La questione sottoposta all’esame degli Ermellini era nata all’interno della vicenda giudiziaria nella quale alcuni eredi avevano citato in giudizio l’Arcidiocesi a cui il de cuius aveva assegnato, a titolo di legato, alcuni immobili di sua proprietà “per fini di culto e di religione”. Uno di tali immobili, infatti, dopo essere stato gestito, nei primi tempi, dalle suore per la cura dei preti poveri, era stato trasformato in diversi mini locali affittati a terzi, per cui gli altri eredi del testatore avevano deciso di agire in giudizio affinché fosse dichiarata la risoluzione del legato per inadempimento del modus in esso contenuto.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello accoglievano le istanze attoree. I giudici di secondo grado, in particolare, consideravano corretto il ragionamento che aveva portato il Tribunale a ritenere che, al fine di ricostruire la volontà espressa nella scheda testamentaria del de cuius, si dovesse utilizzare e valorizzare una lettera da lui inviata alla Curia nel 1943, ove spiegava cosa intendesse con l’espressione “fini di culto e di religione”, apposta nel legato. Parimenti corretta risultava, a loro avviso, la qualificazione di detta clausola come modus.
Rimasta soccombente all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito, l’Arcidiocesi ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 587 e 1362 del c.c. Secondo la ricorrente, infatti, la Corte territoriale aveva errato nell’interpretare la volontà del testatore sulla base della lettera del 1943, essendo, tale conclusione, contraria al principio secondo cui i documenti estranei al testamento potevano essere utilizzati per interpretare la volontà del de cuius, ma non per integrarla, considerato, peraltro, che detta lettera non era autografa, bensì dattiloscritta e che, in forza della sua considerazione, la disposizione testamentaria che conteneva un legato semplice, era stata trasformata in un legato modale.
La Suprema Corte ha accolto il suddetto motivo di ricorso.
La giurisprudenza di legittimità ha, difatti, precisato più volte che l’interpretazione di un testamento, rispetto a quella di un contratto, si caratterizza per una più profonda ricerca della volontà del testatore, la quale, ai sensi dell’art. 1362 del c.c., va individuata sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria, e non, quindi, di ciascuna singola disposizione.
Sempre secondo la Cassazione, poi, “al fine di superare eventuali dubbi sull’effettivo significato di parole ed espressioni usate dal testatore, si deve fare riferimento anche ad elementi estrinseci a detta scheda, quali la cultura, la mentalità, le abitudini espressive e l’ambiente di vita dello stesso testatore, in modo tale che il giudice di merito, il cui accertamento è insindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici, nella doverosa ricerca di detta volontà, può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purché non contrastante e antitetico, e si prestino ad esprimere in modo più adeguato la reale intenzione del de cuius” (Cass. Civ., n. 10075/2018; Cass. Civ., n. 12861/1993).
Il rispetto dei criteri ermeneutici che mirano a ricostruire l’effettiva volontà del testatore, impedisce, tuttavia, qualsiasi operazione che conduca ad integrare ab extrinseco quest’ultima, attribuendole dei contenuti inespressi o, comunque, diversi da quelli risultanti dalla dichiarazione stessa.
Nel caso di specie, concordemente a quanto ritenuto dalla ricorrente, i giudici di merito non si sono, però, attenuti a tali principi di diritto, in quanto, pur svolgendo le loro considerazioni su un piano apparentemente interpretativo, hanno, in realtà, utilizzato la lettera del 1943, non per chiarire il significato dell’espressione “fini di culto e di religione” contenuta nel legato, bensì per attribuirle un contenuto particolare e specifico.
Così facendo, dunque, la Corte territoriale ha, di fatto, posto in essere un’operazione diretta, non a ricostruire la volontà del de cuius, ma, piuttosto, ad integrarla, attribuendole un significato non espresso all’interno della scheda testamentaria.