La facoltà di chiudere il proprio fondo
L'
art. 841 del c.c. consacra un
principio tradizionale, già formulato dall'art. 442 del codice del 1865, e che è il riflesso della facoltà di esclusione del proprietario. La formula della nuova norma è più precisa di quella della norma abrogata: in quest'ultima, infatti, si facevano salvi i diritti di servitù spettanti ai terzi e la riserva da un lato era troppo ristretta, perché il diritto di chiudere il proprio fondo deve lasciare e lascia integri tutti i diritti di terzi, di qualunque natura essi siano, e non solo quelli di servitù; dall'altro lato, del tutto pleonastica. Con l'espressione "in ogni tempo", inserita nella nuova norma, viene strettamente ricollegata la facoltà di chiudere il fondo con il diritto di proprietà, di cui essa fa parte, e se ne mette in evidenza l'imprescrittibilità.
L'esercizio della caccia e il limite al diritto di proprietà
La chiusura del fondo costituisce un
presupposto in base al quale, in concorso con altre circostanze, il proprietario può impedire l'accesso ad estranei, per l'esercizio della caccia. Non basta, però, a tal fine che il fondo sia comunque chiuso: l'art.
842, comma 1, rimanda alla legge sulla caccia. Questa prescrive che il fondo sia chiuso completamente da mura, rete metallica o altra effettiva chiusura, di altezza non minore di m. 1,80 o da corsi d'acqua della profondità di almeno m 1,50 e della larghezza di almeno m. 3 (art. 28 T. U. approvato con R.D. 31 gennaio 1931, n. 117).
In
mancanza di chiusura nei modi predetti, l'esercizio della caccia non può essere impedito se non in casi particolari, come risulta dal coordinamento dell'art. 843 commi 1 e 2 con le disposizioni contenute nelle leggi speciali.
Vi sono, infatti, ipotesi considerate nella legge sulla caccia e ipotesi considerate anche nell'art. 843 o esclusivamente in tale articolo.
Per le ipotesi considerate nella
legge speciale, non c'è dubbio che le disposizioni ad esse relative non possano ritenersi abrogate, nè espressamente nè tacitamente, dal nuovo codice. Pertanto è vietata la caccia, contro il consenso del proprietario, nelle appartenenze di ville, abitazioni, parchi (art. 28 cit.); sui laghi e negli stagni di proprietà privata, anche aperti, è vietato porre, contro il divieto del proprietario, imbarcazioni, tine o altro natante per la caccia (art. 30).
L'
art. 842 del c.c. oncede al proprietario la facoltà di
opporre l'esercizio della caccia a chi non è munito di licenza rilasciata dall'autorità. Tale facoltà, pur non essendo contemplata dalla legge speciale, viene ad estendere l'ambito delle limitazioni all'esercizio della caccia, accrescendo i poteri del proprietario. Indirettamente, in tal modo, il proprietario, limitatamente alla propria sfera giuridica e alla tutela del proprio diritto, realizza anche l'interesse pubblico al controllo sui portatori di armi. L'Amministrazione si serve di solito del propri agenti, che possono elevare contravvenzioni a carico di coloro che non sono muniti di regolare licenza, ma anche questo può essere un mezzo supplementare per evitare l'esercizio della caccia senza licenza perché, concedendo la facoltà di opposizione a tutti i proprietari, si viene praticamente a rendere quasi impossibile la caccia stessa. Dunque la disposizione contenuta nella norma in esame, più che a tutela dell'interesse privato, viene dettata per la tutela dell'interesse pubblico.
L'art. 842 c.c. concede, infine, al proprietario la facoltà di opporsi all'esercizio della caccia, anche se il fondo non è chiuso nei modi anzidetti, quando vi siano
colture in atto suscettibili di danno. La disposizione è dettata nell'interesse del proprietario e a tutela, anche, dell'agricoltura. La legge speciale (art. 30) adopera una formula diversa, sancendo i divieto della caccia nel periodo in cui possa danneggiare le colture. Le due disposizioni hanno diversa portata: quella contenuta nella legge speciale fa riferimento a periodi nei quali le colture possono essere danneggiate, e quindi adotta un criterio, entro certi limiti, astratto; quella contenuta nell'art. 842 si riferisce alla suscettibilità attuale di danno alle colture, e perciò adotta un criterio di massimo grado. Naturalmente deve prevalere la disposizione contenuta nell'art. 842, non fosse altro perché è di data posteriore.
Qualche dubbio può sorgere, in merito all'applicazione di tale disposizione, per quanto riguarda la determinazione dell'attuale suscettibilità di danno alle colture: certo si tratta di una questione di fatto, che dovrà essere risolta dal magistrato, per stabilire se debba ritenersi illegittima l'opposizione del proprietario o l'attività del cacciatore, con conseguente condanna ai danni dell'uno o dell'altro, se vi siano stati danni. Ma si devono segnare i limiti entro cui il giudizio del magistrato va contenuto: è stato autorevolmente sostenuto che il proprietario possa opporsi all'esercizio della caccia quando sul fondo vi sia una coltura in atto, affermandosi, quindi, il criterio secondo cui ogni coltura in atto deve ritenersi di suscettibile di danno.
Ma il testo legislativo viene così modificato, con una interpretazione estensiva non giustificabile. La legge non dice «
quando vi sia coltura in atto », ma dice quando «
vi siano colture in atto suscettibili di danno »: l'attualità, dunque, non riguarda l'esistenza delle colture, ma la loro suscettibilità di danno. D'altra parte, se la norma è dettata nell'interesse dell'agricoltura, ammessa l'ipotesi che delle colture attualmente esistenti possano non essere suscettibili di danno, non si vede perché estendere la tutela anche a questa ipotesi.
L'esercizio della pesca
Anche per quanto riguarda la pesca, in base all'art. 33 T.U. citato, che punisce colui che pesca nelle acque di proprietà privata, l'art. 843 stabilisce che per l'esercizio della pesca
occorre il consenso del proprietario. Le ragioni del proprietario sono qi tutelate più energicamente di quanto non lo siano rispetto alla caccia. Il terzo non ha nessuna facoltà: la sua attività, dunque, sarà sempre illegittima se non autorizzata dal proprietario.
La tutela dei diritti di persone diverse dal proprietario
Al proprietario si sostituirà – naturalmente – sia per il lato positivo (facoltà di autorizzare) che negativo (facoltà di opporsi) chiunque abbia l'effettivo godimento, e quindi il possesso, del fondo: sia titolare di un diritto reale (es.: usufruttuario), sia titolare di un diritto personale (es.: locatario). Anche in questi casi, tuttavia, la tutela può riguardare il diritto di proprietà: se si tratta, infatti, di un diritto reale, questo non potrà che essere uno ius in re aliena, che avrà il suo fondamento nella proprietà, sì che le facoltà spettanti al titolare del diritto reale possono ritenersi come derivate dal proprietario; se si tratta, invece, di un diritto personale, il proprietario sarà sempre da considerare come protagonista, perché, di solito, egli è tenuto a garantire il pacifico godimento della cosa, oltre a garantire il possessore dalle molestie che ne diminuiscono l'uso e il godimento, e ad assumere la lite, contro il terzo, qualora sia invece chiamato al posto del possessore che deve essere estromesso.
Qualora il proprietario, nei casi predetti, si sia riservato un diritto di godimento sulle acque, il permesso di esercitarvi la pesca deve essere concesso da lui e non dal possessore.
Il divieto di penetrare nell'altrui fondo recinto e le sue limitazioni
Il divieto di penetrare nel fondo recinto è presidiato energicamente dall'
art. 637 del c.p.. Tuttavia, anche al di fuori del casi già menzionati, la facoltà del proprietario di impedire ai terzi l'accesso nel proprio fondo subisce delle limitazioni, nell'interesse pubblico e di altri privati.
Sotto il primo profilo, si deve ricordare la limitazione nascente dalle disposizioni contenute negli artt. 7 e 8 della L. 25 giugno 1865, n. 2359 sull'espropriazione per causa di pubblica utilità. In base ad essa gli ingegneri, gli architetti ed i periti incaricati della formulazione del piano di massima per l'espropriazione, possono introdursi nelle proprietà private e procedere alle operazioni necessarie alla preparazione di tale piano, purchè siano muniti di un decreto del prefetto o del vice prefetto: chi si opponga od ostacoli tali indagini incorre in sanzioni penali.
Il principio riceve applicazione in varie leggi speciali: si possono citare l'art. 1 cap. R. D. 20 maggio 1926, n. 1154; art. 1 R. D. 13 agosto 1926, n. 1907; art. 20 R.D. 29 luglio 1927, n. 1443; art. 97 T.U. sulle acque pubbliche approvato con R.D. 11 dicembre 1932, n. 1775.
Ma vi sono casi in cui la limitazione della facoltà di vietare l'accesso è dettata a tutela dell'interesse dei privati: la norma in esame disciplina tali ipotesi, coordinando le disposizioni contenute negli artt. 592 e 713 codice del 1865, e integrandole con opportune generalizzazioni.
La prima ipotesi, descritta al comma 1, va ricollegata ai rapporti di vicinato: il proprietario deve permettersi l'accesso e il passaggio nel suo fondo al proprietario vicino al fine di riparare un muro o altra opera propria o comune. Salvo qualche lieve ritocco di natura formale, viene integralmente riprodotta la disposizione contenuta nel citato art. 592, codice del 1865.
La seconda ipotesi prescinde anche dai rapporti di vicinato. L'art. 713 codice del 1865 concedeva al proprietario di sciami d'api il diritto di inseguirli nel fondo altrui; il terzo comma di questa norma obbliga il proprietario del fondo di permettere l'accesso non solo se si tratti di riprendere sciami d'api, ma qualsiasi animale che, sfuggendo alla custodia, si sia riparato in tale fondo, e anche per qualsiasi causa propria. Disposizioni speciali, tuttavia, sono dettate per gli sciami d'api (
art. 924 del c.c.) e per gli animali mansuefatti, non già al fine di estendere la facoltà di inseguimento nel fondo altrui ad ipotesi già comprese nella disposizione generale, ma piuttosto al fine di limitare nel tempo la possibilità di esercizio di tale facoltà: due giorni e venti giorni rispettivamente.
Il solo presupposto per l'esercizio della facoltà di accesso è che si voglia
recuperare una cosa propria di colui che si voglia accedere nel fondo. Il permesso, dunque, potrebbe essere rifiutato se si trattasse di
res nullius o di
res derelicta. Così se qualcuno ha gettato,
animo derelinquendi, la cosa propria sul fondo altrui, non può pretendere di ottenere il permesso che avrebbe (nuovamente) lo scopo di acquistare mediante occupazione la proprietà della cosa abbandonata, non di riavere il possesso della cosa propria. E nemmeno può esercitare l'azione di rivendicazione, perché manca il presupposto fondamentale, la proprietà.
Si capisce che l'estraneo può acquistare la proprietà della cosa
nullius o
derelicta che si trovi nel fondo altrui, anche senza o contro la volontà del proprietario del fondo (sempre che questi non giunga in tempo ad acquistarla per occupazione), ma in questo caso andrà incontro alle conseguenze civili e penali del suo atto illecito.
Anche nei casi in cui la richiesta di permesso di accedere al fondo è legittima, il proprietario può tuttavia legittimamente impedire l'accesso, consegnando la cosa o l'animale (art.
844, ultima parte alinea 3). se il permesso di accedere nel fondo venga illegittimamente negato, non potrebbe incorrere nelle sanzioni penali di cui agli artt.
392 e
393 c.p. L'arbitrio del proprietario deve essere riconosciuto e dichiarato dal magistrato, e il terzo potrà fare ricorso «
alle azioni rivendicatorie e di risarcimento ».
Il risarcimento del danno causato dall'accesso
L'art.
844, alinea 2, dispone che se l'accesso provoca danno, è dovuta al proprietario un'adeguata
indennità. La disposizione dettata per i casi previsti dallo stesso articolo ha
carattere generale e discende dai principi generali. Il permesso di accedere al fondo non può considerarsi come permesso di danneggiare il fondo, o come preventiva rinuncia al diritto di chiedere il risarcimento dei danni. E neppure il diritto di accedere sul fondo altrui può considerarsi come diritto di danneggiare il fondo, o come causa di esenzione dall'obbligo del risarcimento.
Ne discende che l'obbligo di risarcimento grava anche su coloro che hanno il diritto di esercitare la caccia nei fondi altrui, o su coloro che hanno ottenuto il permesso di esercitare la caccia o la pesca.
Applicabilità delle sanzioni penali
L'applicazione delle sanzioni civili a carico del proprietario che rifiuti o contrasti l'accesso illegittimamente o di coloro che illegittimamente o contro la volontà del proprietario si introducono nel fondo altrui, non esclude l'applicazione di sanzioni penali, in tutti quei casi in cui le circostanze di fatto integrano un reato.