Nel caso esaminato dalla Cassazione, un soggetto aveva agito in giudizio al fine di vedersi riconosciuto il diritto ad usufruire della reversibilità della pensione di inabilità della quale era titolare la convivente.
A seguito del decesso della compagna, infatti, l'uomo aveva presentato relativa domanda all’INPS, la quale, tuttavia, non era stata accolta.
Il Tribunale, pronunciatosi in primo grado, aveva parimenti rigettato la domanda proposta in sede giudiziale e tale sentenza era stata confermata, altresì, dalla Corte d’appello, rilevando che “l’attuale sistema previdenziale non prevede una pensione di reversibilità in favore del convivente”.
Veniva proposto, dunque, ricorso in Cassazione.
Secondo il ricorrente, in particolare, il giudice avrebbe dovuto “in armonia con lo sviluppo sociale e nel rispetto dei parametri costituzionali”, oltrepassare ciò che non era specificamente previsto dalla normativa vigente, “offrendo a tutti gli individui forme di tutela e garanzia nel godimento dei diritti e nell’esplicarsi dei doveri, anche in virtù dell’obbligo costituzionale di interpretazione conforme dell’ordinamento nazionale ai principi internazionali richiamati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nella lettura fornitane dalla Corte Europea di Strasburgo, il cui rispetto è imposto dall’art. 117 della Costituzione”.
Di conseguenza, in base alla normativa vigente in materia di famiglia (legge n. 54 dell’8/2/2006 in materia di separazione dei genitori e di affidamento condiviso dei figli, artt. 330, 342 bis e 417 cod. civ., l’art. 4 della legge n. 53/2000, art. 30 della legge n. 354/1975, art. 815 cod. proc. civ.), “non sussisterebbe alcuna ragionevole giustificazione in base alla quale l’assegno di reversibilità dovrebbe essere riconosciuto al coniuge legittimo e non al convivente ‘more uxorio” che avesse intrapreso una relazione stabile e duratura, fondata sull’affetto reciproco e sulla continua assistenza morale e materiale”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, evidenziando come i giudici dei precedenti gradi di giudizio non fossero incorsi in alcuna violazione di legge nel rigettare la domanda proposta.
Lo stesso ricorrente, infatti, non aveva lamentato una “violazione di legge”, ma semplicemente il fatto che i giudici “non si sarebbero posti il problema di interpretare nel loro insieme le norme sopra indicate, che a giudizio del ricorrente avrebbero potuto fare da supporto alla domanda, al fine di accertare la fondatezza della pretesa azionata in giudizio”.
In sostanza, dunque, secondo la Corte, il ricorrente avrebbe lamentato solo il fatto che i giudici non avrebbero “adeguatamente esercitato il loro potere interpretativo in ordine alle disposizioni di legge che a suo giudizio delimitavano l’ambito normativo in cui poter ricercare le ragioni della fondatezza della domanda (…), senza indicare, tuttavia, quale sarebbe stato l’errore dai medesimi commesso nel seguire il ragionamento interpretativo logico-giuridico che li aveva indotti a ritenere infondata la domanda”.
Evidenziava la Cassazione, in proposito, come la Corte d’appello avesse “chiaramente affermato che l’attuale sistema previdenziale non prevede una pensione di reversibilità in favore del convivente more uxorio e che la convivenza rileva nel nostro ordinamento ad altri fini, aggiungendo che il rispetto dell’art. 29 della Costituzione, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, impedisce un’assimilazione totale tra il convivente more uxorio ed il coniuge, cui solo compete la pensione di reversibilità in virtù di un effettivo rapporto giuridico preesistente”.
Secondo la Cassazione, inoltre, non aveva rilevanza nemmeno il fatto che fosse entrata in vigore la legge n. 76 del 20 maggio 2016, che regolamenta le unioni civili, in quanto “tale nuova normativa, valida solo per il futuro, non prevede in favore del convivente “more uxorio” la pensione di reversibilità, a differenza dell’ampia previsione dei trattamenti riconosciuti al ventesimo comma dell’art. 1 alla parte della “unione civile” disciplinata nelle forme previste dalla stessa legge”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal ricorrente, condannando il medesimo al pagamento delle spese processuali.