"Il testamento è un atto", il che vuol dire che è un negozio giuridico unilaterale, consistente, cioè, nella dichiarazione di volontà di una sola persona, il disponente.
Uno scrittore autorevolissimo, il Cimbali, sostenne che il testamento fosse un negozio giuridico bilaterale, un contratto, per quanto con carattere ben distinto dagli altri contratti. Tale opinione si può dire, oramai, da tutti ripudiata, e giustamente. Il Cimbali ragionava così: il testamento, per essere produttivo di effetti giuridici, deve essere accettato dall’erede; ora, in questa accettazione si riscontra l’altro termine del consenso; si ha, quindi, l'accordo reciproco del testatore e dell'erede. Se è vero che questa accettazione deve avvenire necessariamente dopo la morte del testatore, a differenza della donazione, che, per avere effetto, occorre che venga accettata dal donatario prima della morte del donante, ciò può costituire la differenza specifica tra i contratti di beneficenza tra vivi, come la donazione, e quelli a causa di morte prendono la forma del testamento. Né, soggiunge il Cimbali, a far negare il carattere di contratto al testamento, può giovare il suo carattere di revocabilità, perché, anzi, questa è una riprova del suo carattere contrattuale, giacché, fino a che l'accettazione non è avvenuta, si è di fronte ad una semplice promessa, che può sempre essere revocata, e siccome, per l’indole speciale del testamento, che è disposizione a causa di morte, il contratto si perfeziona dopo la morte del testatore, solo da tale epoca rimane inalterabilmente fissata la volontà del testatore e, dall'altra, vi è la possibilità dell’accettazione da parte dell'erede. Ma questo ragionamento è tutt’altro che persuasivo. Infatti, se è vero che, nei contratti, non occorre che il consenso sia simultaneo, potendo le due dichiarazioni di volontà avvenire in momenti diversi, anche a notevole distanza di tempo fra loro, come avviene nel contratto tra persone lontane, non v’è dubbio che le dichiarazioni di volontà si devono, in un dato momento, incontrare, nel che consiste l’accordo, il consenso; e fino a quando questo incontro non si verifica, vi è soltanto una proposta di contratto, non già un contratto. Ora, ciò non si verifica affatto nel testamento, dove l’accettazione dell’erede e del legatario deve necessariamente avvenire quando il testatore non può esistere e, quindi, l’incontro delle due volontà non si verifica. Vero è che il testamento, come negozio giuridico, è perfetto, capace, cioè, di produrre tutta la sua efficacia giuridica, quando la dichiarazione di volontà del testatore è stata manifestata nelle forme stabilite dalla legge; l’accettazione è necessaria soltanto per l’attuazione pratica di quella volontà, per mantenerne in vita gli effetti: è, quindi, un elemento necessario per l’efficacia del testamento, non per la sua formazione (com’è, invece, l’accordo tra le due dichiarazioni di volontà per il contratto).
L'articolo in esame, come l’art. #759# del codice del 1865, dice che il testamento è un atto, ma non soggiunge pure che sia un atto di liberalità, come per la donazione. Di qui la disputa tra gli scrittori se lo spirito di liberalità sia o meno un elemento essenziale per il testamento. Bisogna ritenere che se il testamento, normalmente, costituisce una liberalità, tale elemento non è essenziale ad esso. Lo scopo precipuo del testamento è di stabilire la sorte del patrimonio
post mortem; esso è il regolamento dei rapporti giuridici, soprattutto patrimoniali, del testatore, per il tempo in cui avrà cessato di vivere. L’eredità, infatti, può essere talmente onerata di debiti che il passivo superi o eguagli l’attivo; il testatore può porre a carico dell’erede oneri che assorbano interamente l’attivo (
tantum erogat quantum accipit): in tali casi non vi sarà, certamente, una liberalità, eppure vi sarà testamento: l’istituzione in esso contenuta sarà valida.
La norma in esame continua col dire che il testamento è un
atto revocabile. La revocabilità è la caratteristica essenziale del testamento, tanto vero che il nostro legislatore ha vietato la c.d.
clausola derogatoria, ammessa da talune legislazioni, con la quale il testatore dichiarava di non voler riconoscere per valido qualunque altro testamento egli potesse fare per l'avvenire (c.d.
clausola derogatoria assoluta) ovvero, quanto meno, dichiarava che non avessero valore testamenti nuovi posteriori che non fossero accompagnati da uno speciale contrassegno, per esempio, un sigillo, un motto (c.d.
clausola derogatoria relativa).
Nel diritto comune si ritenne che la clausola derogatoria assoluta fosse nulla, e valida, invece, la clausola derogatoria relativa, la quale garantiva meglio la libertà del testatore. Si ritenne, cioè, che ad essa potesse ricorrere chi, dopo aver dichiarato spontaneamente la sua ultima volontà, temesse di essere, poi, costretto dalle pressioni di altre persone (parenti o estranei) a testare a favore loro. Egli aveva, così, il mezzo di contentarli in apparenza per sottrarsi alle loro pressioni, ma, in sostanza, di tener valido il testamento anteriore, col non inserire nel nuovo testamento quel tal segno indicato nel primo come documento della serietà del suo valore. Senonché, poteva avvenire che la libertà del testatore, invece di essere garantita, fosse menomata, come quando, ad esempio, egli veramente volesse mutare le sue disposizioni e solo per dimenticanza o inavvertenza non vi aveva inserito quel tal segno. Ad evitare tale inconveniente, la pratica dei secoli scorsi introdusse una quantità di distinzioni ed eccezioni, fonti di numerose, ardue controversie, per cui quasi dappertutto fu vietata la clausola derogatoria, anche semplicemente relativa. Essa fu vietata pure dal nostro codice del 1865, all'art. #916#, la cui norma è stata riprodotta integralmente nell’art.
679 dell'attuale codice che dispone:
"non si può in alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie: ogni clausola o condizione contraria non ha effetto".
L’art. 587 continua dicendo che col testamento si dispone
di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. Con l'espressione
"proprie" s’intende affermare il carattere personalissimo del testamento nel senso che mentre, in genere, gli atti di disposizione dei beni
inter vivos si possono fare o personalmente e direttamente dal proprietario di essi, o anche indirettamente, per mezzo di un rappresentante, nel testamento ciò è escluso nel modo più assoluto, non essendo nemmeno più ammesso che il genitore esercente la patria potestà possa fare testamento per il figlio minore, prevedendo che costui muoia prima di giungere all’età in cui la legge gli riconosce la facoltà di testare, come era ammesso per diritto romano con la sostituzione detta pupillare.
La legge, poi, dice:
"di tutte o di parte delle proprie sostanze" per indicare la
possibile coesistenza della successione testamentaria con la successione legittima, a differenza di quanto avveniva nel diritto romano, dove, invece, di regola, tale coesistenza era esclusa. E mentre, anzi, nel diritto romano, un nuovo testamento distruggeva l’antico, appunto per l’unità della successione testamentaria, nel diritto nostro
possono coesistere più testamenti: il testamento posteriore non revoca di diritto l’anteriore, ma lo revoca soltanto o quando contiene la dichiarazione espressa del testatore, il quale dichiara di annullare tutte le disposizioni precedenti, ovvero quando contiene disposizioni incompatibili con tutte o con parte di quelle contenute nell’anteriore, il quale, perciò, si intenderà revocato tacitamente, in tutto o in parte, per quanto, cioè, sia incompatibile col testamento posteriore.
La caratteristica speciale del testamento è quella di contenere una
disposizione patrimoniale. Ciò risulta chiaramente, anche nel sistema dell'attuale codice civile, dal fatto di aver mantenuto la dizione dell’art. #759# del codice del 1865:
"dispone di tutte le proprie sostanze o di parte di esse".
Sotto la vigenza del codice precedente era opinione comune che non potesse qualificarsi testamento un atto che non contenesse disposizioni di beni. Tuttavia, quel codice prevedeva che, nel testamento, fossero contenute dichiarazioni di volontà aventi uno scopo diverso da quello di disporre dei beni, tra cui: la volontà di legittimare il figlio naturale; la determinazione di condizioni alla madre superstite per l'educazione dei figli e per l’amministrazione dei beni; la designazione di un tutore al figlio minore o al maggiore interdicendo; la dichiarazione di riabilitazione dell’indegno. Ma sorgeva questione circa la loro validità ed efficacia quando fossero contenute in un atto che si qualificava testamento, che ne aveva, naturalmente, la forma, ma che non conteneva disposizione di beni. L'opinione prevalente era che, in questa ipotesi, esse non potessero ritenersi valide, in quanto la legge esigeva che fossero contenute in un vero e proprio testamento e tale non poteva dirsi una scrittura sfornita di tutti i caratteri sostanziali stabiliti dalla legge per il testamento, fra i quali la disposizione di beni. Tale disputa è stata eliminata dall'attuale codice, nel quale si ammette che nel testamento possano essere contenute disposizioni di carattere giuridico non aventi carattere patrimoniale, le quali possono avere efficacia anche in mancanza di quelle a contenuto patrimoniale.
Nel progetto della Commissione parlamentare si ponevano sullo stesso piano le disposizioni patrimoniali e quelle non patrimoniali. Difatti, l’art. #140# del codice precedente definiva il testamento "un atto revocabile, con cui taluno dichiara la sua ultima volontà, da valere dopo la morte, sia mediante disposizioni riguardanti tutte o parte delle proprie sostanze, sia mediante disposizioni non patrimoniali che abbiano carattere giuridico". Nel progetto definitivo, il Ministro non accolse tale sistema notando che, nella concezione tradizionale e nella pratica applicazione, il testamento ha per contenuto l’attribuzione dei beni e solo accidentalmente contiene manifestazioni di volontà dirette ad altri fini, tanto più che le disposizioni non patrimoniali, nel testamento, sono limitate quanto al loro possibile oggetto perché sono pochi i negozi che la legge consente di compiere nella forma del testamento. Conformemente a queste idee, fu formulato l’articolo ora in esame, in cui si è mantenuto il concetto tradizionale del carattere patrimoniale del testamento, ma, in un secondo comma, si è aggiunta la norma sull’efficacia di disposizioni non patrimoniali che possono rivestire forma testamentaria anche quando l’atto non contiene disposizioni patrimoniali.
Questo articolo dette occasione a larga discussione nella Commissione parlamentare, dove taluno propose persino che il testamento fosse considerato come un atto di ultima volontà, col quale il dichiarante non dispone solo in ordine ai beni economici, ma anche intorno ad altri oggetti di ordine morale e politico, assumendo che nel nuovo codice fascista avrebbe dovuto essere inclusa questa concezione, per così dire, mistica del testamento, giacché nella concezione filosofica e politica del concetto fascista il titolare del diritto di testare è considerato non solo in quanto sia munito di beni economici, perché il diritto esiste anche quando non esistono i beni materiali, ma anche soltanto se dispone di beni ideali. Questa concezione non trovò consenziente la Commissione la quale, invece, tornò al sistema del progetto preliminare ammettendo che, di regola, il testamento possa contenere disposizioni di carattere patrimoniale e non patrimoniale.
Il Ministro Guardasigilli mantenne il criterio già adottato nel progetto definitivo, osservando che la diversa importanza delle due specie di disposizioni non è priva di conseguenze giuridiche, perché diverso è il regime a cui sono sottoposte le disposizioni patrimoniali rispetto a quelle non patrimoniali. Per le prime, si applica tutta la disciplina del testamento sia dal lato formale che dal lato sostanziale; per le seconde, invece, si esige sì la forma testamentaria, ma, in quanto alla loro intrinseca validità ed efficacia, devono osservarsi le norme proprie dei singoli negozi, le quali possono divergere da quelle dettate dalla legge per disciplinare il contenuto patrimoniale del testamento. Così, ad esempio, il riconoscimento del figlio naturale è una disposizione di carattere non patrimoniale che può essere contenuta in un atto che abbia la forma di testamento, ma la validità ed efficacia sostanziale è regolata da altre norme, fra cui quella dell'irrevocabilità.
Sicché, rimane come principio generale che il testamento contenga, normalmente, disposizioni patrimoniali. Può contenere anche disposizioni di carattere non patrimoniale, e precisamente solo quelle che costituiscono negozi che la legge consente di compiere nella forma testamentaria, le quali saranno valide ed efficaci anche se mancano interamente disposizioni a contenuto patrimoniale.
Si comprende, peraltro, che le disposizioni di carattere non patrimoniale che possono essere contenute in un testamento non contenente disposizioni di beni sono soltanto quelle che hanno un contenuto giuridico e in quanto sono ammesse dalla legge, non pure quelle che hanno un contenuto puramente morale od affettivo, per esempio, norme e raccomandazioni per i funerali, per il suffragio dell’anima, per il seppellimento o la sorte del cadavere, per la sistemazione della famiglia, ecc. Tali disposizioni, in quanto prive di contenuto giuridico, hanno un valore puramente morale: avranno valore giuridico solo se siano, comunque, connesse ad una disposizione di carattere patrimoniale.