(massima n. 1)
Ove le reiterate assenze del lavoratore risultino riconducibili ad un'unica affezione che trovi la sua causa, ancorché non esclusiva, nelle particolari modalità di esecuzione della prestazione, sì che la prosecuzione del lavoro espletato negli intervalli fra gli episodi morbosi acuti esponga l'interessato ad una pressoché inevitabile ricaduta con aggravamento delle sue condizioni fisiche, dando sostanzialmente luogo ad una sorta d'inidoneità permanente del lavoratore stesso a svolgere regolarmente le mansioni assegnategli, il datore di lavoro 'che sia edotto' di ciò, pur non essendo tenuto a destinarlo ad altre mansioni, non deve consentire (in ossequio al diritto alla salute tutelato dall'art. 32 Cost. nonché al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto) che il lavoratore continui a prestare un'attività che ne metta in serio pericolo la salute; ma è invece tenuto — nell'osservanza del suindicato precetto costituzionale e senza necessità di attendere l'esaurimento del comporto (presupponendo la disciplina dettata dall'art. 2110 c.c. la diversa ipotesi dell'impedimento temporaneo del lavoratore affetto da malattia tale da consentire, una volta cessata, la ripresa del lavoro senza rischi di ulteriore usura dell'integrità fisica) — a far valere quale titolo del proprio recesso (eventualmente sottoponendo il dipendente ad adeguato accertamento sanitario) l'impossibilità (di durata determinata o indeterminabile) della prestazione per inidoneità fisica, alla stregua della generale disciplina codicistica, in relazione alla quale il difetto d'interesse alla prosecuzione del rapporto va valutato alla stregua dei criteri previsti per la configurazione del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, restando peraltro esclusa l'ammissibilità, in linea generale, di un obbligo di adibire il dipendente ad altre mansioni.