AUTORE:
Giuseppe Buro
ANNO ACCADEMICO: 2022
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Universitą degli Studi della Campania
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Il complesso rapporto che, da oltre mezzo secolo, lega indissolubilmente il nostro ordinamento giuridico a quello elaborato dalla fonte della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, si è ridestato dal proprio stato di “quiescenza” solo negli ultimi decenni, a seguito di un reiterato incontro tra le filosofie, i principi ed i modus operandi propugnati dalle rispettive Corti, sollecitato dalla convergenza delle molteplici istanze avanzate dai cittadini italiani sul terreno di tutela comune rappresentato dai diritti fondamentali.
Tuttavia, l’effettiva percezione del prezzo che, in termini di indiscussa sovranità legislativa e giurisprudenziale, si potesse pagare con la progressiva apertura alle ingerenze sovranazionali ha spostato – quasi fisiologicamente, a strenua difesa della propria “cittadella costituzionale” - gli equilibri verso una latente riluttanza del legislatore interno nel trovare parole di favore, spazi individuabili per accogliere e trasporre efficacemente il dictum prodotto da Strasburgo.
La stratificazione sorta dagli incrementi di tutele apportate dall’adesione alla CEDU ha difatti generato una nuova organizzazione delle fonti, oggi nota ai più come “multilivello”, dalla quale si è però messo in moto un articolato processo di compenetrazione che – stante la siccità normativa tuttora perdurante sul punto – ha rimesso alla giurisprudenza il ruolo di primario riorganizzatore di questo “sistema di sistemi”, servendosi così delle innumerevoli controversie sottoposte al vaglio dei giudici europei per instaurare un “dialogo tra le Corti” tanto con la Consulta quanto con la Suprema Corte.
Proprio dalla considerazione delle difficoltà, talvolta meramente applicative, talaltre filosofico-interpretative, che non di rado hanno accompagnato questo tortuoso e non ancora concluso processo di integrazione, prende le mosse l’obiettivo precipuo di questo elaborato, consistente nel tentativo di osservazione analitica del quadro sinora delineatosi, alla luce di una potenziale rivisitazione delle posizioni di diniego che l’ordinamento italiano ha assunto nei confronti delle istanze presentate dai c.d. “fratelli minori” dell’ormai storico processo a carico di Bruno Contrada.
Invero, al di là delle più disparate e tralatizie opinioni che su questa annosa fattispecie processuale possano sorgere, ciò che realmente attrae il focus della trattazione è rappresentato dalla riflessione oggettiva e distaccata che deve instaurarsi intorno alle dinamiche, ai meccanismi che – evidentemente in via spesso farraginosa, come meglio si potrà notare in seguito – in varia misura hanno concorso a fondare l’atteggiamento di refrattarietà dell’ordinamento statale a fronte dei tentativi di imputati che, versando in posizioni processuali analoghe rispetto a quella del ricorrente tornato vittorioso da Strasburgo, ne richiedevano alla giurisprudenza interna una applicazione estensiva degli effetti da ciò derivanti.
Per poter effettivamente discutere della sussistenza di condizioni capaci di invertire il segno di queste prese di posizione, difatti deponendo a favore di chi invochi dall’interprete nazionale l’individuazione di uno strumento che possa dar concreto seguito alla pronuncia europea, risulta però necessario cominciare con il districarsi sull’angusto terreno del riconoscimento e della conseguente trasposizione interna della fonte convenzionale, così come recepita con l’adesione siglata dallo Stato Aderente. Varcata la soglia, appena dopo aver riconosciuto nelle famose “sentenze Gemelle” del 2007 la chiave di volta per l’assestamento assiologico del parametro EDU, si renderà cruciale il passaggio che dapprima illustrerà la delicatezza dalla messa in discussione del dogma di “intangibilità del giudicato” e, successivamente, giungerà a profilare i tratti caratterizzanti una figura processuale di matrice sovranazionale che – seppur ad oggi appaia ancora esposta a qualche revisione tecnica - limpidamente restituisce l’immagine dell’archetipo di uno strumento atto a consentire la piena espansibilità interna del dictum sovranazionale promulgato su casi analoghi: la c.d. “sentenza pilota”.
In ultima analisi, per riallacciarsi ciclicamente al fine ultimo sopra esposto, diverrà efficace l’analisi generale sulla figura incriminatrice del concorso esterno in associazione mafiosa, così setacciando l’ingente produzione giurisprudenziale e dottrinaria che negli anni si è profusa sull’argomento in questione, traendo dalle evidenti incongruenze il quid pluris utile a perorare l’orientamento sulla potenziale estensibilità delle conseguenze della sentenza EDU del 2015 ai propri “fratelli minori”.
Tuttavia, l’effettiva percezione del prezzo che, in termini di indiscussa sovranità legislativa e giurisprudenziale, si potesse pagare con la progressiva apertura alle ingerenze sovranazionali ha spostato – quasi fisiologicamente, a strenua difesa della propria “cittadella costituzionale” - gli equilibri verso una latente riluttanza del legislatore interno nel trovare parole di favore, spazi individuabili per accogliere e trasporre efficacemente il dictum prodotto da Strasburgo.
La stratificazione sorta dagli incrementi di tutele apportate dall’adesione alla CEDU ha difatti generato una nuova organizzazione delle fonti, oggi nota ai più come “multilivello”, dalla quale si è però messo in moto un articolato processo di compenetrazione che – stante la siccità normativa tuttora perdurante sul punto – ha rimesso alla giurisprudenza il ruolo di primario riorganizzatore di questo “sistema di sistemi”, servendosi così delle innumerevoli controversie sottoposte al vaglio dei giudici europei per instaurare un “dialogo tra le Corti” tanto con la Consulta quanto con la Suprema Corte.
Proprio dalla considerazione delle difficoltà, talvolta meramente applicative, talaltre filosofico-interpretative, che non di rado hanno accompagnato questo tortuoso e non ancora concluso processo di integrazione, prende le mosse l’obiettivo precipuo di questo elaborato, consistente nel tentativo di osservazione analitica del quadro sinora delineatosi, alla luce di una potenziale rivisitazione delle posizioni di diniego che l’ordinamento italiano ha assunto nei confronti delle istanze presentate dai c.d. “fratelli minori” dell’ormai storico processo a carico di Bruno Contrada.
Invero, al di là delle più disparate e tralatizie opinioni che su questa annosa fattispecie processuale possano sorgere, ciò che realmente attrae il focus della trattazione è rappresentato dalla riflessione oggettiva e distaccata che deve instaurarsi intorno alle dinamiche, ai meccanismi che – evidentemente in via spesso farraginosa, come meglio si potrà notare in seguito – in varia misura hanno concorso a fondare l’atteggiamento di refrattarietà dell’ordinamento statale a fronte dei tentativi di imputati che, versando in posizioni processuali analoghe rispetto a quella del ricorrente tornato vittorioso da Strasburgo, ne richiedevano alla giurisprudenza interna una applicazione estensiva degli effetti da ciò derivanti.
Per poter effettivamente discutere della sussistenza di condizioni capaci di invertire il segno di queste prese di posizione, difatti deponendo a favore di chi invochi dall’interprete nazionale l’individuazione di uno strumento che possa dar concreto seguito alla pronuncia europea, risulta però necessario cominciare con il districarsi sull’angusto terreno del riconoscimento e della conseguente trasposizione interna della fonte convenzionale, così come recepita con l’adesione siglata dallo Stato Aderente. Varcata la soglia, appena dopo aver riconosciuto nelle famose “sentenze Gemelle” del 2007 la chiave di volta per l’assestamento assiologico del parametro EDU, si renderà cruciale il passaggio che dapprima illustrerà la delicatezza dalla messa in discussione del dogma di “intangibilità del giudicato” e, successivamente, giungerà a profilare i tratti caratterizzanti una figura processuale di matrice sovranazionale che – seppur ad oggi appaia ancora esposta a qualche revisione tecnica - limpidamente restituisce l’immagine dell’archetipo di uno strumento atto a consentire la piena espansibilità interna del dictum sovranazionale promulgato su casi analoghi: la c.d. “sentenza pilota”.
In ultima analisi, per riallacciarsi ciclicamente al fine ultimo sopra esposto, diverrà efficace l’analisi generale sulla figura incriminatrice del concorso esterno in associazione mafiosa, così setacciando l’ingente produzione giurisprudenziale e dottrinaria che negli anni si è profusa sull’argomento in questione, traendo dalle evidenti incongruenze il quid pluris utile a perorare l’orientamento sulla potenziale estensibilità delle conseguenze della sentenza EDU del 2015 ai propri “fratelli minori”.