Controversie sull'art. 1141 del Codice abrogato
L’articolo in esame prende le mosse da quello corrispondente del vecchio codice (1141) con alcuni mutamenti non privi di significato e di importanza.
Già il progetto italo-francese e quello della Commissione Reale 81936) contenevano un articolo che, salvo alcune differenze formali, era identico al testo adottato nel codice vigente.
A proposito di questi mutamenti così si esprime la relazione della Commissione Reale: “La comune interpretazione dell’art. 1141 ritiene che non si possa considerare gestore di affari altrui chi ha gerito un affare che credeva proprio: e il codice germanico dichiara ciò espressamente. Alla Commissione non è sembrato indispensabile una tale dichiarazione, am è sembrato necessario modificare la formula di questi articoli, sostituendo alla equivoca parole “volontariamente” (“quegli che volontariamente si assume ecc.”) la formula “colui che, senza esservi obbligato, assume scientemente l’affare d’altri” ecc. facendo così un espresso richiamo all’animus negotia aliena gerendi”.
Il mutamento deve essere approvato perché, come è noto, la dottrina e la giurisprudenza sono stati spesso discordi nell’intendere l’avverbio “volontariamente”.
Alcuni hanno, infatti, inteso la volontarietà come “l’intenzione di gerire affari altrui”, in armonia con la teoria soggettiva che il codice del ’65 avrebbe accolto facendo posto al requisito dell’animus aliena negotia gerendi. Altri, invece, hanno ritenuto doversi intendere per volontarietà “l’assenza di un vincolo giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto a gerire”, trasformando, quindi, questa volontarietà in un requisito essenzialmente oggettivo. Altri ancora hanno, invece, sostenuto essere la volontarietà requisito che distingue le obbligazioni quasi ex contractu dalle obbligazioni ex lege.
Questa perplessità di interpretazione ha fatto concludere molto radicalmente alla dottrina (Pacchioni) che la volontarietà “non rappresenta che un avanzo atrofizzato e privo di conseguenze di quella teoria quasi-contrattuale che era dominante nel diritto comune ed in Pothier”. Per cui egli conclude che la volontarietà di cui agli artt. 1140 e 1141 del c.c. abrogato debba ritenersi nel senso che “il gestore non può essere considerato tale se non in quanto abbia voluto compiere gli atti di gestione”. La volontarietà, dunque, anche secondo questo autore, andrebbe nettamente distinta dal requisito dell’animus aliena negotia gerendi.
I requisiti della gestione d'affari secondo l'art. 2028
L'articolo in esame costituisce il punto centrale di tutta la teoria della gestione d'affari altrui secondo il nostro diritto positivo. Da esso risultano tre dei principali requisiti che la legge richiede perché possa aversi gestione d'affari altrui; e precisamente:
a) la mancanza di una obbligazione fra gestore e dominus;
b) l'intenzione di gerire un affare altrui;
c) l'alienità del negozio gerito.
Esaminiamo ora partitamente questi singoli requisiti.
La mancanza di una obbligazione fra gestore e dominus negotii
II fatto che la legge richieda che, perché possa esservi gestione di un affare altrui, debba mancare ogni obbligazione fra gestore e dominus negotii, porta innanzitutto a concludere che esula dal concetto dell'istituto ogni gestione che sia fatta in esecuzione di un mandato o in ossequio a un dovere d'ufficio. Non è, ad esempio, gestione di affari altrui, nel senso tecnico del nostro diritto positivo, quella che compie il padre quando, per disposizione di legge, amministra i beni dei figli nati e nascituri (art.3 20 C.C.); nè quella degli affari del minore e dell'interdetto fatta dal tutore (art. 357, 424 C. C.), nè quella che compie il mandatario (art. 1710 e segg. Cod. civ.). Così non costituisce uria gestione di affari altrui in senso tecnico quella di chi gerisce un affare altrui perché connesso necessariamente e inscindibilmente con un affare proprio.
Vi è chi ha ritenuto che non si abbia gestione di affari altrui in senso tecnico neppure quando si sia agito in adempimento di un dovere morale (pietas, humanitas, amicitia). Ma noi riteniamo invece possa concordarsi con coloro che ritengono che il dovere che esclude la gestione è solo un dovere giuridico. Questa tesi, nata sotto il dominio del codice abrogato, è oggi avvalorata, a nostro avviso, dalle parole dell'art. 2028, che col termine « obbligato » fa espresso riferimento ad una obbligazione in senso giuridico.
L'intenzione di gerire un affare altrui: l'animus negotii aliena gerendi nelle opinioni degli studiosi
L'intenzione di gerire affari altrui è il secondo requisito indispensabile perché possa aversi la gestione di affari altrui.
L'esistenza di questo elemento serve a distinguere l'istituto in esame da tutti gli altri casi di gestione senza mandato dell'interessato.
Tale requisito è quello che ha suscitato, sotto l'impero del codice del '65, più accese dispute fra gli studiosi.
Abbiamo già visto nei cenni introduttivi al presente commento come l'esistenza di questo requisito già per il diritto romano abbia dato luogo a serie dispute, poiché i testi della compilazione giustinianea talvolta da esse prescindono, tal'altra fanno invece riferimento ad esso. Ma anche la lettera del codice abrogato ha fatto si che queste dispute non si siano sopite.
Alcuni studiosi hanno così ritenuto che il legislatore del codice deI '65 abbia costruito quasi contratto di gestione ad analogia del contratto di mandato, ed abbia pertanto fondato questo istituto su un incontro presunto della volontà del gestore con quella dell’interessato. Secondo i suoi sostenitori, troverebbe appoggio letterale in alcune espressioni dell'art. 1141, il quale usava per la gestione dei termini essenzialmente contrattuali, quali « contrae l'obbligazione ».
Secondo altri studiosi invece la volontarietà, cui faceva riferimento l'art. 1141 del codice del '65 sarebbe da intendersi non come intenzione di obbligare l'altra parte, ma come intenzione di volere il fatto della gestione, e non le sue conseguenze, per cui le obbligazioni quasi contrattuali potrebbero sorgere anche al di fuori o addirittura contro la volontà di chi ha posto in essere il fatto costitutivo del quasi contratto. Teoria che può, del resto ritenersi esatta per quanto concerne il codice del '65 (quale sia, in questa materia, la posizione assunta dal codice vigente vedremo in seguito) perché le conseguenze obbligatorie del quasi contratto nascono dalla legge, non dalla volontà dell'individuo che vuole solo il fatto in sé, indipendentemente dalle sue conseguenze.
Altri studiosi hanno ritenuto; di fronte alle incertezze che provoca la interpretazione letterale dell'art. 1141, di poter prescindere dal requisito dell'animus negotia aliena gerendi per l'esistenza della gestione d'affari altrui (teoria oggettiva).
Essi non hanno, però, potuto togliere ogni valore al requisito soggettivo ed hanno ammesso la sua influenza in tema di graduazione di responsabilità. Così hanno ritenuto che, nel caso di gestione eseguita con l'animus negotia aliena gerendi (la cosiddetta gestione pura) le obbligazioni dell'interessato sussisterebbero indipendentemente dal fatto che si sia verificato un arricchimento e dalla misura di questo arricchimento, mentre nel caso di gestione eseguita senza questo animo, e quindi per proprio conto, l'obbligazione dell' interessato sussisterebbe solo se vi é arricchimento e nei limiti di questo.
Contro quest'ultima opinione è stato esattamente osservato dal Riccobono che il fatto che il codice del 1865 non regolava nè graduava la responsabilità per il caso della gestione pura e della gestione impura costituiva la prova migliore dell'intenzione di non accogliere la teoria oggettiva.
Così il fatto che il quasi contratto dovesse basarsi su di un fatto « lecito » (art. i140), escludeva la possibilità, sotto l'impero del codice abrogato, di considerare comunque come gestione di affari altrui in senso tecnico quella fatta con « animus depredandi »; e rendeva perciò inammissibile anche la teoria che ripudia la suddivisione fra gestione pura e semplice, riconoscendosi infatti all'animus negotia aliena gerendi una influenza solo ai fini della alienità del negozio, nei casi in cui questa alienità non sia in re ipsa.
Una ulteriore teoria di carattere eclettico era, infatti, sostenuta da parte della dottrina, la quale nega l'unità del nostro istituto, asserendo che, mentre per la concessione dell'actio negotiorum gestorum directa unico requisito necessario é l'alienità dell'affare, per la contraria sono invece richiesti il requisito dell'animus negotia aliena gerendi e quello dell'utiliter coeptum. L’insostenibilità di tale formulazione appare oggi chiaramente, come si vedrà da quanto segue.
L'animus negotia aliena gerendi secondo il codice vigente. Ulteriori precisazioni a questo proposito
Una domanda è ora necessario porsi: i mutamenti formali introdotti nell’art. 2028 del nuovo codice sgombrano il campo dai provocati dal codice abrogato e chiariscono i termini della questione? La cosa non sembra discutibile.
Innanzitutto, l'abolizione della categoria generale dei quasi contratti riduce i punti d'appoggio per la costruzione dogmatica dell'istituto ai soli articoli che riguardano specificamente la gestione d'affari altrui, e fa cadere quelle teorie che, appunto sotto l'influenza della costruzione quasi contrattuale, riconoscevano nell'elemento dell'incontro delle volontà analogia fra il quasi-contratto e il contratto.
Ma può dirsi anche di più. La maggior forza che il nuovo codice ha voluto dare, con la dizione « scientemente » e « senza esservi obbligato », all'elemento spirituale della gestione, e, come avremo modo di rilevare in seguito, i la richiesta nel gestore della capacità di contrattare, fanno cadere senz'altro ogni possibilità di sostenere ancora la teoria obiettiva.
Più deciso riconoscimento della teoria soggettiva, dunque, è il ritorno al romano animus negotia aliena gerendi.
Ma questa conclusione non è sufficiente a determinare l'essenza dell'elemento spirituale della gestione secondo il nuovo codice. Abbiamo visto come, anche fra i sostenitori della teoria subiettiva, non siano mancate le divergenze di opinioni sulla più precisa formulazione dell'elemento spirituale della gestione.
Non pare tuttavia dubbio che, giusta quanto dichiara la Relazione della Commissione reale, l'avverbio « scientemente » dell'articolo in questione debba essere inteso come prescrizione del requisito dell'animus negotia aliena gerendi, cioè che esso debba interpretarsi come « intenzione di gerire un affare altrui ». La sostituzione dell'avverbio « scientemente » al « volontariamente » ha voluto costituire un espresso richiamo al requisito soggettivo inteso nel senso romano. Soprattutto utile è stato distinguere, nel nuovo codice, l'elemento della scienza da quello di assenza di una obbligazione, che nell'avverbio « volontariamente » dell'art. 1141 si trovavano frammischiati divenendo cause di dubbi e di perplessità. La frase « chi senza esservi obbligato, assume scientemente.... » stacca in modo preciso i due elementi: da una parte pone la mancanza di obbligazione, dall'altra l'animus negotia aliena gerendi, scindendo così un elemento essenzialmente oggettivo, da un elemento squisitamente soggettivo.
Ma se la scienza del gerente corrisponde all'animus negotia aliena gerendi, deve nel contempo concludersi che essa non è un qualsiasi elemento generico, comune alla gestione come ad altri negozi, ma è l'elemento soggettivo specifico e determinante della gestione, che distingue l'istituto da altri consimili, che questo elemento soggettivo specifico non hanno.
Ulteriori precisazioni a questo proposito
La determinazione dell'elemento soggettivo dalla gestione non può dirsi, però, a questo punto, ancora completa. Se abbiamo determinato, per così dire, in estensione, che cosa debba intendersi per scienza del gestore, resta ancora da fare di questo requisito un esame più approfondito.
Infatti, quando noi diciamo che, per esservi gestione, è necessaria nel gestore l'intenzione di gerire affari altrui, non abbiamo ancora stabilito se egli si deve limitare a voler gli atti di gestione che effettivamente compie, oppure se la sua scienza si deve intendere come volontà diretta alle conseguenze giuridiche degli atti di gestione.
L’art. 1173 del codice civile esclude questo secondo significato, dato che da esso può evincersi che, nel caso di gestione di affari altrui, l’obbligazione, cioè l’effetto giuridico della gestione, sorge perché la legge ritiene la gestione stessa fatto idoneo a produrlo.
Si ritiene, pertanto, che non sia necessario che il gestore sappia o conosca di contrarre, col fatto della gestione, determinate obbligazioni: la scienza dell’agente deve semplicemente fermarsi al fatto puro e semplice della gestione del negozio.
Conclusioni rispetto all’elemento soggettivo della gestione
Rispetto all'elemento soggettivo della gestione può, pertanto, concludersi:
1) perché vi sia gestione di affari altrui in senso tecnico è necessario che vi sia da parte del gestore l'intenzione di gerire affari altrui, intesa in senso specifico;
2) questa intenzione deve tuttavia limitarsi ai fatti di gestione in se stessi, e non è necessario che si estenda alla volizione delle conseguenze giuridiche alle quali i fatti di gestione danno luogo per sola ed esclusiva volontà della legge.
Chi, pertanto, davanti ad una casa che minaccia rovina, compie, nell'assenza del proprietario e senza esservi obbligato, atti di restauro, deve conoscere l'alienità dell'affare e volere, con i suoi atti, gerire l'affare che sa di altri. Non è però necessario che egli sappia, ad esempio, che l'atto iniziale della gestione lo pone nell'obbligo di continuarla, giusta quanto prescrive l'art. 2028; ed egli non potrebbe, pertanto, eccependo di non aver voluto le conseguenze giuridiche previste dalla gestione, sostenere non esservi gestione nella fattispecie.
È invece da escludersi la gestione nel caso in cui, per continuare nel precedente esempio, chi compie il restauro agisce in esecuzione di un mandato che crede per errore di aver ricevuto o comunque in esecuzione di una precedente obbligazione che crede per errore di aver assunto. Questa erronea credenza esclude, infatti, l'esistenza dell'animus negotia aliena gerendi.
La contemplatio domini
Dall’ esistenza di un animus negotia alieno gerendi discende il problema che i romani chiamavano della contemplatio domini. La considerazione del dominas va intesa, a nostro avviso, nel senso che non solo essa esiste anche se il gestore ha sbagliato nella individuazione del dominus, ma anche se egli, lungi dall'avere un'idea precisa — più o meno esatta — sulla identità del dominas negotii, ha una coscienza affatto generica della alienità dell'affare che gerisce; se sa, in altri termini, che esso non gli appartiene e che egli lo gerisce pertanto per conto di un altro.
Né vale osservare, contro questa conclusione, che il fatto che la legge prescrive che il gestore è tenuto a considerare la gestione e a condurla a termine finché l'interessato, o, in caso di sua morte, gli eredi di lui, non siano in grado di provvedervi direttamente, può far pensare che essa presupponga nel gestore la conoscenza del dominus, unico vero interessato. Come è stato correttamente osservato, la conclusione alla quale abbiamo acceduto è corroborata dal fatto che, anche quando il gestore versa in tale errore, sussiste in lui lo spirito di altruismo, che ha mosso i legislatori ad accogliere l'istituto, ed è suffragata dalla costante tradizione, riallacciantesi ai passi famosi della compilazione giustinianea.
L'alienità del negozio gerito
L'art. 2028, caratterizzando la gestione come l'assunzione. di un affare altrui, pone anche il problema della alienità del negozio gerito.
Un negozio può dirsi in linea generale alieno quando non appartiene a chi lo ha compiuto: alieno, “id est non eius qui gessit”.
Il concetto di alienità implica, però, oltre al dato negativo di non appartenenza del negozio a chi lo gerisce, un dato positivo, e cioè la sua pertinenza a una persona diversa da quella che lo gerisce. Non è quindi concepibile in alcun modo la gestione di un negozio nullius, perché non può sussistere un rapporto quando manchi un termine di esso.
In definitiva si verifica nella gestione di negozio lo stesso fenomeno che caratterizza tutti i casi di esercizio di diritti altrui in forza di una pretese di appartenenza: il soggetto dell'azione è persona distinta dal destinatario agli effetti dell'appartenenza stessa.
Questo vincolo positivo di appartenenza del negozio a persona diversa dal gestore ha, tuttavia, bisogno di essere chiarito. Non sempre il dominus negotii si identifica col dominus proprietatis, cioè col proprietario della cosa, cui la gestione si riferisce. Non è sufficiente, dunque, l'obiettiva appartenenza della cosa a determinare la persona del dominus negotii, ma è necessario invece determinare chi è colui per conto del quale il gestore ha gerito. É, infatti, quest'ultimo elemento, non l'appartenenza oggettiva della cosa, quello che determina il dominas negotii, che può essere il titolare della proprietà, ma può essere anche' persona diversa. Nulla infatti vieta che la gestione sorga per conto di un mandatario, di un depositario, di un creditore pignoratizio, e persone di un altro gestore, i quali saranno pertanto domini negotii anche se la cosa sulla quale la gestione si è esplicata apparteneva obiettivamente ad altri.
Così, le fonti romane fanno l’ ipotesi che un gestore, nel gerire i negozi di Sempronio, abbia gerito involontariamente anche un negozio di Tizio. Papiniano, autore del frammento, decide che, anche per questo affare, il gestore è tenuto verso Sempronio, e ciò ovviamente, perché per il gestore solo Sempronio è il dominus negotii.
L'esempio esaminato in questo frammento ci trae ad un'altra interessante considerazione, e cioè che talvolta è addirittura la direzione della volontà del gestore che determina la persona del dominus negotii. Così nella ipotesi di cosa appartenente ad una persona giuridica o ad un incapace, se il gestore avrà voluto gerire per conto della persona giuridica e dell'incapace questi saranno da considerarsi i domini negotii; se invece il gestore avrà voluta gerire per conto di chi aveva la rappresentanza sarà il rappresentante ad essere il dominus negotii.
La pretesa funzione suppletiva della gestione
Le cose sopradette ci permettono di prendere posizione relativamente ad una controversia che ha agitato la dottrina; circa la delimitazione dei confini entro i quali si muove l'istituto di cui ci occupiamo.
Secondo alcuni, il nostro istituto comprenderebbe tutti indistintamente i casi di gestione di affari altrui non specificatamente regolati dal lesiva. Il legislatore, di modo che l'istituto avrebbe una funzione di natura suppletiva. Secondo altri, esso comprenderebbe, invece, solo alcuni casi di gestione, sarebbe, in altri termini, un istituto di carattere speciale. Pertanto, i primi, l'istituto meno sarebbe caratterizzato da particolari requisiti, che secondo gli altri sarebbero invece indispensabili.
La disputa, nata sotto l'impero del codice abrogato, fu ín special modo provocata, oltre che dalla veramente non molto felice formulazione dell'art. 1141 c.c. ' 65, dalla diversa costruzione data dagli autori alla categoria dei quasi-contratti, dei quali il nostro istituto era un esempio.
Coloro infatti che costruivano quasi contratto a analogia del contratto, e lo basavano sul presunto concorso della volontà delle parti, richiedevano tanto che il gestore avesse l'intenzione di gerire per conto dell'interessato, quanto che la utilità di intraprendere la gestione fosse valutata secondo la volontà reale dell'interessato.
Al contrario, coloro che non vedevano nel quasi-contratto questa analogia col contratto, prescindevano cosa dalla volontà specifica del gestore come da quella del dominus.
L'abolizione della categoria dei quasi-contratti e la decisa precisazione dell'art. 204 e della Relazione riguardo all'animus negotia aliena gerendi, eliminano, a nostro avviso, ogni possibilità di disputa su questo punto. Richiedendo nel gestore perché vi sia gestione di affari altrui, un elemento soggettivo specificamente determinato, l'animus negotia aliena gerendi, oltre due requisiti obiettivi della mancanza di una obbligazione fra gestore e interessato relativa agli affari geriti e l'obiettiva alienità del negozio, il Cod. civ. vigente ha risolutamente fatto della gestione di affari altrui un istituto di carattere speciale, e con funzione propria, che è, per volontà della legge, fonte di obbligazione, indipendentemente da ogni pretesa analogia col contratto.
Naturalmente a questa delimitazione dell'istituto della gestione d'affari, che poteva lasciare abbandonate delle zone senza preciso regime giuridico, ha provveduto il nuovo codice con l'introduzione di una azione generale di arricchimento, nella quale trovano congrua regolamentazione quei casi che sfuggono all'istituto della gestione.
L’obbligo di continuare la gestione
Ma l’art. 2028 riguarda anche, ed anzi in modo specifico e diretto, l'obbligo del gestore di continuare la gestione.
La legge consente l'eccezione al principio generale della inviolabilità della sfera giuridica altrui, ponendo come contropartita un obbligo che tende trarre da questa intromissione ogni migliore utilità.
La ratio della disposizione è chiara.
In verità, perché possano sorgere i rapporti obbligatori tra dominus e gestore occorre che la fattispecie determinativa di tali rapporti sia perfetta; e tale non sarebbe una gestione appena iniziata e poi lasciata incompleta. D'altra parte ciò costituisce una remora per impedire leggere e inconsiderate intromissioni nell'altrui sfera giuridica, poiché il soggetto che intende gerire l'affare è posto in questa alternativa: o si astiene dallo ingerirsi negli affari altrui; o, se lo fa, deve comportarsi con la dovuta diligenza conducendo a termine l'affare. La sanzione a quest'ultimo dovere consiste:
a) nella mancata costituzione di un rapporto obbligatorio qualsiasi fra il dominus e il gestore. Pertanto, quest'ultimo non potrebbe pretendere dal primo il rimborso di spese eventualmente sostenute, nè in base ad una presunta gestione (essendo questa inesistente per incompletezza della fattispecie che. di tale rapporto costituisce fondamento), nè in base all'azione di .arricchimento (perché il patrimonio del dominus non ha avuto alcun arricchimento);
b) nella responsabilità per danni, nell'ipotesi che la gestione interrotta abbia apportato dei danni al patrimonio del dominus.
L’obbligo del gestore di continuare la gestione è fondato, giusto il diritto positivo, sul detto gestorio, non sulle intenzioni del gestore.
Né bisogna confondere e parificare l'obbligo che di gerire ha il mandatario in seguito al mandato, con l’obbligo che ha il gestore in seguito alla gestione assunta, perché mentre quello è fondato sulla medesima del mandatario, da lui espressa nel contratto di mandato, questo è fondato sulla volontà della legge.
L'obbligo dì continuare la gestione si trovava già sancito nell'art. 1141 del Cod. civ., del '65, il quale per questa parte ha subito solo insignificanti mutamenti formali. L'art. 1141 aveva a sua volta tratto quest'obbligo dall’art. 1372 del Cod. civ. francese, che aveva provocato vive discussioni tendenti a determinare la vera portata dell'obbligo stesso.
Questo obbligo venne, pertanto, concepito non in senso rigoroso, ma limitatamente alla ipotesi di intempestivo abbandono, per cui si è ritenuto che il legislatore italiano, riproducendo l'art. 1372, non poteva volere ad esso attribuire altro significato che quello già sancito dalla interpretazione francese.
La stessa conclusione, deve, a nostro avviso, avanzarsi per quanto riguarda l'art. 2028, che storicamente discende, per il tramite dell'art. 1141, dall'art. 1372 del Cod. francese.
Potremo, pertanto, concludere osservando che i tre requisiti che abbiamo sopra fissato come caratteristici della gestione d' affari non sono di per sè sufficienti, secondo il nostro diritto positivo, a far nascere l'obbligo che la legge contempla nell'art. 2028. Ad esso deve aggiungersi la condizione che l'interessato non sia in grado di provvedere all'affare.
Il rilievo è importantissimo perché serve a caratterizzare la ragione che giustifica l'istituto. La legge vuole evitata ogni illegittima intromissione nella sfera giuridica altrui, ma quando la forzata inattività del dominus negotii può arrecare danno alla sua sfera economica (e conseguentemente ed inscindibilmente anche a quella dello Stato), l'ordinamento giuridico per, mette che abbia inizio l'attività di un estraneo.
Presupposto della volontà della gestione di affari altrui è l'impossibilità del dominus di provvedere da sé all'affare; e, fondamento, l'utilità e la cura di interessi, che altrimenti resterebbero abbandonati: onde, chi si prende cura di questi interessi, viene legato dall'obbligo di continuare la gestione, ma al contempo non viene poi lasciato alla mercé del dominus che, anche per mero capriccio, volesse disconoscerne gli effetti.
L’absentia domini
Interessante è a questo punto l' indagine sul come deve essere concepita la impossibilità da parte del dominus negotii di provvedere all'affare, oggetto della questione.
Il problema verte soprattutto sulla necessità o meno della absentia domini.
Che l'assenza del dominus, anche se si verifica nel maggior numero dei casi, non sia, per il nostro diritto positivo, presupposto essenziale della gestione, è cosa della quale non sembra possa seriamente dubitarsi, né mi pare esatta l'osservazione, fatta da qualche studioso, che l'art. 1141 Cod. civ. abrogato, stabilendo l'obbligo del gestore di continuare la gestione e di condurla a termine « sino a che l'interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso » abbia avuto riguardo all'assenza, tenendo conto di essa non come requisito essenziale, ma come “id quod plerumque accidit”.
Ché se poi intendiamo l'assenza come un requisito specifico di mancanza dal luogo dove si svolge e non, come qualche studioso ha voluto, in senso lato tale da ricomprendervi qualsiasi impedimento, non pare possa affermarsi che l'art. 1141 del Cod. civ. abrogato, come l'art. 2028 del Cod. civ. vigente, abbiano voluto riferirsi comunque all'assenza del dominus.
La frase denota, invece, a nostro avviso, che la legge ha richiesto e richiede, per il sorgere ed il continuare della gestione, una impossibilità obiettiva del dominus negotii di provvedere all'affare. Bene quindi ha deciso — a nostro avviso — Ia Suprema Corte di Cassazione, stabilendo: « onde possa nascere il rapporto di utile gestione occorre che l'interessato si trovi nella impossibilità, almeno temporanea, di occuparsi del proprio affare ».
Pertanto è da ritenersi che la gestione non sorga quando l'interessato non sia impedito a gerire i suoi affari, anche se tale mancanza di impedimento, sconosciuta al gestore, non abbia fatto cessare in lui la volontà di gerire l’affare.
Gli obblighi del gestore in caso di morte dell’interessato
L'obbligo di continuare la gestione sussisté, come afferma espressamente l'articolo, anche se l'interessato muore prima che l'affare sia terminato, finché l'erede possa provvedere direttamente.
Poiché un erede sempre vi deve essere, intervenendo, in ogni caso come ultimo erede lo Stato, la interpretazione di questo capoverso non presenta la possibilità di quesiti particolari. È opportuno comunque osservare che, fino a che l'erede non abbia accettato l'eredita o non sia stato nominato un curatore nei casi previsti (art. 526, 641 Cod. civ.), il gestore è tenuto a continuare la sua gestione.
La morte del gestore e l’obbligo di continuare la gestione
L'articolo non contempla il caso della morte del gestore sebbene non sia mancata qualche segnalazione circa l'opportunità che venisse esaminata anche questa ipotesi. La norma sarebbe stata comunque, a nostro avviso, superflua, data la disposizione dell'art. 2030 che prescrive essere il gestore soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da mandato. Poiché le obbligazioni derivanti dal mandato cessano per la morte del mandatario, è da ritenersi che una analoga norma debba, in caso di morte del gestore, applicarsi alla gestione.
I limiti della gestione
Un problema che è stato fortemente agitato in seno alle Commissioni legislative, e del quale è qui necessario fare discorso allo scopo di meglio caratterizzare l'istituto della gestione, riguarda i limiti entro i quali è consentita, secondo il nostro diritto positivo, l'attività del gestore.
Il progetto ministeriale limitava (art. 752) la gestione agli affari di ordinaria amministrazione, e disponeva che gli atti che eccedessero questo, limite potevano compiersi solo quando vi fosse stata la urgenza di evitare gravi perdite all'interessato.
A sostegno di questa limitazione il relatore Biagi osservava che il concetto di affare deve essere quello del buon padre di famiglia che compie un fatto non eccezionale, ma ordinario. Il Presidente della Commissione osservava per contro che se il gerito trae vantaggio anche dalla gestione straordinaria, non vi è ragione perché si debba rifiutare tale assistenza e non riconoscere certi impegni. « buon padre di famiglia non è soltanto quello che compera il grano per la semina — osservava testualmente — ma anche colui che provvede per un avvenire più lontano, anche colui che sta attento ed intuisce e previene determinati fenomeni economici ».
La maggioranza della Commissione era tuttavia favorevole al mantenimento della limitazione alla gestione ordinaria. Ma nella redazione definitiva dell’articolo la menzione della limitazione alla gestione ordinaria è scomparsa.
Pertanto nel silenzio della legge deve concludersi che il gestore, di affari altrui può compiere qualsiasi atto ordinario e straordinario relativo alla gestione. I limiti di questa attività apparentemente illimitata sorgono dall'obbligo che egli ha di gerire l'affare con la diligenza del buon padre di famiglia e dalla responsabilità che gli viene attribuita per i danni prodotti ove non adibisca tale diligenza. Che la diligenza del buon padre di famiglia debba soprattutto esplicarsi negli atti di ordinaria amministrazione ed in quelli che tendono alla conservazione del patrimonio è cosa naturale. Che il buon padre di famiglia non sia tenuto ad intuire e a prevenire determinati fenomeni economici è anche possibile. Ma che la sua attività possa considerarsi eccedente i limiti della gestione se egli intuisce e previene questi fenomeni, è cosa assolutamente contraria alla natura e all'essenza dell'istituto, che la legge vuole soprattutto per la migliore conservazione dei patrimoni abbandonati, i quali, per la loro conservazione, possono anche necessitare di atti che eccedono l'ordinaria amministrazione.
Sono atti di gestione non solo i negozi giuridici, ma altresì gli atti materiali, che giovino comunque al dominus, come ad esempio la riparazione di un edificio che minacciava rovina, la rimozione di un deposito di materiali nocivi dal muro comune per tutelare gli interessi del vicino, ecc. Questa concezione vasta e comprensiva degli atti di gestione ci viene dalla tradizione romana, che ammetteva la gestione per gli atti di qualsiasi natura, sia che si trattasse di affari singoli, sia della amministrazione di un patrimonio, sia anche di atti che rappresentavano solo un vantaggio morale e non valutabile in denaro, quale ad esempio la cura di un infermo.