La norma in esame è dedicata alle c.d.
clausole vessatorie, intendendosi come tali quelle clausole che prevedono un grave squilibrio tra la posizione del
consumatore e quella del
professionista, in quanto favoriscono il secondo e limitano i diritti del primo.
A questa particolare tipologia di clausole si è fatto per la prima volta riferimento con la Direttiva della Comunità europea n. 93/13, a cui l’Italia si è adeguata inserendo nel codice civile l’art. 1469 bis, successivamente trasposto nella norma in commento.
Il primo comma di essa individua il campo di applicazione della disciplina mediante il riferimento a quattro elementi di cui l’
interprete deve tenere conto nel valutare la vessatorietà o meno di una clausola, e precisamente:
1.
l’ambito oggettivo: ci si riferisce alla posizione che assumono le parti a seguito della conclusione del
contratto, in relazione a tutti gli obblighi, i diritti, i poteri e le facoltà che discendono dal regolamento contrattuale. Si prescinde da ogni valutazione in ordine al tipo contrattuale che le parti hanno scelto di adottare così come dalla
natura della prestazione dedotta in contratto, in quanto ciò che rileva è soltanto il fatto che si sia in presenza di un contratto tra consumatore e professionista.
Inoltre, la disciplina delle clausole vessatorie si estende anche alle ipotesi di contratto unilaterale predisposto dal professionista.
2.
l’ambito soggettivo: la disciplina in esame si applica soltanto nell’ipotesi di contratto concluso tra un consumatore (inteso esclusivamente come
persona fisica) ed un professionista.
3.
la buona fede (la norma usa l’espressione “
malgrado la buona fede”). Discusso è se detta espressione debba intendersi in senso oggettivo o soggettivo (in favore di questa seconda scelta si pone la giurisprudenza comunitaria).
In realtà, i dubbi interpretativi sono connessi ad una formulazione poco felice della versione italiana della dir. 93/13/CEE, in quanto l’inciso “
malgrado la buona fede”, contenuto nella norma in esame, equivale a
“ if, contrary to the requirement of good faith” della versione inglese, a “
en dépit de l’exigence de bonne foi ” della francese e “
entgegen dem Gebot von Treu und Glauben” di quella tedesca (è facile intuire, dunque, che avrebbe trovato una corrispondenza più letterale nell’espressione “
in contrasto con il requisito della buona fede”).
Ad ogni modo, secondo l’orientamento che può ritenersi più convincente, il controllo di vessatorietà implicherebbe l’accertamento della violazione da parte del professionista di regole oggettive di correttezza e buona fede, le quali si concretizzano nell’imposizione di un regolamento contrattuale eccessivamente squilibrato a danno del consumatore.
E’ anche discusso se la buona fede costituisca un requisito in senso proprio, in aggiunta a quello dello “squilibrio giuridico”, ossia se una clausola possa considerarsi abusiva solo allorché risulti in contrasto con entrambi; in effetti, si fa osservare che il significativo squilibrio è di per sé un’ipotesi sintomatica di contrarietà alla buona fede, il che rende superfluo effettuare un doppio controllo, essendo sufficiente accertare lo squilibrio fra i diritti e obblighi che derivano dal contratto.
4.
l’effetto (a tale elemento si fa riferimento nella parte in cui è detto “
determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”). La sussistenza di tale squilibrio dovrà essere valutata di volta in volta dal giudice, avendo riguardo alle circostanze e al contesto nel quale il contratto è stato stipulato, nonché al complesso delle disposizioni contrattuali.
Occorre precisare che nell’accertare lo squilibrio fra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto il giudice non deve considerare solo quelli facenti capo al consumatore, ma quelli di entrambi e che, in ogni caso, il sindacato di vessatorietà non può estendersi a quei profili contrattuali che rientrano nella piena disponibilità delle parti, come, per esempio, la convenienza economica dell’affare (l’autonomia delle parti non può essere sindacata dal giudice).
Viene precisato che lo squilibrio è rilevante solo laddove sia “
a carico del consumatore”; ciò significa che non saranno da considerare vessatorie le clausole che determinano un assetto del rapporto contrattuale significativamente sbilanciato a danno del professionista, il quale, pertanto, non potrà avvalersi di tale previsione.
Allo stesso modo, non occorre che ad uno svantaggio del consumatore corrisponda un vantaggio del professionista, poiché in caso contrario si arriverebbe ad escludere la vessatorietà di clausole che impongono irragionevoli svantaggi in capo al consumatore per il solo fatto dell’assenza di un qualsivoglia vantaggio a beneficio del professionista.
Accanto a questi che possono considerarsi quali criteri generali per stabilire la vessatorietà o meno di una clausola, il secondo comma della norma disciplina alcune ipotesi concrete, ossia esempi di condizioni che, per la loro pericolosità, sono in ogni caso considerate vessatorie (c.d. lista grigia).
In questi casi si assiste ad un inversione dell’
onere della prova, in quanto mentre sul consumatore non grava alcun onere di dimostrare le ragioni per cui una clausola contrattuale è vessatoria, di contro sarà il professionista a dover dimostrare che la condizione posta non crea uno squilibrio contrattuale.
Le diverse ipotesi elencate nella norma possono suddividersi in due gruppi generali, e precisamente:
1. il primo attiene alle condizioni che incidono negativamente sui diritti dei consumatori, sia limitandoli (lettere c, i, t, r) che penalizzandoli (lettere e, f);
2. il secondo gruppo ricomprende le condizioni che rafforzano la posizione del professionista, all’interno del quale, poi, possono individuarsi tre distinti casi:
2.a)
clausole che attribuiscono ampi poteri al professionista. Si tratta delle ipotesi di cui alle lettere d, m, n, o, p, v (ad esempio le clausole che permettono al professionista di aumentare il prezzo del bene o servizio senza che al consumatore venga concessa la facoltà di poter ripensare se aderire o meno);
2.b)
clausole in forza delle quali si prevede una riduzione della responsabilità del professionista. E’ questo il caso previsto alla lettera q), la quale fa riferimento a quelle clausole che limitano la responsabilità del professionista per tutti gli obblighi derivanti da accordi che altri soggetti a lui legati (i mandatari) hanno fatto con i consumatori.
2.c)
clausole in forza delle quali si riconosce un aumento dei poteri in favore del professionista. Si tratta delle ipotesi di cui alle lettere g, h, s, u, come, ad esempio, la clausola con la quale si prevede che, nell’ipotesi di controversia insorta tra professionista e consumatore, ci si debba rivolgere al tribunale del luogo in cui si trova la sede del professionista (in deroga alla regola generale secondo cui
giudice competente in caso di contestazione è quello del luogo di residenza o domicilio del consumatore).
Recita la norma che si presumono vessatorie le clausole che “
hanno a oggetto o per effetto” le previsioni ivi elencate, il che lascia intendere che, ai fini del giudizio di vessatorietà non si deve prendere in considerazione esclusivamente il contenuto della clausola specifica, bensì gli effetti, anche indiretti, che la stessa è idonea a produrre.
La
presunzione sancita nella lettera a) del comma secondo riprende quanto già previsto nell’abrogato comma 3 n. 1 dell’art. 1469 bis c.c.
La presunzione di cui alla lett. b), che riprende quanto previsto al n. 2 comma 3 dell’art. 1469 bis c.c., e si ritiene, sia in dottrina che in giurisprudenza, che trovi applicazione a tutte le garanzie previste per ogni forma di
inadempimento o inesatto
adempimento.
La clausola di cui alla lett. c) traspone in questa norma, in maniera quasi letterale, il punto b) dell’allegato 1 alla direttiva 1993/13/CEE e trova applicazione in tutte le ipotesi di
compensazione legale (non può, invece, presumersi la vessatorietà di una clausola che escluda la possibilità di opporre la compensazione convenzionale). La
ratio di questa presunzione viene individuata negli inevitabili effetti prevaricatori di un
pactum de non compensando tra soggetti che godono di un potere contrattuale sbilanciato.
La lett. d) va analizzata congiuntamente alla lett. v) per la somiglianza dei contenuti. Entrambe le disposizioni, infatti, si riferiscono a clausole condizionali, cioè clausole che incidono sull’efficacia del contratto stipulato tra professionista e consumatore.
In particolare, con quanto disposto alla lett. d) si intende evitare lo squilibrio che può derivare dall’inserimento di clausole che, ponendo il consumatore in una posizione di soggezione, garantiscono al professionista la possibilità di subordinare l’esecuzione della propria prestazione all’esercizio di un diritto potestativo.
In relazione alla lett. v), invece, mentre la prevalente dottrina considera il suo inserimento del tutto ripetitivo, altra parte della dottrina è dell’opinione che tale norma sarebbe volta a sancire l’abusività della condizione sospensiva unilaterale semplice o meramente potestativa, disposta nell’esclusivo interesse del professionista.
La lett. e) contiene due distinti previsioni: da un lato viene preso in considerazione il pagamento, da parte del consumatore, di somme di denaro destinate ad essere trattenute dal professionista in caso di mancata conclusione del contratto.
Dall’altro si fa riferimento alle somme di denaro che il consumatore corrisponde al professionista affinchè quest’ultimo possa trattenerle nel caso in cui il primo decida di recedere dal contratto.
La lett. f) estende il campo di applicazione della norma alla
clausola penale di importo manifestamente eccessivo, ipotesi dapprima esclusa in considerazione della funzione svolta da essa, ossia di mera liquidazione anticipata e forfettaria del danno.
In relazione alla lett. g) deve osservarsi che mentre la prima parte della norma si riferisce al
recesso unilaterale del professionista, presumendo la vessatorietà di quella clausola che attribuisce al solo professionista la facoltà di recedere dal contratto, la seconda sancisce l’abusività di quelle clausole che attribuiscono al professionista il diritto di trattenere determinate somme a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora eseguite (per garantire maggiore tutela al consumatore, è stato affermato che questa seconda parte della norma debba estendersi anche alle ipotesi in cui il corrispettivo sia rappresentato da un bene diverso da una somma di denaro, nonché alle ipotesi in cui il professionista recede dal contratto dopo aver eseguito un’attività preparatoria della prestazione finale dovuta).
Si evidenzia, sia in dottrina che in giurisprudenza, che la bilateralità della facoltà di recesso non esclude di per sé il carattere vessatorio della clausola che la prevede; anche in questo caso, infatti, ne può conseguire un significativo squilibrio a carico del consumatore allorchè quella clausola corrisponda ad un interesse prevalente del professionista e di scarsa rilevanza per il consumatore.
La disposizione di cui alla lettera h) è considerata superflua da parte della dottrina, in quanto ciò che in essa risulta previsto riprenderebbe tre regole fondamentali disciplinate dalla normativa nazionale, e precisamente: 1) la facoltà di recesso spettante a tutte le parti di un contratto a tempo indeterminato; 2) l’obbligo di preavviso posto in capo al recedente; 3) l’esonero del recedente dall’obbligo di preavviso laddove sussistano ragioni che giustificano un’immediata interruzione del rapporto contrattuale.
Anche in questa ipotesi la bilateralità del recesso non vale ad escludere di per sé l’abusività della clausola, se si realizza comunque uno squilibrio a carico del consumatore.
La
ratio della lettera h) va individuata, da un lato, nell’intento di evitare che il contraente possa rimanere vincolato al contratto indesiderato e, dall’altro, nell’esigenza di evitare che il consumatore possa trovarsi costretto a decidere se prolungare o meno l’efficacia del negozio in un momento in cui non sarebbe in condizione di operare una scelta consapevole, perchè troppo anticipata rispetto alla naturale scadenza del contratto.
L’eccessivo anticipo deve essere valutato in base alle circostanze del caso concreto.
Con la lettera i) si mira a sanzionare i meccanismi di integrazione
per relationem del contenuto del contratto, dovendosi tuttavia precisare che, a differenza della tutela di cui all’
art. 1341 del c.c., l’interprete è tenuto a verificare che il consumatore abbia avuto in concreto la possibilità di conoscere tutte le clausole che disciplinano il rapporto contrattuale.
La disposizione di cui alla lettera m) deve inquadrarsi tra quelle disposizioni che sanzionano le clausole (particolarmente diffuse nel settore bancario) in forza delle quali si attribuisce al professionista un potere unilaterale di modifica delle condizioni contrattuali. Infatti, sebbene il legislatore italiano riconosca la liceità dello
ius variandi, lo stesso si preoccupa di circoscriverne l’applicazione subordinando il giudizio di non abusività della clausola all’indicazione di un giustificato motivo; inoltre, lo
ius variandi del professionista dovrebbe sempre essere bilanciato dal riconoscimento del diritto di recesso in favore del consumatore.
Con la lettera n) viene sancita la presunzione di vessatorietà per quelle pattuizioni per mezzo delle quali la determinazione del prezzo dei beni e dei servizi viene rinviata al momento della relativa consegna o esecuzione (si vuole così impedire che, mancando un prezzo iniziale determinato, il consumatore non possa riuscire ad avere effettiva consapevolezza del rischio economico che viene ad assumere con il contratto).
La clausola contemplata da questa lettera rientra nella categoria delle previsioni che attribuiscono al professionista poteri unilaterali; occorre precisare che per espressa previsione del comma 3 della stessa norma in esame, la presunzione di cui alla lettera n) non si applica ai contratti aventi ad oggetto valori mobiliari,
strumenti finanziari ed altri prodotti o servizi.
Al pari della previsione di cui alla lettera n), la
ratio di quella prevista alla successiva lett. o) è quella di evitare il c.d. effetto sorpresa che deriva dalle clausole in forza delle quali al professionista è attribuita la facoltà di richiedere un prezzo diverso da quello che il consumatore poteva ragionevolmente aspettarsi al momento della conclusione del contratto, nonché quella di salvaguardare la trasparenza nei rapporti contrattuali tra professionisti e consumatori.
Elementi essenziali perché possa configurarsi una clausola quale quella qui prevista sono:
- il potere del professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio;
- la mancata previsione del diritto di recesso in favore del consumatore qualora l’ammontare del prezzo raggiunto, a seguito della modifica, diventi eccessivamente elevato rispetto a quello inizialmente pattuito.
Anche la presunzione in esame non si applica ai contratti aventi ad oggetto valori mobiliari, strumenti finanziari ed altri prodotti o servizi (art. 33 commi 3, 4 e 5).
La lettera p) prende in considerazione due diverse fattispecie, entrambe attributive di poteri unilaterali al professionista:
- il caso della clausola che preclude al consumatore di attivare le azioni previste a sua difesa nell’ipotesi di mancata conformità della prestazione a quella promessa (si tratta delle azioni previste per i casi di vizi o di mancanza di qualità della cosa venduta, o anche di
aliud pro alio e di cattivo funzionamento);
- il caso della clausola che attribuisce al solo professionista il potere di interpretare altre clausole del contratto. I profili critici di una clausola di tale tipo sarebbero superati dal potere del giudice di discostarsi dall’interpretazione convenzionale che del contratto forniscono le parti, considerato che il sindacato giudiziale non potrebbe mai essere limitato da una convenzione contrattuale delle parti.
E’ stato osservato che sebbene la norma faccia riferimento al “
bene venduto”, essa deve ritenersi applicabile in via estensiva anche a contratti diversi dalla
compravendita, come la locazione o la somministrazione di beni.
La disposizione di cui alla lettera q) è volta a tutelare il consumatore nell’ipotesi di conclusione del contratto con un soggetto incaricato dal professionista; sebbene si faccia specifico riferimento al mandatario, si ritiene che nel concetto di
mandatario debbano intendersi incluse anche figure diverse, quali il promotore finanziario, l’agente immobiliare, ecc., così come i soggetti privi di
potere di rappresentanza, compresi il commissario e lo
spedizioniere (ciò che conta è che il soggetto sia legato al professionista da un rapporto di mandato o di dipendenza e che l’attività negoziale sia riferibile al professionista).
Quanto previsto alla lettera r) fa riferimento sia all’ipotesi di inadempimento imputabile al professionista che al mancato adempimento dovuto all’impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al professionista.
Alla fattispecie di cui alla lett. s) devono essere ricondotte quelle clausole che attribuiscono al professionista il potere di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto stipulato con il consumatore per effetto di meccanismi negoziali il cui perfezionamento o la cui efficacia non possono prescindere dal consenso del consumatore (es. la
cessione del contratto ex
art. 1406 del c.c.).
Nella disposizione di cui alla lettera t) la presunzione di vessatorietà si fa discendere dallo squilibrio determinato a carico del consumatore per effetto dell’inserimento delle clausole qui previste.
Questa disposizione si applica alle clausole che prevedono decadenze a carico del consumatore, a quelle da cui ne discendono limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, nonché alle clausole che prevedono deroghe alla
competenza dell’
autorità giudiziaria (tra queste si ricordano le pattuizioni per effetto delle quali la controversia viene rimessa al giudice di un luogo diverso da quello previsto dalla legge o a quelle che stabiliscono un foro esclusivo).
La lettera u) riprende il contenuto dell’abrogato
art. 1469 bis del c.c. comma 3 n. 18, confermando la presunzione di vessatorietà della clausola che stabilisce come sede del foro competente sulle controversie relative a contratti conclusi tra il consumatore e il professionista, una località diversa da quella di
residenza o di
domicilio elettivo del consumatore.
Questa presunzione costituisce una autonoma scelta del legislatore italiano, volta a garantire maggiore tutela al consumatore, come già previsto per le controversie inerenti ai contratti conclusi fuori dai locali commerciali, ai contratti stipulati a distanza ed a quelli di
timesharing immobiliare.
Sulla sua
interpretazione si sono delineati contrasti sia in dottrina sia in giurisprudenza, in quanto mentre secondo un primo orientamento va esclusa la configurabilità di un’ipotesi di foro esclusivo del consumatore, secondo un diverso orientamento si deve optare per la sua introduzione, anche se derogabile mediante
trattativa individuale.
Su tale contrasto è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, aderendo alla tesi del foro esclusivo del consumatore e stabilendo che la disposizione di cui all’ art. 1469-bis, c. 3, n. 19, c.c. va interpretata nel senso che il legislatore, nelle controversie tra consumatore e professionista, ha introdotto la competenza territoriale esclusiva del giudice del luogo della sede o del
domicilio elettivo del consumatore.
Con le lettere V bis e V ter il legislatore italiano si adegua alle finalità della direttiva, consistenti nell’offrire ai consumatori strumenti di risoluzione non giurisdizionale delle controversie con i professionisti, da attivare mediante la presentazione di reclami a organismi abilitati ed espressamente preposti a tale compito.
L’ obbligo di aderire alla procedura può riguardare sia il consumatore che il professionista, mentre l’iniziativa per proporre il reclamo compete in linea generale al consumatore. Le ipotesi in cui tale adesione risulta obbligatoria sono due, e precisamente:
- quando il legislatore impone al consumatore l’esperimento della procedura quale condizione di accesso alla giurisdizione;
- quando il professionista è costretto a parteciparvi, una volta attivata dal consumatore.
Nessuna efficacia può avere un accordo, concluso fra consumatore e professionista prima dell’insorgere della controversia, per mezzo del quale il primo si impegna a rivolgersi a un organismo; tuttavia, va precisato che, siccome il limite riguarda esclusivamente il consumatore, nulla vieta al professionista di obbligarsi preventivamente a partecipare al procedimento di
reclamo instaurato dal consumatore.
La parte finale della norma in esame introduce delle deroghe che riguardano i contratti aventi a oggetto prestazioni di servizi finanziari, in considerazione della loro peculiare natura.
Tale parte della norma non rappresenta altro che un’applicazione di quanto previsto dall’
art. 34 del codice consumo. che collega la valutazione della vessatorietà della clausola alla natura del bene o del servizio
oggetto del contratto
Per quanto concerne l’espressione “ servizi finanziari”, in dottrina si è discusso se in tale concetto debbano essere ricompresi o meno anche i
contratti bancari.
La soluzione più accreditata risolve il problema in senso affermativo, anche se altri autori preferiscono una diversa interpretazione, affermando che per “prestazione di servizi finanziari” deve intendersi ogni prestazione che in qualche modo o forma, diretta o indiretta, procuri un finanziamento al soggetto (tramite erogazione del
credito e/o
investimento in prodotti finanziari).
Il terzo comma dell’ art. 33 fa riferimento ai contratti a tempo indeterminato di servizi finanziari che contengono disposizioni per effetto delle quali, al ricorrere di un giustificato motivo, il professionista ha:
- diritto di recesso dal contratto con contestuale comunicazione al consumatore (lett. a). Tale diritto, per essere legittimo, non deve necessariamente essere oggetto di contrattazione
- il potere di modificare le condizioni del contratto, dandone un congruo preavviso al consumatore, che può esercitare il diritto di recesso (lett. b). Tale lettera legittima lo
ius variandi del professionista in presenza di un giustificato motivo.
Il comma 4 dell’ art. 33, che riproduce il contenuto dell’abrogato art. 1469-bis, c. 5, c.c., trova applicazione nei contratti a tempo determinato e indeterminato e prevede, derogando alle disposizioni di cui alle lett. n) e o) del comma 2, la possibilità per il professionista di modificare le condizioni economiche in presenza di un giustificato motivo, dandone comunicazione immediata al consumatore, il quale, a sua volta, ha diritto di recedere dal contratto.
Il comma 5, che riproduce il contenuto dell’abrogato art. 1469-bis, c. 5, c.c., sancisce che le disposizioni di cui alle lett. h), m), n), o) del c. 2 (ovvero, le presunzioni di vessatorietà volte a limitare l’uso dello
ius variandi del professionista) non si applicano ai contratti aventi a oggetto valori mobiliari, strumenti finanziari e prodotti e servizi (quindi anche quelli bancari).
Ciò si giustifica per il fatto che in simili ipotesi la modifica delle condizioni contrattuali non sarebbe determinata da una scelta discrezionale del professionista, ma da parametri oggettivi certi e di agevole riscontro.
L’ultimo comma (riproducente il comma 7 dell’abrogato art. 1469-bis c.c.) dispone un’ulteriore deroga, ossia l’applicazione delle presunzioni di vessatorietà previste dalle lett. n) e o) del comma 2 nei casi di clausole di indicizzazione dei prezzi, a condizione che le modalità di variazione, ove consentite dalla legge, siano espressamente previste e descritte dal contratto.
Ci si riferisce alla c.d. clausole di salvaguardia monetaria, ossia quei patti a cui si fa ricorso per aggiornare il valore nominalistico delle
obbligazioni pecuniarie attraverso il richiamo di determinati indici di riferimento.
Si ritiene, inoltre, che l’espressione “
ove consentite dalla legge” debba essere interpretata nel senso che la previsione di tali clausole è sempre ammessa tranne nei casi in cui non sia espressamente vietato dalla legge.