli stessi vizi di legittimità costituzionale.
Corte cost. n. 170/2021
La decisione ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate in via principale nei confronti della norma di una legge regionale sarda (art. 1, l.r. Sardegna n.17/2020) che ha prorogato disposizioni regionali derogatorie in materia di governo del territorio e di pianificazione paesaggistica. Più precisamente, le questioni rigettate si incentravano sulla previsione di una deroga alla pianificazione paesaggistica e all’obbligo di pianificazione congiunta, censurata in riferimento all’art. 3 dello Statuto speciale e agli artt. 9, 117, secondo comma, lettera s), e 120 Cost. A giustificarne la segnalazione è ciò che la Corte osserva con riguardo a un profilo processuale, vale a dire al modo in cui deve essere motivata l'impugnazione di una norma che disponga la proroga di una disciplina derogatoria, come quella in esame. Nel caso di specie, essa rimprovera allo Stato ricorrente di non aver ricostruito il quadro normativo (con riferimento al legame fra la disciplina derogatoria originaria, prorogata, e la norma prorogante) come sarebbe stato invece necessario a questo scopo: di qui la pronuncia di inammissibilità.
Le osservazioni al riguardo sono contenute nella sezione 5 del Considerato in diritto. Qui, dopo aver ribatito che, secondo la sua costante giuriprudenza, «l’esigenza di un’adeguata motivazione a fondamento dell’impugnazione si pone in termini ancora più rigorosi nei giudizi proposti in via principale rispetto a quelli instaurati in via incidentale» (come affermato in particolare nella sentenza n. 20 del 2021), la Corte illustra le ragioni per le quali ritiene che il ricorrente non abbia ottemperato al conseguente «onere [...] di suffragare le ragioni del dedotto contrasto [fra la norma impugnata e i parametri costituzionali di cui denuncia la violazione] con una argomentazione non meramente assertiva, sufficientemente chiara e completa».
Nel dettaglio, «l’impugnazione concerne una disposizione che proroga, facendo seguito ad altre proroghe, la vigenza di precedenti disposizioni», ma «la difesa statale si limita a passare in rassegna la successione delle proroghe delle previsioni a partire dalla legge reg. Sardegna n. 8 del 2015, fino a quella sancita dalla normativa impugnata». Tuttavia, soltanto «la disamina del contenuto delle disposizioni prorogate [...] avrebbe potuto dimostrare l’eventuale conflitto con la pianificazione paesaggistica», mentre «il mero richiamo all’elemento temporale non è sufficiente a illustrare il senso e il fondamento delle censure».
Ciò dipende dal fatto che la disposizione di proroga «rivela il suo contenuto precettivo nell’interazione con le previsioni cui si raccorda, nel differirne il termine di vigenza»: sicché «una considerazione dell’ultima modificazione, avulsa dalla complessa trama normativa in cui si colloca, non consente di far luce sui profili di illegittimità costituzionale di una disciplina che, nell’avvicendarsi delle proroghe, si presenta unitaria e inscindibile».
La lesione della sfera di competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, «che il ricorrente riconnette al mero perdurare di una disciplina transitoria [...] deve essere valutata con riguardo alla normativa originaria, di volta in volta prorogata, e non può essere esclusa soltanto sulla base della sua temporaneità»: in altri termini, «si può ravvisare un carattere lesivo della proroga, con riguardo alle attribuzioni legislative dello Stato, solo se tale carattere sia insito anche nella disposizione differita nel suo termine iniziale di efficacia».
In ragione del fatto che «sul contenuto delle disposizioni oggetto di proroga, che si saldano a quelle impugnate, il ricorrente non offre, invece, ragguagli di sorta e si limita a evidenziare che si tratta di una disciplina derogatoria, dapprima applicabile per un arco temporale limitato» e altresì in ragione dell’ulteriore considerazione per cui un’accurata ricostruzione del quadro normativo sarebbe stata ancor più necessaria alla luce tanto del carattere eterogeneo delle previsioni prorogate, contraddistinte da molteplici e dettagliati presupposti applicativi, quanto del susseguirsi di interventi legislativi che ne hanno via via mutato il contenuto», si giustifica la pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione per il difetto di un’adeguata motivazione del ricorso.
Corte cost. n. 160/2021
Con la sentenza n. 160 del 2021 la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 8, comma 6, della L. Reg. Sicilia n. 5 del 2019, nella questione promossa in merito all’art. 14, lett. n), dello Statuto speciale, in quanto, «introducendo il silenzio assenso sulla domanda di autorizzazione paesaggistica, quest[a] disposizion[e] contrasterebbe[…] con la disciplina dettata dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), e dal d.P.R. n. 31 del 2017», disciplina che esprime norme da qualificare come “grandi riforme economico-sociali in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.
Nello specifico, l’art. 146 del c.d. Codice dei beni culturali rimetteva ad un regolamento di delegificazione la definizione di procedure semplificate per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per interventi di lieve entità. Tali procedure sono state, successivamente, definite dal d.P.R. n. 31 del 2017, il quale, all’art. 11, ha altresì stabilito «le conseguenze della mancata espressione da parte del soprintendente del parere vincolante nei termini fissati al comma 5» del medesimo articolo.
Il d.P.R. citato stabiliva, inoltre, all’art. 13, che le Regioni a statuto speciale dovevano adeguare la propria legislazione alle sue disposizioni, in quanto attinenti «alla tutela del paesaggio, ai livelli essenziali delle prestazioni amministrative, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, nonché della natura di grande riforma economico sociale».
La Regione Siciliana ha operato il suddetto adeguamento mediante la citata legge n. 5 del 2019, tuttavia, il modello procedimentale da essa delineato si discosta da quello stabilito dall’art. 11 del d.P.R. n. 31 del 2017, attribuendo alla «“Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali” competente per territorio (art. 8, comma 1) la definizione del procedimento semplificato, con provvedimento da adottare “entro il termine tassativo di sessanta giorni dal ricevimento della domanda” (art. 8, comma 4)». Il silenzio assenso assume, così, un significato diverso da quello definito dal legislatore statale; spettando alla Soprintendenza la definizione del procedimento ciò sarebbe incompatibile con la sola necessità di acquisirne un parere endoprocedimentale.
La Corte costituzionale ha costantemente riconosciuto che la conservazione ambientale e paesaggistica rientra nella competenza esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. s), Cost.) e che, nel caso Regioni a statuto speciale siano dotate, sulla base del loro statuto, di una competenza esclusiva in materia, lo Stato conserva il potere «di vincolare la potestà legislativa primaria delle Regioni a statuto speciale, così che le norme qualificabili come ‘riforme economico-sociali’ si impongono al legislatore di queste ultime».
Passando al caso specifico la Corte sottolinea che «sono state espressamente qualificate […] come norme di grande riforma economico-sociale, idonee a vincolare anche le regioni a statuto speciale, le disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio che disciplinano la gestione dei beni soggetti a tutela, e in particolare il suo art. 146». La legge regionale, quindi, «non può prevedere una procedura diversa da quella dettata dalla legge statale, perché alle regioni non è consentito introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, fra i quali rientra l’autorizzazione paesaggistica».
La circostanza che il ricorrente abbia lamentato il contrasto con l’art. 11 del d.P.R. n. 31 del 2017 non muta i termini della questione. Infatti, pur trattandosi di fonte secondaria, inidonea a dettare “grandi riforme economico-sociali”, «essa costituisce senza dubbio espressione dei principi enunciati dalla legge, in particolare dagli artt. 146 e 149 cod. beni culturali, che, come visto, costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale idonee a vincolare anche la potestà legislativa regionale primaria».
La Regione Siciliana ha, quindi, ad avviso della Corte, oltrepassato i limiti della propria competenza in materia di tutela del paesaggio.
Non altrettanto sarebbe avvenuto nella seconda questione sottoposta alla Corte, relativa alla legittimità dell’art. 13 della Legge regionale n. 5 del 2019, che assegna «all’Assessore regionale per i beni culturali e l’identità siciliana il potere di “apportare con proprio decreto specificazioni e rettificazioni agli elenchi di cui agli Allegati A e B, fondate su esigenze tecniche ed applicative, nonché variazioni alla documentazione richiesta ai fini dell’autorizzazione semplificata ed al correlato modello di cui all’Allegato D”». La Corte, infatti, rigetta la questione perché la Regione non avrebbe derogato al regime stabilito a livello statale, ma si sarebbe limitata, nella sua autonomia, a riservare all’Assessore un’attività che la legislazione statale assegna al Ministro della cultura, senza intaccare la circostanza che anche l’Assessore è chiamato a riscontrare le “esigenze tecniche e applicative” nel puntuale rispetto dei vincoli sostanziali della stessa normativa statale.
Corte cost. n. 161/2021
Con ricorso R.G. n. 77 del 2020 il Presidente del Consiglio dei ministri impugnava, davanti alla Corte costituzionale, l’art. 4 della legge della Regione Lombardia 8 luglio 2020, n. 15, il quale consentiva alla Regione di promuovere «protocolli d’intesa con gli Uffici territoriali del Governo finalizzati a potenziare la presenza e la collaborazione con le Forze di polizia nei pronto soccorso e nelle strutture ritenute a più elevato rischio di violenza e assicurare un rapido intervento in loco». Questa avrebbe costituito, ad opinione del ricorrente, «un’indebita ingerenza in materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, quali l’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera g, Cost.) e l’ordine pubblico e sicurezza (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.)».
La Corte costituzionale, con la sentenza in epigrafe, rigetta il ricorso, dichiarando infondata la questione per una serie di argomenti che interessano il piano dei raccordi tra Stato centrale e Autonomie regionali.
Come emerge dalle difese erariali, lo Stato lamentava la circostanza che, attraverso la disposizione impugnata, la Regione avrebbe attribuito “nuovi ed ulteriori” compiti in capo alle Forze di Polizia, compito che spetterebbe in via esclusiva alla competenza dello Stato. Nella sostanza, però, la disposizione si riferiva alla presenza di Forze di Polizia in luoghi di particolare sensibilità, ove svolgono le loro funzioni operatori sanitari, al fine di salvaguardare la sicurezza di tale personale attraverso il rafforzamento di forme di collaborazione tra la Regione e le Forze di Polizia coinvolte.
La Corte osserva come forme di raccordo o di intesa tra Stato, Regioni ed Enti locali in materia di sicurezza siano ampiamente diffuse nella legislazione nazionale. Dopo aver passato in rassegna diversi casi emblematici che partono dagli anni ’80, si sofferma, in particolare, sul decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, il quale ha introdotto «una disciplina organica della cosiddetta sicurezza integrata, da intendersi come “l’insieme degli interventi assicurati dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali”, […] “al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali”».
L’art. 2 del decreto-legge menzionato, inoltre, ha affidato ad un apposito accordo tra i soggetti interessati, da adottare in Conferenza unificata su proposta del Ministro dell’interno, la definizione delle linee generali per il coordinamento dell’attività da svolgere in comune. In attuazione delle summenzionate linee generali, Stato, Regioni e Province autonome possono concludere specifici accordi per la promozione della sicurezza integrata.
A tali forme di “raccordo” sono, quindi, riconducibili i protocolli d’intesa cui fa riferimento la disposizione regionale impugnata che, come la Corte espressamente riconosce, trovano in ogni caso il loro fondamento nella legge statale.
La giurisprudenza costituzionale richiamata è chiara sul punto e, se anche non consente alla Regione di «porre a carico di organi e amministrazioni dello Stato compiti ulteriori rispetto a quelli individuati dalla legge statale», non esclude la possibilità che si instaurino forme di cooperazione in materia di sicurezza tra diversi livelli di governo le quali, fondate su svariate modalità di coordinamento, devono sempre trovare nella legge dello Stato il loro riferimento ultimo (cfr. Sentenze nn. 285 del 2019; 177 del 2020; 236 del 2020).
La Corte conclude, quindi, che «l’art. 4 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2020 non invade indebitamente le prerogative dello Stato in ordine alla disciplina delle forze di polizia, né dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa e del personale, né sotto il profilo funzionale della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza. Le forme facoltative di collaborazione con la Regione discendono direttamente dalle previsioni generali della legge statale sulla sicurezza integrata […] e si mantengono nell’ambito delle “precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico, per migliorare il contesto sociale e territoriale di riferimento” (sentenza n. 285 del 2019)».
Corte cost. n. 151/2021
Con la sentenza n. 151/2021 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile una questione di costituzionalità dell’art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui non prevede un termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio mediante l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione o dell’ordinanza di archiviazione degli atti. L’ordinanza del giudice a quo lamentava l’incompatibilità di questa previsione con gli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost.: il fatto che l’autorità competente possa emettere il provvedimento sanzionatorio anche a notevole distanza di tempo dall’accertamento dell’illecito e dalle deduzioni difensive dell’incolpato darebbe luogo a un contrasto coi principi d’imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, oltre che con la tutela del legittimo affidamento e col principio di eguaglianza. Né; aggiunge il giudice rimettente, si potrebbe pensare di applicare l’art. 2 della legge n. 241/1990 per soddisfare l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.
La Corte osserva che il procedimento sanzionatorio regolato dalla legge n. 689/1981 si articola in due fasi distinte: la prima è deputata all’acquisizione di elementi istruttori, mentre la seconda ha natura in senso lato contenziosa e decisoria. Nella prima fase, l’art. 14 della legge n. 689/1981 prevede che la contestazione dell’illecito debba essere effettuata entro 360 giorni dall’accertamento. Per contro, il legislatore non ha previsto un termine per la conclusione della fase decisoria; residua, volendo, solo il termine di prescrizione quinquennale del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative, previsto all’art. 28 della medesima legge. La Corte rileva inoltre che in alcune normative settoriali il legislatore ha previsto sia un termine prescrizionale sia un termine decadenziale, entro il quale dev’essere emesso il provvedimento sanzionatorio; talora, poi, è la stessa autorità competente a determinare in via regolamentare un termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio.
Il tema della certezza – intesa come prevedibilità temporale delle conseguenze dell’esercizio dei pubblici poteri – assume una valenza peculiare nel procedimento sanzionatorio, tale da distinguerlo dal procedimento amministrativo generale. Come si può desumere dalla giurisprudenza costituzionale, in materia di sanzioni amministrative il principio di legalità impone non solo la predeterminazione legislativa di rigorosi criteri di esercizio del potere, della configurazione della norma di condotta, della tipologia e misura della sanzione e della struttura di eventuali cause esimenti, ma deve definire anche la formazione procedimentale del provvedimento, anche con riguardo alla scansione cronologica dell’esercizio del potere. Si tratta di tutelare l’interesse soggettivo alla tempestiva definizione della propria situazione giuridica di fronte alla potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, ma anche l’esercizio effettivo del diritto di difesa, che richiede che la conclusione del procedimento non risulti distante nel tempo dal momento dell’accertamento e della contestazione dell’illecito.
A fronte di queste considerazioni, la sola previsione di un termine di prescrizione del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative si ripercuote negativamente sull’esigenza di contenere nel tempo il protrarsi della situazione d’incertezza connessa alla contestazione di un illecito amministrativo.
La questione di costituzionalità risulta inammissibile in mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata: l’omissione legislativa denunciata dal giudice rimettente, che ha correttamente rilevato l’esistenza di un ingiustificato privilegio dell’autorità titolare della potestà punitiva, non può essere sanata dal giudice delle leggi, ma presuppone una valutazione – “ineludibile” e necessariamente “tempestiva” – che può essere compiuta soltanto dal legislatore.