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Articolo 2110 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio

Dispositivo dell'art. 2110 Codice Civile

In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge [o le norme corporative](1) non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali [dalle norme corporative](1), dagli usi o secondo equità [38 Cost.].

Nei casi indicati nel comma precedente, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge [dalle norme corporative](1), dagli usi o secondo equità(2).

Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell'anzianità di servizio [2120, 2752, n. 4].

Note

(1) Vedi nota 3 sub art. 2108.
(2) Si tratta del cd. periodo di comporto ovvero il periodo di tempo stabilito dalla legge nel quale vi è l'impossibilità della prestazione di lavoro a causa di impedimenti del lavoratore.
Decorso tale periodo, il datore di lavoro potrà validamente esercitare il diritto di recesso.

Ratio Legis

Gli artt. 2110 e 2111 disciplinano i casi di cd. sospensione del rapporto di lavoro, che determinano la temporanea sospensione delle reciproche prestazioni tra le parti (es.: in caso di malattia il prestatore non svolgerà attività lavorativa ed il datore non erogherà la retribuzione, salvo il trattamento previdenziale). Tale situazione è generata normalmente da una temporanea impossibilità della prestazione da parte del lavoratore (ammalato, infortunato, in servizio militare etc.). Se l'impossibilità fosse definitiva (non temporanea) non si avrebbe sospensione ma cessazione del rapporto di lavoro.

Massime relative all'art. 2110 Codice Civile

Cass. civ. n. 16382/2021

Il trattamento di cassa integrazione guadagni - sia ordinario che straordinario - non è escluso rispetto ai lavoratori assenti per malattia od infortunio con diritto alla conservazione del posto (art. 2110 c.c.), ma il loro credito, in deroga all'art. 2110 citato (che prevede la liberazione del datore di lavoro dalla obbligazione di corrispondere anche a tali lavoratori la retribuzione solo ove siano predisposte equivalenti forme previdenziali, con conseguente permanenza di un'obbligazione integrativa nel caso che forme siffatte diano luogo a trattamenti di minore entità rispetto al tetto massimo della retribuzione stessa), si riduce nei limiti del suddetto trattamento, con la conseguenza che la legittima ammissione alla cassa integrazione comporta il subingresso dell'ente erogatore delle relative prestazioni in tali obbligazioni del datore di lavoro (il quale rimane tenuto alle anticipazioni quale "adiectus solutionis causa"), previa corrispondente riduzione delle medesime, nel senso che quest'ultimo è tenuto ad anticipare anche ai menzionati lavoratori o l'intero trattamento di cassa integrazione o l'importo pari alla differenza fra questo e l'inferiore trattamento di natura previdenziale o assistenziale.

Cass. civ. n. 11697/2020

In tema di licenziamento per giusta causa, le disposizioni dell'art. 5 st.lav., che vietano al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e lo autorizzano a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l'assenza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che, all'esito di un'indagine demandata dal datore di lavoro a un'agenzia investigativa, risultava aver svolto con assiduità, durante il periodo di riposo per malattia, attività sportiva e ludica attestante l'intervenuta guarigione non comunicata al datore). (Rigetta, CORTE D'APPELLO GENOVA, 08/06/2018).

Cass. civ. n. 27392/2018

Il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa; in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto privo di giustificazione, in quanto fondato su ragioni vaghe ed inconsistenti, il rifiuto di concessione delle ferie motivato dalla società datrice con un generico riferimento a non meglio precisate esigenze organizzative dell'ufficio).

Cass. civ. n. 25535/2018

A differenza del licenziamento disciplinare, che postula l'immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quella del datore di lavoro a disporre di un ragionevole "spatium deliberandi", in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali; ne consegue che, in tale caso, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva evinto la volontà abdicativa del diritto di recesso da parte del datore, oltre che dal ritardo nella comunicazione del licenziamento, dall'accettazione del rientro in servizio e della prestazione lavorativa per un breve lasso di tempo, nonché dal riconoscimento di un ulteriore periodo di ferie e dalla fissazione della visita di sorveglianza sanitaria del dipendente).

Cass. civ. n. 23596/2018

In relazione alla cd. eccessiva morbilità, il comporto per sommatoria, ove la contrattazione non lo preveda e non vi siano usi utilmente richiamabili, va determinato dal giudice con impiego della cd. equità integrativa. In tal caso le determinazioni del giudice circa i termini cd. interni ed esterni del comporto - durata complessiva delle assenze tollerate e ampiezza del relativo periodo di riferimento - sono censurabili in sede di legittimità solo sotto il profilo della logicità e della congruità della motivazione. (Nel caso di specie, avente ad oggetto il c.c.n.l. del settore commercio, è stata ritenuta immune da censure la sentenza di merito con la quale il limite interno del comporto per sommatoria era stato individuato in 180 giorni - pari a quello del comporto secco - e quello esterno nell'anno solare di 365 giorni, calcolati a ritroso dall'ultimo episodio morboso, con conseguente diritto alla conservazione del posto di lavoro in caso di assenze per malattia fino a 180 giorni in un anno).

In materia di impugnazione del licenziamento per superamento del periodo di comporto, grava sul datore di lavoro l'onere di allegare e provare i fatti costitutivi del potere di recesso e spetta al lavoratore la loro contestazione; pertanto, in difetto di specifica contestazione ovvero in assenza di una chiara e precisa presa di posizione del lavoratore sull'esistenza delle assenze per malattia incluse nel computo del comporto, le stesse risulteranno non controverse e, come tali, non bisognevoli di prova.

Cass. civ. n. 21042/2018

In tema di licenziamento per superamento del comporto, non assimilabile a quello disciplinare, il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, tuttavia, anche sulla base del novellato art. 2 della l. n. 604 del 1966 che impone la comunicazione contestuale dei motivi, la motivazione deve essere idonea ad evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, ritenendo priva di sufficiente specificazione la mera indicazione del termine finale di maturazione del comporto).

Cass. civ. n. 20761/2018

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento, in cui il dato dell'assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva; non rileva, pertanto, la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cd. esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell'accertamento della sua inidoneità ad adempiere l'obbligazione.

Cass. civ. n. 19927/2018

Per la computabilità nel periodo di comporto delle assenze successive alla scadenza del periodo di aspettativa per malattia previsto dal contratto collettivo è necessario accertare, anche in via presuntiva, che il mancato rientro in servizio del lavoratore - o la sua successiva assenza - siano dovuti ad una condizione di malattia, non essendo invece rilevanti le assenze imputabili ad una scelta volontaria, fattispecie suscettibile, ove del caso, di valutazione sul diverso piano disciplinare. (Nella specie, era rimasto accertato che le assenze erano ascrivibili alla volontà del lavoratore di non riprendere servizio per mancata accettazione della proposta di trasferimento).

Cass. civ. n. 12568/2018

Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c..

Cass. civ. n. 15972/2017

Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c..

Cass. civ. n. 8834/2017

Il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie - maturate e non godute - allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, ma deve formulare l’istanza in epoca anteriore alla sua scadenza, non potendosi, in ogni caso, configurare un obbligo del datore di lavoro di accedere a tale richiesta qualora il lavoratore abbia la possibilità di fruire di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto nell’ipotesi di superamento del periodo di comporto.

Cass. civ. n. 7676/2017

In tema di comporto, al fine di verificare se sia stato superato o meno il periodo contrattuale (e dunque anche l'aspettativa collegata al comporto stesso), le regole di computo secondo il calendario comune, di cui agli artt. 2963 c.c. e 155 c.p.c., trovano applicazione soltanto in assenza di clausole contrattuali di diverso contenuto. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., ha ritenuto che l'art. 42, lett. d), comma 2, del c.c.n.l. Federambiente, stabilendo un periodo di aspettativa della durata massima di 270 giorni "calendariali", deroghi al criterio legale della non computabilità del "dies a quo", quale termine di tolleranza di un'astensione dal lavoro che è piena sin dal primo giorno di concessione dell'aspettativa stessa).

Cass. civ. n. 3046/2017

In tema di trattamento economico in caso di malattia, ove manchino disposizioni di legge o di fonte collettiva che consentano al lavoratore di fruirne, quel trattamento resta a carico del datore di lavoro, nella misura e per il tempo determinati o determinabili alla stregua dei criteri di cui alla seconda parte dell'art. 2110, comma 1, c.c.. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva rigettato la domanda di una lavoratrice, impiegata del settore industria, secondo la classificazione INPS delle imprese esercenti attività di elaborazione dati, cui non competeva alcuna indennità di malattia ai sensi del d.l.vo lgt. n. 213 del 1946 né dell'art. 76, comma 4, del c.c.n.l. di settore del 1 giugno 2001).

Cass. civ. n. 15687/2016

I giorni di malattia di cui il lavoratore abbia fruito dopo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dichiarato illegittimo in sede giudiziale, non possono essere utilmente computati ai fini del superamento del periodo di comporto per giustificare un ulteriore recesso datoriale atteso che, per effetto del provvedimento espulsivo, il lavoratore non era più tenuto all'obbligo di presenza, ricostituito soltanto dalla statuizione giudiziale ripristinatoria della funzionalità del rapporto.

Cass. civ. n. 10852/2016

Alla malattia del lavoratore consegue di diritto la sospensione del rapporto, compreso il decorso del preavviso, per tutto il suo protrarsi, a prescindere dalla dichiarazione aziendale di volersene avvalere, e, ugualmente, il sinallagma funzionale del rapporto riprende senza alcuna sollecitazione datoriale dopo la cessazione dello stato morboso, sicché va escluso operino al riguardo, in attuazione dei principi di correttezza e buona fede, obblighi d'informazione datoriali, trattandosi di effetti giuridici previsti direttamente dalla legge. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di appello, proposto da lavoratrice licenziata per giusta causa dopo che era stata in malattia, con sospensione del preavviso relativo ad un primo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e non era rientrata al lavoro, senza giustificazioni per l'assenza, allo scadere del periodo coperto da certificazione medica).

Cass. civ. n. 24525/2014

In caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla scadenza di questo, l'atto di recesso è nullo per violazione della norma imperativa, di cui all'art. 2110 cod. civ., e non già temporaneamente inefficace, con differimento degli effetti al momento della maturazione del periodo stesso, sicché va ammessa la possibilità di rinnovazione dell'atto, in quanto, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema di cui all'art. 1423 cod. civ.

Cass. civ. n. 22753/2014

Il lavoratore che, assente per malattia ed impossibilitato a riprendere servizio, intenda evitare la perdita del posto di lavoro conseguente all'esaurimento del periodo di comporto, deve comunque presentare la richiesta di fruizione delle ferie, affinché il datore di lavoro possa concedere al medesimo di beneficiarne durante il periodo di malattia, valutando il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro; né le condizioni di confusione mentale del lavoratore per effetto della malattia fanno venir meno la necessità di una espressa domanda di fruizione delle ferie, indispensabile a superare il principio di incompatibilità tra godimento delle ferie e malattia.

Cass. civ. n. 20106/2014

Ai fini del calcolo del periodo di comporto, si deve tener conto anche dei giorni non lavorativi, che cadono nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell'episodio morboso.

Cass. civ. n. 19400/2014

Nel licenziamento per superamento del periodo di comporto il requisito della tempestività non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce oggetto di una valutazione di congruità, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata, che il giudice di merito deve operare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative, mentre, per contro, il lavoratore è tenuto a provare che l'intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto il decorso del termine di quattro anni dal superamento del periodo di comporto non ostativo al legittimo recesso del datore di lavoro, avvenuto nella immediatezza della sentenza di primo grado dichiarativa della nullità di un precedente licenziamento intimato alla lavoratrice).

Cass. civ. n. 12563/2014

Nel rapporto di lavoro i principi di correttezza e buone fede rilevano, come norme di relazione con funzione di fonti integrative del contratto (art. 1374 cod. civ.), ove ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti al datore di lavoro dal contratto collettivo o da altro atto di autonomia privata; ne consegue che, in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro non ha l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettere al lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà, prevista dal contratto collettivo, di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa.

Il lavoratore il quale, dopo un periodo di inabilità temporanea assoluta conseguente ad infortunio, abbia acquisito la consapevolezza che l'Inail considera cessato lo stato di inabilità, per essergli stata sospesa l'erogazione della relativa indennità, e tuttavia, dopo la cessazione dello stato patologico dovuto ad infortunio, continui ad assentarsi dal lavoro, per la sopravvenienza di una malattia comune, sino a superare, in relazione a quest'ultima, il periodo di comporto e, quindi, venga licenziato per tale causa, non può invocare, per opporsi al licenziamento, la violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo contrattuale di correttezza e buona fede in relazione alla circostanza che questi, edotto del mutamento del titolo di assenza per comunicazione ricevutane dall'Inail, non abbia formulato un preventivo invito a riprendere la prestazione lavorativa pena il recesso, non potendo il lavoratore pretendere di utilizzare a proprio vantaggio la mancata informazione del datore sulle reali cause dell'assenza, in una situazione di acquisita consapevolezza della mancanza di un titolo per astenersi dal lavoro che potesse impedire la maturazione del periodo di comporto.

Cass. civ. n. 23063/2013

Lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l'esercizio del potere di recesso quando si tratti di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che, tuttavia, ove intimato, non è invalido ma solo inefficace e produce i suoi effetti dal momento della cessazione della malattia.

Cass. civ. n. 1404/2012

La malattia del lavoratore deve distinguersi dalla sua inidoneità al lavoro in quanto, pur essendo entrambe cause d'impossibilità della prestazione lavorativa, esse hanno natura e disciplina diverse, per essere la prima di carattere temporaneo e implicante la totale impossibilità della prestazione, che determina, ai sensi dell'art. 2110 c.c., la legittimità del licenziamento quando ha causato l'astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto, laddove la seconda ha carattere permanente o, quanto meno, durata indeterminata o indeterminabile, e non implica necessariamente l'impossibilità totale della prestazione consentendo la risoluzione del contratto, ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c., eventualmente previo accertamento di essa con la procedura stabilita dall'art. 5 dello statuto dei lavoratori, indipendentemente dal superamento del periodo di comporto. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha evidenziato che il licenziamento, motivato dall'asserita impossibilità dell'azienda di utilizzare proficuamente le prestazioni del lavoratore, discontinua a causa delle reiterate assenze per malattia, non era sorretto da un accertamento dell'eventuale inidoneità fisica del lavoratore).

Le regole dettate dall'art. 2110 c.c. per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali che su quella degli articoli 1256 e 1463 e 1464 c.c., e si sostanziano nell'impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso; le stesse regole hanno quindi la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione), riversando sull'imprenditore, in parte ed entro un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente. Ne deriva che il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente a legittimare il recesso, e pertanto non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo né dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.

Cass. civ. n. 24899/2011

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia del lavoratore, fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo suddetto, e quindi anche prima del rientro del prestatore, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno dell'assetto organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda. Ne deriva che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l'eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto legittima l'intimazione del licenziamento 19 giorni dopo il rientro in azienda del lavoratore, arco di tempo motivatamente valutato compatibile con le accertate dimensioni dell'impresa, ma anche con uno "spatium deliberandi" inteso alla concreta verifica di una possibile conservazione del rapporto).

Cass. civ. n. 7950/2011

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, non è consentito al datore di lavoro introdurre solo in appello un criterio di computo delle assenze meno favorevole per il lavoratore in quanto basato sostanzialmente sulla prospettazione di fatti, posti a fondamento della presunzione di continuità dell'episodio morboso (secondo la quale nel periodo suindicato vanno computati anche i giorni non lavorativi e le assenze intermedie tra una malattia e quella seguente), che non erano stati allegati, o non erano stati compiutamente allegati, in primo grado.

Cass. civ. n. 7037/2011

Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole "spatium deliberandi" che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della sua presenza in rapporto agli interessi aziendali; ne consegue che in questo caso la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto il decorso del termine di circa dieci mesi dal superamento del periodo di comporto non ostativo al recesso del datore di lavoro, avvenuto quando la morbilità del lavoratore era divenuta tale da rendere quest'ultimo non più utilmente e convenientemente reinseribile nell'apparato produttivo).

Cass. civ. n. 2981/2011

Poiché il superamento del periodo di comporto non implica la risoluzione automatica del rapporto, occorrendo che il datore di lavoro eserciti il suo diritto di recesso nelle forme di legge, la sussistenza delle condizioni legittimanti il potere di recesso disciplinato dall'art. 2110 c.c. deve essere verificata all'atto del suo esercizio, e con riferimento a tale momento va valutata l'anzianità del lavoratore cui il contratto collettivo collega la durata del periodo di comporto. Ne consegue che il superamento del periodo di comporto (determinato in relazione all'anzianità del lavoratore) deve essere valutato al momento dell'invio della lettera di licenziamento, ponendosi, una diversa soluzione, in contrasto con il sistema contrattuale collettivo della durata dei comporti crescente in rapporto alle maggiori anzianità.

Cass. civ. n. 1699/2011

In tema di licenziamento per giusta causa, la mancata prestazione lavorativa in conseguenza dello stato di malattia del dipendente trova tutela nelle disposizioni contrattuali e codicistiche - in ispecie, nell'ara. 2110 c.c. - in quanto questo non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore medesimo, il quale scientemente assuma un rischio elettivo particolarmente elevato che supera il livello della "mera eventualità" per raggiungere quello della "altissima probabilità", tenendo un comportamento non improntato ai principi di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. che debbono presiedere all'esecuzione del contratto e che, nel rapporto di lavoro, fondano l'obbligo in capo al lavoratore subordinato di tenere, in ogni caso, una condotta che non si riveli lesiva dell'interesse del datore di lavoro all'effettiva esecuzione della prestazione lavorativa. (Nella specie, il lavoratore, dirigente di un istituto di credito, si era recato ripetutamente in vacanza in Madagascar, dove era stato soggetto a reiterati attacchi acuti di malaria, con conseguente assenze dal posto di lavoro per lunghi periodi; la S.C., nel rigettare il ricorso, ha sottolineato che non veniva in discussione la libertà del lavoratore di utilizzare il periodo di ferie nella maniera ritenuta più opportuna, ma solo che il lavoratore non aveva tenuto una condotta prudente ed oculata essendo "prevedibilissima" l'insorgenza di attacchi della malattia, in quel luogo endemica, e che di ciò egli aveva piena consapevolezza, tant'è che, in una occasione, aveva motivato la richiesta di fruizione di ferie, poi trascorse nel paese straniero, con le esigenze di cure della madre ammalata).

Cass. civ. n. 13256/2010

Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro si trovi nell'impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa per causa a lui non imputabile (nella specie, per l'adesione ad uno sciopero da parte della stragrande maggioranza del personale dipendente e la conseguente inutilizzabilità del personale residuo non scioperante), il diritto alla retribuzione non viene meno per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro sia già sospeso per malattia ai sensi dell'art. 2110 c.c., atteso che la speciale disciplina dettata per ragioni di carattere sociale dall'art. 2110 c.c. investe in via esclusiva il rapporto tra datore di lavoro e singolo lavoratore, e su di essa non possono pertanto incidere le ragioni che, nel medesimo periodo di sospensione del rapporto, rendano impossibile la prestazione di altri dipendenti in servizio, senza che, peraltro, possa in tal modo configurarsi una violazione del principio di parità di trattamento, posto che detto principio non può essere validamente invocato al fine di eliminare un regime differenziale voluto a tutela di particolari condizioni già ritenute meritevoli di un trattamento privilegiato.

Cass. civ. n. 27762/2009

In tema di periodo di comporto per il lavoro a tempo parziale verticale, anche dopo l'entrata in vigore della disciplina dettata dal d.l.vo n. 61 del 2000 - che ha introdotto il principio di non discriminazione tra lavoro a tempo parziale e lavoro a tempo pieno - il giudice, mediante il ricorso alle fonti indicate dall'art. 2110 c.c., può provvedere al riproporzionamento al fine di evitare conseguenze eccessivamente onerose per il datore di lavoro, non ostandovi la circostanza che il potere di modulazione della durata di tale periodo sia demandato alla contrattazione collettiva, attesa la necessità, in assenza di quest'ultima, di applicare il rapporto di proporzionalità in relazione alla durata temporale dell'impegno lavorativo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto legittimo il licenziamento della lavoratrice con contratto a tempo parziale verticale per superamento del periodo di comporto previsto dall'art. 150 del CCNL del settore turismo e pubblici esercizi, applicando il rapporto di proporzionalità alla disposizione negoziale collettiva e all'impegno lavorativo rapportato al tempo, così determinando in 135 il numero dei giorni per anno di conservazione del posto di lavoro, superato per essersi la lavoratrice assentata per un periodo maggiore)

Cass. civ. n. 5078/2009

Il lavoratore ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia; in tali casi non sarebbe costituzionalmente corretto precludere il diritto alle ferie in ragione delle condizioni psico-fisiche inidonee al loro pieno godimento non potendo operare, a causa della probabile perdita del posto di lavoro conseguente al superamento del comporto, il criterio della sospensione delle stesse e del loro spostamento al termine della malattia - perché si renderebbe così impossibile la effettiva fruizione delle ferie. Spetta poi al datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, di dimostrare - ove sia stato investito di tale richiesta - di aver tenuto conto, nell'assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del osto di lavoro per scadenza del periodo di comporto. (Nella specie, la S.C., nell'enunciare l'anzidetto principio, ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto che la richiesta di ferie del lavoratore non si contrapponesse affatto agli interessi aziendali, considerato anche che, all'epoca dei fatti, l'impresa imponeva ai lavoratori il godimento a turno di una settimana di ferie per evitare la cassa integrazione, e lo spostamento dei turni di ferie comportava un semplice intervento organizzativo).

Cass. civ. n. 28460/2008

Nei casi in cui la contrattazione collettiva di categoria prevede nella lettera di alcune sue clausole un unico termine di comporto con riferimento sia alle assenze che all'infortunio, il giudice di merito deve accertare - all'esito di una interpretazione logico-sistematica di tutte le clausole che regolano l'istituto - se siano rinvenibili o meno nell'ambito della contrattazione collettiva elementi sufficienti di identificazione di una volontà delle parti negoziali volta a fissare una indifferenziata disciplina, con la fissazione di un unico termine congruo di comporto(da valutarsi anche con riferimento alla specificità dell'attività spiegata dal datore di lavoro), sia per le assenze che per gli infortuni, o se, di contro, siano riscontrabili all'interno della stessa contrattazione, elementi che attestino una diversa volontà, e che siano anche sufficienti all'individuazione di termini di comporto differenziati in ragione della causa delle assenze (se derivanti o meno da infortunio) e di quella degli infortuni (se verificatisi o meno sul lavoro). Solo nell'eventualità che si riscontri una assoluta carenza di disciplina pattizia, il giudice può determinare, secondo equità, il periodo di comporto per sommatoria, tenendo conto, in concreto, della causa dell'assenza dal lavoro e, quindi, del fatto che detta assenza sia imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata, al fine proprio di differenziare i termini di comporto e di determinare la durata del comporto per sommatoria in ragione della diversa causale delle assenze dal lavoro.

Cass. civ. n. 14891/2006

Nella fattispecie di recesso del datore di lavoro per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento, in cui il dato dell'assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva; ne consegue che non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cosiddetto esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell'accertamento della sua inidoneità ad adempiere l'obbligazione.

Cass. civ. n. 13624/2005

...essendo il superamento del periodo di comporto condizione di legittimità del recesso, in mancanza di un comporto determinato dalla legge, è preliminare ed essenziale l'accertamento — da parte del giudice di merito — del comporto contrattualmente previsto, oltre che la verifica in fatto del numero delle assenze computabili secondo la stessa previsione contrattuale. (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, pur avendo acquisito la normativa contrattuale e l'elenco delle assenze, ne aveva omesso l'esame).

Cass. civ. n. 11092/2005

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non già ad un licenziamento disciplinare, sebbene ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, causale di licenziamento a cui si fa riferimento anche per le ipotesi di impossibilità della prestazione riferibile alla persona del lavoratore diverse dalla malattia. Solo impropriamente, riguardo ad esso, si può parlare di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale e trattandosi di eventi, l'assenza per malattia, di cui il lavoratore ha conoscenza diretta. Ne consegue che datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, idonee ad evidenziare un superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, come l'indicazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.

Cass. civ. n. 6143/2005

Anche nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, vale la regola generale dell'immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo di licenziamento, posta a garanzia del lavoratore — il quale vedrebbe altrimenti frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilaterale e la validità dell'atto di recesso — con la conseguenza che, ai fini del superamento del suddetto periodo, non può tenersi conto delle assenze non indicate nella lettera di licenziamento, sempre che il lavoratore abbia contestato il superamento del periodo di comporto e che si tratti di ipotesi di comporto per sommatoria, essendo esclusa, invece, l'esigenza di una specifica indicazione delle giornate di malattia nel caso di assenze continuative.

Cass. civ. n. 239/2005

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato durante la malattia del dipendente non è nullo, ma rimane sospeso fino alla guarigione del dipendente, e da quel momento torna a riprendere la sua efficacia.

Cass. civ. n. 16696/2004

La sussistenza delle condizioni legittimanti il potere di recesso disciplinato dall'art. 2110 c.c. deve essere verificata al momento del suo esercizio, atteso che il superamento del periodo di comporto non implica la risoluzione automatica del rapporto, ma occorre che il datore di lavoro, che intenda avvalersi di tale disposizione e delle collegate previsioni del contratto collettivo, eserciti il suo diritto di recesso con le forme prescritte per porre fine al rapporto. Ne consegue che il superamento del periodo di comporto in relazione all'anzianità del lavoratore deve essere valutato al momento dell'invio della lettera di licenziamento e non all'inizio del periodo di malattia.

Cass. civ. n. 7730/2004

Nell'ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della legge 12 aprile 1968, n. 482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini della conservazione del posto di lavoro ex art. 2110 c.c., se l'invalido sia stato adibito, in violazione dell'art. 20 della legge n. 482 del 1968, a mansioni incompatibili con le sue condizioni di salute, in quanto la impossibilità della prestazione deriva, in tale caso, dalla violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica del lavoratore, il quale è tuttavia gravato dell'onere di provare gli elementi oggettivi della fattispecie, sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, dimostrandone l'inadempimento, nonché il nesso di causalità tra l'inadempimento stesso, il danno alla salute e le assenze dal lavoro che ne conseguano.

Cass. civ. n. 9896/2003

La sospensione del termine di preavviso del licenziamento durante il decorso della malattia del lavoratore, con conseguente inefficacia del licenziamento fino alla cessazione della malattia o dell'esaurimento del periodo di comporto, costituisce un effetto che deriva direttamente dalla legge e, quindi, si produce per il solo fatto della sussistenza dello stato morboso, indipendentemente dalla comunicazione della malattia che, di regola, a seconda della disciplina collettiva, può essere effettuata entro tre giorni dall'insorgenza della malattia. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto inefficace il licenziamento, reputando irrilevante che la comunicazione della malattia fosse avvenuta poche ore dopo quella del recesso, una volta accertato che detta malattia preesisteva rispetto al recesso).

Cass. civ. n. 5413/2003

La fattispecie di recesso del datore di lavoro, per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), si inquadra nello schema previsto, ed è soggetta alle regole dettate dall'art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, con la conseguenza che, in dipendenza di tale specialità, e del contenuto derogatorio delle suddette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all'uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali. Le assenze del lavoratore per malattia non giustificano, tuttavia, il recesso del datore di lavoro ove l'infermità sia comunque imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro, in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza odi specifiche norme, incombendo, peraltro, sul lavoratore l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia e il carattere morbigeno delle mansioni espletate. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, in una situazione in cui era incontestato il superamento del periodo di comporto, aveva ritenuto, con motivazione immune da vizi logici, che non risultava provata l'adibizione del lavoratore a lavorazioni morbigene).

Cass. civ. n. 3028/2003

Il lavoratore che, assente per malattia ed impossibilitato a riprendere servizio intenda evitare la perdita del posto di lavoro a seguito dell'esaurimento del periodo di comporto, deve comunque presentare la richiesta di fruizione delle ferie, affinché il datore di lavoro possa concedere al medesimo di fruire delle ferie durante il periodo di malattia, valutando il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro, né le condizioni di confusione mentale del lavoratore per effetto della malattia fanno venir meno la necessità di una espressa domanda di fruizione delle ferie, indispensabile a superare il principio di incompatibilità tra godimento delle ferie e malattia.

Cass. civ. n. 15954/2001

Al lavoratore assente per malattia è consentito di mutare il titolo dell'assenza con la richiesta di fruizione delle ferie già maturate al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto; ove una richiesta di ferie sia stata avanzata e, sia pure parzialmente, accolta prima del superamento del periodo di comporto, la dedotta successiva rinuncia alla fruizione delle ferie nel periodo indicato dal datore di lavoro deve essere provata in maniera chiara e inequivoca, attesa la garanzia costituzionale del diritto alle ferie e il rilevante e fondamentale interesse del lavoratore a evitare, con la fruizione delle stesse o di riposi compensativi già maturati, la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto, con la ulteriore conseguenza della perdita definitiva della possibilità di godere delle ferie maturate. (Omissis).

Cass. civ. n. 9037/2001

L'inosservanza del divieto di licenziamento del lavoratore in malattia, fino a quando non sia decorso il cosiddetto periodo di comporto (art. 2110, comma secondo, c.c.), non determina di per sé la nullità della dichiarazione di recesso del datore di lavoro, ma implica, in applicazione del principio della conservazione degli atti giuridici (art. 1367 c.c.), la temporanea inefficacia del recesso stesso fino alla scadenza della situazione ostativa.

Cass. civ. n. 13816/2000

Ai fini di licenziamento per superamento del periodo di comporto, ove la disciplina contrattuale non contenga esplicite previsioni di diverso tenore, devono essere inclusi nel calcolo del periodo di comporto anche i giorni festivi o comunque non lavorativi (compresi quelli di fatto non lavorati, ad esempio per uno sciopero) che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), una presunzione di continuità, in quei giorni, dell'episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell'assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta, dovendosi tuttavia precisare che la prova idonea a smentire la suddetta presunzione di continuità può essere costituita soltanto dalla dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa, atteso che solo il ritorno in servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del rapporto, con la conseguenza che i soli giorni che il lavoratore può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel periodo di comporto (provando che fin da allora, nonostante le eventuali diverse risultanze delle attestazioni sanitarie, aveva recuperato la salute) sono quelli successivi al suo rientro in servizio, dovendosi perciò escludere che il lavoratore che sia stato assente dal lavoro ininterrottamente per tutto il periodo di malattia indicato dal certificato medico possa sottrarre al calcolo ai fini del comporto i giorni festivi (o non lavorativi) ricadenti in tale periodo provando la guarigione relativamente ai suddetti giorni e l'immediata ripresa della malattia nei giorni successivi.

Cass. civ. n. 9032/2000

In ipotesi di avvenuto superamento del periodo di comporto, l'accettazione, da parte del datore di lavoro, della ripresa della attività lavorativa del dipendente non equivale di per sé a rinuncia al diritto di recedere dal rapporto, ai sensi dell'art. 2110 c.c., e quindi non preclude (salvo diversa previsione della disciplina collettiva) l'esercizio di tale diritto, ferma peraltro la necessità della sussistenza di un nesso causale fra la intimazione del licenziamento ed il fatto (superamento del periodo di comporto) addotto a sua giustificazione. La prova della sussistenza di tale nesso (che è in re ipsa in ipotesi di licenziamento intimato non appena superata la soglia del comporto) deve essere fornita dal datore di lavoro nel caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo, mentre, nel caso di licenziamento intimato dopo pochi giorni dalla riammissione in servizio, è onere del lavoratore provare che tale riammissione costituisce nel caso concreto — eventualmente in concorso con altri elementi — una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso. Tale criterio temporale di discriminazione dell'onere probatorio ha, peraltro, valore solo indicativo, spettando in definitiva al giudice di merito (che è tenuto a dare ragione del proprio convincimento) valutare la congruità o meno (con riguardo, in particolare, alle caratteristiche organizzative e dimensionali dell'impresa) del tempo intercorso fra la ripresa del lavoro ed il licenziamento.

Cass. civ. n. 7924/2000

In caso di infortunio sul lavoro, la legge rimette alle parti collettive la determinazione dei termini di conservazione del posto di lavoro nel periodo successivo all'infortunio (art. 2110 c.c.); pertanto, è legittima la previsione contrattuale (nella specie, artt. 18 e 19 C.C.N.L. 14 ottobre 1990 per il settore industriale) che, ai fini del comporto, consideri come malattia «comune» un periodo di malattia da infortunio sul lavoro, successivo alla certificazione di avvenuta guarigione clinica dall'infortunio.

Cass. civ. n. 6043/2000

La richiesta del lavoratore in malattia di utilizzare un periodo di ferie per il prolungamento dell'assenza al fine di evitare il superamento del periodo di comporto deve contenere l'indicazione del momento a decorrere dal quale egli intende ottenere la conversione del titolo dell'assenza e deve precedere la scadenza del periodo di comporto, dato che al momento di detta scadenza il datore di lavoro acquisisce il diritto di recedere ai sensi dell'art. 2110 c.c.

Cass. civ. n. 4629/2000

Ai fini della determinazione del periodo di comporto, l'art. 2110 c.c. rinvia alla legge, ai contratti collettivi, agli usi e all'equità, onde è possibile ricorrere a quest'ultima solo in assenza delle altre fonti; ne consegue che quando la contrattazione collettiva disciplini il comporto per sommatoria, il giudice deve attenersi alla relativa disposizione senza possibilità di sostituirla o integrarla col ricorso all'equità. (Nella specie, essendo stato previsto dal contratto collettivo un comporto per sommatoria della durata di tre o sei mesi a seconda che l'anzianità del lavoratore fosse inferiore o superiore ai dieci anni, era stata richiesta al giudice di merito la determinazione equitativa di un ulteriore periodo di comporto, di durata intermedia rispetto ai due già fissati, per i dipendenti prossimi al raggiungimento dei dieci anni di servizio; in applicazione del principio suesposto, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva applicato il più breve periodo di tre mesi al lavoratore che non raggiungeva i dieci anni di servizio, pur essendovi prossimo).

Cass. civ. n. 14065/1999

In caso di malattia del lavoratore, l'art. 2110, comma secondo, c.c. — il quale prevede che il recesso del datore di lavoro può essere esercitato solo dopo il protrarsi dell'impossibilità della prestazione per il periodo di tempo stabilito dalla legge, dalle norme collettive, dagli usi e secondo equità (cosiddetto periodo di comporto) — non va riferito esclusivamente alla malattia a carattere unitario e continuativo, ma deve ritenersi comprensivo anche dell'ipotesi di un succedersi di malattie a carattere intermittente e reiterato, ancorché frequenti e discontinue in relazione ad uno stato di salute malfermo (cosiddetta eccessiva morbilità). Ne consegue, stante la prevalenza dell'art. 2110 c.c. (disposizione speciale) sulla disciplina generale della risoluzione del rapporto di lavoro, che, anche nella ipotesi di reiterate assenze per malattia del dipendente, il datore di lavoro non può licenziarlo per giustificato motivo, ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, ma può esercitare il recesso solo dopo il periodo all'uopo fissato dalla contrattazione collettiva, ovvero, in difetto, determinato secondo equità.

Cass. civ. n. 4718/1998

La malattia e l'infortunio, comportanti entrambi l'impossibilità della prestazione per causa riferibile al lavoratore (seppure a lui non imputabile), sono oggetto della medesima tutela predisposta dall'art. 2110 c.c., anche per quanto attiene al potere demandato all'autonomia collettiva di determinare la durata del periodo di conservazione del posto di lavoro e di identificare i criteri per il calcolo del comporto; in applicazione di tale principio, così come deve ritenersi consentita una considerazione unitaria delle due situazioni ad opera delle parti stipulanti il contratto collettivo, deve ugualmente ammettersi la legittimità della previsione, nel contratto collettivo, di un'autonoma (e diversificata) maturazione del periodo di comporto per l'infortunio sul lavoro: in tale ipotesi, pertanto, le assenze per le due causali non potranno unitariamente concorrere alla consumazione del comporto per malattia «generica». (Fattispecie relativa al C.C.N.L. per i dipendenti delle aziende commerciali).

Cass. civ. n. 716/1997

Con riferimento al licenziamento che trovi giustificazione nelle assenze per malattia del lavoratore, la disciplina speciale posta dall'art. 2110 c.c. trova applicazione in luogo di quella sui licenziamenti individuali dettata dalla legge n. 604 del 1966 limitatamente alla materia comune ad entrambe, e cioè alla normativa di natura sostanziale attinente alle ragioni e ai motivi del licenziamento, mentre anche al licenziamento per superamento del periodo di comporto si applicano le regole dettate dall'art. 2 della legge n. 604/1966 (modificato dall'art. 2 della legge n. 108 del 1990) sulla forma dell'atto e la comunicazione dei motivi del recesso, poiché nessuna norma speciale è al riguardo dettata dall'art. 2110 c.c. Conseguentemente, qualora l'atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali dia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore — il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l'esigenza di poter opporre propri specifici rilievi — ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, mentre, nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta, delle assenze non contestate non può tenersi conto ai fini della verifica del superamento del periodo di comporto.

Cass. civ. n. 5927/1996

L'art. 2110 c.c., nel prevedere, come autonoma ed ulteriore causa di recesso del datore di lavoro il superamento del periodo di comporto — con la conseguenza che il dipendente può essere licenziato per il solo fatto del protrarsi del suo stato di malattia oltre il detto periodo a prescindere dalla sussistenza di una giusta causa odi un giustificato motivo di recesso — non si pone in contrasto con principi costituzionali, posto che la previsione costituzionale del diritto dei lavoratori alla previdenza ed all'assistenza sociale ed al mantenimento del posto di lavoro non comporta affatto che il rapporto debba comunque proseguire senza limiti di tempo quando il lavoratore sia impossibilitato ad adempiere la propria obbligazione per un periodo imprecisato, considerati gli oneri che ne deriverebbero al datore di lavoro sia sotto il profilo patrimoniale, anche nell'ipotesi in cui egli sia esentato dalla controprestazione retributiva, sia sotto quello dell'organizzazione aziendale, e considerato altresì che la funzione della norma è quella di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione).

Cass. civ. n. 6601/1995

Nella determinazione, con il criterio dell'equità, del tempo massimo del periodo di comporto per assenze frazionate, in mancanza di una disciplina collettiva delle conseguenze di tali assenze, il giudice deve tendere ad assimilare quanto più possibile questa forma di determinazione del tempo del comporto alle altre fonti indicate nell'art. 2110, secondo comma, c.c. il quale richiama l'equità come fonte di completamento del proprio contenuto precettivo e solo perché ipotizza una carenza delle altre possibili discipline legali o contrattuali prioritariamente richiamate e può quindi fissare il termine c.d. interno del comporto per sommatoria in un numero di giornate pari a quella prevista per assenze per un'unica malattia, identificando nel periodo di durata del contratto, individuato partendo a ritroso dalla data del licenziamento, il termine c.d. esterno, e cioè l'arco temporale in cui effettuare la somma dei vari episodi di malattia, atteso che in tal modo la valutazione del giudice risulta legata agli elementi costanti e riproducibili del rapporto in concreto esaminato così da essere, potenzialmente, riformabile anche in altre controversie ed estensibile a tutti i possibili rapporti appartenenti allo stesso settore produttivo e allo stesso settore di contrattazione collettiva.

Cass. civ. n. 3517/1992

Ove le reiterate assenze del lavoratore risultino riconducibili ad un'unica affezione che trovi la sua causa, ancorché non esclusiva, nelle particolari modalità di esecuzione della prestazione, sì che la prosecuzione del lavoro espletato negli intervalli fra gli episodi morbosi acuti esponga l'interessato ad una pressoché inevitabile ricaduta con aggravamento delle sue condizioni fisiche, dando sostanzialmente luogo ad una sorta d'inidoneità permanente del lavoratore stesso a svolgere regolarmente le mansioni assegnategli, il datore di lavoro 'che sia edotto' di ciò, pur non essendo tenuto a destinarlo ad altre mansioni, non deve consentire (in ossequio al diritto alla salute tutelato dall'art. 32 Cost. nonché al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto) che il lavoratore continui a prestare un'attività che ne metta in serio pericolo la salute; ma è invece tenuto — nell'osservanza del suindicato precetto costituzionale e senza necessità di attendere l'esaurimento del comporto (presupponendo la disciplina dettata dall'art. 2110 c.c. la diversa ipotesi dell'impedimento temporaneo del lavoratore affetto da malattia tale da consentire, una volta cessata, la ripresa del lavoro senza rischi di ulteriore usura dell'integrità fisica) — a far valere quale titolo del proprio recesso (eventualmente sottoponendo il dipendente ad adeguato accertamento sanitario) l'impossibilità (di durata determinata o indeterminabile) della prestazione per inidoneità fisica, alla stregua della generale disciplina codicistica, in relazione alla quale il difetto d'interesse alla prosecuzione del rapporto va valutato alla stregua dei criteri previsti per la configurazione del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, restando peraltro esclusa l'ammissibilità, in linea generale, di un obbligo di adibire il dipendente ad altre mansioni.

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P. S. . chiede
mercoledì 03/07/2024
“Buon giorno studio brocardi. Mi sono messo in mutua dal giorno 2 luglio al giorno 6 luglio 2024.lo stesso giorno del 2 luglio alle ore17, 13 mi è arrivata la visita fiscale da parte dell'azienda, non mi a trovato a casa per soli pochi minuti circa 6 minuti. Ero dal medico curante a farmi dare delle fialette antidolorifico che aveva in vetrina in omaggio corro subito a casa, tra l'altro ero in macchina non guidavo io mi feci accompagnare alle 17, 19 circa ma il controllo era già passato oggi alle ore 9,00 del mattino mi sono recato all'Inps sede legale per dare giustificare la mia assenza domiciliare in piu mi hanno visitato è mi hanno confermato i giorni di malattia che mi diede il mio medico di base. Vogliono anche la giustifica del mio medico di base ma se per caso il mio medico non me la fa, per vari motivi. La mia domanda è, innanzitutto è la primissima volta che mi capita ciò mai successo prima. La domanda diretta è l'azienda può licenziarmi??? O vado solo incontro alle sanzioni disciplinari?”
Consulenza legale i 10/07/2024
In caso di assenza alla visita domiciliare, il lavoratore viene invitato a recarsi presso gli ambulatori della struttura territoriale INPS, in una data specifica. Per non incorrere in azioni disciplinari da parte del datore di lavoro, è tenuto a presentare una giustificazione valida per l’assenza.

Il lavoratore non può assentarsi dall’indirizzo di abituale dimora durante le fasce orarie di reperibilità in cui viene effettuato il controllo se non per:
  • necessità di sottoporsi a visite mediche generiche urgenti e ad accertamenti specialistici che non possono essere effettuati in orari diversi da quelli compresi nelle fasce orarie di reperibilità;
  • provati gravi motivi personali o familiari;
  • cause di forza maggiore.
Non può essere sottoposto alla visita fiscale, inoltre, il dipendente che si trova in ospedale ricoverato.

Nel caso di specie, anche nel caso in cui il medico confermasse la versione, non vi sarebbe comunque un motivo valido per l'assenza alla visita fiscale.

Il lavoratore che deve assentarsi durante le fasce orarie di reperibilità deve, peraltro, avvertire immediatamente la propria amministrazione (che provvede ad avvertire l’Inps) o il proprio datore di lavoro, fornendo la motivazione dell’allontanamento del domicilio (che dovrà essere supportata da idonea documentazione).

Il dipendente, per giustificare l’assenza dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità, quando la motivazione dell’assenza stessa è di natura sanitaria, deve trasmettere all’Inps la relativa documentazione entro 15 giorni.
L’Inps, a seguito della ricezione della documentazione, fornisce un parere sull’opportunità di giustificare, o meno, l’assenza.

Gli esiti della valutazione dell’Inps sono messi a disposizione del datore di lavoro, che può consultarli online, presso la sezione del portale web dell’istituto: Richiesta visite mediche di controllo/consulta verbale giustificabilità.

È dunque il datore a dover decidere sulla giustificazione dell’assenza alla visita fiscale, sia per motivi sanitari (su cui l’Inps esprime solo un parere) che, a maggior ragione, per ogni altro genere di motivi.

In caso di assenza ingiustificata alla visita domiciliare, seguita da visita ambulatoriale che conferma la malattia è prevista la perdita dell’indennità (per un massimo di 10 giorni) per i giorni di malattia fino al giorno precedente la visita ambulatoriale.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3318/2021, resa nel novembre 2021, si è interrogata sulle conseguenze ricollegabili al comportamento del lavoratore che omette di comunicare all’Azienda il proprio allontanamento dal domicilio durante le fasce di reperibilità per la visita fiscale nel periodo di malattia.

Secondo la Corte di Cassazione deve ritenersi legittima la trattenuta della retribuzione per il lavoratore assente alla visita fiscale senza aver preventivamente avvertito dello spostamento.

L’onere di provvedere a tale comunicazione corrisponde infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità citata, all’adempimento dell’obbligo di cooperazione secondo correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro che grava sul lavoratore.

Solo con l’invio di tale comunicazione, che deve essere comunque documentata e ricollegabile a fatti oggettivi e circostanziati, il Datore di Lavoro è posto in condizione di esercitare il potere di verifica e controllo sul punto previsto dalla legge.

Nelle ipotesi in cui questa comunicazione non viene inviata, il Datore di Lavoro può operare legittimamente la corrispondente trattenuta sulla retribuzione, pari al giorno o al numero dei giorni nei quali risulta l’assenza.

Oltre alla perdita dell’indennità di malattia, l'assenza alla visita fiscale può comportare conseguenze disciplinari, ma il licenziamento per giusta causa è una misura estrema e viene applicata solo in casi particolarmente gravi e reiterati.

Sul punto bisogna fare riferimento anche a quanto previsto dal CCNL applicato e dal regolamento e codice disciplinare dell’azienda.

Secondo la giurisprudenza, la ripetuta assenza del lavoratore dal domicilio durante le fasce orarie di reperibilità in costanza di malattia, tale da non consentire la visita fiscale di controllo dell’Inps, integra una giusta causa di licenziamento qualora il lavoratore non abbia provveduto a fornire una adeguata dimostrazione della propria improcrastinabile esigenza di assentarsi per concomitanti e indifferibili esigenze.

La sentenza Cassazione civile sez. lav., 02/12/2016, n. 24681 ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato sul piano disciplinare a un lavoratore che per quattro volte era risultato assente alla visita di controllo, senza che lo stesso avesse fornito una idonea giustificazione all’impossibilità di essere presente presso il domicilio eletto nelle fasce di reperibilità.

Per la Corte, il licenziamento costituisce una misura proporzionata alla violazione dell’obbligo di reperibilità durante le fasce orarie prestabilite dal contratto collettivo, obbligo che prescinde dall’esistenza in sé dello stato di malattia costituendo un’obbligazione accessoria alla prestazione del rapporto di lavoro.

La Suprema Corte ha ritenuto, però, illegittimo, in quanto sproporzionato rispetto alla violazione, il licenziamento del dipendente comunale che si assenta per malattia senza inviare il certificato del medico del Ssn o di una struttura pubblica, nell’ipotesi in cui il lavoratore ha informato il datore di lavoro del suo stato e si è reso subito disponibile per una visita fiscale all’esito della quale è stata accertata la patologia.

Questo è quanto affermato dalla Cassazione che, contrariamente ai giudici di merito, ha ritenuto che con tale comportamento il dipendente non ha violato il rapporto di fiducia con l’ente locale.

Sebbene l’inadempimento del lavoratore sia palese, in quanto i certificati medici fiscali non costituiscono valida giustificazione dell’assenza per malattia, per la Corte, i giudici di merito avrebbero dovuto valutare la proporzionalità della massima sanzione irrogata, ovvero valutare se l’evento in questione non consentisse neanche provvisoriamente la prosecuzione del rapporto (Cassazione civile sez. lav., 26/09/2016, n.18858).

Secondo Cassazione civile sez. lav., 10/03/2016, n. 4695 la valutazione della gravità del fatto ai fini del licenziamento non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole mansioni, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo. (Nella specie, relativa al licenziamento del lavoratore per l’assenza ingiustificata alla visita di controllo effettuata presso il suo domicilio, il giudice del merito nel ritenere la sanzione espulsiva proporzionata alla entità dei fatti, non aveva sufficientemente dato conto del suo convincimento, non considerando che il ricorrente, dopo il primo accesso del medico fiscale, rimasto senza esito, si recò, per la visita di controllo, come da avviso immesso dallo stesso medico nella cassetta postale, presso l’ambulatorio indicato, dove venne riscontrata la sua inidoneità a riprendere servizio).

Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali riportati, il caso di specie dovrebbe comportare al più una sanzione economica sotto forma di perdita dell’indennità di malattia, mentre il licenziamento disciplinare sembrerebbe sproporzionato.


Anonimo chiede
lunedì 24/06/2024
“Buongiorno. Lavoro ne settore turismo precisamente alberghiero faccio pulizie camere, ho un contratto part time di 24 ore settimanali. Sono spesso assente per malattia dovuta a depressione e mi è stata riscontrata la fibromialgia e spesso sono bloccata dalla lombosciatalgia.Vorrei sapere se posso chiedere alla ditta il congedo per cure termali e chi mi dovrebbe fare il certificato.
grazie
resto in attesa di vostro cortese riscontro
cordiali saluti”
Consulenza legale i 01/07/2024
Il congedo per cure termali è stato istituito dall’art. 13 D.L. 463/1983. Questo congedo permette ai lavoratori di sottoporsi a cure termali per effettive esigenze terapeutiche o riabilitative e si distingue dalla malattia e dagli altri permessi retribuiti.

Il congedo ha una durata di 15 giorni non frazionabili e può essere concesso una volta all'anno.

Le cure termali devono essere erogate da strutture convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

La patologia deve essere inclusa nell'allegato 9 del DPCM 12 gennaio 2017, secondo il quale hanno diritto a fruire di cure termali con oneri a carico del SSN gli assistiti affetti dalle seguenti patologie:
  1. Malattie reumatiche: osteoartrosi ed altre forme degenerative; reumatismi extra articolari;
  2. Malattie delle vie respiratorie: sindromi rinosinusitiche-bronchiali croniche, bronchiti croniche semplici o accompagnate a componente ostruttiva (con esclusione dell'asma e dell'enfisema avanzato, complicato da insufficienza respiratoria grave o da cuore polmonare cronico);
  3. Malattie dermatologiche: psoriasi (esclusa la forma pustolosa, eritrodermica), eczema e dermatite atopica (escluse le forme acute vescicolari ed essudative), dermatite seborroica ricorrente;
  4. Malattie ginecologiche: sclerosi dolorosa del connettivo pelvico di natura cicatriziale o involutiva, leucorrea persistente da vaginiti croniche aspecifiche o distrofiche;
  5. Malattie O.R.L.: rinopatia vasomotoria, faringolaringiti croniche, sinusiti croniche, stenosi tubariche, otiti catarrali croniche, otiti croniche purulente non colesteatomatose;
  6. Malattie dell'apparato urinario: calcolosi delle vie urinarie e sue recidive;
  7. Malattie vascolari: postumi di flebopatie di tipo cronico;
  8. Malattie dell'apparato gastroenterico: dispepsia di origine gastroenterica e biliare, sindrome dell'intestino irritabile nella varietà con stipsi.
È necessario ottenere una prescrizione medica redatta da un medico specialista della ASL. Questo certificato deve attestare la presenza di patologie indicate dal DPCM 12 gennaio 2017 e dichiarare che è necessario un trattamento termale tempestivo, con indicazione di un termine per l'inizio della terapia non superiore a 30 giorni.

Il certificato deve essere presentato al datore di lavoro. Non è necessaria l'autorizzazione da parte del datore di lavoro, che dovrà solo verificare la completezza della documentazione. È comunque consigliabile informare tempestivamente il datore di lavoro per rispetto del dovere di collaborazione e buona fede.

Al rientro in azienda, è necessario fornire la documentazione rilasciata dallo stabilimento termale che attesti l'avvenuta sottoposizione alle cure prescritte.

Per quanto riguarda il caso di specie, le patologie descritte non sembrano rientrare tra quelle per cui è possibile fruire del congedo, ma sul punto si consiglia di rivolgersi al medico specialista.


L.B. chiede
martedì 30/01/2024
“Il 06 gennaio ho ricevuto una raccomandata con una contestazione disciplinare inerente a una assenza ingiustificata. Sono stato ammalato dal 13 al 19 di dicembre, ma purtroppo il medico ha trasmesso il certificato con decorrenza dal 14 al 19 dicembre. Sono ritornato dal medico e mi ha fornito una giustificazione da parte sua ammettendo l'errore e mi fornisce un certificato di tampone eseguito il giorno 13 che certifica la mia positività al covid.
In busta paga trovo €53 di trattenute per assenza ingiustificata nonostante abbia fornito risposta entro il termine di cinque giorni, è presentando i certificati medici forniti.
Il mio quesito è: non dovevano prima rispondere alla mia risposta e poi eventualmente detrarre i soldi il mese successivo?
Ho contattato l'ufficio del personale e mi cambia quei €53 ore di trattenuta con un giorno di ferie.
Ma perché alla fine devo sempre rimetterci io e non mettere un giorno di malattia?
Cordialmente”
Consulenza legale i 05/02/2024
Nel caso di errore del medico nella compilazione del certificato di malattia, l’operazione di rettifica online permette solo di anticipare la data di fine malattia. Se ci sono stati errori su altri campi, come in questo caso, il certificato va annullato utilizzando l'apposita funzione e poi va inviato un nuovo certificato.

Tuttavia, l’operazione di annullamento è possibile solo nelle 24 ore dall’emissione del certificato. Se la rettifica deve essere disposta oltre le 24 ore dall’emissione dell’attestazione, come nel caso di specie, il medico curante deve rilasciare al dipendente in malattia una analitica e dettagliata dichiarazione scritta con la quale certifica le variazioni dei dati rispetto a quelli trasmessi unitamente al certificato telematico.
Questa dichiarazione scritta deve essere consegnata all’Inps e al datore di lavoro a cura del dipendente.

Queste sono le indicazioni dell’INPS per quanto riguarda la casistica riportata.

Nel caso in cui il medico non abbia proceduto in tal senso, l’assenza risulterebbe ingiustificata, almeno nei confronti dell’INPS.

Potrebbe quindi essersi verificata questa ipotesi e, pertanto, sebbene l’assenza sia stata ritenuta giustificata dal datore di lavoro a livello disciplinare, nei sistemi dell’INPS il giorno 13 dicembre risulterebbe comunque come giorno di assenza ingiustificata, in quanto il certificato non è stato rettificato nei termini.

Per quanto riguarda il procedimento disciplinare, il datore di lavoro, entro i termini stabiliti dalla contrattazione collettiva, è tenuto a comunicare l’eventuale accettazione delle giustificazioni o la decisione di dare seguito al procedimento irrogando la sanzione appropriata. Se il provvedimento non viene comminato entro il termine stabilito, le giustificazioni si considerano accolte.

Pertanto, nel caso di specie, l’azienda potrebbe aver accettato tacitamente le giustificazioni e quindi aver archiviato il procedimento disciplinare. Diversamente, avrebbe dovuto comunicare l’irrogazione della sanzione disciplinare, per esempio una multa, che nel caso di specie non sembra essere stata irrogata.

Il datore di lavoro, infatti, ha effettuato solo una trattenuta sullo stipendio (che non si configura come sanzione disciplinare) per il giorno in cui effettivamente non si è lavorato e per cui non è forse possibile erogare la relativa indennità di malattia in quanto la rettifica non è stata correttamente inviata all’INPS.

Inoltre, trattandosi di una situazione comunque anomala, potrebbero esserci ragioni di contabilità interne che impediscono di agire diversamente.

Sarebbe stato opportuno, innanzitutto, che l’azienda, seppure non tenuta, avesse comunque risposto alle giustificazioni del lavoratore.

In secondo luogo, la compensazione della trattenuta per assenza ingiustificata con una giornata di ferie non appare corretta, soprattutto perché appare imposta e non concordata con il lavoratore. Tuttavia, potrebbe essere stato un tentativo del datore di lavoro di rimediare all’impossibilità burocratica di far figurare il giorno 13 come giorno di malattia per le ragioni sopra esposte.


F. D. F. chiede
martedì 26/07/2022 - Abruzzo
“Sono un appartenente al ruolo tecnico della polizia di stato.
Lo scorso 11.6.2021, all'esito di una visita presso la C.M.O. di Roma, sono stato giudicato temporaneamente inidoneo al servizio per giorni 30, ovvero sino al 10.7.21.
Ai successivi accertamenti, tuttavia fissati solo a distanza di ben due mesi (7.9.21), ho ripreso regolarmente servizio.
Sebbene il periodo 10.7.21-7.9.21, NON sia mai stato assistito da alcuna certificazione medica (l'importante differimento temporale, è maturato per "inefficienze organizzative estive" dell'organo collegiale e NON per il sussistere di una condizione patologica incompatibile con il servizio), l'ufficio d'appartenenza lo ha comunque computato quale "aspettativa per malattia", ai sensi dell'art.68 d.p.r. 3/57 e con tutto ciò che ne consegue, sia in termini di erosione del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro che di decurtazione progressiva del salario, ecc.
Muovendo dal generale principio per il quale, ritardi o inadempimenti della P.A., non possono in alcun modo pregiudicare la sfera giuridica del singolo, ed atteso come manchi ogni presupposto di malattia per l'applicazione del suddetto art.68, vi chiedo, dunque, quale dovrebbe essere la corretta posizione di stato giuridico del sottoscritto, nel periodo d'attesa suddetto (10.7.21-7.9.21).
Curiosando in rete, mi pare di aver letto come esistano molteplici pronunciamenti - pro lavoratore - sul tema.
Vi ringrazio in anticipo.”
Consulenza legale i 24/08/2022
In ambito lavorativo, la fine della malattia coincide con il momento in cui il lavoratore riacquista la capacità lavorativa. Ciò avviene il giorno successivo alla scadenza della prognosi alla quale non segua un'altra certificazione.
Nel caso di specie, tuttavia, il rientro in servizio è condizionato alla pronuncia di organi sanitari competenti.
Con riferimento alle amministrazioni pubbliche, si è espresso anche il Ministero della Difesa con nota del 1° ottobre 2020, prot. N. 56967 di cui si riportano degli estratti.

La nota del Ministero è stata sollecita da numerosi quesiti in ordine alla posizione di stato in cui collocare il dipendente per il periodo che intercorre tra la data di avvio della procedura per l’accertamento dell’idoneità psicofisica al servizio del lavoratore e la data della definitiva pronuncia da parte degli organi sanitari competenti (c. d. “periodo a disposizione della Commissione Medica”).

Accade sovente che, a seguito dell'avvio della suddetta procedura, l'organo sanitario competente, dopo aver riconosciuto il dipendente “temporaneamente inidoneo al servizio” per uno o più periodi, alla scadenza dell'ultimo di tali periodi, continui a trattenerlo “a disposizione della C.M.” - ritenendo necessario effettuare ulteriori e più approfondite analisi, controlli e/o esami specialistici integrativi - senza riconoscere tuttavia ulteriori periodi di temporanea inidoneità, con conseguente allungamento dei tempi di attesa della visita, privi, però, di copertura certificativa.
Secondo il Ministero, diviene, dunque, dirimente stabilire, in tutti questi casi, se sia in linea con la normativa e le disposizioni contrattuali vigenti collocare il dipendente, nel periodo in cui viene trattenuto “a disposizione della C.M.” in attesa della visita medica - periodo, vale ribadire, ascrivibile a formalismi procedurali e non già ad uno stato di incapacità lavorativa dello stesso effettivamente accertata e certificata dagli organi sanitari competenti - nella posizione di assenza per malattia, con conseguente inserimento dei giorni di attesa nel computo afferente la determinazione del periodo di conservazione del posto di lavoro previsto dall'art. 37, comma 1, CCNL triennio 2016-2018 (c. d. periodo di comporto) e delle decurtazioni economiche previste dal successivo comma 10, lettere b), c), d) della medesima disposizione contrattuale.

La suddetta tematica si è riproposta anche a seguito dell'introduzione, con D.P.R. n. 171/2011, della nuova disciplina in materia di procedura d'accertamento dell'idoneità psicofisica al servizio del dipendente e della successiva abrogazione, con circolare D.G. prot. n. 0650880 del 18.12.2012, della circolare D.G. prot. n.48323 del 27.7.2005, che aveva stabilito l'obbligo per l'amministrazione di disporre comunque, al rientro in servizio, la verifica dell'idoneità psicofisica nei confronti del dipendente che si fosse assentato per un periodo di malattia superiore a 45 giorni.
Infatti, nella vigenza della circolare abrogata, la questione era stata risolta in base al pronunciamento definitivo dell'organo sanitario competente (che allora era necessario attendere), di talché: nel caso in cui la C.M. avesse giudicato il dipendente definitivamente o temporaneamente inidoneo al servizio, tale giudizio era da considerarsi esteso, in via retroattiva e assolutamente presuntiva, a tutto il periodo precedente in cui lo stesso era rimasto “a disposizione della C.M.”, periodo che, pertanto, anche in mancanza di certificazione medica, era imputato ad assenza per malattia, con conseguente suo inserimento nel computo afferente la determinazione del periodo di comporto e delle decurtazioni economiche previste dalle disposizioni contrattuali allora vigenti (CCNL 1995); nel caso in cui, al contrario, la C.M. avesse giudicato il dipendente idoneo al servizio, il periodo in parola - in via, parimenti, del tutto presuntiva - era retroattivamente imputato ad attività di servizio, anche in mancanza della prestazione lavorativa.

Secondo il Ministero, oggi, alla luce dei principi fissati in materia dal D.P.R. n. 171/2011 cit., e della conseguente abrogazione della circolare D.G. prot. n. 48323 del 27.7.2005, non è più necessario ricorrere a presunzioni di sorta per risolvere la problematica, non sussistendo più alcun obbligo, a carico dell'amministrazione, di disporre comunque al rientro in servizio - o di attendere - la verifica dell'idoneità psicofisica nei confronti del dipendente assente per un periodo di malattia superiore a 45 giorni. Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 3 del D.P.R. cit., l'attivazione d'ufficio della procedura può avvenire solo in presenza dei seguenti presupposti:
a) superamento del periodo di conservazione del posto (c. d. periodo di comporto), di cui all'art. 37 co. 1 del CCNL 2016-2018, da parte del dipendente assente per malattia;
b) disturbi del comportamento gravi, evidenti e ripetuti, che facciano fondatamente presumere l'esistenza dell'inidoneità psichica permanente assoluta o relativa al servizio del lavoratore;
c) condizioni fisiche che facciano presumere l'inidoneità fisica permanente assoluta o relativa al servizio del dipendente.
Ne deriva che - decorso il periodo di temporanea inidoneità al servizio, anche superiore a 45 giorni, che sia riconosciuto dal medico di base con certificato telematico nell'ambito dell'ordinaria visita medica o con verbale della competente C. M. nell'ambito delle procedure di accertamento dell'idoneità psicofisica - il dipendente può riprendere servizio, senza necessità, ai fini dell'effettiva ripresa dell'attività lavorativa, di ulteriori verifiche e/o accertamenti in ordine alla sua idoneità psicofisica.

Pertanto, in conseguenza delle modifiche introdotte dal D.P.R. n. 171/2011 cit., l'intervallo di tempo che intercorre tra il periodo di attesa della visita medica di idoneità al servizio e la pronuncia da parte della Commissione Medica competente (“periodo a disposizione della C. M”), non costituisce autonoma causa di sospensione del rapporto di lavoro, ma rientra - e trova adeguata regolamentazione - nella disposizione generale prevista dall'art. 37 del CCNL 2016-2018, in applicazione della quale il suddetto periodo può essere imputato giuridicamente ad assenza per malattia soltanto ed esclusivamente a condizione che sussista idonea certificazione sanitaria (certificato medico o verbale della C. M.) attestante la temporanea incapacità al lavoro del dipendente, con conseguente inserimento, in tal caso, dei relativi giorni nel computo della determinazione del periodo di comporto e delle decurtazioni economiche previste dall'art. 37, comma 10, lett. b, c, d), del CCNL cit.

Al di fuori della suddetta ipotesi, e cioè in difetto di certificazione sanitaria attestante la temporanea incapacità al lavoro, il dipendente, per tutto il periodo di attesa della visita medica, deve considerarsi idoneo al servizio ed è, di conseguenza, tenuto a prestare attività lavorativa almeno sino al giudizio dell'organo sanitario competente, dal cui esito definitivo (idoneità, oppure temporanea inidoneità) dipende la posizione di stato in cui il dipendente sarà collocato per il successivo periodo, salvo sia giudicato permanentemente inidoneo in modo assoluto al servizio.
Occorre, peraltro, far presente che, per tutto il suddetto periodo di attesa della visita medica per l'accertamento dell'idoneità, l'Ente/Amministrazione datoriale dispone anche della possibilità di avvalersi dell'istituto della sospensione cautelare dal servizio del lavoratore - indipendentemente dalla circostanza che la procedura di accertamento sia stata avviata d'ufficio oppure ad istanza del dipendente interessato - purché ricorra almeno una delle condizioni previste dall'art. 6, comma 1, lett. a), b), del D.P.R. n. 171/2011 e, cioè, sussistano disturbi del comportamento gravi, evidenti e ripetuti o condizioni fisiche tali da far presumere, rispettivamente, l'inidoneità psichica o fisica al servizio del dipendente stesso, e sempreché le suddette circostanze comportino un pericolo per la sicurezza o per l'incolumità del dipendente interessato, degli altri dipendenti o dell'utenza.

Vale precisare, sul punto, che, ai sensi dell'art. 6, comma 7, D.P.R. n. 171/2011, il periodo di sospensione cautelare dal servizio è escluso dal computo per la determinazione del periodo di comporto per malattia e al dipendente è corrisposta un'indennità pari al trattamento retributivo spettante in caso di assenza per malattia in base alla legge e ai contratti collettivi; detto periodo, inoltre, è valutabile ai fini dell'anzianità di servizio e nel caso in cui l'accertamento medico si concluda con un giudizio di piena idoneità, l'Amministrazione provvederà alla restituzione delle somme eventualmente decurtate (art. 6, comma 7, ultimo capoverso, D.P.R. cit.).

Pertanto, in caso di avvio della procedura di verifica dell'idoneità psicofisica al servizio del lavoratore ai sensi dell'art.3, D.P.R. n. 171/2011, per tutto il periodo di attesa della visita medica di idoneità al servizio presso la Commissione Medica competente, il dipendente è da considerarsi idoneo al servizio e, di conseguenza, è tenuto a prestare attività lavorativa quantomeno sino al giudizio della competente Commissione Medica, salvi, i casi in cui, in ordine al medesimo periodo:
• sussista idonea certificazione sanitaria (certificato medico o verbale della C.M. competente) attestante la temporanea incapacità al lavoro del dipendente: in tal caso, i relativi giorni dovranno essere inseriti nel calcolo delle assenze dal servizio per malattia, ai fini della determinazione del periodo di comporto e delle decurtazioni economiche previste dall'art. 37, comma 10, lett. b), c), d), del CCNL 2016-2018;
• l'Ente/Amministrazione di appartenenza disponga la sospensione cautelare dal servizio del dipendente sino alla data della visita medica: in tal caso, i relativi giorni sono esclusi dal computo per la determinazione del periodo di comporto e al dipendente è riconosciuta un'indennità pari al trattamento retributivo spettante in caso di assenza per malattia in base alla legge e ai contratti collettivi.

In conclusione, tale impostazione, tesa a non far gravare sul computo delle assenze per malattia del dipendente i periodi di attesa della visita medica di idoneità al servizio privi di copertura certificativa, costituisce una forma di garanzia e di tutela del lavoratore, preservandolo dal duplice pregiudizio - cui, diversamente, andrebbe incontro - sia in ordine all'interesse a che le sue assenze per malattia non superino il limite del periodo massimo di conservazione del posto previsto dal contratto (18 mesi nel triennio, ai sensi dell'art. 37, comma 1, CCNL 2016-2018), con il correlato rischio di risoluzione del rapporto di lavoro ai sensi dell'art. 37, comma 5, CCNL cit., quanto in ordine al trattamento economico a lui spettante in conseguenza dell'applicazione delle decurtazioni stipendiali previste dalle vigenti disposizioni contrattuali (art.37, comma 10, CCNL cit.), specie se si consideri che tali decurtazioni assumono carattere di progressività proprio in ragione del corrispondente aumento dei giorni di assenza per malattia.

La nota del Ministero della Difesa citata è riferita ai dipendenti degli enti locali. Non è quindi applicabile direttamente alla Polizia di Stato. Tuttavia, il ragionamento sotteso potrebbe adattarsi anche al caso di specie.
Infatti, il periodo dal 10/7/2021 al 7/9/2021 non è supportato da idonea certificazione medica, pertanto, non può essere conteggiato come aspettativa per malattia.
Neppure può essere conteggiato come attività di servizio, non essendo stata prestata alcuna attività lavorativa.
Il ritardo della C.M.O. non può essere di certo addebitato al lavoratore, in termini di erosione del periodo di comporto e decurtazione progressiva del salario; lo stesso, infatti, non poteva riprendere servizio, né a quanto risulta, fornire altro tipo di certificazione.
Si potrebbe, pertanto, tentare, come da nota del Ministero, di far passare il periodo in questione come sospensione cautelare dal servizio.
Il dubbio è in merito alla fattibilità, ex post, di tale qualificazione.
Ad ogni modo, come correttamente rilevato, i ritardi della P.A. non possono pregiudicare la sfera giuridica del singolo.
Pertanto, nel caso non si riuscisse a rimediare qualificando diversamente il periodo in parola, si potrebbe richiedere il risarcimento del danno da ritardo della P.A.
È da tenere presente, tuttavia, che secondo una prima impostazione, il risarcimento del danno da ritardo non può prescindere dalla valutazione della spettanza del bene della vita richiesto inizialmente dall’interessato (si veda, Cons. Stato, Sez. IV, 12 luglio 2018, n. 4260; Cons. Stato, Sez. IV, 8 febbraio 2018).
La P.A. potrebbe quindi obiettare che non vi è prova che nel periodo in questione il dipendente sarebbe risultato idoneo al servizio e quindi, anche in caso di tempestività della C.M.O., l’aspettativa per malattia avrebbe potuto essere prolungata ulteriormente.
Esiste, tuttavia, un diverso orientamento, secondo il quale il «tempo» deve essere considerato quale bene della vita autonomo, la cui lesione e, ex se, rilevante ai fini risarcitori (Cons. Stato, Sez. V, 21 giugno 2013, n. 340).
A parere di chi scrive e anche alla luce delle considerazioni del Ministero della Difesa espresse nella nota riportata, è tuttavia corretto ritenere che il lavoratore abbia subito un pregiudizio ingiusto dovuto al ritardo della P.A. a cui deve essere posto rimedio, o qualificando diversamente il periodo a disposizione della C.M.O. (ad esempio, seguendo, se possibile, le indicazioni del Ministero, seppure basate su una normativa applicabile ad altro settore), oppure tramite risarcimento del danno.


Antonio E. chiede
giovedì 11/03/2021 - Campania
“CONTESTAZIONE 18 -19 FEBBRAIO 2021

Sono un insegnante di una scuola superiore.
Il giorno 18 febbraio verso le 3.00 am alzandomi per andare in bagno ho avuto forti brividi di
freddo con battito accelerato a 90 bpm che sono durati quasi un ora e mi hanno fatto pensare al Covid, dato che vivo da solo, la cosa era preoccupatissima.
Alle 7.20 mando un messaggio al vice preside (vp) dicendo testualmente:
Stanotte ho avuto brividi di freddo e battito accelerato, la temperatura sotto i 37 e nessuno altro sintomo influenzale.Se mi fai sostituire alle 9.00 in 1Ae potrei procedere da casa con la 3Bi e la 4Bi
(2+2 ore) che ruotano (cioè sono tutti a casa propria).
Stesso messaggio copiato e inviato a B.,altro collaboratore del dirigente (ds), incaricato alle sostituzioni, alle 7.24.
Poi alle 8.04 telefonavo alla segreteria a cui spiegavo il problema e mi chiedeva di inviare Email che ho intitolato così:
Lieve malessere prof xxxx yyy con il solito testo copiato e incollato.
Alle 9.03 scrivo nel gruppo della 1Ae dove dovevo essere in presenza alle 9.00 le seguenti parole:
Non verrò alle 9.00 per lieve malore ... la classe è scoperta ...se potete sollecitare una sostituzione ..ho fatto già 4 avvisi allo staff.
Alle 9.05 una collega con un vocale dice di scriverlo nel gruppo istituzionale (tutto il personale dirigente e insegnanti) e alle 9.07 con un altro vocale mi dice: comunque già lo sanno non ti preoccupare tutto a posto.Alle 9.10 la supplente mi scrive: Ti sto sostituendo ... spero niente di grave.
Alle 18.49, sempre del 18 febbraio scrivo un altro messaggio al vp: XXX buonasera, sto meglio ma non vorrei prendere freddo...potrei fare ( per domani ) le prime 4 ore da casa dato che 1Ae e 3Di ruotano (cioè sono a casa)-
Anche qui non ricevo risposta, come si può vedere e neanche la notifica di letto, cioè i baffi blue sono disattivati. Il vp però risponde a chi vuole lui.
Questo appare strano perché Whatsapp è diventato de facto e de jure una mezzo idoneo alle comunicazione assenze
Epperò scopro un metodo per sapere se è stato letto quindi posso dire con certezza che alle 18.49 era arrivato il secondo msg e il primo, quello delle 7.20, è arrivato con un IMPREVEDIBILE ritardo (device spento??) alle 17.57.
Il giorno 19 alle ore 8.00 inizio a fare lezione e alle 9.25 chiamo la scuola e mando e mail copiando e incollando il nuovo messaggio.
Alle 12.42 mi telefona il vp gridando e dicendo che la 1C è scoperta.
È da premettere che il ds con una circolare diceva che solo se in un giorno tutte le classi erano a distanza il docente poteva non venire a scuola, ma in un clima di flessibilità dovuta al Covid, lo scrivente anche se fortemente preoccupato per il malore acuto per cui continuamente telefono in farmacia per tampone e chiamo al medico,mi preoccupava anche del buon andamento per salvare 4 ore di lezione perdendone una in presenza e quindi chiedevo un permesso atipico ma non contrario alla circolare (contra jure), perché c'era l'elemento nuovo del malore. Il silenzio e la vocale che diceva “tutto a posto lo sanno” mi ha fatto pensare ad un tacito assenso, funzionale sia alla buon andamento sia alla organizzazione e quindi alle 11.00 incominciavo le mie 4 ore.
Lo stesso per il giorno 19.
Inoltre il 19 parlavo con il mio medico del malore, preoccupato che fosse covid, che mi diceva di cautelarmi dal freddo per alcuni giorni e mi chiedeva se necessitavo di un certificato a cui rispondevo: no! ho il permesso di procedere da casa.
Poi dopo 15 gg circa mi arriva la contestazione scritta, delle assenze ingiustificate a scuola del 18 e del 19 da me interpretati come permessi accordati e da recuperare.
Non solo ma diceva che le mie due email erano incomprensibili, ma per il principio della CORRETTEZZA e della COLLABORAZIONE nelle relazioni impersonali e della IMPARZIALITA' me lo doveva dire subito!! no??
Chiedo quindi quale potrebbe essere la miglior difesa.
A me sembra inosservata il principio di buona fede oggettiva sia nella forma extra contrattuale, in quanto con dolo e anche negligenza (baffi disabilitati) tentano un ingiusto danno a me,sia nella forma contrattuale che richiede di non recare danni all'altra parte fino al costo di un apprezzabile sacrificio personale ma senza ledere gli interessi dell 'ufficio.(non quelli personali credo !!)
A questo punto devo dire che c'erano delle tensioni con la direzione ma tutte per la giustizia e la salute dei studenti che ciò dava fastidi personali sfociati in tentativi di abuso di diritto e di ufficio
Inoltre il vp più volte ha usato gesti minacciosi, spinte e minacce volgari vocali (ti farei il c. tanto!) con me e altri colleghi -
È anche da tenere presente che lo scrivente l'anno scorso ha fatto solo 2 assenze,per andare in tribunale come parte lesa e che questo anno non ne ha fatto nessuno.
Chiedo soprattutto: il vp e il ds erano obbligati a rispondere subito?
A me pare di si in questo caso il silenzio, se si vuole parlare di mio illecito, sarebbe una concausa, fatta con dolo e potrebbe configurare un concorso morale, con me e la direzione responsabili, o meglio ancora un inganno in questo caso il vp e la ds sarebbero gli unici responsabili.
In definitiva: interpretavo questo illegittimo silenzio come un consenso putativo, ma anche se fosse stato solo presunto portava benefici e comunque bisognava prendere una decisione TEMPESTIVA per le 9.00 e questa mi è sembrata diligente e proporzionata.
Mi viene anche contestato di aver firmato le ore fatte sul registro di classe perché doveva essere
fatto in presenza e nell'ora stabilita associata all'attività effettuata.
Ma questa è una conseguenza naturale del consenso putativo o presunto!!
Attendo vostri consigli
Grazie”
Consulenza legale i 19/03/2021
Il permesso può essere fruito solo previo consenso del datore di lavoro.
Tale consenso deve essere esplicito e non presunto.

Nel caso di specie, il permesso non è mai stato esplicitamente accordato. Infatti, il dipendente ha ricevuto soltanto una rassicurazione dalla collega (priva di qualsiasi valenza).
Inoltre, soprattutto per la giornata del 19 febbraio la motivazione addotta dal dipendente è alquanto debole (“non vorrei prendere freddo”).

Pur tralasciando la non ufficialità della richiesta inviata tramite Whatsapp, non è sufficiente che il datore di lavoro abbia avuto conoscenza della richiesta di permesso, ma è necessario che si sia espresso in merito.

Per quanto riguarda le conseguenze, la giurisprudenza ritiene legittimo addirittura il licenziamento del lavoratore nel caso in cui lo stesso fruisca ripetutamente di permessi retribuiti non autorizzati preventivamente dall’azienda (Cass. 2803/2015).

Tuttavia, è stato anche affermato che il dipendente che si assenta in malafede dal lavoro è suscettibile di licenziamento, mentre chi chiede un permesso confidando nel fatto che, secondo gli usi, il permesso gli verrà certamente accordato, mentre invece non avviene così, compie certamente un comportamento negligente, ma non per questo è causa di licenziamento. (Tribunale di Milano, sent. del 23.12.2015).
Ciò significa che, pur dimostrando la totale buona fede del dipendente, si tratterà comunque di un’assenza ingiustificata dal posto di lavoro, la quale potrebbe comportare una sanzione disciplinare anche se non la più grave del licenziamento.

Nel caso di specie, peraltro, il dipendente ha violato sia le disposizioni organizzative contenute nella circolare citata, sia le disposizioni riguardanti la tenuta del registro elettronico.
Pur convenendo sulla bontà delle intenzioni del dipendente, è pur vero che lo stesso si è arrogato il diritto di interpretare ed adattare alla situazione le normative richiamate senza avere il permesso del datore di lavoro e, oltretutto, per quanto risulta, senza neppure averne chiesto il permesso.

Per tutto quanto sopra esposto, la situazione appare particolarmente delicata, soprattutto in quanto non è stato chiesto un certificato medico, pertanto le motivazioni alla base della richiesta di permesso risultano di difficile prova.
In caso di malessere, infatti, sarebbe stato opportuno porsi in malattia. Diversamente, si sarebbe dovuto chiedere un permesso orario che tuttavia non è stato accordato.

Uno spiraglio potrebbe derivare dalla situazione contingente legata al COVID -19. Infatti, la sintomatologia riportata è vagamente riconducibile al COVID (anche se nell’e-mail, paradossalmente, il dipendente tenta di sminuire).
Con sintomatologia riconducibile al Covid l’insegnante avrebbe avuto in ogni caso il dovere di rimanere a casa.

Pertanto, in quanto alla strategia da attuare si consiglia di sottolineare tale ultimo punto, adducendo che il dipendente è rimasto a casa proprio in osservanza delle disposizioni che vietano di lasciare il proprio domicilio con sintomatologia riconducibile al Covid.
In secondo luogo, si dovrà sottolineare la totale buona fede del dipendente (tenendo conto, tuttavia, che come sopra esposto, la buona fede non esclude, ma al limite attenua, le conseguenze dell’illecito disciplinare). Si potrà quindi sostenere che il comportamento del dipendente è stato dettato proprio dall’intento di garantire la copertura delle classi per le quali era possibile impartire lezione da casa.

Per quanto riguarda l’assenza di risposta da parte del vicepreside e del dirigente scolastico, seppure tale aspetto debba essere ricordato nell’esposizione dei fatti a sostegno della buona fede del dipendente, si sconsiglia di fare riferimento, almeno in sede di giustificazioni, alla malafede degli stessi, in quanto potrebbe inasprire la situazione.

Infine, sarebbe opportuno farsi assistere da un legale o da un rappresentante sindacale sia per la redazione delle giustificazioni scritte, sia, a maggior ragione, in caso di scelta della forma orale.


VINCENZO I. chiede
domenica 22/11/2020 - Lombardia
“CCNL settore sanità pubblica - preavviso dimissioni volontarie del 29-10-2020 dirigente medico 1 livello risultato contagiato in servizio al covid-19 il 17-11-2020 - considerato da normativa vigente "infortunio sul lavoro" di competenza inail.
ai fini dei termini preavviso viene considerato servizio a tutti gli effetti e quindi anche del preavviso, cioè interrompe (sospensione) o meno periodo preavviso?”
Consulenza legale i 26/11/2020
Ai sensi del comma 2 dell'art. 2110 c.c., la malattia, l'infortunio, la gravidanza ed il puerperio sospendono l'efficacia dell'atto di recesso, sia che questo provenga dal datore di lavoro (licenziamento), sia che provenga invece dal lavoratore (dimissioni).

Pertanto, l’infortunio sospende il decorso del preavviso.
Il preavviso ricomincia a decorrere una volta superato l'evento o (se questo si protrae nel tempo) una volta decorso il periodo contrattualmente previsto per la conservazione del posto ovvero definito dagli usi o secondo equità.
Naturalmente l'effetto sospensivo sul decorso del preavviso ad opera di evento morboso (e la conseguente protrazione del rapporto per la durata della malattia) cessa qualora durante la malattia emerga una giusta causa che legittimi, ex art. 2119 c.c., la risoluzione istantanea del rapporto.

Sull'efficacia sospensiva del preavviso ad opera di malattia e/o infortunio, la giurisprudenza della Cassazione è ormai consolidata. Al riguardo, la Suprema Corte ha affermato che "il comma 2° dell'art. 2110 c.c., riguardante tra l'altro la prosecuzione del rapporto ed il divieto di licenziamento durante il periodo di malattia, è diretto ad assicurare al lavoratore un trattamento economico ed assistenziale durante la malattia, e si estende anche al l'ipotesi in cui sia stata esercitata da una delle parti di facoltà di recesso e penda il periodo di preavviso" (così, per tutte, Cass. n. 4915/1983). “Tale periodo rimane pertanto sospeso fino alla guarigione del lavoratore o fino alla scadenza del periodo di comporto; perdurando, medio tempore, il rapporto di lavoro, ad esso debbono applicarsi tutte le norme di legge o di contratto collettivo, eventualmente più favorevoli al lavoratore entrate in vigore durante il decorso del termine del preavviso" (così Cass. n. 451/1981; Cass. 27.6.2003 n. 10272; Cass. 30.8.2004 n. 17334).

Anche la questione circa la sospensione o meno del preavviso - al sopravvenire di malattia - in caso di dimissioni, è stata risolta nell'identico senso della sospensione del preavviso in caso di licenziamento: cioè sulla base dell'oggettività dell'evento malattia, interruttivo, in ogni caso, dello svolgimento del rapporto, a prescindere dalla parte che assume l'iniziativa a carattere rescissorio.

Anche l’Aran ha precisato nell’Orientamento Applicativo RAL_1641 che “nel caso di dimissioni, il decorso del periodo di preavviso, in presenza di uno stato di malattia, resta sospeso, con diritto del lavoratore al relativo trattamento economico, sino alla guarigione, dopo la quale riprende a computarsi, o se questa non si verifica, sino alla fine del periodo contrattuale di conservazione del posto per malattia. In sostanza, il decorso del termine di preavviso è sospeso durante il periodo di malattia e subisce, di conseguenza, uno spostamento per un tempo corrispondente alla stessa malattia”.

Naturalmente, nel caso in cui vi sia la volontà di entrambe le parti di risolvere tempestivamente il rapporto di lavoro queste ultime ben possono accordarsi nel senso di eliminare del tutto o ridurre in parte il periodo di preavviso.


TINDARO I. chiede
giovedì 15/10/2020 - Sicilia
“Buongiorno egr. avv., ho un quesito da porvi, sono stato assunto nel 93 come INVALIDO DEL LAVORO ( categorie protette) con 57% d'invalidità, nel ministero della giustizia, le chiedo se le assenze per malattia dovute alla mia invalidità rientrano nel periodo di comporto? vista anche la direttiva UE 2000/78 E d.lg 216/2003, Cordiali saluti.”
Consulenza legale i 22/10/2020
Le assenze per malattia collegate allo stato di invalidità rientrano nel calcolo del periodo di comporto.

Tuttavia, la sentenza della Corte di Cassazione n. 9395 del 12 aprile 2017 ha stabilito che, nell’ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della legge 12 aprile 1968 n. 482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro ex art. 2110 cod. civ., se l’invalido sia stato destinato a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche (in violazione dell’art. 20 della legge n. 482 del 1968), derivando in tal caso l’impossibilità della prestazione dalla violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di tutelare l’integrità fisica del lavoratore (Cass. 15 dicembre 1994, n. 10769; Cass. 23 aprile 2004, n. 7730).

Viceversa, la giurisprudenza, richiamata anche dalla recente sentenza del 2017, è costante nell’affermare che, ove l’invalido sia stato assegnato a mansioni compatibili, sia da escludere la detraibilità dal periodo di comporto delle assenze determinate da malattia ricollegabile allo stato di invalidità, salva l’ipotesi di una specifica previsione in tal senso della contrattazione collettiva (Cass. 17720/2011, Cass. 20 marzo 1990, n. 2302; Cass. 16 aprile 1986, n. 2697).

Pertanto, le assenze per malattia del lavoratore invalido, anche se legate allo stato di invalidità, saranno comunque computate nel periodo di comporto, superato il quale il licenziamento del dipendente sarà legittimo, salvo che il lavoratore non sia stato adibito a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche e la malattia non sia da ciò derivata.


Giovanni P. chiede
giovedì 25/06/2020 - Puglia
“Un mio amico dal 22 ottobre 2019 a tutto il prossimo 21 luglio 2020 è in malattia per seguire un percorso di recupero in comunità terapeutica. Vorrebbe proseguire la malattia non superando però il periodo di comporto prolungato.

È dipendente con contratto dei metalmeccanici.
Chiedo conferma di quanto ho letto cioè che in questo caso il periodo di comporto prolungato massimo è di 18 mesi di malattia nel triennio. .. in quanto ha più di 30 di lavoro con questa azienda. Art2 contratto metalmeccanico

Superando il periodo di comporto il licenziamento è automatico?
Se dovesse smettere la malattia prima dei 18 mesi verrà sottoposto a visita di controllo per il suo stato di salute?
Potrebbe proporre all'azienda di fare un lavoro meno stressante e pesante stante il suo cattivo stato di salute?
Conviene che si faccia assistere da un Sindacato?
Grazie
Giovanni”
Consulenza legale i 02/07/2020
Il CCNL metalmeccanici al Titolo Sesto, Art. 2 (Trattamento in caso di malattia ed infortunio non sul lavoro) prevede che “Nell'ipotesi in cui il superamento dei sopra indicati periodi di conservazione del posto fosse determinato da un evento morboso continuativo con assenza ininterrotta o interrotta da un'unica ripresa del lavoro per un periodo non superiore a due mesi, il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto per un ulteriore periodo, oltre quelli previsti al comma precedente, pari alla metà dei periodi stessi. Di conseguenza il periodo complessivo di conservazione del posto, definito comporto prolungato, sarà: […] c) per anzianità di servizio oltre i 6 anni: mesi 12 + 6 = 18”.

Pertanto, nel caso di specie, avendo il dipendente un’anzianità di servizio pari a 30 anni, il periodo di comporto prolungato sarà di 18 mesi.

Si ricorda che in caso di comporto prolungato il trattamento economico sarà il seguente: mesi 6 ad intera retribuzione globale e mesi 12 a metà retribuzione globale.

Una volta superato il periodo di comporto, il licenziamento non è automatico, ma il dipendente non avrà più diritto alla conservazione del posto e l’azienda potrà procedere al licenziamento.

Si segnala, se pertinente con il caso, che al titolo sesto, art. 12, il CCNL metalmeccanici per il lavoratore del quale viene accertato lo stato di tossicodipendenza e che intende accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi sanitari delle unità sanitarie locali o di altre strutture terapeutico-riabilitative e socio-assistenziali prevede un periodo di aspettativa, con diritto alla conservazione del posto, per il tempo in cui la sospensione della prestazione lavorativa è dovuta all'esecuzione del trattamento riabilitativo e, comunque, per un periodo non superiore a tre anni.
Naturalmente, in quest’ultimo caso, trattandosi di aspettativa, non verrà corrisposta retribuzione, né decorrerà l’anzianità.

Per il lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, l’art. 41, comma 2, lett. e-ter) del D. Lgs. 81/2008 prevede una visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione.

Per quanto riguarda la possibilità di essere adibito a differenti mansioni, se il dipendente comunica all’azienda la propria inidoneità fisica a svolgere determinate mansioni, il datore di lavoro ha l’obbligo di trasferirlo ad altri compiti che siano conformi alla sua formazione, alle competenze acquisite e non siano di pregiudizio per il suo mutato stato di salute. Le mansioni, eventualmente, possono essere anche di livello inferiore, purché vi sia il consenso del lavoratore stesso (c.d. obbligo di repêchage). L’obbligo per il datore sussiste solo a patto che in azienda vi siano altre posizioni ed esse siano libere. Se invece occupate da altri dipendenti, il datore di lavoro, può procedere al licenziamento. Secondo la più recente giurisprudenza, l’onere della prova circa l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza (repêchage) è a carico del datore di lavoro.

Stante la delicatezza della situazione e gli interessi in gioco, si consiglia di farsi assistere da un sindacato per valutare e decidere al meglio i comportamenti da seguire.


Fabio G. chiede
giovedì 16/04/2020 - Lazio
“Oggetto:Categoria Protetta- licenziamento per superamento del periodo di comporto-aggravamento da originario stato di invalidità
La Corte di Cassazione con sentenza n. 9395 del 12 /4/2017, ha stabilito che il licenziamento di un invalido civile, iscritto nelle categorie protette è legittimo solo se le assenze per malattia superano il periodo di comporto e non sono legate all’invalidità stessa; diversamente le assenze non vanno computate ai fini del calcolo del comporto in questione.
Vorrei approfondire se vada considerata la sola tipologia di invalidità (patologia specifica) che al tempo qualifico' il disabile come appartenente a categoria protetta (46%) determinandone l'assunzione o l'attuale stato di salute (peggiorato negli anni, con aumento della percentuale di invalidità al 100%,da ulteriori patologie), noto e documentato all'azienda, con espressione nella concessione dei benefici relativi al godimento della L..104.
In dettaglio, avrei bisogno di meglio comprendere (ferma la condizione di aggravamento da originaria patologia o la nascita di una nuova patologia per adibizione a mansione gravosa), se si possano considerare rientranti nell'attuale status di -invalido civile,categoria protetta- anche quelle malattie (formalmente certificate da INPS e ASL quale aggravamento del grado di invalidità civile, e tempo per tempo notificate all'azienda che ne ha preso atto concedendo i benefici della L.104) non collegate alla malattia iniziale (né ad aggravamento della stessa o a mansione gravosa) che ha determinato al tempo l'assunzione del disabile.
Volendo semplificare, essendo stati assunti al tempo nella quota -categoria protetta- (con invalidità al 46%, passata al 100%), per patologia oncologica (linfoma) ed avendo successivamente riscontrato Cardiopatia (infarto miocardico con impiantazione di n.6 stent coronarici), Granuloma Polmonare operato, Insufficienza Renale in terapia salvavita di dialisi (in attesa di trapianto), si vuole capire se si possa o meno richiedere all'azienda l'esclusione dal computo del comporto per malattia dei giorni di assenza relativi alle nuove patologie successive sopra descritte (non collegate a patologia principale), note, documentate e riscontrate formalmente dall'azienda stessa (L.104) come condizioni attuali debilitanti e caratterizzanti del disabile.
Grazie.
Un cordiale saluto.
Dr. Fabio G.”
Consulenza legale i 22/04/2020
La sentenza della Corte di Cassazione n. 9395 del 12 aprile 2017 citata nel quesito non esclude la computabilità nel periodo di comporto di qualsiasi assenza collegata alla patologia invalidante.

La citata sentenza tratta invece un caso specifico, stabilendo che nell’ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della legge 12 aprile 1968 n. 482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro ex art. 2110 cod. civ., se l’invalido sia stato destinato a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche (in violazione dell’art. 20 della legge n. 482 del 1968), derivando in tal caso l’impossibilità della prestazione dalla violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di tutelare l’integrità fisica del lavoratore (Cass. 15 dicembre 1994, n. 10769; Cass. 23 aprile 2004, n. 7730).

Viceversa, la giurisprudenza, richiamata anche dalla recente sentenza del 2017, è costante nell’affermare che, ove l’invalido sia stato assegnato a mansioni compatibili, sia da escludere la detraibilità dal periodo di comporto delle assenze determinate da malattia ricollegabile allo stato di invalidità, salva l’ipotesi di una specifica previsione in tal senso della contrattazione collettiva (Cass. 17720/2011, Cass. 20 marzo 1990, n. 2302; Cass. 16 aprile 1986, n. 2697).

Nel caso di specie, a prescindere dal fatto che le assenze siano dovute alla patologia invalidante principale o a quelle successive (comunque formalmente certificate da INPS e ASL quale aggravamento del grado di invalidità civile, tempo per tempo notificate all'azienda e, quindi, in ipotesi, meritevoli di un trattamento analogo alla patologia principale), il lavoratore non è stato adibito a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche e la malattia non è da ciò derivata.
Pertanto, salvo una diversa specifica previsione in tal senso della contrattazione collettiva, le assenze per malattia dovute alla patologia invalidante saranno comunque computate nel periodo di comporto, superato il quale il licenziamento del dipendente sarà legittimo.

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