La norma in esame punisce chi ponga volontariamente in vendita o, comunque, metta in commercio, come genuini, prodotti che, pur non essendo dannosi per la salute, non siano, in realtà, genuini.
Tale figura di
reato era già presente nel codice Zanardelli, all'art. 322, anche se, allora, rientrava tra i reati contro l'
incolumità pubblica. La collocazione odierna si spiega in virtù del fatto che, per aversi il reato in esame, le sostanze alimentari devono, si, essere spacciate per genuine pur non essendolo, ma, per contro, non è necessario che le stesse siano anche nocive per la
salute pubblica. La presenza di tale ulteriore circostanza integra, infatti, la fattispecie di commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate, di cui all’art.
442 c.p.
Sembra, dunque, agevole affermare che la norma in esame abbia carattere residuale rispetto a quelle poste a presidio della pubblica incolumità, in quanto qui l'interesse tutelato è precipuamente la
buona fede negli scambi commerciali.
Parimenti, come nel reato di cui all'art.
515 c.p., è da escludere che si tutelino interessi meramente patrimoniali, come nell'ipotesi di truffa, e da quest'ultima, quindi, se ne discosta.
La
condotta tipica consiste nel
porre in vendita o nel mettere altrimenti in commercio, indicandola, anche solo implicitamente, come genuina, una sostanza alimentare, che in realtà, pur non essendo pericolosa per la salute, genuina non è. Ai fini della configurabilità della fattispecie in esame, non è, peraltro, sufficiente la mera preparazione o detenzione di sostanze non genuine, non costituendo, queste, delle condotte necessariamente prodromiche alla loro messa in vendita o in commercio.
La nozione di
“non genuinità” non si identifica, d'altronde, con quella di pericolosità per la salute pubblica, né con quella di alterato
status naturale del prodotto, atteso che non ogni trattamento degli elementi naturali ne compromette la genuinità, e, anzi, molti alimenti sono il risultato della manipolazione di
materie prime con sostanze di diversa natura. “Non genuina” è, infatti, la sostanza alimentare che sia stata contraffatta o alterata, con artificio, nella sua essenza o negli elementi di cui sia composta, come avviene, ad es., nel caso del burro margarinato. Una sostanza alimentare non è, invece, pericolosa per la salute quando non risulta nociva, o per la sua stessa natura, o per mancanza di alterazione.
La genuinità, peraltro, può essere distinta in due categorie: naturale e formale.
La nozione di
genuinità naturale è circoscritta alle sostanze che non abbiano subito alterazioni né modificazioni da parte dell'uomo, comprendendo, altresì, i casi in cui la manipolazione non si sia avuta per mezzo di elementi chimici, ma, piuttosto, tramite componenti naturali della sostanza stessa, utilizzati in maniera abnorme.
Parallelamente a quella naturale, vi è la
genuinità formale, la quale rappresenta il parametro secondo cui si afferma la corrispondenza della sostanza alimentare con le varie prescrizioni legislative in merito. In tal caso, il reato potrà, ad esempio, essere commesso nel caso di prodotti contenenti sostanze diverse da quella indicate
ex lege per la loro composizione, oppure che contengono sostanze di per sé genuine, ma che risultano essere presenti in misura superiore o inferiore a quella consentita, tenendo comunque a mente che non è richiesta una messa in pericolo dell'incolumità pubblica ai fini dell'integrazione della fattispecie.
La casistica offre vari esempi di non genuinità formale, come nel caso del grana padano confezionato con latte termizzato, vietato dalle disposizioni che regolano la denominazione d'origine del prodotto, oppure la messa in commercio di pane con all'interno quantitativi di acqua superiori al massimo consentito.
Nella normalità dei casi, il criterio della genuinità formale viene, perlopiù, applicato in presenza di sostanze artificiali, come, d'altronde, ha specificato tempo addietro la
Corte di Cassazione, secondo cui: “deve ritenersi non genuina la sostanza prodotta industrialmente, con procedimenti fisici o chimici, senza l'impiego di taluni degli elementi necessari per identificarla e contraddistinguerla. In altri termini, come i prodotti agrari hanno una loro naturale composizione tipica che la legge protegge, vietando in certi casi che siano privati dei loro elementi nutritivi, cosi alcuni prodotti preparati artificialmente assumono una loro tipicità
in virtù del precetto legislativo che determina i loro requisiti essenziali”.
Per quanto riguarda l'elemento soggettivo, è richiesto il
dolo generico, vale a dire la coscienza della non genuinità della sostanza, unita alla volontà di presentarla come genuina. Il reato si
consuma nel luogo e nel momento della messa in vendita.
Uno degli aspetti più interessanti riguarda proprio la differenza che intercorre tra messa in vendita e consegna della cosa, sussistendo una, oramai, uniforme convinzione in giurisprudenza, in base a cui, il reato di cui all'art.
516 c.p., si configura come presidio di tutela avanzata rispetto al delitto di frode in commercio, precisando, dunque, che “la materiale consegna del prodotto da luogo al reato di cui all'art.
515 c.p.”.
Si può, quindi, affermare che, il fatto di mettere in commercio o porre in vendita un alimento non genuino, sia elemento prodromico rispetto alla vendita con consegna vera e propria, risultando assorbito dalla presenza di quest'ultima. Ciò non toglie che qualche giudice abbia ravvisato, invece, un concorso tra i due reati, attesa la diversità strutturale dei due delitti.
Tale aspetto riduce notevolmente lo spazio applicativo della norma, in quanto, non solo non è in alcun modo tutelata l'incolumità pubblica, ma, addirittura, viene fornita una tutela soltanto marginale della lealtà e buona fede nei traffici commerciali, non essendo richiesto un carattere fraudolento della condotta.
Inoltre, essendo già di per sé piuttosto anticipata la tutela, è difficilmente configurabile il
tentativo, in quanto pare arduo ipotizzare
atti diretti in modo non equivoco a porre in vendita sostanze alimentari non genuine, i quali, già da soli, integrano la consumazione del reato.
La condanna per il delitto in esame comporta, ai sensi dell’art.
518 c.p., la
pubblicazione della relativa sentenza.