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Articolo 726 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Stima e formazione delle parti

Dispositivo dell'art. 726 Codice Civile

Fatti i prelevamenti, si provvede alla stima di ciò che rimane nella massa(1), secondo il valore venale dei singoli oggetti(2) [753 c.c.].

Eseguita la stima, si procede alla formazione [727 c.c.] di tante porzioni quanti sono gli eredi o le stirpi condividenti in proporzione delle quote(3) [469, 727 c.c.].

Note

(1) Il valore dei beni si determina in relazione al momento in cui avviene la divisione. Qualora tra la stima e il perfezionamento della divisione il valore del bene cambi, in eccesso o in difetto, si deve procedere a rettifica.
(2) La stima va fatta al prezzo di mercato, ossia quello che si potrebbe realizzare vendendo il bene. Ove vi sia l'accordo tra coeredi, il parametro può essere modificato (es. è possibile sovrastimare un bene in considerazione del suo valore affettivo).
(3) Non è disposta quindi la formazione di ulteriori porzioni all'interno della stirpe, in quanto il legislatore non ha voluto imporre un'ulteriore suddivisione ai condividenti in disaccordo.

Spiegazione dell'art. 726 Codice Civile

La stima dei beni ereditari costituiva, secondo l’art. #990# del vecchio codice del 1865, operazione preliminare ad ogni altra. L’art. 726 la limita a ciò che rimane della massa, dopo i prelevamenti, ma non si può escludere che ad essa debba procedersi anche in un momento anteriore.
La legge dichiara che la stima va fatta al valore venale dei singoli oggetti, escluso cioè ogni sopraprezzo c.d. d’affezione.
A quale momento va rapportata la stima? Se essa dovesse riferirsi al tempo della divisione stessa, indubbiamente ne sarebbero più agevoli le operazioni, dal momento che l’altro momento cui potrebbe aversi riferimento, cioè l’apertura della successione potrebbe essere molto remoto. La legge non conferma espressamente, ma neppure ostacola tale principio. Va, però, tenuto conto che i beni, quanto al loro stadio, vanno riportati al momento della successione, giacché nei conti previsti all’art. 723 sono comprese anche le spese che un singolo coerede abbia fatto a vantaggio della cosa comune, o, viceversa, i deterioramenti che vi abbia apportato.
Stimata la massa residua, si possono formare le quote concrete o porzioni. Esse corrispondono ai capi o alle stirpi, se la successione è in tutto o in parte per stirpi; la porzione attribuita alla stirpe sarà poi a sua volta suddivisa fra i componenti di essa.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 726 Codice Civile

Cass. civ. n. 39368/2021

Nella divisione ereditaria, ai fini della formazione delle quote tra i condividenti, non è sufficiente la classificazione urbanistica dei terreni caduti in successione, occorrendo, invece, valutare le possibilità edificatorie accordate sui beni. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che dovesse tenersi conto di una delibera comunale che attribuiva la possibilità di una permuta delle aree riclassificate, oggetto di divisione, con altre aree edificabili nella disponibilità dell'ente locale ancora, tuttavia, non identificate).

Cass. civ. n. 21612/2021

In tema di divisione giudiziale di un compendio immobiliare ereditario, l'art. 718 c.c., in virtù del quale ciascun coerede ha il diritto di conseguire in natura la parte dei beni a lui spettanti con le modalità stabilite nei successivi artt. 726 e 727 c.c., trova deroga, ai sensi dell'art. 720 c.c., non solo nel caso di mera "non divisibilità" dei beni, ma anche in ogni ipotesi in cui gli stessi - secondo un accertamento riservato all'apprezzamento di fatto del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, coerente e completa - non siano "comodamente" divisibili e, cioè, allorché sia elevata la misura dei conguagli dovuti tra le quote da attribuire ovvero quando quando, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l'aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che, sotto l'aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell'intero ovvero. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in presenza di due immobili aventi una notevole differenza di valore, li ha assegnati ad uno solo dei condividenti sul presupposto che una divisione che avesse previsto due quote formate, ognuna, da uno dei beni avrebbe comportato il versamento di un conguaglio tale da assorbire in modo significativo una delle due quote, vanificando in tal modo l'obiettivo dell'effettiva divisione in natura).

Cass. civ. n. 17862/2020

Nella divisione ereditaria non si richiede necessariamente, in sede di formazione delle porzioni, una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo, nell'ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l'intero ad una quota ed altri, sempre per l'intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell'ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l'anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l'assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio.

Cass. civ. n. 139/2020

Per il combinato disposto degli artt. 469 e 726 c.c., la divisione ereditaria, quando vi è rappresentazione, avviene per stirpi, procedendosi alla formazione di tante porzioni, una volta eseguita la stima, quanti sono gli eredi o le stirpi condividenti, mentre non è prevista l'ulteriore formazione di altrettante subporzioni all'interno di ciascuna stirpe, sempre che non si formi al riguardo un accordo fra tutti i partecipanti. Una volta, poi, che sia stabilito con sentenza quali siano i beni da dividere e, formate le porzioni, quanti siano gli eredi o le stirpi condividenti, le statuizioni relative all'appartenenza alla massa di detti beni ed alla loro concreta attribuzione diventano irrevocabili ed irretrattabili, ove non impugnate, formandosi su di esse il giudicato.

Cass. civ. n. 33438/2019

Per il combinato disposto degli artt. 469 e 726 c.c., la divisione ereditaria, quando vi è rappresentazione, avviene per stirpi, procedendosi alla formazione di tante porzioni, una volta eseguita la stima, quanti sono gli eredi o le stirpi condividenti, mentre non è prevista l'ulteriore formazione di altrettante subporzioni all'interno di ciascuna stirpe, sempre che non si formi al riguardo un accordo fra tutti i partecipanti. (Rigetta, CORTE D'APPELLO TORINO, 17/02/2015).

Cass. civ. n. 14406/2018

Nel giudizio di divisione di una comunione ereditaria, la stima del diritto di abitazione spettante al coniuge superstite può essere determinata attraverso i criteri relativi al diritto di usufrutto, nonostante tali diritti differiscano per le facoltà che ne sono oggetto e la relativa disciplina, poiché l'obiettiva attitudine del bene destinato a casa coniugale a soddisfare esigenze abitative comporta una sostanziale identità delle utilità ricavabili dall'immobile da parte dell'usufruttuario e dell'abitatore. (Rigetta, CORTE D'APPELLO SALERNO, 27/09/2016).

Cass. civ. n. 11519/2011

In tema di divisione giudiziale, qualora al condividente sia assegnato un bene di valore superiore alla sua quota (trattandosi di bene non comodamente divisibile, attribuito al titolare della quota maggiore ex art. 720 c.c.) e, sin dall'apertura della successione, il citato assegnatario si trovava nel possesso dell'intero bene, avendone percepito i frutti, oltre al diritto al conguaglio dovuto agli altri condividenti (regolato nell'ambito del giudizio di divisione), sorge a favore di questi ultimi altresì il diritto alla corresponsione degli interessi, di natura corrispettiva, sul capitale oggetto di gestione pregressa, da determinarsi nel più complesso rapporto di debito e credito relativo ai frutti - eventualmente maturati e non percepiti - prodotti dai beni costituenti la comunione ereditaria e di cui investire il giudice non già con la citata azione di divisione (che concerne il conguaglio sul capitale a tale titolo attribuito), bensì con autonoma, sia pure contestuale, azione di rendiconto, in considerazione della situazione esclusiva di godimento dei beni in comunione per il periodo precedente di indivisione.

Cass. civ. n. 21632/2010

In tema di divisione ereditaria, la stima di beni immobili per la formazione delle quote va compiuta con riferimento al valore venale da essi posseduto al tempo della divisione, coincidente, nel caso di divisione giudiziale, con il momento di proposizione della domanda. Peraltro, può aversi riguardo alla stima effettuata in data non troppo vicina a quella della decisione solo se si accerti che, per la stasi del mercato o per le caratteristiche del bene, non sia intervenuto un mutamento di valore che renda necessario l'adeguamento di quello stabilito al tempo della stima, costituendo onere della parte, che solleciti la rivalutazione, allegare ragioni di significativo mutamento del valore dei beni intervenuto "medio tempore". (Nella specie la S.C. ha ritenuto affetta da illogicità la valutazione di un dividendo patrimonio immobiliare, compiuta dalla corte di merito sulla base di un progetto divisionale redatto nell'anno 2000 alla stregua di valutazioni riferite dal cui al 1971, anno di apertura della successione ereditaria, e che aveva dato luogo ad una divisione disposta dal giudice di primo grado con sentenza dei 2002).

Cass. civ. n. 11640/2010

Nel giudizio di divisione di una comunione ereditaria si deve tener conto, al fine della determinazione delle singole quote, anche del diritto di usufrutto attribuito per testamento ad uno degli eredi sulla quota spettante ad altri coeredi, in quanto la mancata capitalizzazione di tale diritto comporterebbe il permanere della comunione sui beni oggetto di usufrutto, in tal modo risultando vanificato l'obiettivo fondamentale del giudizio divisorio, che è quello di sciogliere integralmente la comunione; né tale finalità può essere preclusa dalla volontà del testatore la. quale, mentre va rispettata in ordine alla determinazione delle quote, non può comportare anche l'impossibilità di una completa divisione dei beni ereditari.

Cass. civ. n. 3029/2009

Nel giudizio di divisione di beni immobili, poiché occorre assicurare la formazione di porzioni di valore corrispondenti alle quote, la stima dei relativi beni deve essere effettuata in epoca non troppo lontana rispetto a quella della decisione; tuttavia, in considerazione della possibile stasi del mercato e del conseguente deprezzamento di alcuni beni, la parte che sollecita una rivalutazione degli immobili per effetto del tempo trascorso dall'epoca della stima deve allegare ragioni di significativo mutamento del valore degli stessi intervenute "medio tempore", non essendo sufficiente il mero riferimento al lasso temporale intercorso.

Cass. civ. n. 7059/2002

In tema di divisione giudiziale la stima dei beni da dividere e la scelta del criterio da adottare per la determinazione del valore di tali beni, con riguardo a natura, ubicazione, consistenza, possibile utilizzazione e condizioni di mercato, rientrano nel potere discrezionale ed esclusivo del giudice del merito; tali valutazioni sono insindacabili in sede di legittimità, se sostenute da adeguate e razionali motivazioni.

Cass. civ. n. 9659/2000

Finalità del giudizio divisorio è assicurare la formazione di porzioni di valore corrispondente alle quote; a tal fine deve procedersi alla stima del bene e, se risulti effettuata in epoca troppo antecedente alla decisione, alla rivalutazione dell'entità monetaria del bene precedentemente stabilita o ad una nuova stima del bene in relazione all'effettivo attuale prezzo di mercato; peraltro se nel tempo intercorso tra la stima e la decisione, per la stasi del mercato o per il minor apprezzamento del bene in relazione alle sue caratteristiche, si accerti che nessun mutamento di valore sia intervenuto rispetto all'epoca della consulenza, nonostante il verificarsi della svalutazione monetaria, non è necessario alcun adeguamento dell'originario valore di stima.

Cass. civ. n. 55/1998

Poiché la stima per la formazione delle quote di beni in comunione va effettuata al tempo della divisione, tenendo conto di ogni elemento incidente sul valore di mercato, occorre considerare l'incremento di esso per effetto di una procedura espropriativa per pubblica utilità in corso, e pertanto è legittimo il ragguaglio del valore del relativo cespite all'indennità normativamente dovuta (art. 5 bis, legge 8 agosto 1992 n. 359), pur in mancanza ancora del provvedimento ablatorio.

Cass. civ. n. 4769/1991

In tema di divisione, il valore degli immobili si determina con riferimento ai prezzi di mercato correnti al momento della decisione della causa, e non in base ai prezzi accertati dal consulente tecnico d'ufficio nel corso del giudizio divisorio, maggiorati dell'indice di svalutazione monetaria sopraggiunta tra la data dell'accertamento e quella della pronuncia della sentenza, in quanto la rivalutazione degli immobili si verifica spesso con un ritmo più elevato di quello della svalutazione della moneta.

Cass. civ. n. 3380/1991

In tema di divisione ereditaria, deve farsi riferimento per la formazione delle quote e la determinazione degli eventuali conguagli al valore venale dei beni relitti al momento della divisione. Tuttavia, poiché i conguagli dovuti da un condividente agli altri, rappresentando una parte di quota ereditaria, costituiscono debiti di valore, le somme relative vanno adeguate alle sopravvenute mutazioni del potere di acquisto della moneta, sì che in concreto mediante la loro modificazione numerica ne resti inalterato l'effettivo valore da essi rappresentato.

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Consulenze legali
relative all'articolo 726 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Giancarlo B. chiede
venerdì 31/07/2020 - Sardegna
“Il Tribunale nell ottobre 2019 dichiarava con sentenza la fine della comunione ereditaria iniziata il 16 marzo 1996 e procedeva per assegnazione quote nel seguente modo
I donatari devono conferire alla massa il valore dei beni donati quale era al momento della apertura della successione
1996 nonché gli interessi legali maturati sul debito collattizio fino alla attualità.
Quesito
Io mi sono visto assegnato un locale facente parte del relictum VALUTATO ALLA ATTUALITÀ i cui frutti sono stati divisi tra i coeredi Ma il donatum non è stato valutato alla attualità e così io non ho usufruito dei frutti che alla attualità sono pari al valore del donatum e ho soltanto avuto una parte degli interessi legali ben poca cosa.
Chiedo se anche il donatum deve essere calcolato alla attualità o se tutto anche il relictum Va calcolato al 1996 momento della apertura e se posso richiedere i frutti nel resoconto eventuale.”
Consulenza legale i 06/08/2020
Il caso di specie attiene ad un procedimento di divisione giudiziale relativo ad un patrimonio ereditario costituito da relictum e donatum.
Secondo il disposto dell’art. 737 del c.c., i figli e loro discendenti ed il coniuge del de cuius nel momento in cui accettano l’eredità acquistano la posizione di coeredi e sono tenuti a conferire alla massa ereditaria tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione diretta o indiretta.
Il successivo art. 747 del c.c., invece, dispone che, nel caso in cui oggetto della donazione sia un immobile, la collazione si fa per imputazione, dovendosi tenere conto del valore che l’immobile ha al momento dell’apertura della successione.
Fin qui la sentenza del 2019 a cui si fa riferimento nel quesito rispetta fedelmente il dettato normativo, avendo appunto imposto ai donatari di conferire alla massa il valore dei beni donati qual era al momento dell’apertura della successione.

Prosegue poi la medesima sentenza imponendo ai donatari di conferire gli interessi legali maturati sul debito nascente da collazione dal momento dell’apertura della successione e fino alla attualità.
Quest’ultima parte della sentenza è pienamente conforme al dettato dell’art. 745 del c.c., il quale riconosce come dovuti, dal giorno in cui si è aperta la successione, i frutti delle cose e gli interessi sulle somme soggette a collazione.
Malgrado la lettera della norma usi l’espressione “dovuti”, si ritiene che sia da escludere l’esistenza di una obbligazione in senso tecnico avente ad oggetto la loro restituzione, dovendosi anche in questo caso il conferimento operare per imputazione alla quota del coerede donatario ex art. 725 del c.c..

Secondo la tesi che si ritiene preferibile, la ratio di quest’ultima disposizione normativa va individuata nella stessa natura giuridica della collazione, la quale deve essere considerata come una obbligazione (semplice o alternativa, a seconda che sia o non sia ammesso che la collazione avvenga sia in natura che per equivalente) qualificabile come legato ex lege a carico del donatario ed a favore dei coeredi ed avente ad oggetto o il valore del bene donato o la sua restituzione ai coeredi.
In quanto tale deve applicarsi per analogia la norma di cui all’art. 669 del c.c., la quale riconosce come dovuti al legatario (ossia ai coeredi) i frutti e gli interessi dal momento della morte del de cuius, ovvero dal momento dell’apertura della successione.

Tutto quanto sopra detto vale per il donatum.
Per quanto concerne il relictum, invece, occorre fare riferimento a quanto prescritto dall’art. 726 c.c., nella parte in cui dispone che “si provvede alla stima di ciò che rimane nella massa secondo il valore venale dei singoli oggetti”.
La giurisprudenza ha interpretato tale norma nel senso che la stima dei beni, ovvero la riduzione del loro valore in denaro, deve essere riferita al tempo della divisione (coincidente con la decisione della causa) e non a quello dell’apertura della successione, tenendo conto di ogni elemento incidente sul valore di mercato (cfr. Cass. 6469/1982; Tribunale di Monza 16.02.2006; Appello di Napoli 13.05.2008; Tribunale di Chieti 13.05.2010).
E’ stata precisato che il termine “valore venale” richiama inequivocabilmente il valore di mercato dei beni stessi con riferimento alla loro natura, ubicazione e consistenza, con la conseguenza che l’unico criterio di stima da adottare in materia di divisione è proprio quello del valore di mercato dei cespiti (così Tribunale di Salerno 24.11.2009).

Per quanto concerne i frutti dei beni che appartenevano al defunto al tempo della morte (c.d. relictum), risulta del tutto corretto che gli stessi siano stati divisi tra gli eredi dal momento dell’apertura della successione a quello della divisione.
Infatti, su tale questione è spesso intervenuta la giurisprudenza, chiarendo che nel caso in cui uno solo dei coeredi si sia impossessato in maniera esclusiva di uno o più beni ereditari (es. un immobile, un terreno, ecc..), mantenendone il possesso durante tutta la comunione ereditaria e fino alla divisione dell’asse ereditario, costui sarà tenuto al rendiconto della gestione nei confronti degli altri eredi.
Ciò comporta che, accanto al suo diritto di recuperare le spese sostenute per il miglioramento del bene (tale da averne determinato un aumento di valore), sorgerà di contro l’obbligo in capo al medesimo, qualora gli altri coeredi ne facciano espressamente richiesta in sede di divisione giudiziale, di restituire i frutti civili di cui ha goduto in maniera esclusiva nel corso degli anni..

In particolare, si ritiene possa essere utile qui richiamare quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 14652 del 27.08.2012, nella quale la S.C., confermando precedenti pronunce in materia, ha affermato che “In tema di divisione immobiliare il condividente di un immobile che durante il periodo di comunione abbia goduto del bene in via esclusiva senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri i frutti civili, quale ristoro della utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, con riferimento ai prezzi di mercato correnti dal tempo della stima per la divisione a quello della pronuncia…”.

In conclusione, dunque, si ritiene che la sentenza di divisione dell’ottobre 2019 abbia fatto corretta applicazione di tutte le norme sopra richiamate e che non sia censurabile sotto alcun profilo.


Maria A. C. chiede
martedì 05/03/2019 - Lazio
“Un coerede possiede in via esclusiva un immobile dell'eredità e vi esegue delle migliorie. All'atto della divisione giudiziale il bene viene assegnato a lui. Ha diritto al rimborso per i lavori eseguiti?”
Consulenza legale i 11/03/2019
Le norme che regolano la divisione di beni ereditari sono, sotto il profilo del diritto sostanziale, gli articoli dal 713 al 736 del codice civile, mentre, sotto il profilo processuale (per i casi di divisione giudiziale come quella in esame), gli articoli dal 784 al 791 del codice di procedura civile.
Dal coordinamento di tali norme si può dedurre che, prima di giungere alla divisione dei beni, si debbono osservare e rispettare delle tappe ben precise, una delle quali, peraltro fondamentale, è quella della stima dei beni.

Intanto va detto che è lo stesso codice civile a prevedere all’art. 714 del c.c. il verificarsi di un caso come quello qui descritto, ossia che uno o più coeredi abbiano goduto separatamente (e dunque in modo esclusivo) di parte dei beni ereditari, riconoscendo anche per tale caso agli altri eredi il diritto di chiedere in qualunque momento lo scioglimento della comunione ereditaria (fatta salvo l’eventuale intervenuta usucapione).

Passando all’esame del procedimento divisorio vero e proprio, la fase più importante e delicata di esso è, come prima accennato, quella prevista dall’art. 726 c.c., in cui si dispone che, al fine di poter formare le porzioni da assegnare ai singoli condividenti, occorre eseguire la stima di ciò che si trova nel patrimonio ereditario (dopo aver fatto i necessari prelevamenti), precisandosi in modo espresso che tale stima va fatta secondo il valore venale dei singoli beni, ovviamente riferito al momento in cui essi devono essere divisi.

Trattasi di un criterio ben diverso da quello che il legislatore ha voluto adottare per determinare il valore della quota disponibile, stabilendo al riguardo l’art. 556 del c.c. che il valore dei beni ereditari deve essere determinato secondo le regole dettate negli articoli da 747 a 750 c.c., e leggendosi all’art. 747 del c.c. che per gli immobili occorre prendere in considerazione il valore che essi avevano al tempo dell’apertura della successione.

Il criterio di stima dei beni dettato dall’art. 726 c.c. comporta indubbiamente che, se a seguito di migliorie effettuate da uno dei coeredi, un determinato bene ne abbia conseguito un incremento di valore rispetto a quello che poteva avere al momento dell’apertura della successione, sarà del valore attuale che dovrà tenersi conto nella stima del patrimonio ereditario e nella conseguente formazione delle porzioni da assegnare ai singoli eredi.

Con ciò, tuttavia, non vuol dirsi che, se le migliorie del coerede hanno accresciuto il valore del bene, lo stesso non posa avere diritto ad essere in qualche modo ricompensato per ciò che ha fatto.
La giurisprudenza, infatti, in tali casi ha attribuito al coerede che esegue dei lavori di miglioramento o di manutenzione straordinaria del bene comune la posizione di mandatario tacito o gestore di affari altrui, riconoscendogli il diritto al rimborso delle spese sostenute per miglioramenti e addizioni, e ciò anche se tali spese non siano state preventivamente autorizzate (in tal senso si sono espressi Cass. n. 2069/1957; Cass. n. 385/1966; Cass. n. 16206/2013; Tribunale di Trani sent. N. 455/2017).

Tale orientamento, inoltre, è stato pienamente ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione II Civile, nella sentenza n. 3931/2016.
In tale ultima sentenza si ritrova una conferma di ciò che fin qui si è detto, ovvero che nel giudizio di divisione ereditaria le migliorie apportate da uno dei condividenti al bene comune vengono a far parte del bene stesso in forza del principio dell’accessione, con la conseguenza che di esse deve tenersi conto ai fini della sua stima nonché della determinazione delle quote.

Da ciò la Suprema Corte ne trae la conseguenza che, allorchè il coerede abbia migliorato i beni comuni da lui posseduti, non potrà pretendere una indennità per l’aumento di valore che ai beni ne consegue per effetto dei miglioramenti, ma avrà tutto il diritto di pretendere il rimborso delle spese sostenute per la cosa comune.
Tali spese dovranno essere ripartite tra tutti gli eredi, in proporzione alle loro quote, al momento della divisione, ma non potranno in alcun modo incidere direttamente sulla formazione ed attribuzione delle quote.

Al fine poi di conseguire concretamente il rimborso delle spese sostenute per le migliorie, e tenuto conto che si verte in tema di divisione giudiziale, sarebbe opportuno avanzarne formale richiesta in corso di causa, e precisamente prima che il giudice istruttore, incaricato della divisione, dichiari esecutivo il progetto di divisione ex art. 789 del c.p.c..

Inoltre, nell’avanzare tale pretesa, dovranno tenersi presenti le seguenti altre considerazioni:
  1. non sarà sufficiente addurre in modo del tutto generico di aver effettuato sul bene delle migliorie che ne hanno accresciuto il valore venale, ma si dovranno fornire elementi concreti, che possano consentire di quantificare le spese sostenute a tale titolo;
  2. vi è il rischio che il condividente che abbia goduto da solo, durante la comunione, dell’intero bene senza averne alcun titolo giustificativo, possa essere condannato a corrispondere agli altri, quale ristoro per la privazione della utilizzazione pro quota del bene comune, i relativi frutti civili, i quali si faranno consistere nel corrispettivo che si sarebbe potuto conseguire dal concedere a terzi il godimento di quell’immobile (così Cass. 7716/1990; Cass. n. 20394/2013; T. Trento 9.3.2016).

Pertanto, prima di avanzare una richiesta di tale natura, ciò che si consiglia è di accertarsi di poter disporre di documenti o altri elementi di prova utili a consentire al giudice di quantificare quanto speso per migliorie e, nel contempo, di valutare se tale pretesa sia economicamente conveniente per l’ipotesi in cui gli altri comproprietari si decidano a richiedere di essere risarciti per il mancato guadagno derivante dal non aver potuto percepire frutti civili nel periodo di possesso esclusivo e di mancato godimento del bene da parte loro.

Franca G. chiede
lunedì 04/09/2017 - Lazio
“Buongiorno,

ho già concluso davanti al notaio la successione con mio fratello circa la divisione di quanto segue:
. un appartamento che era intestato a me e mio fratello ma con l usufrutto dei miei genitori e in cui vi abito da l 1979... pagando io da sola tutte le spese di condominio e tutte le spese inerenti le migliorie del palazzo che sono state eseguite in tutti questi anni e di cui ho le ricevute.
. un appartamento intestato ai miei genitori con usufrutto di mia madre che è scomparsa recentemente e mio padre scomparso nove anni fa
. un terreno edificabile di mille mq che intendiamo mettere in vendita e dividere il ricavato con mio fratello.

Ora mi è venuto il dubbio che il mio appartamento situato in provincia di Roma possa valere di meno dell appartamento situato in una buona zona di Roma che è stato concordato assegnare a mio fratello.

Chiedo anche dopo la conclusione della successione potrei chiedere la differenza del valore a mio fratello? O questa richiesta decade con la conclusione della successione. E se affermativo dovremmo fare un accordo privato o davanti al notaio o avvocato...
Grazie cordiali saluti”
Consulenza legale i 07/09/2017
Il caso che si richiede di affrontare attiene chiaramente ad una situazione di divisione ereditaria, per la quale la legge, ossia il codice civile, detta una serie di regole abbastanza complesse.

Intanto va chiarito che presupposto di tale forma di divisione è che il de cuius abbia istituito più eredi per quote ideali e non per beni singolarmente individuati; ciò comporta che quando, come potrebbe sembrare nel caso di specie, un bene venga dal testatore assegnato ad un erede ben determinato, per tale bene non si porrà ovviamente alcun problema di divisione.
Pertanto, al fine di formulare una corretta risposta al quesito posto, nel prosieguo della consulenza si darà per presupposto che quando si fa cenno ad un appartamento destinato al fratello, ubicato in una buona zona di Roma, non vi sia stata alcuna specifica assegnazione di tale bene da parte del de cuius, ma solo una manifestazione di intenti in tal senso.

Va anche chiarito che nella massa ereditaria non può farsi rientrare l’appartamento già intestato in vita ai figli e sul quale gravava l’usufrutto in favore dei genitori, in quanto con la morte di questi ultimi l’usufrutto si estingue ed i nudi proprietari (fratello e sorella) ne hanno conseguito ipso iure la piena proprietà.
Tale appartamento, dunque, risulta adesso di proprietà dei figli in regime di comunione ordinaria, mentre cadranno sicuramente in successione l’appartamento intestato ai genitori (sul quale la madre aveva l’usufrutto) ed il terreno edificabile (che si ha intenzione di vendere).

In conseguenza di ciò avremo che in effetti i beni da dividere risultano costituire oggetto in parte di comunione ordinaria ed in parte di comunione ereditaria.
Ciò ovviamente non potrà rappresentare un ostacolo nel dare corso alla divisione dei beni, con l’unica particolarità che il negozio giuridico che si andrà a stipulare davanti al notaio non sarà una divisione ereditaria pura e semplice, bensì una c.d. "divisione di masse plurime", ove con il termine “masse plurime” si intende proprio fare riferimento alla circostanza che i beni che devono essere divisi provengono da titoli diversi.
La giurisprudenza formatasi in materia civile afferma che in questi casi non si determina, tra i condividenti, un’unica comunione, ma tante comunioni quanti sono i titoli di provenienza dei beni; ne consegue che, qualora si proceda alla divisione di tali beni, non si realizza un’unica divisione, ma tante divisioni quanti sono i titoli costitutivi delle singole comunioni (così Cass. 30 agosto 1947 n.1556, confermata con la sentenza Cass. S.U. 18 ottobre 1961 n.2224).

Ciò posto, possiamo intanto dire che, se tutti i comunisti sono d’accordo, si potrà procedere alla divisione contrattuale, la quale si perfeziona una volta raggiunta l’unanimità dei consensi sull’insieme delle varie operazioni necessarie, che sono peraltro disciplinate analiticamente dalla legge (art. 718 e ss c.c.); soltanto qualora non si riesca a raggiungere l’unanimità dei consensi, si dovrà procedere alla divisione giudiziale ad iniziativa di qualsiasi coerede o comunista interessato.

Nell’ambito della divisione il legislatore detta varie regole procedimentali volte a stabilire i modi in cui essa dovrà svolgersi ed anche le garanzie che reciprocamente dovranno darsi i coeredi.
Per quanto riguarda la formazione delle porzioni, dispone l’art. 726 c.c. che, una volta fatti i prelevamenti (ossia, detratti i debiti ereditari), occorre procedere alla stima di ciò che rimane nella massa ereditaria secondo il valore venale dei singoli beni, mentre ai sensi del successivo art. 728 c.c., qualora non si riesca ad eguagliare in natura le quote ereditarie, l’eventuale ineguaglianza verrà compensata con una somma in denaro.

Le operazioni di stima, formazione e attribuzione delle porzioni possono essere deferite ad un notaio (così art. 730 c.c.), ma ciò ovviamente per l’ipotesi in cui non vi sia un preventivo accordo tra gli eredi.
Nel nostro caso sembra che tale accordo sussista, ma che si ponga soltanto il problema dell’eguaglianza delle quote.
Per risolvere tale problema l’unico strumento è quello di affidare ad un tecnico (che potrebbe un ingegnare, ma anche un agente immobiliare) la valutazione degli immobili da dividere; qualora il valore dei due appartamenti dovesse in effetti risultare diseguale, al condividente a cui viene assegnata la quota di minor valore spetterà senza alcun dubbio un conguaglio in denaro.

Tenuto conto che le parti sembra abbiano intenzione di alienare il terreno caduto in successione, si potrebbe:
  1. effettuare uno stralcio di quota divisionale, ossia procedere alla divisione immediata dei due appartamenti con assegnazione a ciascuno dei condividenti di un appartamento (uno oggetto di comunione ordinaria e l’altro di comunione ereditaria);
  2. lasciare in comunione il terreno e convenire nello stesso atto che, al fine di conguagliare la differenza di valore tra i due appartamenti, a colui il quale riceve l’appartamento di minor valore, competerà dalla futura vendita del terreno una somma in denaro maggiore, in misura tale da conguagliare il minor valore ricevuto dallo stralcio di quota divisionale.

Nel quesito viene chiesto se anche dopo aver proceduto alla divisione del patrimonio, previa denuncia di successione, sia consentito a colui che riceve una quota di minor valore di chiedere la “differenza di valore”, ossia il c.d. conguaglio in denaro, e quali sono i termini entro cui far valere tale diritto.
A tale domanda va risposto positivamente, ma con la precisazione che per raggiungere tale risultato sarà necessario:
  1. ricorrere nuovamente all’intervento del notaio, il quale sarà chiamato a stipulare un atto di rettifica della divisione, per mezzo del quale correggere il valore attribuito alle singole porzioni e riconoscere ad uno dei contraenti il conguaglio in denaro (tale soluzione ovviamente presuppone il consenso delle parti);
ovvero
  1. agire giudizialmente onde chiedere la rescissione del contratto per lesione, e ciò allorchè taluno dei coeredi provi di aver subito una lesione rispetto alla quota di sua spettanza di oltre un quarto (così art. 763 c.c.).
Il coerede contro il quale è promossa l’azione di rescissione può troncarne il corso e impedire una nuova divisione offrendo il supplemento della porzione ereditaria, che deve annullare lo squilibrio in toto e non fino al limite del quarto (così art. 767 c.c.).

Per quanto concerne i termini, l’art.763 c.c. ultimo comma dispone espressamente che l’azione di rescissione si prescrive nel termine di due anni dalla data di stipula dell’atto di divisione.

Va infine precisato che, trattandosi di divisione di masse plurime, troverà applicazione l’art. 1116 c.c., dettato in materia di comunione ordinaria, il quale dispone che alla divisione delle cose comuni si applicano le norme sulla divisione dell'eredità, in quanto compatibili, il che comporta che quanto detto con riferimento ai beni in comunione ereditaria, vale anche per i beni ricadenti in comunione ordinaria.

In conclusione, considerato che un riequilibrio successivo delle quote presuppone o l’accordo delle parti ovvero la necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria, ciò che può consigliarsi è di stipulare sin da subito un atto che assegni ai condividenti porzioni di egual valore, anche facendo ricorso al conguaglio in denaro.


P. M. chiede
mercoledì 04/05/2022 - Lazio
“Gentile avvocato,
sono una donna di 43 anni che ha vissuto sempre con il padre invalido nella casa di famiglia. Il 16 gennaio di questo anno mio padre è venuto a mancare. Ha lasciato un testamento in base al quale io sono proprietaria del 66,6 % della casa e mia sorella del 33,3%(legittima).Ho fatto valutare l'appartamento di famiglia e il valore stimato è di 138000 euro. Vorrei acquistare l'immobile per intero liquidando la quota di mia sorella (33%), che ammonterebbe a 45000 euro. Mia sorella si rifiuta di vendermi la quota al valore di mercato, e ha chiesto 100000 euro, cioè più del doppio. Ovviamente io mi sono opposta, replicando che il valore di mercato è 138000 euro. Mi ha risposto " sono fatti tuoi", e si rifiuta di pagare le spese straordinarie dell'appartamento perchè ci vivo io. Pongo delle domande:
1)Può bloccarmi in questo modo chiedendo una cifra al di sopra del valore di mercato?
2)C'è un modo per obbligarla a vendermi la sua quota al giusto valore di mercato?
3)Può tenersi la sua quota facendo quello che vuole e scaricando tutte le spese sulla mia persona perchè ci abito e intanto usufruendone in brevi periodi?
4)Eventualmente,si può affidare la procura ad un legale che tratti con lei fino alla risoluzione del problema, io non voglio più avere a che fare con lei..Sarebbe capace anche di "boicottare" una eventuale cessione di quota.

Spero in una vostra risposta e poter uscire da questo incubo”
Consulenza legale i 11/05/2022
Le ragioni dell'atteggiamento che l'altra comproprietaria ha assunto si ritiene siano abbastanza evidenti, avendo questa ricevuto dal padre defunto soltanto la quota che la legge riserva in suo favore.
Indubbiamente la scelta del testatore non può che essere stata dettata da ciò che in vita ha ricevuto da ciascuna delle figlie, in termini sia di affetto che di cure ed assistenza, aspetto di cui, tuttavia, non sembra voler tenere conto l'altra sorella.

Ora, tralasciando queste considerazioni di carattere prettamente sociale e familiare, si tratta adesso di capire in che modo è possibile sciogliere la comunione forzosa che si è venuta a creare e, soprattutto, di comprendere se, nel frattempo, l'agire della sorella può ritenersi o meno legittimo.

La prima domanda a cui viene chiesto di rispondere è se l'altra comproprietaria può bloccare l'acquisto dell'intero chiedendo una cifra al di sopra del valore di mercato.
La risposta, purtroppo, è positiva, in quanto, in forza del principio di carattere generale della libertà di iniziativa economica privata, principio su cui si fonda il nostro ordinamento giuridico ed in cui si intende ricompresa anche l’autonoma contrattuale delle parti, ciascuno è libero di vendere a chicchessia i propri beni ed al prezzo che ritiene più opportuno (ovviamente sarà l'altra parte, poi, a decidere se accettare o meno le condizioni di vendita che gli vengono proposte).
In forza di tale principio deve anche rispondersi negativamente alla seconda delle domande poste, ossia se esiste un modo per obbligare l’altra comproprietaria a vendere la sua quota al giusto valore di mercato.

Ciò, di certo, non significa che si devono continuare a sopportare gli atteggiamenti prevaricatori della sorella, la quale mostra totale disinteresse per la gestione di quell’immobile comune, né vuol dire che non vi è soluzione per uscire da tale situazione di comunione.
Per risolvere problemi di questo tipo, infatti, il codice civile prevede norme e strumenti ben precisi, che adesso si cercherà di illustrare.
Innanzitutto, per ciò che concerne il profilo della gestione della cosa comune e delle modalità di ripartizione delle spese che la stessa richiede di affrontare, si ritiene che sia corretto fare applicazione delle norme che il codice civile detta in tema di comodato.
Infatti, in assenza di corrispettivo e di un formale contratto di locazione a cui poter ricondurre la detenzione esclusiva dell’immobile da parte di una sola delle comproprietarie, non può che presumersi la sussistenza tra le medesime parti di un rapporto di comodato, figura contrattuale per la quale non è richiesto il rispetto di alcuna forma scritta (è sufficiente la consegna della cosa) e che viene solitamente impiegata tra amici e parenti per dare in prestito un'abitazione o altro, consentendo ad altri il godimento del bene, in virtù della relazione affettiva intercorrente tra le parti.

L’aspetto negativo della riconduzione a tale figura contrattuale del rapporto sussistente tra le due sorelle comproprietarie deve individuarsi proprio in quella che costituisce l’obbligazione principale posta a carico del comodatario, ossia la restituzione del bene a semplice richiesta del comodante, che potrebbe essere avanzata in qualsiasi momento, non essendo stato pattuito alcun termine per tale restituzione.
In un caso del genere, ritornerebbero a trovare applicazione le norme sulla comunione ordinaria, ed in particolare l’art. 1102 del c.c., per effetto del quale ciascun comproprietario non può impedire il pari uso della cosa comune da parte degli altri partecipanti secondo il loro diritto.

Sotto il profilo delle spese, invece, è ingiustificabile la posizione assunta dall’altra sorella, ossia il suo rifiuto di partecipare alle stesse.
Infatti, in un caso del genere si ritiene corretto fare applicazione di quanto disposto dall’art. 1808 del c.c., in forza del quale devono farsi gravare sul comodatario (ossia sulla sorella che di fatto usufruisce del bene) le spese relative all’uso ed alla gestione ordinaria dell’immobile, mentre graveranno sulla parte comodante tutte le spese straordinarie occorrenti per la conservazione del bene.
Ovviamente, trattandosi di immobile di cui è comproprietaria anche la parte che ne ha la detenzione esclusiva, peraltro in misura maggiore, la suddivisione di tali spese dovrà essere effettuata in proporzione alla quota di cui ciascuna delle sorelle è comproprietaria (ossia in ragione di 2/3 e di 1/3).

Quanto fin qui detto, con cui si intende rispondere alla terza delle domande poste, vale per ciò che concerne il regime di ripartizione delle spese finchè perdura la situazione in cui attualmente ci si trova.
Ritornando, adesso, alla seconda delle domande che vengono formulate, si è detto nella parte iniziale di questa consulenza che, in virtù del principio dell’autonomia contrattuale, il nostro ordinamento non consente, salvo i casi imposti dalla legge, di imporre ad un soggetto di vendere un bene di cui è comproprietario, in via esclusiva o pro quota, né di venderlo ad un prezzo determinato (valore di mercato).

Di contro, sempre il nostro ordinamento giuridico stabilisce un altro principio di carattere generale, ossia quello secondo cui ciascun erede ha il diritto di chiedere in qualunque momento la divisione della cosa comune.
Si tratta di un diritto definito di natura potestativa, ossia all’esercizio del quale gli altri coeredi non possono che soggiacere, ed imprescrittibile.
Ciò che si suggerisce, dunque, per raggiungere l’effetto desiderato, è di manifestare alla sorella la propria volontà di procedere a scioglimento della comunione ereditaria, chiedendo l’attribuzione in via esclusiva dell’immobile ed il soddisfacimento delle ragioni della sorella con un conguaglio in denaro.
A tal fine si potrà fare applicazione di quanto disposto dall’art. 720 del c.c., nella parte in cui è detto che “se nell’eredità vi sono immobili non comodamente divisibili….essi devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore…”.

Considerato che, con molta probabilità, una tale richiesta non sarà bonariamente accolta dall’altra sorella coerede o, quantomeno, non si raggiungerà tra i coeredi un accordo circa la misura del conguaglio in denaro, non si potrà fare a meno di fare ricorso ad un divisione giudiziale.
In questo caso, la proposta di fare applicazione dell’art. 720 c.c. (con attribuzione dell’intero immobile alla porzione del coerede che ha diritto alla quota maggiore) dovrà avanzarsi al giudice che si occuperà della divisione, il quale, per ciò che concerne la stima del bene (e, dunque, la determinazione del conguaglio in denaro da versare all’altra sorella) non potrà non fare applicazione di quanto disposto dall’art. 726 del c.c., ossia attenersi a quello che è il valore venale dei singoli oggetti.
Va al riguardo precisato che la stima dei beni, cioè la riduzione del valore di un bene in danaro, deve essere riferita al tempo della divisione ( cfr. Cass. civ. 27.11.1982 n. 6469) e non a quello dell'apertura della successione e che il termine "valore venale" richiama inequivocabilmente il valore di mercato dei beni stessi con riferimento alla loro natura, ubicazione e consistenza.
Per tale stima l’autorità giudiziaria sarà indispensabile fare ricorso all’ausilio di un CTU (consulente tecnico di ufficio), il quale a sua volta dovrà necessariamente attenersi a criteri obiettivi e non soggettivi, come pretenderebbe di imporre la sorella.

Ovviamente tutte le operazioni sopra suggerite potranno essere condotte da un legale di propria fiducia, a cui dovrà sostanzialmente conferirsi mandato per procedere allo scioglimento della comunione ereditaria (si raccomanda vivamente di pretendere un preventivo scritto e ben dettagliato per tutte le attività da svolgere; meglio, se possibile, chiederne più di uno, rivolgendosi a diversi professionisti).
Qualora le parti dovessero accordarsi in via bonaria, senza ricorso all’autorità giudiziaria, il loro accordo dovrà essere formalizzato innanzi ad un notaio, comportando il trasferimento di un diritto reale, per la cui pubblicità (trascrizione nei Registri immobiliari e volture catastali) è richiesto il rispetto della forma dell’atto pubblico o della scrittura privata con sottoscrizione autenticata ex c.c.art. 2643 del c.c..
Dinanzi al notaio, ovviamente, dovranno comparire le parti personalmente, salvo il conferimento di una procura speciale a qualunque altra persona di propria fiducia (non necessariamente un legale).

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